Un “Fuorilegge” Dalla Florida, Tra Country E Southern. Rick Monroe – Smoke Out The Window

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Rick Monroe – Smoke Out The Window – Thermal Entertainment CD

Rick Monroe è un countryman proveniente dalla Florida, ed è in giro da ormai un ventennio, una lunga gavetta durante la quale è rimasto fieramente indipendente ed è perciò ancora relativamente sconosciuto. In questo lungo periodo Rick non è mai stato fermo un attimo, ha vissuto in almeno una decina di stati degli USA, e ha girato il mondo sia aprendo i concerti di artisti blasonati (tra cui Dwight Yoakam, Charlie Daniels e la Marshall Tucker Band) che suonando in proprio, e toccando anche latitudini molto distanti come i paesi dell’Est europeo ed Estremo Oriente. Dal punto di vista discografico i suoi album si possono contare sulle dita di una mano, e nell’ultimo lustro si è fatto vivo solo con un paio di EP: Smoke Out The Window è quindi a tutti gli effetti il suo secondo full-length della decade, e ci mostra un artista che fa del sano country elettrico, decisamente imparentato col rock, dove le chitarre hanno la preponderanza ed i suoni languidi e radiofonici sono assolutamente banditi.

Rick ha anche la buona abitudine di scrivere le canzoni in prima persona, cosa che nel dorato mondo di Nashville è ormai una rarità, facendo in modo di avere un songbook più legato ad esperienze personali; i suoni sono asciutti e diretti, chitarra, basso, batteria e talvolta piano ed organo, con le influenze sudiste del nostro che spiccano chiare, mentre in certi momenti sembra invece di avere a che fare con un country-rocker texano. I pochi, e bravi, musicisti rispondono ai nomi di Fred Boekhorst (chitarra), Sam Persons (basso), JD Shuff (batteria, ed è anche il produttore del disco) e le tastiere sono equamente divise tra Chris James e Lee Turner. Good As Gone fa iniziare il CD in maniera potente, una rock song robusta, molto più southern che country, ritmica pressante e chitarre al fulmicotone, con ampie tracce di Lynyrd Skynyrd. Cocaine Cold & Whiskey Shakes è ancora vigorosa, l’attacco ricorda un po’ Whiskey River di Willie Nelson, ma l’approccio è più quello di Waylon (insomma, sempre in ambito Outlaws siamo), Smoke Out The Window è un tantino statica e fin troppo attendista, ma Nothing To Do With You è una country ballad gradevole e solare, il classico pezzo che cattura fin dalle prime note.

I’ll Try è una bella canzone, un fluido slow pianistico con umori southern soul, dotato di un ottimo refrain corale, Truth In The Story, dal ritmo spezzettato, ci fa piombare di botto a New Orleans, in zona Little Feat, tra slide, piano guizzante e sonorità grasse, la cadenzata Stomp, ancora tra rock e country, è elettrica e vibrante, ma anche già sentita. Molto bella la lenta Rage On, che ci proietta idealmente nei mitici Fame Studios in Alabama, merito di un organo evocativo, un caldo sax ed un motivo vagamente gospel (forse il brano migliore del disco), mentre This Side Of The Dirt è puro rockin’ country, solido, chitarristico e grintoso; chiudono il CD l’intensa October, rock ballad dal suono pieno ed ancora ottime parti di chitarra, e con l’acquarello acustico di Tempt Me, finale con la spina staccata ma che comunque non difetta di feeling.

Dopo una carriera nell’ombra non sarà certo Smoke Out The Window a dare la fama a Rick Monroe, ma la speranza è che almeno venga notato da un numero sempre maggiore di amanti del vero country di qualità.

Marco Verdi

Questa Volta Lo Ha Fatto Bello! Shooter Jennings – Shooter

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Shooter Jennings – Shooter – Elektra/Warner CD

La carriera di Waylon Albright Jennings, detto Shooter (figlio, come certo saprete, del grande Waylon Jennings e di Jessi Colter), è sempre stata parecchio altalenante, in quanto il nostro ha alternato lavori di ottimo country-rock di stampo outlaw (fortunatamente per la maggior parte: Put The “O” Back In Country, The Wolf, Family Man e The Other Life), ad altri molto meno riusciti (il granitico Electric Rodeo, suonato con grinta ma totalmente privo di canzoni di spessore) o addirittura pasticciati (l’inqualificabile Black Ribbons). Anche le sue ultime due prove di studio, due EP, non sono certo dei capolavori: sto parlando dell’incerto Don’t Wait Up (For George), tributo non del tutto riuscito a George Jones, e soprattutto del tragico Countach (For Giorgio), incomprensibile omaggio al produttore Giorgio Moroder. Dopo essersi parzialmente riscattato l’anno scorso con il bel Live At Billy Bob’s Texas https://discoclub.myblog.it/2018/01/06/countryrock-di-classe-e-sostanza-in-una-delle-mecche-del-genere-shooter-jennings-live-at-billy-bobs-texas/ , oggi Jennings Jr. torna tra noi con un nuovo full-length (più o meno, dato che dura appena 31 minuti), intitolato semplicemente Shooter. Ebbene, questa volta devo riconoscere che il nostro ha fatto le cose come si deve, consegnandoci un signor disco di vero country-rock texano, che si mette tranquillamente sullo stesso piano dei suoi lavori più riusciti: merito senza dubbio delle canzoni, ma anche del fatto di essersi affidato alla produzione di Dave “Re Mida” Cobb, con il quale aveva già condiviso la consolle per l’ultimo album di Brandi Carlile, By The Way I Forgive You, uscito all’inizio di quest’anno.

