Uno Strepitoso Disco Di Blues Acustico, Come Non Se Ne Fanno Quasi Più! Bobby Rush – Rawer Than Raw

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Bobby Rush – Rawer Than Raw – Deep Rush Records/Thirty Tigers

Nativo della Louisiana, ma residente a Jackson, Mississippi sin dagli anni ‘80, Bobby Rush, 86 anni suonati, è uno strane personaggio del blues americano: a cavallo tra le 12 battute classiche, il soul e il funky, da qualche anno si è inventato un termine per definire la sua musica “Folkfunk”. Personaggio diciamo “minore”, ma non marginale, Rush era apparso anche nella miniserie The Blues, prodotta da Martin Scorsese, sempre in pista e pronto a raccontare aneddoti sulla sua lunga carriera, che lo vede come una sorta di Numero Uno di Alan Ford, uno che nel corso degli ha incontrato e suonato con tutti, “consigliandoli” su cosa fare, da Skip James, Howlin’ Wolf, Sonny Boy Williamson II, Muddy Waters a Elmore James, i cui brani reinterpreta in questo Rawer Than Raw, praticamente tutti i grandi della musica nera, tanto che nelle note si dice dispiaciuto di non avere potuto cimentarsi con brani di Jimmy Reed, John Lee Hooker, Son House e BB King. Già nel 2006 aveva inciso un album Raw, composto solo di rivisitazioni di proprie canzoni e che si concludeva con il brano Bobby Rush For President. Quale è la particolarità di questi album?

Come suggerisce il titolo si tratta di album acustici, nel caso di quest’ultimo, anche in solitaria: solo voce, chitarra ed armonica. Ripreso in copertina tra attrezzi agricoli e galline, e all’interno in varie pose, dove sfoggia la sua tinta di capello sempre corvina, un must per i vecchi bluesmen, il buon Bobby ha ancora una voce potente e squillante, e le sue riletture dei classici, miste ad alcune canzoni a propria firma, sono la prova che il nostro amico conosce la materia e sa come trattarla con classe. Sin dall’apertura con Down In The Mississippi, scritta dallo stesso Rush, si respira un’aria “antica” ma non vetusta, voce e chitarra acustica a ripercorrere i vecchi tracciati del blues del Delta, l’armonica a colorare il suono. D’altronde si intuisce che si tratta, come dicono gli americani, di un “labor di love”, realizzato nel corso del tempo tra Jackson, Ms e Montreal: ascoltatevi il blues primigenio di Hard Times (che sarebbe Hard Times Killing Floor Blues di Skip James) al quale, oltre ad acustica e armonica aggiunge il foot stomp per ricreare il sound dell’originale del 1931 (e lì Rush non era presente). Let Me In Your House è una delle canzoni di Bobby, salace e ironico come deve essere il blues, “If I can’t sleep in your bed, let me sleep on your floor. If I walk in my sleep, you’re the only one who’ll ever know. If I can’t be your full-time lover, let me be your part-time man”, scandito dall’interpretazione quasi danzante del nostro.

Che poi si cimenta con Smokestack Lighting di Howlin’ Wolf, che invece ha conosciuto e incontrato nella sua gioventù, quando si aggirava per locali, con baffi finti per nascondere la sua vera età, versione intensa e vissuta, ora che gli anni sono quelli giusti, e anche Shake It For Me, scritta da Willie Dixon, viene dal repertorio del Lupo, con l’acustica suonata ancora con grande destrezza e la voce sicura in grado di emozionare. In Sometimes I Wonder, sempre farina del suo sacco, dimostra di essere anche un ottimo armonicista, poi cimentandosi anche con uno dei maestri dello strumento Sonny Boy Williamson II nella classica Don’t Me Start Me Talkin’, qui ripresa in una vibrante versione; molto intenso anche un altro originale di Rush come Let’s Make Love Again, che poi lascia spazio al lato più ironico della sua arte nella divertente Garbage Man, un potente lentone dove il testo però è molto scherzoso “of all the men my woman could have left me for, she left me for the garbage man. Every time I see a garbage can, I think of her and the garbage man all the time”, con la sua donna che lo tradisce con lo spazzino. Honey Bee, Sail On è un traditional , ma faceva parte del repertorio di Muddy Waters, che riceve il suo giusto tributo, in un brano che evidenzia ancora la voce splendida di Rush, che poi si cimenta con il super classico Dust My Broom, non nella versione di Robert Johnson (anche lui non lo ha conosciuto), ma in quella di Elmore James, conosciuto invece in un club nel 1947, quando ci si aggirava con i suoi baffi finti appena ricordati, grande versione, come d’altronde tutto l’album, uno dei migliori dischi di blues acustico dell’anno.

Bruno Conti

Primo Disco A Tutto Blues Per La Rocker Canadese…E La Voce E’ Sempre Fantastica! Sass Jordan – Rebel Moon Blues

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Sass Jordan – Rebel Moon Blues – Stony Plain CD

Sass Jordan è una poderosa cantante canadese molto popolare in patria, titolare di una discografia di valore con sette album pubblicati tra il 1988 ed il 2009, che complessivamente hanno avuto anche vendite ragguardevoli avendo superato abbondantemente il milione di copie totali. La Jordan ha avuto una carriera all’insegna di un rock-blues sanguigno e potente sul genere di Dana Fuchs e Beth Hart, grazie ad una voce splendida ed al fatto di essere una performer di notevole presenza fisica, cosa che l’ha portata ad essere richiesta anche come attrice e giudice in diversi talent musicali. Queste attività parallele possono senza dubbio averla distratta, dato che dal 2009 bisogna arrivare fino al 2017 per avere un suo disco nuovo, che poi nuovo al 100% non era in quanto Racine Revisited, come suggerisce il titolo, eea la reincisione ex novo brano dopo brano di Racine, il suo album più popolare uscito originariamente nel 1992. Per fortuna non abbiamo dovuto aspettare altri otto anni per avere un nuovo CD accreditato alla Jordan dato che è da poco uscito Rebel Moon Blues, album in cui Sass omaggia grandi bluesman del passato incidendo una serie di cover (lasciando quindi i dubbi su un sopravvenuto “blocco della scrittrice”, anche se qui su otto brani totali c’è almeno una nuova canzone scritta da lei), e dandoci in definitiva il primo album di puro blues della sua carriera.

