L’Album Precedente Era Bellissimo, Questo E’ Splendido (Anche Se Dura 28 Minuti Scarsi)! Thom Chacon – Blood In The USA

thom chacon blood in the usa

Thom Chacon – Blood In The USA – Appaloosa/IRD CD

Nelle mie classifiche dei migliori del 2013 avevo indicato come sorpresa dell’anno Thom Chacon, singer-songwriter del Colorado che con il suo album omonimo (non il suo esordio, ma comunque il primo disco con una reperibilità buona) mi aveva decisamente stupito, un CD di puro cantautorato folk che aveva iscritto di diritto Thom al club dei “nuovi Dylan”, anche se il ragazzo mostrava comunque di avere una spiccata personalità http://discoclub.myblog.it/2013/04/04/a-proposito-di-nuovi-dylan-tom-chacon/ . Poi il silenzio per quasi cinque lunghi anni, al punto che avevo temuto che il nostro fosse stato colpito dalla “sindrome di Will T. Massey”: ora finalmente Thom ha dato un seguito a quel disco, e Blood In The USA non solo non delude le attese, ma si rivela addirittura superiore. Per la verità Chacon aveva pronto questo disco fin dal 2016, ma un po’ il fatto di aver avuto un bambino (ed aver quindi svolto i compiti di papà a tempo pieno), un po’ l’essere senza un contratto discografico, hanno costretto il nostro a rimandare la pubblicazione fino ad oggi: Blood In The USA (prodotto come il precedente da Perry A. Margouleff) esce per l’italiana Appaloosa, e ad oggi non ha ancora una distribuzione americana.

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https://www.youtube.com/watch?v=X9WTSXWx2d8

Un peccato quasi mortale, in quanto ci troviamo di fronte ad un grande disco, un lavoro che nelle sue nove canzoni (meno di 28 minuti) è di un’intensità stupefacente, nonostante il ragazzo avesse già fatto vedere le sue capacità cinque anni orsono. Blood In The USA è un lavoro forte, duro e drammatico nei testi (anche in italiano nel libretto), con il nostro che canta le difficoltà di vivere in America al giorno d’oggi se non hai un conto in banca importante, mentre dal punto di vista musicale siamo in presenza di nove brani davvero intensi, nonostante la veste spoglia con la quale Thom si presenta. Infatti nella maggior parte dei casi troviamo solo lui con la sua chitarra (e talvolta l’armonica), spesso doppiato solo dall’organo di Tommy Mandel, uno con un curriculum lungo come da qui a Pechino, mentre la sezione rimica (formata da Tony Garnier, bassista e direttore musicale della live band di Bob Dylan da quasi trent’anni, e da Kevin Twigg alla batteria) è usata con parsimonia. Ma già dopo due canzoni non se ne sente la mancanza, tale è la forza ed il feeling che vengono sprigionati dalle storie cantate da Chacon, che tra l’altro in questo lavoro sembra anche staccarsi con decisione dall’ombra dylaniana. L’avvio è subito ottimo con I Am An Immigrant, lenta, meditata, ma dal pathos notevole: Thom canta con voce arrochita una folk song purissima, voce, chitarra ed un’aggiunta discreta di organo e mandolino che lasciano filtrare un raggio di sole. Siamo più dalle parti di Bruce Springsteen e del suo fantasma di Tom Joad che di Dylan.