Per Shooter il figlio di Waylon ha anche momentaneamente rinunciato alla sua abituale backing band, utilizzando i musicisti che di solito Cobb si porta in studio, con risultati indubbiamente degni di nota: Leroy Powell alla chitarra solista, Brian Allen al basso, lo stesso Cobb all’acustica, Chris Powell alla batteria e Fred Newell alla steel, e con in più le voci di supporto di Bekka Bramlett (la figlia di Delaney & Bonnie) e Kristen Rogers. Un album breve ma senza sbavature, che inizia in maniera abbastanza insolita con la travolgente Bound Ta Git Down, non perché sia travolgente ma per il suo stile, un rock’n’roll scatenato al quale una sezione fiati dona un sapore errebi, facendola sembrare più un pezzo di Southside Johnny (le iniziali sono le stesse…) che di un outlaw texano. Con Do You Love Texas? siamo invece in territori familiari, non solo per il titolo ma in quanto siamo in presenza di un delizioso honky-tonk elettrico, suonato in maniera robusta e con piglio da rock band (e con tanto di Waylon & Willie citati nel testo): questo è lo Shooter migliore, peccato che ogni tanto il nostro se ne dimentichi (un plauso anche a Cobb, il suono è perfetto).

Living In A Minor Key è una lenta e toccante cowboy tune, sullo stile di certe ballate di papà Waylon (penso ad Amanda), dalla strumentazione cristallina; D.R.U.N.K. è un trascinante rockin’ country, texano al 100%, che si posiziona da subito tra le cose più riuscite del nostro, mentre Shades & Hues è un altro slow, pianistico, semplice e diretto, con in più un gusto southern soul che riscalda il cuore. I’m Wild & My Woman Is Crazy riporta il disco su territori rock’n’roll, per un pezzo che suonato dal vivo è in grado di far saltare tutta la sala, Fast Horses & Good Rideout è una ballata un filo più eterea, ma che non sfigura affatto, anzi ricorda certe cose dell’Elton John dei primi anni settanta, ed alla fine risulta una delle migliori. Il CD termina con Rhinestone Eyes, bellissima e saltellante country song dal mood solare, e con Denim & Diamonds, una ballad elettrica tesa e vibrante dal chiaro sapore seventies, che invece di country ha molto poco, ed in certi passaggi strumentali può ricordare addirittura i Pink Floyd più bucolici.Intitolando la sua nuova fatica semplicemente con il suo soprannome, Shooter Jennings ha forse voluto simbolicamente fissare un nuovo punto di partenza della sua carriera, e devo riconoscere che c’è riuscito in maniera egregia.

Marco Verdi

Un’Autocelebrazione Di Grande Classe. Rodney Crowell – Acoustic Classics

rodney crowell acoustic classics

Rodney Crowell – Acoustic Classics – RC1 CD

Rodney Crowell è dagli anni settanta uno dei songwriters più apprezzati sia dal pubblico che dalla critica, ma anche dai colleghi, che negli anni hanno “approfittato” più volte delle sue canzoni, e non sto parlando solo di gente che bazzica in territori country (due nomi su tutti: Bob Seger e Van Morrison). Ma Crowell ha anche una bella e prolifica carriera in proprio, e negli anni ottanta ha potuto assaporare perfino un certo successo ma senza mai scendere a compromessi con la qualità. Se negli ultimi anni le sue proposte non sono certo state campioni di vendite, il livello si è comunque mantenuto decisamente alto: Tarpaper Sky è stato per il sottoscritto uno dei migliori album del 2014, ed anche Close Ties dello scorso anno era un signor disco (in mezzo, due ottimi lavori di classico country-rock anni settanta con Emmylou Harris, Old Yellow Moon e The Traveling Kind). Ora Rodney decide di autocelebrarsi, ma alla sua maniera, e cioè staccando la spina: Acoustic Classics riprende infatti dieci brani del passato del nostro (più uno nuovo) dandone una rilettura decisamente fresca, creativa ed accattivante, e proseguendo il discorso sonoro intrapreso con Close Ties che era già in gran parte acustico https://discoclub.myblog.it/2017/04/22/un-disco-piu-da-cantautore-classico-ma-sempre-grande-musica-rodney-crowell-close-ties/ .

Ma Rodney non ha fatto come Richard Thompson che si è presentato da solo per i suoi tre dischi di rivisitazioni “unplugged”, bensì ha deciso di farsi accompagnare da una piccola band di quattro elementi (ai quali ha aggiunto tre voci femminili ai cori), formata da Jedd Hughes, Joe Robinson, Eamon McLoughlin e Rory Hoffman, i quali si sono cimentati con una bella serie di strumenti a corda (chitarre, violino, mandolino e cello), aggiungendo anche qua e là una fisarmonica ed una leggera percussione. Un suono quindi molto ricco, al quale hanno dato un contributo anche le tante voci, al punto che quasi non ci si accorge dell’assenza di una vera sezione ritmica. E poi naturalmente ci sono le canzoni del nostro, undici acquarelli di pura country music d’autore, alcune delle quali più note di altre, e che non sempre sono state rese note da Rodney medesimo. Earthbound introduce alla perfezione il mood del disco, una rilettura decisamente vitale e con intrecci di prim’ordine tra chitarre e mandolino, mentre Leaving Louisiana In The Broad Daylight, un successo per gli Oak Ridge Boys (ma l’ha fatta anche Emmylou) assume un delizioso sapore cajun grazie alla fisa di Hoffman ed è, manco a dirlo, splendida. Ma le canzoni sono tutte belle, e ne ha anche lasciate fuori tante (mancano ad esempio ‘Til I Gain Control Again, Stars On The Water, An American Dream), e questa veste spoglia e pura le valorizza oltremodo.