Sì, perché se da un lato è vero che nella musica di Sass la componente blues è sempre stata molto presente, un disco come Rebel Moon Blues non lo aveva mai fatto, ed una volta ascoltato l’album fino in fondo devo dire che ne valeva la pena: infatti la Jordan, oltre a confermarsi una cantante carismatica e dalla voce superba, si rivela essere anche un’interprete coi fiocchi, che non si limita a riproporre pedissequamente versioni standard di classici del blues ma riesce a rimodellarli adattandoli alla perfezione alla sua ugola possente ed alle sue ottime doti di performer. In più, Sass è accompagnata da una band coi fiocchi, gli Champagne Hookers, che forniscono ai brani un background sonoro di tutto rispetto: i due elementi che si elevano sono Chris Caddell, superbo chitarrista capace di straordinari assoli ma mai senza strafare ed in grado di restare nelle retrovie se necessario (un po’ come Jimmie Vaughan nel suo ultimo Baby Please Come Home) ed il bravissimo armonicista Steve Marriner, ma anche gli altri membri suonano come Dio comanda (Jimmy Reid alla chitarra ritmica, Jesse O’Brien al pianoforte, Derrick Brady al basso e Cassius Pereira alla batteria).

L’album parte con il classico di Sleepy John Estes Leaving Trunk, che inizia con un’armonica dal timbro decisamente blues e la sezione ritmica che entra sicura un attimo prima della voce arrochita di Sass, un concentrato di potenza, grinta e feeling che contrasta apertamente con il suo aspetto fisico di bionda piuttosto avvenente: bella versione, tosta e bluesata fino al midollo. La nota My Babe di Willie Dixon viene trattata coi guanti bianchi: ancora la splendida armonica di Marriner protagonista quasi alla pari della Jordan, tempo cadenzato, chitarra che detta il ritmo e naturalmente la voce sicura e sensuale della leader; Am I Wrong è un pezzo di Keb’ Mo’ ed è proposto sottoforma di gustoso boogie blues “rurale” dominato dalla slide acustica e con la grande voce di Sass che fornisce il supporto adeguato. One Way Out è proprio lo standard di Elmore James e Sonny Boy Williamson che però sarà per sempre legato alla Allman Brothers Band, ma anche la Jordan fa la sua bella figura con una cover decisamente calda e passionale, in cui l’artista di Montreal canta unendo grinta e classe, e Caddell rilascia una prestazione eccezionale alla slide questa volta elettrica: grande rilettura.

Palace Of The King è un classico di Freddie King (scritto però da Leon Russell con Don Nix e Donald “Duck” Dunn), e vede ancora la chitarra protagonista (non più slide ma “claptoniana”), mentre sulla voce di Sass non mi esprimo più per non essere ripetitivo: il ritornello corale, maestoso, assume tonalità quasi gospel; The Key è l’unico pezzo scritto dalla Jordan, e pur mantenendo elementi blues nel suono si tratta di una rock’n’roll song al 100%, in cui la bionda cantante fa il bello e cattivo tempo con indubbio carisma e ci consegna una prestazione trascinante. La formidabile Too Much Alcohol (di JB Hutto), è puro Mississippi blues, con voce (e che voce), slide acustica e pathos a mille, e porta alla conclusiva Still Got The Blues, una delle signature songs di Gary Moore, una sontuosa ballad riletta in maniera strepitosa per quanto riguarda la parte vocale e più che adeguata dal lato strumentale (d’altronde Moore come chitarrista non si batte facilmente).

Un gran bel dischetto per una grande voce (anche se non avrei disprezzato un paio di brani in più): ora spero di rivedere il nome di Sass Jordan di nuovo tra noi a breve, magari con un album di canzoni nuove.

Marco Verdi

Un Trio Di Delizie Blues Alligator Per L’Estate 1. Billy Branch & The Sons Of Blues – Roots And Branches

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Billy Branch & The Sons Of Blues – Roots And Branches – Alligator Records

Il CD sulla copertina come sottotitolo recita The Songs Of Little Walter: non è certamente il primo tributo alla musica del grande armonicista di Marksville, Louisiana, ma unanimemente riconosciuto come uno dei grande maestri del blues di Chicago, dove è scomparso il 15 febbraio del 1968, a meno di 38 anni, per i danni riportati in una rissa fuori da un locale della Windy City, e comunque Walter Jacobs aveva sempre avuto una vita turbolenta e ai limiti, ma nell’ambito delle 12 battute e dell’uso dell’armonica in particolare era considerato un vero innovatore dello strumento, un po’ come Charlie Parker per il sax o Jimi Hendrix per la chitarra. Anche se durante la sua vita ha inciso pochissimo a nome proprio, soprattutto a livello di singoli (i pochi album sono usciti postumi, a parte un best nel 1957)), Little Walter è stato un sideman formidabile, lasciando un segno soprattutto nella band di Muddy Waters, dal 1948 al 1952, e poi negli anni Chess, etichetta con cui inciderà alcuni singoli epocali con il marchio Checker, tra cui la fantastica My Babe del 1955, scritta come tanti classici del blues da Willie Dixon, che gli regalò anche Mellow Down Easy, mentre tra quelli a propria firma si ricordano Juke, Blues With A Feeling, rubata a Walter Tarrant, You’re So Fine, Last Night ed alcune altre, tutte presenti in questo Roots And Branches insieme ad altri cavalli di battaglia del repertorio di Jacobs.

Come potete immaginare questo non è sicuramente il primo tributo a Little Walter, già nel 1968 George “Harmonica” Smith gliene dedicò uno, e tra quelli più belli ricordo quello pubblicato dalla Blind Pig, di cui vi ho parlato su queste pagine virtuali https://discoclub.myblog.it/2013/05/18/e-dopo-i-chitarristi-una-pioggia-di-armonicisti-remembering/ , con la partecipazione di diversi eccellenti artisti, tra i quali non era però presente Billy Branch, che ha pensato bene di crearne uno a titolo personale. Anche Branch è un nativo di Chicago, ma pur essendo accompagnato in questo CD dai Sons Of Blues, non è un figlio d’arte, come gli altri due fondatori della band, Lurrie Bell, figlio di Carey, Freddie Dixon, figlio di Willie, che non fanno più parte della band da parecchio tempo. Proprio con Dixon, circa 50 anni fa, inizia la carriera di Branch, suonando nei Chicago Blues All-Stars, la band di Willie, e poi fondando nel 1977 i Sons Of The Blues il cui esordio fu pubblicato dalla Alligator Records, ancora oggi etichetta leader (quasi infallibile) nella materia. Nella formazione odierna a fianco di Branch ci sono il grande pianista Sumito Ariyoshi, aka Ariyo, con lui da una ventina di anni, il chitarrista e cantante Giles Corey, autore anche di un eccellente album solo per la Delmark, che dividono gli spazi solisti con lui, ed una vivace sezione ritmica composta da Marvin Little al basso e Andrew “Blaze” Thomas alla batteria. C’è da dire che purtroppo sia Branch che i Sons Of Blues non incidono moltissimo, infatti il penultimo disco Blues Shock, edito dalla Blind Pig, risale al 2014 e quello precedente addirittura al 2001, ma quando lo fanno lasciano il segno, come in questo Roots And Branches.