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https://www.youtube.com/watch?v=sa7ZUuYnVEQ

Con Union Town siamo ancora in territori cari al Boss, ma Chacon ha comunque un suo stile ed una sua personalità: il brano è vivo, vibrante, ancora suonato con tre strumenti in croce ma decisamente intenso; anche la title track è bellissima, un pezzo folk teso come una lama pur essendo basato solo su voce, chitarra ed organo, uno stile nudo e crudo che mi ricorda anche certe cose dello scomparso Calvin Russell. Splendida Easy Heart, voce, chitarra, armonica ed un feeling immenso, una folk song strepitosa per melodia ed intensità, così come la quasi altrettanto bella Something The Heart Can Only Know, in cui Thom è ancora, per dirla con Warren Zevon, in “splendid isolation”, anche se non gli servono orpelli per emozionare. Il disco cresce brano dopo brano, basti sentire la meravigliosa Empty Pockets, una ballata superba, voce chitarra e piano, con un pathos incredibile, come è incredibile che uno che scrive canzoni di questo livello non trovi un cane che gli pubblichi i dischi in America: Empty Pockets è una grande canzone, tra le migliori che ho ascoltato ultimamente, tanto bella musicalmente quanto dura nel testo. A Bottle, Two Guitars And A Suitcase è più interiore e cupa, anche a causa di un contrabbasso suonato con l’archetto, ma ha comunque il suo perché, mentre Work At Hand, ancora pura e cristallina, è una delle più dylaniane del lavoro. Il CD si chiude (troppo presto) con Big As The Moon, il brano in assoluto più strumentato (elettrico è una parola grossa), ed anche uno dei più belli, ancora con Dylan in mente ma con una melodia straordinaria nella sua semplicità.

https://www.youtube.com/watch?v=iXEZ0ewAGVc

Non ho dubbi: Blood In The USA è il primo grande disco del 2018.

Marco Verdi

*NDB

Thom Chacon è in Tour in Italia in questo periodo per promuovere l’album, ecco le date, ancora poche nei prossimi giorni:

TOUR

1/11/2018
Teatro Del Sale
Firenze, Italy
More Information

1/12/2018
La Vecchia Mandragora
Massa (MS), Italy

1/13/2018
Storie di frontiera e
immigrazione w/ The Gang /ingresso libero
Teatro La Vitoria
Ostra, Italy
9:00 PM
Free Admission / Ingresso Liber

1/14/2018
Città di frontiera. Da Istanbul a
Juarez w/ Andrea Parodi, Federico Donelli, Paolo Ercoli, Flaviano
Braga, Alice Marini
Biblioteca
Verano Brianza, Italy
5:30 PM
Free Admission / Ingress Libero

1/15/2018
w/Dave Keyes
1e35
Cantù (CO), Italy
More Information

1/17/2018
Fondazione Cassa Di Risparmio
Bolzano, Italy

1/18/2018
Steindl’s Boutiquehotel
Vipiteno (BZ), Italy

1/19/2018
Cohen
Verona, Italy
More Information

1/20/2018
Folk Club
Via Perrone, 3 Bis, 10122
Torino TO, Italy
21:30
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E’ Da Un Bel Po’ Di Tempo Che Non Parlavamo Di Loro! Grateful Dead – Red Rocks 7/8/78