Anything But Tame (dalla country opera Kin, un disco che avevo quasi dimenticato) vede Crowell quasi in perfetta solitudine, ma il brano rimane bello, intenso e ricco di feeling, la toccante Making Memories Of Us era stata incisa sia da Tracy Byrd che da Keith Urban, ma Rodney è obiettivamente su un altro pianeta, mentre la vibrante Lovin’ All Night riesce ad essere trascinante anche senza basso e batteria. I due pezzi più famosi presenti nel CD sono senza dubbio Shame On The Moon (resa popolare da Bob Seger), riscritta nel testo ma con intatto il sapore honky-tonk che aveva in origine, e I Ain’t Livin’ Long Like This, che non ha bisogno di presentazioni, in quanto è uno dei classici assoluti del grande Waylon Jennings: rilettura strepitosa e trascinante, con un arrangiamento che si potrebbe definire “acoustic rock’n’roll”, ed il nostro che ci ricorda di essere anche un ottimo chitarrista. Ci sono poi ben tre pezzi da Diamonds & Dirt, il suo disco più famoso: la scintillante I Couldn’t Leave You If I Tried, puro country con violino, mandolini e quant’altro, il delizioso western swing di She’s Crazy For Leavin’ e la ballata After All This Time, intensa e struggente. Come già accennato, c’è anche un brano nuovo di zecca, una profonda folk song eseguita da solo ed intitolata Tennessee Wedding, scritta per il matrimonio della figlia più giovane.

Se la classe non è acqua, allora Rodney Crowell è un deserto. Texano, naturalmente.

Marco Verdi

Almeno Per Ora, Il Disco Country-Rock Dell’Anno! Cody Jinks – Lifers

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Cody Jinks – Lifers – Rounder/Concord CD

Dopo aver riscosso un ottimo successo di critica e pubblico con l’ultimo album I’m Not The Devil, il texano Cody Jinks ha trascorso il 2017 a ripubblicare i suoi lavori precedenti https://discoclub.myblog.it/2018/05/02/anche-se-materiale-di-qualche-anno-fa-un-bellesempio-di-moderno-country-rock-cody-jinks-adobe-sessions/ , in un caso anche intervenendo sul suono ed aggiungendo brani (Less Wise). Ora Cody pubblica un disco nuovo di zecca, e se I’m Not The Devil vi era piaciuto, penso proprio che Lifers vi entusiasmerà. Ci troviamo di fronte infatti ad uno strepitoso album di grandissimo country-rock elettrico, suonato in maniera splendida e prodotto ancora meglio (da Joshua Thompson e Arthur Penhallow), con in più una serie di canzoni di prima qualità. Jinks appartiene di diritto alla schiera dei nuovi Outlaws, una corrente che si rifà a certa country music texana degli anni settanta che aveva in Waylon Jennings, Willie Nelson e Billy Joe Shaver gli esponenti di punta, ed oggi viene tenuta in vita da gente come Chris Stapleton, Jamey Johnson e Whitey Morgan. Con Lifers però Cody riesce a fare ancora meglio dei nomi appena citati (con l’unico dubbio per quanto riguarda Stapleton, che è di un livello superiore proprio come musicista e songwriter), grazie alla sua ottima vena di autore e cantante, ma anche per merito di un solidissimo gruppo di musicisti, che ha nella chitarra solista di Chris Claridy, nella sezione ritmica potentissima formata dal già citato Thompson al basso e da David Colvin alla batteria e nella splendida steel guitar di Austin Trip i suoi punti di forza.

L’inizio è sfolgorante con Holy Water, una rock song potente e decisamente elettrica, con una sezione ritmica formato macigno e la steel che prova a stemperare il tutto: voce forte, melodia orecchiabile e suono scintillante, un avvio da sballo. Una chitarra acustica suonata con forza ed un piano elettrico introducono Must Be The Whiskey, country-rock vigoroso e pieno di ritmo, un sound davvero magnifico tra chitarre elettriche, steel ed il nostro che canta con una presenza notevole https://www.youtube.com/watch?v=jpeB8p4b8Sg . Somewhere Between I Love You And I’m Leavin’ è una slow ballad cantata e suonata nel modo giusto, senza il minimo cedimento a mollezze varie, e proprio il suono ed il feeling fanno la differenza con le decine di ballate sfornate mensilmente a Nashville (per dire, il batterista picchia come un fabbro anche qui); la robusta title track è un rockin’ country deciso, ancora dal ritmo trascinante (il basso pulsa che è una meraviglia) ed un ritornello vincente, Big Last Name è un travolgente rock’n’roll texano al 100%, roba che neanche il miglior Dale Watson, con chitarre e piano sugli scudi ed un ritmo irresistibile. Desert Wind (scritta come la precedente insieme a Paul Cauthen) è una pura western song, anche questa splendida con il suo chitarrone twang, il ritmo cadenzato e l’atmosfera da film, Colorado è una ballatona che avrebbe potuto scrivere John Denver (non solo per il titolo) se fosse stato texano e meno legato a sonorità mainstream: bellissima e toccante.