Definito dalla critica addirittura il “Re dell’armonica” del Chicago Blues dell’ultimo quarto del secolo scorso, Billy Branch è anche (tuttora) in possesso di una voce pimpante, espressiva e senza tempo, in grado di convogliare le mille nuances del miglior blues elettrico: anche gli arrangiamenti non sono mai scontati, come è tipico delle produzioni Alligator, che fanno della brillantezza e della freschezza i loro punti di forza, come è chiaro sin dall’iniziale Nobody But Yoy, un brano di Walter Spriggs del 1957, che fu un successo per Little Walter And His Jukes, classiche 12 battute, dove armonica, voce, chitarra e piano si alternano nel migliore spirito del Chicago Blues. La vibrante Mellow Down Easy è anche meglio, con il suo incidere da brano classico, la voce che punteggia con forza le liriche, l’armonica sempre in grande evidenza e tutta la band in grande spolvero. Roller Coaster di Ellas McDaniels, ha la tipica scansione ritmica dei brani di Bo Diddley, perché di lui parliamo, uno dei brani strumentali che non possono mancare in un album dedicato a Little Walter, e in cui Branch mostra tutta la sua perizia, come pure nella swingante Juke. Blue And Lonesome è un magnifico lento, intenso e vibrante, con Giles Corey che “tira” la sua solista con libidine, prima di lasciare spazio a Billy. Hate To See You Go (come la precedente, attribuita da Jagger e soci però a Memphis Slim, ma la paternità nel blues è sempre dubbia) la troviamo anche nel disco blues dei Rolling Stones, brano brioso e dal bel drive pure nella versione di Branch e soci, molto alla Muddy Waters.

My Babe è uno dei capolavori assoluti del blues, come la giri la giri, se ben suonata, con i suoi cambi di tempo e le sue continue volute, non manca mai di entusiasmare, e qui si apprezza il lavoro di Ariyoshi al piano (ottimo anche Corey), che ci mette del suo anche nella raffinata e jazzata One More Chance With You. Altro grande classico presente nel CD è la potente e scandita Last Night, che nel blues hanno suonato un po’ tutti, da Mike Bloomfield a John Hammond, passando per Butterfield e i Fleetwood Mac, C’è anche un medley tra una funky Just Your Fool Key To The Highway di Big Bill Broonzy. Boom Boom Out Goes The Lights non è quella di John Lee Hooker o degli Animals, ma rolla alla grande pure questa, e anche It’s Too Late Brother, altro classico di Little Walter swinga di brutto. You’re So Fine è un altro dei successi Checker anni ’50 di Jacobs, un bel groove di basso e Branch e Aryyoshi che “magheggiano” ai rispettivi strumenti, prima di congedarci con la galoppante You’re So Fine e con Blues With A Feeling, una canzone, un programma sin dal titolo, di nuovo notevole il lavoro di Ariyoshi, che è anche co-produttore del CD, un altro pezzo tra i più eseguiti nella storia del blues, dalla Butterfield Blues Band passando per Mick Jagger (mai uscita a livello ufficiale), per non dire di Jimmy Witherspoon, Taj Mahal, Magic Slim, Carey Bell, ecc. ecc. Un album di blues duro e puro, ma non dove si non percepisce neppure un filo di noia, solo buona musica.

Bruno Conti

Da Rootsy Rocker A Provetto Bluesman. Dennis Brennan And The White Owls – Live At Electric Andyland

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Dennis Brennan And The White Owls – Live At Electric Andyland – VizzTone Label         

Forse i più attenti di voi si ricorderanno del cantautore roots-rock di Marlboro, Massachusetts (per alcune biografie, altre dicono nativo di Berlin, sempre nel Massachusetts): per intenderci è proprio Dennis Brennan, quello di Jack In The Pulpit, un bel disco a cavallo tra Americana, country e blue collar rock del 1995, uscito per la Rounder, dove era accompagnato da Duke Levine alla chitarra e Billy Conway dei Morphine alla batteria (che si alternava con Jay Bellerose), oltre a Bruce Katz all’organo, solo per ricordare i musicisti più famosi che suonavano nel disco, ma c’erano anche i fiati in alcune tracce. Comunque sia prima, negli anni ’80, che successivamente, Brennan, da solo o all’interno di oscure band anche di impronta vagamente garage e psichedelica dell’area di Boston (The Martells, Push Push, Young Neal And The Vipers) era abbastanza popolare a livello di culto tra gli amanti del rock di qualità.

Il suo ultimo disco, devo dire passato abbastanza inosservato, è stato Engagement, metà in studio e metà live, pubblicato dalla minuscola etichetta Hi & Dry nel 2006 https://www.youtube.com/watch?v=KEscfNIhG3M , sebbene nel passato alcune sue canzoni siano state usate sia in colonne sonore che in serie televisive. Ma ecco che Brennan improvvisamente riappare, alla guida dei White Owls e sotto contratto per la VizzTone, con questo Live At The Electric Andyland (colta la citazione hendrixiana?), che segnala un deciso spostamento verso tematiche blues, trasformatosi nel frattempo anche in provetto armonicista, ma senza abbandonare del tutto le sonorità rootsy del passato (e cosa c’è di più vicino alla musica delle radici del Blues?). Il gruppo che lo accompagna prevede il batterista Andrew Plaisted (anche produttore dell’album e proprietario del piccolo locale dove è stato registrato il CD in presa diretta), due chitarristi, Tim Gearan e Stephen Sadler, alla lapsteel, David Westner all’organo, e Jim Haggerty al contrabbasso, e un repertorio che mescola brani originali e cover di varia provenienza: Cuttin’ In di Johnny Guitar Watson è subito un sapido tuffo nelle 12 battute più calde, con retrogusti soul, anche se le chitarre sono rilassate e sornione, come la voce del titolare che non ha perso il suo timbro da veterano rocker; in Nothing But Love, uno shuffle di Bo Jenkins, Brennan soffia anche con voluttà nella sua armonica e ha un timbro vocale che mi ha ricordato a tratti quello di Peter Wolf, degli eroi locali di Boston della J. Geils Band, meno watt ma stessa passione.