grateful dead red rocks 7-8-78

Grateful Dead – Red Rocks 7/8/78 – Rhino/Warner 3CD

So che dopo la scorpacciata a base di Grateful Dead avvenuta lo scorso anno, a cui aggiungerei il bellissimo tributo multiplo Day Of The Dead da me appena recensito per questo blog http://discoclub.myblog.it/2016/05/24/le-celebrazioni-poteva-mancare-bel-tributo-ai-grateful-dead-various-artists-day-of-the-dead-giorno-1/ e  , a qualcuno potrebbe venire la nausea a sentire anche solo nominare lo storico gruppo di San Francisco, ma non considerare questo triplo Red Rocks 7/8/78 sarebbe un vero peccato. Il triplo CD è estratto dall’ennesimo box dedicato ai Dead, un cofanetto di 12 CD, a tiratura limitata di 15.000 copie, intitolato July 1978 e contenente cinque concerti completi registrati appunto agli inizi del settimo mese di quell’anno (a Kansas City, St. Paul, Omaha e due a Morrison, in Colorado,  nella suggestiva location del Red Rocks Amphitheatre, dei quali quello di cui mi accingo a parlare è il primo), e vede la band guidata da Jerry Garcia in forma strepitosa, e con in più un suono eccellente (come capita sempre con le uscite targate Rhino) ed una scaletta decisamente interessante. I Dead forse sono l’unico gruppo della storia il cui stato di forma si misura in annate (proprio come il vino), cosa resa ancor più palese dall’ascolto del box di 80 CD dello scorso anno, ed il 1978 fu uno degli anni in cui la band californiana sembrava tornata agli antichi splendori, dopo un biennio difficile (1975-1976) ed un parziale risollevamento nel 1977: da lì a due mesi i Dead terranno il loro famoso concerto in Egitto, davanti alle piramidi, altro evento già documentato ufficialmente qualche anno fa. In questo tour il gruppo è nella classica formazione a sette, con i due batteristi Mickey Hart e Bill Kreutzmann, il tastierista Keith Godchaux (che sarebbe scomparso due anni dopo) con la moglie Donna Jean (superflua come sempre), oltre naturalmente a Garcia, Bob Weir e Phil Lesh, e questo concerto in particolare offre scintillanti versioni di diversi classici e qualche chicca, il tutto suonato con grande compattezza ma anche con la “liquidità” che ha sempre contraddistinto le loro migliori performances, e anche le voci sono in palla, cosa non sempre scontata in un loro concerto.

La serata si apre con una solare e spedita Bertha, spesso usata per aprire i concerti negli anni settanta, che subito confluisce in una saltellante rilettura del classico degli Young Rascals Good Lovin’, che i Dead includeranno pochi mesi dopo nel loro album Shakedown Street (chiaramente nella versione in studio). Piccolo intermezzo country and western con due grandi canzoni, la splendida Dire Wolf (una delle mie preferite, accolta alla grande dal pubblico) ed il superclassico di Marty Robbins El Paso, con Weir alla voce solista; il concerto entra nel vivo con la bella It Must Have Been The Roses, una delle rare canzoni dei Dead scritte dal solo Robert Hunter, una solida ma non imprescindibile New Minglewood Blues e la cadenzata e fluida Ramble On Rose, più di nove minuti di godimento sonoro. Un po’ di rock’n’roll con l’avvincente Promised Land (Chuck Berry) e soprattutto una Deal più coinvolgente che mai, con Jerry che fa i numeri per davvero; il primo set si chiude con una buona Samson And Delilah ed una sempre bellissima Ship Of Fools, che vede Garcia in ottima forma vocale e straordinario come sempre alla chitarra. La seconda parte si apre con un medley semplicemente devastante e che dura quasi settanta minuti, comprendente Estimated Prophet, The Other One, Eyes Of The World, il solito intermezzo Drums/Space (purtroppo), Wharf Rat e Franklin’s Tower: qui Garcia raggiunge vette semplicemente stellari, ma tutto il gruppo lo segue come un treno, in assoluto stato di grazia, con una menzione di merito per Eyes Of The World e Franklin’s Tower, entrambe tra le migliori mai sentite dal sottoscritto. Una sempre gradevole e trascinante Sugar Magnolia anticipa i tre bis (che costituiscono il terzo CD), e cioè una Terrapin Station più corta del solito (ma sono sempre dieci minuti), ma forse per questo ancora più bella, la roccata One More Saturday Night e, come gran finale, una inattesa e divertita resa di  Werewolves Of London di Warren Zevon, un brano che i Dead hanno suonato solo tredici volte in tutta la carriera, ed uno dei rarissimi casi in cui fanno una cover di una canzone allora appena uscita nella sua versione originale e non con già qualche anno sulle spalle.

Come ho quindi già detto, se non siete stanchi di Grateful Dead, questo triplo CD si può tranquillamente inserire tra quelli che sarebbe un errore ignorare. Di sicuro tra i migliori usciti dopo il loro scioglimento.

Marco Verdi