L’energica e tonante Can’t Quit Enough è Waylon sotto steroidi, chitarre su chitarre, piano e steel che reclamano spazio ed un finale strumentale strepitoso, mentre con l’evocativa 7th Floor abbiamo una maestosa ed emozionante western tune dai toni southern, suonata e cantata in maniera esemplare (grandi l’assolo di chitarra ed il crescendo strumentale finale), un brano magnifico senza se e senza ma; il CD termina con la fluida ballad Stranger, dall’atmosfera crepuscolare, e con Head Case, suggestivo brano che inizia come una folk song d’altri tempi (voce, chitarra e violoncello), ma che con l’ingresso della band si tramuta nell’ennesimo country-rock di squisita fattura.    Spero che l’appropinquarsi delle vacanze estive non vi faccia ignorare questo disco: sarebbe musicalmente delittuoso.

Marco Verdi

Il “Ritorno” Della Sua Prima Prova Da Cantautrice. Emmylou Harris – The Ballad Of Sally Rose (Expanded Edition)

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Emmylou Harris – The Ballad Of Sally Rose (Expanded Edition) – Rhino/Warner 2CD

Nella prima metà degli anni ottanta la stella di Emmylou Harris non era al massimo del suo splendore dal punto di vista delle vendite, ma c’è da dire che tutta la musica country in quel periodo stava vivendo il suo momento più difficile di sempre, anche se la “riscossa” guidata da gente come Dwight Yoakam e Steve Earle era dietro l’angolo. Nel 1985 la Harris diede alle stampe un po’ in sordina il suo dodicesimo album (contando anche l’esordio in parte rinnegato Gliding Bird del 1969 ed il disco natalizio del 1979, ed infatti il suo disco seguente lo chiamerà Thirteen), cioè The Ballad Of Sally Rose, un lavoro che all’epoca non ebbe un grande successo, ma che rappresentava un passo importante per Emmylou. Grandissima cantante, dotata di una voce di una purezza cristallina, la Harris era sempre stata essenzialmente un’interprete di brani altrui, ma questo disco, a suo dire influenzato dall’ascolto di Nebraska di Bruce Springsteen, fu il primo con tutti i pezzi scritti di suo pugno, insieme all’allora marito Paul Kennerley (e va detto, anche l’ultimo fino a Red Dirt Girl del 2000). Non solo, The Ballad Of Sally Rose era anche un concept album, una pratica poco diffusa in ambito country, che narrava la storia della cantante del titolo, il cui amante, alcolizzato, rimaneva ucciso in un incidente stradale: storia in parte autobiografica, ispirata alla sua tormentata relazione dei primi anni settanta con Gram Parsons (e Sally Rose era lo pseudonimo usato da Emmylou per prenotare gli alberghi quando era in tour).

Oggi la Rhino, senza un particolare anniversario da celebrare, pubblica questa versione espansa a due CD, con nel primo il disco originale (rimasterizzato alla grande) e sul secondo dieci bellissimi demo inediti di pezzi dell’album: l’unica cosa, non capisco perché un doppio, dato che il tutto dura circa 65 minuti e ci stava comodamente su un solo dischetto (*NDB Forse per farlo pagare di più?). Risentito oggi, Sally Rose è un gran bel disco, con tredici canzoni di ottimo livello, che rivelano che Emmylou non era proprio una pivellina come autrice, nonostante la scarsa pratica (anche se penso che molto del merito vada a Kennerley, lui sì autore affermato), ed il CD di demo non è un’aggiunta tanto per allungare il brodo, ma un validissimo e godibile complemento. Due parole per la band in session, davvero da sogno: tra i numerosi nomi coinvolti troviamo infatti Albert Lee, Vince Gill, Emory Gordy Jr. e addirittura Waylon Jennings alle chitarre, Russ Kunkel alla batteria, John Jarvis al piano, Gary Scruggs all’armonica e, alle armonie vocali (oltre a Gail Davis), Dolly Parton e Linda Ronstadt, collaborazione che getterà le basi per lo splendido Trio che uscirà due anni dopo. Il disco inizia in maniera splendida con la title track, una scintillante ballata che ha qualche vaga rassomiglianza con Deportee di Woody Guthrie, tutta costruita intorno alla voce di Emmylou, qui al massimo della sua bellezza ed espressività, e con un bel ritornello corale.

Rhythm Guitar è più roccata ed elettrica (Albert Lee ha uno stile riconoscibilissimo, molto influenzato dal “chicken picking” di James Burton), anche se come canzone è piuttosto nella norma, la brevissima I Think I Love Him confluisce in Heart To Heart, splendida country ballad, pura, cristallina e cantata in maniera sontuosa, così come Woman Walk The Line, uno slow di grande impatto emotivo e suonato in maniera potente, che ci mostra che la Harris non è proprio una sprovveduta nel songwriting. La vivace Bad News si sviluppa su un tempo quasi rock’n’roll, ed è tanto coinvolgente quanto breve, Timberline è un delizioso pezzo sullo stile elettroacustico che di lì a due anni la nostra proporrà con Dolly e Linda, Long Tall Sally Rose (bel titolo) è quasi un bluegrass dal gran ritmo e sotto una cascata di strumenti a corda, immediata e godibilissima (anche se dura solo un minuto e mezzo), mentre White Line è giustamente il brano più popolare del disco, una splendida canzone country-rock dal motivo squisito e con un bellissimo accompagnamento chitarristico, in assoluto tra i brani più belli di Emmylou. Diamond In My Crown è uno slow profondo ed intenso (e che voce), The Sweetheart Of The Rodeo un perfetto ed elegante honky-tonk, anch’esso tra i pezzi migliori, K-S-O-S un breve e trascinante brano che termina con uno stupendo medley strumentale che comprende Wildwood Flower della Carter Family, Ring Of Fire di Johnny Cash e la classica truckin’ song Six Days On The Road., mentre Sweet Chariot, che chiude il disco originale, è un altro lento che non manca di regalare emozioni.