Yes, I’m Loving You, di tale Big Al Downing, è più mossa e con rimandi al R&R più canonico, grazie anche alla lap steel in modalità slide di Sadler, mentre End Of the Blue è un bel lento scandito, scritto da Gearan, giusto alla intersezione tra 12 battute e rock d’antan stonesiano. Good Lover è di Reed, non Lou ma Jimmy, molto classica e laidback, con call e response tra solista e lap steel. The (New) Calls Of The Freaks è addirittura un pezzo di King Oliver degli anni ’20, quindi blues primigenio, e Tangle, se Brennan che l’ha scritta avesse un bel vocione, potrebbe passare per un brano di Tom Waits di quello più tirato di fine anni ‘70, con Three Kind Of Blues di Sadler, altra traccia intensa con armonica e slide in bella evidenza. I Live The Life I Love è proprio il celebre pezzo di Willie Dixon  che era anche nel repertorio di Mose Allison, che è l’autore pure della successiva Foolkiller, decisamente ancora più mossa e scatenata. Non manca un pezzo di Ledbetter come I’m On My Last Go Round, sempre piuttosto vivace anziché no e un omaggio agli Stones dei primi anni con una sognante No Expectations, suonata e cantata con grande passione e che chiude in modo brillante un buon album.

Bruno Conti

Probabilmente Il Loro Ultimo Grande Concerto. The Doors – Live At The Isle Of Wight Festival 1970

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The Doors – Live At The Isle Of Wight Festival 1970 – Eagle Rock/Universal CD/DVD – DVD – BluRay – CD/BluRay (solo USA e Canada)

Dopo le deludenti versioni celebrative dei loro primi due album, The Doors e Strange Days (la seconda più della prima), finalmente un’uscita come si deve che riguarda i Doors, ovvero la pubblicazione integrale audio e video di Live At The Isle Of Wight Festival 1970, di cui vi aveva accennato Bruno qualche settimana fa: si tratta dell’ultimo show ripreso dalle telecamere dello storico gruppo californiano, e del quale erano finora usciti pochi frammenti all’interno del film Message To Love di Murray Lerner (che è quindi il regista anche di questo live). Le notizie che giravano su questa serata parlavano di un gruppo non al meglio, con una profonda spaccatura tra Jim Morrison e gli altri tre, ma mi sento di dover smentire questi rumours, in quanto ci troviamo di fronte ad una grandissima esibizione, nella quale non ci sono assolutamente segni di contrasti intestini (ed i quattro avevano ancora un grande disco in canna, quel L.A. Woman che sarebbe uscito l’anno seguente). Certo, forse la parte visiva non è poi così spettacolare, dato che Ray Manzarek, John Densmore e Robby Krieger si “limitano” a suonare, e Morrison resta praticamente fermo durante tutta l’esibizione (in quei giorni la sua mente era anche rivolta al famoso processo di Miami per atti osceni), ma la parte musicale è sublime, sia dal punto di vista dell’incisione che da quello della qualità della performance, una chiara conferma della bontà del gruppo on stage.

Il concerto (un’ora e cinque minuti), che si tenne alle due del mattino del 29 Agosto di quell’anno, inizia con la roboante Roadhouse Blues, uno dei brani più noti della band, rock’n’roll allo stato puro, in cui ci si rende subito conto come le voci di un gruppo allo sbando fossero infondate: Morrison si dimostra subito aggressivo ed in palla dal punto di vista vocale, Krieger rilascia un assolo chitarristico torcibudella, Densmore picchia con vigore e raffinatezza allo stesso tempo (frutto di una formazione di stampo jazz), mentre l’organo Vox Continental di Manzarek si conferma come il vero punto di forza del sound del quartetto. La loro versione del classico di Willie Dixon Back Door Man è fluida e godibile, con la vocalità di Morrison decisamente centrale, forte e sicura, e gli altri tre che lo seguono con classe e maestria; la diretta Break On Through (To The Other Side) è il solito attacco frontale, con Manzarek che fa viaggiare le dita che è un piacere, mentre la sinuosa When The Music’s Over vede i nostri nel loro ambiente naturale, ovvero i brani lunghi e fluidi per cui sono famosi, con Ray impegnato contemporaneamente all’organo ed al basso (frutto dell’accoppiamento del Rhodes Piano Bass al suo strumento principale), Jim che gigioneggia da par suo, canta, declama, urla, sembra perdere il filo ma poi lo riprende all’improvviso.

Robby Krieger che si dimostra un chitarrista notevolmente creativo (e qui l’influenza di certa musica orientale è palese) e John molto più di un semplice batterista. La poco nota Ship Of Fools, una sorta di vivace rock-blues molto sixties e dal mood jazzato, anticipa la grande Light My Fire, la signature song del gruppo ed ideale scorribanda per le evoluzioni di Manzarek e Krieger, qui in una versione davvero spettacolare. Il finale è appannaggio di una lunga e drammatica The End, una vera manna per le improvvisazioni di Morrison e soci, con all’interno accenni ad altri canzoni quali Across The Sea, Away In India, Wake Up e la Crossroads di Robert Johnson. Come parte video bonus (che non ho ancora visto), ci sono nuove interviste a Lerner, Krieger, Densmore e Bill Siddons (ex manager del gruppo), oltre ad una testimonianza del 2002 di Manzarek. So che sul mercato gli album dal vivo dei Doors non mancano di certo, ma questo Live At The Isle Of  Wight Festival 1970 secondo me fa parte di quelli da avere, e non solo per il suo valore storico.