Il secondo CD, come già detto, propone dieci canzoni su tredici (mancano I Think I Love Him, Long Tall Sally Rose e K-S-O-S), incise tra il 1983 ed il 1984 da Emmylou solo con la sua chitarra e qualche occasionale backing vocal (tranne Rhythm Guitar e Bad News, che sono full band), eseguite in maniera superba, e nelle quali risaltano ancora di più bellezza e purezza: le migliori a mio giudizio sono Timberline, The Sweetheart Of The Rodeo, The Ballad Of Sally Rose, Heart To Heart e White Line, che comunque la si faccia rimane un brano formidabile. Ristampa quindi graditissima, e non mi dispiacerebbe che fosse solo la prima di una serie di album di Emmylou Harris da rivalutare, dato che comunque stiamo parlando di una che non ha mai fatto un disco brutto.

Marco Verdi

Un Vero Sudista…Californiano! Sam Morrow – Concrete And Mud

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Sam Morrow – Concrete And Mud – Forty Below CD

Sam Morrow è un countryman atipico: intanto è di Los Angeles, non proprio una delle patrie del country (anche se Bakersfield non è lontanissima dalla metropoli californiana), ed in più il suo suono coinvolge anche elementi differenti. Di base Sam si ispira al country texano di ispirazione Outlaw, Waylon Jennings è uno dei suoi eroi musicali, ma spesso vira verso una musica di stampo southern con marcati elementi funky, un genere in cui gruppi come i Little Feat erano maestri. Se a questo aggiungiamo una serie di canzoni ben scritte ed un approccio grintoso e vigoroso, ne viene fuori che Concrete And Mud, il terzo album di Morrow (a tre anni di distanza dal precedente, There Is No Map), è un lavoro riuscito, piacevole, forse derivativo in certi momenti ma che di sicuro non mancherà di soddisfare gli estimatori del vero country-rock. Prodotto da Eric Corne, il disco si avvale della collaborazione di un solido gruppo di strumentisti, del quale i più conosciuti sono senz’altro lo steel guitarist Jay Dee Maness (ex membro di International Submarine Band e Desert Rose Band, ma suonò anche nel leggendario Sweetheart Of The Rodeo dei Byrds) ed il bassista Ted Russell Kamp, già nella band di Shooter Jennings.

Il brano d’apertura, Heartbreak Man, di country ha poco, ricorda di più i già citati Little Feat, ha il ritmo ed il passo delle canzoni dell’ex band di Lowell George, un sapore a metà tra Sud e funky, una bella slide ed un suono “grasso”. Con Paid By The Mile ci spostiamo invece in Texas, ritmo sostenuto e suono maschio, con l’influenza di Waylon ben presente, per un brano che si ascolta tutto d’un fiato (e le parti chitarristiche sono ottime), mentre San Fernando Sunshine è lenta e cadenzata, una country ballad ancora in puro stile Outlaw, ci vedo qualcosa anche di Willie Nelson, anche se Sam è meno raffinato di Willie (e, ma non c’è bisogno di dirlo, abita un centinaio di piani sotto nella Tower Of Song, per dirla con Leonard Cohen). Quick Fix, ha di nuovo un mood funky, ritmo spezzettato ed una melodia diretta e godibile, sul genere di classici come Dixie Chicken (facendo ovviamente le debite proporzioni).

Good Ole Days è invece un irresistibile honky-tonk di nuovo alla maniera texana (qualcuno ha detto Billy Joe Shaver? Bravo), spedito e coinvolgente. Weight of A Stone è più attendista e non assomiglia a nulla di quanto sentito finora, essendo una languida ballata che potrebbe essere stata scritta da uno come Raul Malo, Skinny Elvis è un velocissimo rockabilly con chitarre e sezione ritmica in evidenza, tra le più immediate, mentre Coming Home è puro country classico, con un feeling anni settanta e la splendida steel di Maness a ricamare sullo sfondo. L’album termina con Cigarettes, ancora cadenzata ma stavolta con tracce di swamp rock alla Tony Joe White, e con Mississippi River, intenso slow acustico (ma full band), che chiude positivamente un disco fresco, solido e riuscito.

Marco Verdi

Anche Se Materiale Di Qualche Anno Fa, Un Bell’Esempio Di Moderno Country-Rock. Cody Jinks – Adobe Sessions

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Cody Jinks – Adobe Sessions – Cody Jinks CD

Cody Jinks, countryman texano dal pelo duro, sulla stessa onda di gente come Jamey Johnson e Whitey Morgan, ha avuto un ottimo ed inaspettato successo con il suo ultimo lavoro I’m Not The Devil (2016), che è entrato addirittura nella Top 5 country: questa cosa ha dato entusiasmo al nostro, che ha deciso di ripubblicare quattro dei suoi primi sei album, da tempo introvabili (in un caso, Less Wise, aggiungendo anche dei brani in più e migliorando il suono). Di questa serie di lavori, uno dei più riusciti è sicuramente questo Adobe Sessions (uscito originariamente nel 2015), un album di puro country-rock texano al 100%, elettrico e pieno di feeling, con un suono forte, vigoroso ed una produzione decisamente professionale ad opera di Josh Thompson, che è anche il bassista del ristretto gruppo di musicisti che accompagna Cody (e che viene completato da Jon Wallace, chitarre, Milo Deering, steel, violino e dobro, ed Earl Darling, batteria).

Una band di pochi elementi ma di tanta sostanza, responsabile di un suono potente e senza fronzoli, ma anche capace di alzare il piede dall’acceleratore quando necessario. E poi naturalmente c’è Jinks con le sue canzoni, dodici esempi di puro Outlaw country che deve molto al suono di Waylon Jennings (uno che viene citato come influenza molto più dopo la morte che da vivo), a partire dall’iniziale What Else Is New, un rockin’ country elettrico dal ritmo intenso e dal suono maschio e vigoroso. Bella anche Mamma Song, gustoso honky-tonk alla maniera texana, dominato dal vocione di Cody e dalla steel, un pezzo che ricorda un po’ anche il primo Steve Earle; Cast No Stones è una western ballad profonda, zero mollezze o cedimenti nel suono, mentre We’re Gonna Dance è una scintillante country tune elettrico, dotata ancora di un motivo diretto e che si ascolta tutto d’un fiato.

Birds, con una languida steel sullo sfondo, è invece puro country, rilassato e con un’atmosfera quasi malinconica, non lontana dallo stile di Chris Isaak, Loud And Heavy torna al suono grintoso e ha un approccio melodico intrigante, direi cinematografico (film western, ovviamente), mentre David è country al 100%, fluida, diretta, godibile e suonata benissimo. Me Or You è un lentaccio alla George Jones, la breve Folks un pezzo intimo ed attendista, dal ritmo spedito ma soffuso allo stesso tempo, Ready For The Times To Get Better un altro country & western di ottima fattura, a partire dalla linea melodica fino al contorno strumentale, con le chitarre in primo piano. Finale con la deliziosa Dirt, country-rock terso e vivace con chiare tracce di Texas (splendida la steel), e con Rock And Roll, che nonostante il titolo è un’intensa ballata acustica full band. Un bel dischetto: ora che Cody Jinks ha risistemato (quasi) tutto il suo back catalogue, siamo pronti per un lavoro tutto nuovo. (*NDB nell’attesa i Pink Floyd country, bellissima cover peraltro  https://www.youtube.com/watch?v=9joAHhzm6EY )

Marco Verdi

Eccone Un Altro Bravo, Questa Volta Dal Kentucky E Lo “Manda” Sturgill Simpson! Tyler Childers – Purgatory

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Tyler Childers  Purgatory – Hickman Holler CD

Ecco un altro musicista di talento spuntato dal fittissimo sottobosco musicale Americano: per la verità Tyler Childers, proveniente da Louisa, Kentucky (un paesino di poco più di duemila anime che si fa fatica anche a trovare sulle cartine), ha già esordito nel 2011 con l’autodistribuito Bottles & Bibles, seguito da un paio di EP dal vivo, Live On Red Barn Radio Vol. I & II, ma possiamo tranquillamente considerare questo Purgatory come il suo debutto vero e proprio. Dotato di una voce molto dylaniana (il Dylan degli esordi), Childers suona un misto di country, folk appalachiano e musica cantautorale, oltre a scrivere buone canzoni: il suo territorio è lo stesso di altri musicisti veri, che fanno musica lontana dal suono tipico di Nashville e, quando vanno in classifica è per puro caso, gente che risponde al nome di Chris Stapleton, Jamey Johnson, Whitey Morgan, Colter Wall (che lo ha indicato come suo cantante preferito del momento) e Sturgill Simpson. Proprio Simpson, che è tra i più creativi tra quelli che ho citato, è il produttore di Purgatory, e questo ha fatto solo del bene alle già belle canzoni di Tyler, oltre ad aver facilitato la possibilità di suonarle con un gruppo di gente che sa il fatto suo (Russ Pahl e Michael Henderon alle chitarre, lo specialista Stuart Duncan al violino, grande protagonista del disco, Charlie Cushman al banjo, Michael Bub al basso e Miles Miller alla batteria).

E poi naturalmente c’è Childers con le sue canzoni che profumano di musica d’altri tempi, quando i dischi si compravano e non si scaricavano. I Swear (To God) è un gustoso honky-tonk dal sapore vintage, con il violino che swinga che è un piacere ed una ritmica spedita, una via di mezzo tra Wayne Hancock e Dale Watson. Feathered Indians è un’intensa ballata tra folk degli Appalachi e country, tempo sostenuto ma leggero, melodia fluida e feeling a profusione, con il violino ancora come strumento centrale; Tattoos inizia lenta e spoglia (voce, chitarra e fiddle), poi entra il resto del gruppo ed il brano acquista corpo senza perdere intensità, anzi. Born Again è molto bella (non che le precedenti non lo fossero), con il suo mood western, motivo discorsivo e diretto, arrangiamento tra sixties e seventies (si sente il lavoro di Simpson) e grande uso di steel, Whitehouse Road è leggermente più elettrica, ha un’andatura da outlaw song alla Waylon Jennings, ed anche in questa veste Tyler fa la sua bella figura, mentre Banded Clovis, dylaniana anche nella melodia oltre che nella voce, è una folk song purissima con il banjo a guidare le danze. Ed eccoci alla title track, un bluegrass dal ritmo forsennato ma con la batteria appena sfiorata (d’altronde il Kentucky è noto come “The Bluegrass State”), altro pezzo che suona come un traditional, brano che porta a Honky Tonk Flame, che invece ha un non so che di John Prine nella struttura melodica, sempre roba buona comunque; il CD si chiude con Universal Sound, molto più moderna nel suono del resto delle canzoni, una country song elettrica e mossa, ma decisamente riuscita e gradevole, e con la pura e folkie Lady May, solo Tyler voce e chitarra.