Marco Verdi

Armonica Blues Dalla California! Mitch Kashmar – West Coast Toast

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Mitch Kashmar – West Coast Toast – Delta Groove Music/Ird

I colleghi armonicisti, da Charlie Musselwhite allo scomparso William Clarke (di cui il nostro è una sorta di erede e utilizza anche gli stessi musicisti che suonavano nella band del musicista scomparso negli anni ’90 https://www.youtube.com/watch?v=hX49LPkuQtw ) ne hanno cantato le lodi, la critica lo indica quasi sempre tra i migliori rappresentanti della scuola del West Coast Blues, tanto che alla fine Mitch Kashmar ha dedicato anche il titolo del CD a questo filone del blues. Nato sul finire degli anni ’50 in California, secondo molti grazie alla figura di George “Harmonica” Smith, attualmente vede tra i suoi rappresentanti più validi Al Blake (già nella Hollywood Fats Band), Rod Piazza, con i suoi Mighty Flyers, Kim Wilson, con e senza Fabulous Thunderbirds, oltre al citato Clarke. E naturalmente Kashmar, che ritorna con questo nuovo album di studio West Coast Toast, il primo dopo una pausa di circa dieci anni, interrotta dall’uscita di un Live At Labatt del 2008 e di 100 Miles To Go, uscito nel 2010, ma che raccoglieva registrazioni degli anni ’80 con i Pontiax (e di cui mi pare di ricordare di essermi occupato ai tempi sul Buscadero, ma essendo ormai diversamente giovane, non ne sono sicuro, anche se certamente ho già scritto di Kashmar in passato) https://www.youtube.com/watch?v=_DchUBlCWyM . Tutti questi ultimi album sono usciti per la Delta Groove, l’etichetta di Van Nuys, California, per certi versi depositaria di questo suono della West Coast in ambito blues, un sound che prendendo spunto dalle 12 battute classiche di Chicago, aggiunge elementi swing, jazz, spesso l’uso dei fiati (ma non in questo caso), l’uso dell’armonica diatonica, anche amplificata, in alternanza con la cromatica, come fa il buon Mitch in questo album.

All’inizio vi dicevo che Kashmar utilizza gli stessi musicisti impiegati da William Clarke a metà anni ’80, ovvero Junior Watson alla chitarra, Bill Stuve al basso e il bravissimo pianista/organista Fred Kaplan, l’unica new entry è il batterista Marty Dodson. Tutti musicisti specializzati nell’accompagnare armonicisti: se aggiungiamo il consueto ottimo lavoro del produttore Jeff Scott Fleenor, che applica la classica formula del sound della Delta Groove, quindi riprendere i musicisti nella purezza del suono dei loro strumenti, molto ben definiti, e, ove possibile, registrati in sessions dove i protagonisti suonano insieme in studio, ottenendo la freschezza dell’approccio live applicata ad un ambiente chiuso. E mi sembra ci riesca. Il materiale si divide tra sei originali scritti dallo stesso Kashmar e cinque cover scelte con cura dall’immenso songbkook del blues. Intendiamoci, il disco non è un capolavoro assoluto e quindi difficilmente porterà nuovi proseliti tra le file dei seguaci delle 12 battute, ma gli appassionati del genere troveranno una piacevole aggiunta ai loro ascolti. Si apre con lo swingato e scatenato strumentale (uno dei quattro del disco) East Of 82nd Street, dove domina l’armonica amplificata di Karshmar, ma anche la chitarra di Watson ha modo di farsi apprezzare, oltre alla eccellente sezione ritmica.

Too Many Cooks, un brano di Willie Dixon, ci permette di apprezzare anche la voce di Mitch Karshmar, in possesso di uno stile canterino sicuro ed elegante, oltre al piano di Fred Kaplan, che comincia a cesellare sugli 88 tasti da par suo, mentre la successiva Young Girl era nel repertorio di Rudy Toomes, un musicista che persino Ray Charles citava tra le sue fonti di ispirazione, un bel pezzo tra blues e soul, con tocchi jazz grazie all’organo di Kaplan e alla chitarra accarezzata da Watson, senza dimenticare il cantato felpato del titolare. The Petroleum Blues, sempre a firma Kashmar, affronta tematiche sociopolitiche nel testo, ma lo fa con l’ironia tipica dei bluesmen, ed un ritmo a tempo di boogie veramente contagioso, sempre con i vari solisti, nell’ordine armonica, chitarra e piano, in grande spolvero (brano già apparso nel disco del 2010 https://www.youtube.com/watch?v=9I2OKd1ceTM). Mood Indica, altro strumentale, è il classico lento intenso che non può mancare, mentre Don’t Stay Out All Night, è uno shuffle in stile Chicago Blues, un brano gagliardo di Billy Boy Arnold, seguito da My Lil’ Stumptown Shack, un omaggio di Mitch Kashmar all’Oregon, lo stato dove si è trasferito per vivere, altro blues elettrico intenso. Di nuovo strumentale Makin’ Bacon, dove sembra quasi di ascoltare il New Orleans sound di Fats Domino e poi un omaggio al John Lee Williamson originale, il primo Sonny Boy, con una sanguigna Alcohol Blues, dove si apprezzano sia la voce vissuta come l’armonica cromatica di Mitch, e anche Love Grows Cold di Lowell Fulson, per quanto più mossa e divertita, si immerge a fondo nella tradizione, con la conclusione affidata al lungo strumentale Canoodlin’, dove tutti i solisti si mettono in luce di nuovo, divertendo l’ascoltatore con la loro perizia tecnica.

Bruno Conti

Supplemento Della Domenica: Era Già Imperdibile 19 Anni Fa, Figuriamoci Oggi! Led Zeppelin – The Complete BBC Sessions

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Led Zeppelin – The Complete BBC Sessions – Atlantic/Warner 3CD – 5LP – Super Deluxe 3CD + 5LP

Le recenti ristampe dell’intero catalogo dei Led Zeppelin a cura di Jimmy Page, sono state, diciamolo, una mezza delusione: a parte gli estremi, cioè il primo Led Zeppelin ed il postumo Coda, gli “inediti” inclusi nelle edizioni espanse avevano lasciato parecchio a desiderare, e la cosa più riuscita di queste riedizioni erano i libri che accompagnavano le edizioni super deluxe, peraltro costosissime e senza neppure un minuto di musica in più rispetto ai normali CD doppi (triplo nel caso di Coda). Oggi Page si riscatta parzialmente riproponendo le bellissime registrazioni che il gruppo aveva inciso per la BBC, già uscite in versione doppia nel 1997 e che avevano riscosso un notevole successo, anche perché all’epoca c’era una gran fame di Zeppelin e di inediti se ne vedevano pochissimi. The Complete BBC Sessions, oltre a riprodurre quel doppio album live (sia in studio che in presenza del pubblico), ne aggiunge un terzo con nove brani non pubblicati all’epoca, che sembrerebbero essere gli ultimi presenti negli archivi della storica emittente britannica, con i tre pezzi finali che appartengono ad una sessione del 1969 considerata perduta (ed anche qui, oltre ad una versione in quintuplo vinile, esiste il solito superbox con sia CD che LP, ma sempre senza musica aggiuntiva).