Bel disco, forse non tra quelli da avere a tutti i costi, ma sicuramente meritevole se vi piacciono i nomi citati qua e là nella recensione.

Marco Verdi

La Musica E’ Ottima, Ma Per I Testi Tappatevi Le Orecchie! Wheeler Walker Jr. – Ol’ Wheeler

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Wheeler Walker Jr. – Ol’ Wheeler – Pepper Hill/Thirty Tigers CD

Torna ad un anno di distanza da Redneck Shit Wheeler Walker Jr., countryman del Kentucky tanto bravo musicalmente quanto sboccato nei testi http://discoclub.myblog.it/2016/04/25/testi-film-porno-musica-bellissima-wheeler-walker-jr-redneck-shit/ ; in realtà Walker non esiste, in quanto è l’alter ego del comico americano Ben Hoffman (un po’ quello che Tony Clifton era per Andy Kaufman), ma il suo talento come musicista è tale che potrebbe tranquillamente proseguire la carriera esclusivamente facendo dischi. Redneck Shit aveva molto fatto parlare si sé, sia per la musica, un outlaw country robusto, elettrico e pieno di ritmo, ma anche per i testi, esageratamente volgari al limite dell’imbarazzo, roba che avrebbe fatto arrossire uno scaricatore di porto, al punto che il disco aveva avuto un’anteprima in streaming sulla piattaforma hardcore Pornhub (e, credo, passaggi radiofonici vicini allo zero). Ol’ Wheeler è il secondo volume delle avventure musicali di Walker/Hoffman, e si conferma molto valido sia dal punto di vista musicale, sia scurrile da quello delle liriche, al punto tale che in America viene considerato quasi una parodia e venduto sia come “country album” che come “comedy album” (ed in copertina uno sticker rivendica quasi con orgoglio il fatto di essere bandito sia da Walmart che da Target che da Best Buy, ovvero le tre catene di vendita più importanti degli States).

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https://www.youtube.com/watch?v=rCC6Etx93-U

Sarà anche un comedy album, ma la musica in Ol’ Wheeler è terribilmente seria: il disco è prodotto, come il precedente, da Dave Cobb, uno che ultimamente lavora come un matto ma sempre in progetti di qualità, ed in studio troviamo gente tosta come Leroy Powell alla chitarra e steel, Brian Allen al basso e Chris Powell alla batteria. Niente violini, mandolini e banjo, solo sano country elettrico e robusto, ad un livello che tanti musicisti professionisti non riescono a raggiungere, mentre per quanto riguarda i testi…beh su quelli stenderei un velo, e badate bene che non mi considero affatto un bacchettone (a proposito, mi scuso in anticipo per i titoli delle canzoni che mi accingo a scrivere, ma come si dice, ambasciator non porta pena). L’iniziale Pussy King è più rock che country, il ritmo è spezzato e le chitarre dure e tignose, ma il brano non è il massimo ed un po’ troppo di grana grossa, senza particolari guizzi. Decisamente meglio Fuckin’ Around, un puro country alla Waylon Jennings, con la doppia voce femminile di Kacey Walker che rende ancora più sconcia l’atmosfera (ma in realtà è la nota country-rocker Nikki Lane nella parte dell’ex moglie di Walker), mentre Puss In Boots è ancora migliore, gran ritmo, refrain godibilissimo, chitarre e piano in grande spolvero e Wheeler che canta con piglio da veterano (testo osceno a parte); la breve Finger Up My Butt velocizza ancora di più il ritmo, un quasi bluegrass elettrico e divertentissimo, che non fa star fermo il piede neanche per un attimo: l’inizio incerto è già dimenticato.

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https://www.youtube.com/watch?v=Mx4IjDVLE2o

Ma il nostro sa destreggiarsi anche nelle ballate, e Summers In Kentucky è una di quelle: motivo fluido e disteso, grande feeling, e se non ascoltate le parole vi sembrerà di avere di fronte qualche oscura outtake degli anni settanta (e nei brani lenti il contrasto tra la musica ed il testo è ancora più stridente); con Drunk Sluts andiamo addirittura nei sixties, un country alla Flying Burrito Brothers di grande impatto, con quell’aria cosmica tipica di Gram Parsons (che però mai si sarebbe sognato di cantare parole del genere): una delle migliori del CD. Ain’t Got Enough Dick To Go Around è un gustoso honky tonk perfetto per i camionisti texani, If My Dick Is Up, Why Am I Down? (davvero, provo quasi imbarazzo a scrivere frasi simili, seppur in inglese) riporta il disco in area Sweetheart Of The Rodeo, dimostrando che dal punto di vista musicale il nostro conosce i classici alla perfezione. Il disco si chiude con Small Town Saturday Night, tra country e rockabilly, gran ritmo e chitarre al vento (uno come Dale Watson ne andrebbe orgoglioso), l’intenso slow Pictures On My Phone, una ballata decisamente bella nonostante il testo da censura, e con Poon (che sarebbe un modo non troppo gentile di chiamare l’organo femminile di una teenager), un brano dal delizioso sapore western morriconiano. Se Wheeler Walker Jr. si mettesse in testa di scrivere canzoni “normali”, potrebbe tranquillamente diventare uno dei leader del nuovo movimento Outlaw Country insieme a Chris Stapleton, Jamey Johnson e compagnia bella (è molto più bravo di Shooter Jennings, tanto per fare un esempio), ma così, pur essendo musicalmente ai confini dell’eccellenza, rischia di essere classificato per sempre come una macchietta.