Per chi scrive i Led Zeppelin sono stati la più grande band di sempre: certo, forse i Beatles sono stati più innovatori e hanno scritto una serie di capolavori inarrivabile, i Rolling Stones sono la migliore rock’n’roll band sul pianeta (e qualche discreta canzoncina l’hanno scritta anche loro…), ma a livello di pura tecnica nessuno poteva competere con i quattro del Dirigibile, che partendo dalla lezione dei classici del blues hanno praticamente inventato un suono, l’hard rock classico che farà faville negli anni settanta, ed influenzato un’infinità di gruppi venuti dopo di loro (*NDB Anche se Jeff Beck avrebbe qualcosa da opinare su chi fu l’inventore). Robert Plant aveva un’ugola, una carica sessuale ed una presenza scenica che ne facevano il cantante rock per antonomasia (in seguito David Coverdale diventerà un ottimo discepolo, senza peraltro avvicinare a quei livelli), Jimmy Page è stato semplicemente il più grande chitarrista dopo Jimi Hendrix (ma non ditelo a Richie Blackmore se no mi fa causa), John Paul Jones è stato un bassista e tastierista assolutamente devastante, mentre John “Bonzo” Bonham è stato, insieme a Keith Moon, il miglior batterista rock di tutti i tempi. Il loro unico album dal vivo dell’epoca, The Song Remains The Same, era stato una delusione (in parte riparata dalla deluxe version del 2007), ed è quindi facilmente comprensibile il perché del successo nel 1997 di questo album, considerando che prendeva in esame incisioni del loro periodo migliore (quello dei primi quattro album).

Le registrazioni risalgono al 1969 sul primo CD (alle trasmissioni Pop Sundae e Top Gear ed al Playhouse Theatre), al 1971 sul secondo (tutte da un concerto al Paris Theatre di Londra), mentre sul terzo c’è un mix delle due annate: Page ha poi fatto un lavoro splendido in sede di rimasterizzazione, ripulendo ulteriormente le tracce che già aveva messo a punto 19 anni fa, ed il piacere dell’ascolto è quindi praticamente rinnovato. Il primo dei tre CD si apre con il possente blues di Willie Dixon You Shook Me, con Plant strepitoso già da subito e gli altri tre che ci danno dentro come se non ci fosse domani (e Page rilascia un assolo da marziano), seguita da una fluida e lineare I Can’t Quit You Baby (ancora Dixon) e da una delle tante Communication Breakdown, ben cinque in tutto il triplo, e tutte vere e proprie esplosioni elettriche. I classici del primo periodo ci sono comunque tutti (a parte, stranamente, Rock’n’Roll), tra cui spiccano una Dazed And Confused davvero plumbea e ricca di tensione, con Page che suona con l’archetto producendo suoni inquietanti (a dire il vero le versioni sono tre, di cui una di diciotto minuti assolutamente spaziale), un’altra You Shook Me, di dieci minuti, che fa impallidire quella già ottima posta in apertura, il superclassico Whole Lotta Love, una normale ed una di tredici minuti in medley con Boogie Chillun di John Lee Hooker, Fixin’ To Die di Bukka White e That’s Alright Mama e A Mess Of Blues di Elvis Presley, la sensuale What Is And What Should Never Be, con Page sublime anche alla slide, e la rara Travelling Riverside Blues, un blues “rurale” formidabile, una delle migliori performances del triplo.

Non manca neppure la magnifica Stairway To Heaven (per il sottoscritto la più grande canzone rock di sempre), anche se la versione originale la reputo insuperabile, la folkeggiante ed acustica Going To California (peccato non anche The Battle Of Evermore), ed alcune gemme eseguite raramente come The Girl I Love She Got Long Black Wavy Hair, la deliziosa That’s The Way ed il travolgente rock’n’roll di Eddie Cochran Somethin’ Else, con Jones che stende tutti al pianoforte. E, last but not least, una Immigrant Song da urlo, con Bonzo che sembra avere venti braccia, Plant indemoniato ed il solito assolo spaccabudella di Jimmy, fusa con l’altrettanto imperdibile Heartbreaker (ma come suona Page?). Il terzo CD, quello inedito, ci propone altre due Communication Breakdown, la prima più diretta e secca, la seconda superiore sia in durata che in resa, la solita superlativa Dazed And Confused (“solo” undici minuti), due ulteriori versioni di What Is And What Should Never Be, insinuanti e raffinate, con Plant e Page che fanno a gara a chi è più bravo, e la rara White Summer, uno strumentale di otto minuti in cui Jimmy può fare il bello e il cattivo tempo. Infine, la già citata “lost session” del 1969, che ha una qualità di registrazione nettamente inferiore, diciamo da bootleg medio, ma un grande valore artistico, con altre due splendide riletture di I Can’t Quit You Baby e You Shook Me e, vera chicca del CD, l’unica versione conosciuta di Sunshine Woman, un rock-blues decisamente tosto e grintoso.

Se diciannove anni fa eravate in vacanza sulla Luna e vi siete persi le BBC Sessions dei Led Zeppelin, ora non avete più scuse: tra le ristampe dell’anno.

Marco Verdi

Dagli Archivi Inesauribili Dei Gov’t Mule Ecco Le Tel-Star Sessions.

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Gov’t Mule – The Tel-Star Sessions – Mascot/Provogue EU/Evil Teen USA

Praticamente le conosciamo già tutte le canzoni contenute in questo The Tel-Star Sessions, ma in queste versioni registrate nel 1994 in Florida a Bradenton, appunto ai Tel- Star Studios, con l’apporto dell’ingegnere del suono Bud Snyder, non le avevano mai sentite. I brani nascevano come demo in preparazione di quello che sarebbe stato il primo album della band, in uscita per la Relativity nell’ottobre del 1995. In quegli anni, fino al 1997, sia Warren Haynes che Allen Woody suonavano ancora con gli Allman Brothers, mentre i Gov’t Mule erano una sorta di side-project dove li aveva raggiunti Matt Abts, il batterista che aveva già fatto parte, con Haynes, della band di Dickey Betts.  Diciamo subito che l’album è notevole e vale la pena di averlo, a maggior ragione se siete fans dei “Muli”, ma anche se amate in generale il miglior rock-blues, versione power trio, nella tradizione che discende da Cream, Jimi Hendrix Experience, Taste, Free, Hot Tuna e poi giù fino a Mountain, ZZ Top e tantissime altre band che hanno influenzato Haynes e soci. Il disco, pur partendo da semplici demo, è stato amorevolmente completato a livello tecnico dal buon Warren e suona come se fosse stato registrato ieri mattina, ed è il tassello mancante che va a completare la storia di una delle più gloriose formazioni del rock americano classico.

La partenza è affidata a Blind Man In The Dark, un brano scritto da Warren Haynes che non sarebbe apparso su disco fino a Dose del 1998, ma faceva già parte del repertorio live del band, un pezzo sintomatico dello stile del trio: voce dura, rauca e possente, una sezione ritmica scintillante, basata sui giri armonici vorticosi di Woody, degno erede di bassisti come Jack Bruce soprattutto, ma anche Andy Fraser dei Free, a cui si ispirava, e alla batteria agile ma potente di Matt Abts, in possesso pure lui di una notevole tecnica individuale. Sul tutto la chitarra di Haynes, sempre in grado di disegnare linee soliste di grande fascino e varietà, inserendosi anche in quel filone delle jam band, dove l’improvvisazione è principe e fa sì che un brano non sia mai uguale alle volte precedenti, e quindi anche i sette pezzi presenti nel disco di esordio (uno ripetuto due volte) sono comunque abbastanza differenti da quelli presenti in questo Tel- Star Sessions: bellissimo l’assolo di Warren,in questo brano che rimane uno dei loro migliori in assoluto. Notevole anche Rocking Horse, un pezzo che oltre a quelle di Haynes e Woody, porta anche le firme di Gregg Allman Jack Pearson del giro Allman Brothers, e quindi ha una impronta più “sudista” nello stile, sempre bluesato e incalzante ma anche con le stimmate del gruppo di Macon presenti nel sound del brano, con Haynes che si sdoppia su due chitarre soliste, lavorando di fino sia con gli assolo come con il raccordo ritmico, ottima versione. Il wah-wah è il tratto distintivo di Monkey Hill, come la voce filtrata dell’artista di Asheville, NC nella parte iniziale, che poi lascia posto ad una traccia dal suono di nuovo molto alla Cream. Mr Big, estratta da Fire And Water dei Free, è uno dei riff di chitarra più classici del rock (grazie a quel chitarrista splendido e sottovalutato che fu Paul Kossoff) ma vive anche sul lavoro agli armonici di Allen Woody che ripropone quel assolo nell’ assolo di Andy Fraser contrapposto a Kossoff nel brano originale, una canzone difficile da migliorare e che si può solo cercare di riproporre con fedeltà ed amore, e i Gov’t Mule ci riescono alla perfezione.

The Same Thing è un brano scritto da Willie Dixon per Muddy Waters, il classico brano blues che diventa l’occasione per un’altra scorribanda alla Cream (pur se il brano era anche nel repertorio di Allman, Thorogood, Grateful Dead, della Band e di moltissimi altri), ancora con il trio impegnato nelle classifiche jam di libera improvvisazione e interscambio tra i tre musicisti, basate sulle 12 battute. Anche Mother Earth di Memphis Slim ha chiare origini nel blues ma viene rifatta con uno spirito direi hendrixiano, l’arcirivale di Clapton, che aveva comunque le basi della propria musica ben piantate nella tradizione, poi riveduta e corretta attraverso delle derive decisamente più rock, come dimostra anche questa versione dei Gov’t Mule, poderosa ed intensa, con la chitarra di Haynes che scivola fluida e decisa nel magma sonoro del trio. Classico da terzetto è anche Just Got Paid dei ZZ Top, altro brano che non avrebbe fatto parte dell’esordio dei Muli del 1995, un boogie blues tra i più belli e famosi del trio texano di Gibbons e soci, con il nostro amico che si raddoppia di nuovo alle chitarre, questa volta aggiungendo una slide minacciosa e turbolenta che duella con il basso pompatissimo di Allen Woody, prodigioso come sempre. E pure in Left Coast Groovies Woody si inventa un giro armonico sinuoso e geniale, decisamente funky, che stimola Warren Haynes ad inventarsi un assolo di rara tecnica e precisione, ben sostenuto anche dal lavoro tentacolare della batteria di Abts, tre virtuosi al lavoro. Chiudono queste Tel-Star Sessions due diverse versioni di World Of Difference, ovvero il pezzo che chiudeva anche il disco di debutto omonimo: un brano che, come l’iniziale Blind Man, ha anche elementi psych ed hendrixiani, e persino tocchi dark, che poi sarebbero stati sviluppati nel successivo Dose, la seconda versione leggermente più breve, mantiene il mixaggio originale ed è riportata come bonus track.

Ho anche colto l’occasione per andarmi a risentire il disco originale che era almeno dieci o quindici anni che non ascoltavo, e devo dire che è sempre un grande album, tra l’altro ristampato lo scorso anno in Europa dalla Retroworld. Se vi manca potreste fare un bel uno-due, della serie un mulo tira l’altro, se no comunque il “nuovo” Tel-Star Sessions è un ottimo disco (per quanto ovviamente leggermente inferiore all’originale, più completo e rifinito). Esce oggi.

Bruno Conti

Supplemento Della Domenica: Ritorna Uno Dei Grandi Classici Del Blues Anni ’60, In Edizione Riveduta E Corretta! Magic Sam – Black Magic

magic sam blues band black nagic with bonus

Magic Sam Blues Band – Black Magic (Deluxe) – Delmark/Ird

Questo è uno dei classici dischi di blues che si devono avere, uno di quelli da 4 stellette. Se poi, come ha fatto la Delmark, è stato pure rimasterizzato e potenziato con ben 8 tracce extra, di cui due inedite in assoluto, diventa indispensabile: bella anche la confezione digipack. Oltre a tutto gli altri sei brani, che sono alternate takes o brani non pubblicati, si trovavano solo su Magic Sam Legacy, una raccolta di materiale inedito uscita in CD nel 2008, e che forse non tutti hanno, ma acquistano ancora maggior significato aggiunti a queste sessions, registrate tutte tra  il 23 ottobre e il 7 novembre del 1968, proprio per questo Black Magic, e poi non utilizzate. Il disco fu il canto del cigno per Samuel Maghett, in arte Magic Sam, che sarebbe morto il 1° dicembre del 1969, pochi giorni dopo la pubblicazione dell’album, a soli 32 anni, in modo inatteso (per un attacco cardiaco), ma forse non imprevisto, visto il regime di vita che avevano molti musicisti all’epoca, a soli 32 anni. In seguito la sua leggenda è stata alimentata con molte pubblicazioni postume, ma a ben guardare, il musicista nato a Grenada, Mississippi, ma tipico rappresentante del West Side Blues di Chicago, in vita ha pubblicato solo due dischi, West Side Soul e questo Black Magic.