Marco Verdi

Uno Splendido Omaggio Al Country Texano Anni Settanta. Steve Earle & The Dukes – So You Wannabe An Outlaw

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Steve Earle & The Dukes – So You Wannabe An Outlaw – Warner CD – Deluxe CD/DVD

Dopo il piacevole ma piuttosto disimpegnato disco di duetti con Shawn Colvin di un anno fa http://discoclub.myblog.it/2016/06/21/buon-debutto-nuovo-duo-shawn-colvin-steve-earle-colvin-earle/ , torna Steve Earle con uno degli album più belli della sua ormai più che trentennale carriera. So You Wannabe An Outlaw è un CD di brani originali che, come lascia intuire il titolo, è anche un sentito tributo ad una certa musica country texana dei seventies, meglio conosciuta come Outlaw Music, che aveva i suoi massimi esponenti in Willie Nelson, Waylon Jennings e Billy Joe Shaver, un country robusto ed elettrico e non allineato con i precisi dettami commerciali di Nashville. Ma questo album è anche un omaggio di Steve alla sua gioventù, ed ai suoi primi passi come songwriter, quando venne preso dal grande Guy Clark sotto la sua ala protettiva (e Guy viene ricordato in una delle canzoni più intense del disco). Dal punto di vista sonoro So You Wanna Be An Outlaw è il lavoro più country di Earle da moltissimi anni a questa parte, se escludiamo il disco The Mountain inciso con la Del McCoury Band (che però era molto più legato ai suoni folk appalachiani), ed è forse il primo album a ricollegarsi direttamente ai due suoi fulminanti dischi d’esordio, Guitar Town ed Exit 0. Il suono è robusto, con Waylon come influenza principale, la produzione è dell’ormai inseparabile Richard Bennett, e la band che lo accompagna, oltre a qualche ospite che vedremo, sono i fedeli Dukes, che nella formazione attuale comprendono Chris Masterson alla chitarra solista, Eleanor Whitmore al violino e mandolino, Kelley Looney al basso, Brad Pemberton alla batteria, Ricky Ray Jackson alla steel e Chris Clark alle tastiere e fisarmonica.

E le canzoni di Steve sono, ripeto, tra le migliori che il nostro ha messo su CD da molti anni a questa parte, cosa ancora più significativa dal momento che il musicista texano d’adozione fa parte di quella ristretta schiera di artisti che non ha mai sbagliato un disco. L’album inizia benissimo con la title track, robusta country song che fa molto Waylon & Willie, in cui Earle fa la parte di Jennings e Willie Nelson fa…sé stesso, accompagnati dai Dukes in maniera energica con grande uso di steel e violino, ma anche di chitarre elettriche. Molto bella anche Lookin’ For A Woman, tempo cadenzato, melodia fluida e solare, voce del nostro leggermente arrochita e solito gran gioco di chitarre https://www.youtube.com/watch?v=eaj4iv58s0E ; The Firebreak Line è un delizioso rockabilly elettrico, gran ritmo e Steve pimpante come non lo sentivo da anni, mentre News From Colorado è una delicata ballata di stampo acustico (scritta assieme all’ex moglie Allison Moorer), dominata dalla voce imperfetta ma vissuta del leader. La tonica If Mama Coulda Seen Me ha poco di country, in quanto è un rock’n’roll tra il Texas e gli Stones, anche se il motivo sembra davvero uscire dalla penna di Waylon, Fixin’ To Die non è il classico di Bukka White ma un brano originale dallo stesso titolo, ed anche qui la base è blues, ma ad alta gradazione rock, di sicuro il pezzo meno in linea con le atmosfere del disco, mentre This Is How It Ends è un duetto con Miranda Lambert (che è anche co-autrice del brano), una squisita country ballad dal ritmo spedito e melodia cristallina, tra le più belle del CD.

The Girl On The Mountain, ancora lenta ed intensa, e con violino e steel più languidi che mai, precede due scintillanti honky-tonk, You Broke My Heart (con Cody Braun dei Reckless Kelly al violino) e la più elettrica Walkin’ In L.A., nella quale partecipa il leggendario countryman texano Johnny Bush con il suo vocione, due pezzi decisamente riusciti e godibili, che verrebbero approvati anche da uno come Dwight Yoakam. Il country elettrico di Sunset Highway, il più vicino come suono ai primi due album di Steve, ed il toccante e sentito omaggio a Guy Clark di Goodbye Michelangelo, chiudono positivamente il CD “normale”: sì, perché esiste anche una versione deluxe che, oltre ad un DVD aggiunto (con dentro il making of, il videoclip della title track ed un commento canzone per canzone da parte di Steve), presenta quattro brani in più, quattro cover scelte appunto nel repertorio dei tre più famosi Outlaws citati prima, ovvero Waylon, Willie e Shaver. Di quest’ultimo Steve propone Ain’t No God In Mexico, mentre di Nelson vengono scelte le poco note Sister’s Coming Home e Down At The Corner Beer Joint (unite in medley), e l’altrettanto oscura Local Memory, mentre di Waylon abbiamo la famosa Are You Sure Hank Done It This Way, rifatta alla grande da Steve, con spirito da vero rocker. L’ho già detto ma è doveroso ripeterlo: So You Wannabe An Outlaw è un grande disco, uno dei migliori di sempre di Steve Earle.

Marco Verdi