Mi lancio, con Freddie King, Buddy Guy e Otis Rush, è stato probabilmente uno dei più grande chitarristi della saga del blues elettrico di quegli anni: certo Albert King e B.B King erano anche grandi chitarristi, ma pure autori e cantanti sopraffini, delle vere icone nella storia delle 12 battute, Magic Sam, anche se era comunque un eccellente vocalist, verrà ricordato soprattutto come un formidabile solista https://www.youtube.com/watch?v=_7ZS22vc4Os . Il disco, prodotto da Bob Koester, che firma anche delle nuove note per la ristampa potenziata del CD, si avvale di un grandissimo gruppo di musicisti che suonano nell’album: Eddie Shaw, al sax tenore, Lafayette Leake al piano, Mighty Joe Young, alla seconda chitarra, Mac Thompson al basso e Odie Payne, Jr., alla batteria. Una (ri)edizione da mettere lì, religiosamente, sul vostro scaffale, a fianco del recente Live At The Avant Garde, June 22 1968, pubblicato sempre dalla Delmark nel 2013. Il suono, già buono nella versione originale da 10 brani, è stato ulteriormente migliorato, e quindi si possono godere a fondo le evoluzioni di Magic Sam e dei suoi amici: partenza sparata con la gagliarda e ritmata I Just Want A Little Bit, brano scritto da Roscoe Gordon, dove si iniziano da subito ad apprezzare anche le componenti R&B e soul presenti in grande copia nella musica di Maghett, eccellente voce di stampo soul, come viene ribadito nella incalzante You Belong To Me, un brano che ha profumi Stax, mentre What I Done Wrong, pur se ritmata, ha il classico suono Chicago Blues, con la chitarra dalle tinte semplici e lineari, ma sempre pronte a quel classico suono lancinante della scuola del blues urbano https://www.youtube.com/watch?v=m8f2eFHGD8E , poi ribadite nella cadenzata Easy Baby, che porta la firma di Willie Dixon, o nel tipico slow blues It’s All Your Fault, Baby, che viene dalla penna di Lowell Fulsom, con il solito cantato ricco di enfasi di Magic Sam, che, ben sostenuto da sax e piano, rilascia un assolo di una semplicità e di una classe disarmanti.

Same Old Blues è il classico di Don Nix,  brano che era anche nel repertorio di Freddie King e Jimmy Witherspoon, qui in una versione pimpante che ricorda molto il suono di dischi tipo Blues Jam At Chess dei Fleetwood Mac, mentre You Dont Love Me, Baby di William Cobb, senza il baby nel titolo, sarebbe diventato uno dei cavalli di battaglia dal vivo degli Allman Brothers, il riff inconfondibile è quello, ovviamente senza la potenza rock che gli avrebbero dato gli amplificatori Marshall da lì a poco. San-Ho-Zay, era uno degli strumentali tipici di Freddie King, sempre in bilico tra blues e R&B, con la chitarra di Magic Sam che disegna le sue perfette linee soliste; altro slow blues di quelli lancinanti è You Better Stop! You’re Hurting Me, tra le migliori interpretazioni in assoluto di Magic. Il disco originale si chiudeva sulla versione di Keep On Loviing Me, brano del “collega” Otis Rush, un bello shuffle dal suono cristallino. Tra le 8 bonus, molte alternate takes, What I Have Done Wrong, due volte, I Just Want A Little Bit, Same Old Blues, Everything’s Gonna Be Alright, uno dei suoi classici, che era uscito come singolo per la Cobra, e i due inediti assoluti, Keep On Doin’ What You’re Doin’,altro brano di puro Chicago Blues, e Blues For Odie Payne, uno slow strumentale dove si apprezza tutta la tecnica sopraffina di Magic Sam e dei suoi eccellenti comprimari. Per chi ama il blues, ribadisco, indispensabile, ma tutti ci facciano un pensierino!

Bruno Conti

Dal Belgio Ancora Blues (Rock)! Blues Karloff – Light And Shade

blues karloff light and shade

Blues Karloff – Light And Shade – Blues Boulevard/Music Avenue/Ird

Prima di tutto vorrete sapere perché si chiamano Blues Karloff? Non lo so, ma potrei azzardare, forse perché praticano quell’arte ibrida dell’heavy blues-rock e quindi unito al nome di Boris Karloff, il primo celebre Frankenstein della storia del cinema, otteniamo questo “mostro” musicale dove il blues è il punto di partenza, ma quello di ispirazione, nelle loro parole, è il classico heavy rock delle band inizio anni ’70, come Mountain, Led Zeppelin, Jeff Beck Group, anche se lì siamo su ben altri livelli, poi quando si citano anche Yardbirds, Savoy Brown, i Fleetwood Mac di Peter Green, John Mayall e i suoi Bluesbreakers, mi sembra che entriamo più nel campo delle pie speranze. Comunque questi parrebbero i punti di riferimento. Anche se nel pedigree del principale chitarrista della band, tale Paul “Shorty” Van Camp, la principale nota di merito è quella di aver fatto parte dei Killer (senza la s), una delle principali band dell’heavy metal continentale.

Perché, ebbene sì, i nostri amici vengono dal Belgio (come il Guy Verlinde, molto più bravo, di cui si era parlato mesi fa http://discoclub.myblog.it/2015/07/08/belgio-ciclisti-anche-bluesmen-guy-verlinde-better-days-ahead/ ) e questo farebbe quasi pensare ad una scena locale. Nelle formazione della band (già al secondo album) tra i fondatori c’erano pure Fonzie Verdickt (forse esautorato a causa del nome di battesimo improbabile, scherzo, pare per problemi di salute e lavoro) e il batterista Georges Milikan: il cantante, sempre per i nomi quasi impronunciabili, è Alfie Falckenbach (ma essendo belga, per loro normale), presentato come un discepolo di Robert Plant, per il suo stile vocale (magari?!?), ed il repertorio, che nel primo album Ready For Judgement Day, pescava a piene mani dalle canzoni di Robert Johnson, Jimmy Reed, John Lee Hooker, Albert King, Muddy Waters e Howlin’ Wolf, riprese comunque nello stile caro a Gary Moore, altro beniamino di Van Camp, dopo la “conversione” al Blues https://www.youtube.com/watch?v=phyxPC0ANeQ .

Nel nuovo album le cover sono meno numerose, un Willie Dixon, un Jimmy Reed, un Bobby Womack e un pezzo di Tom Hambridge, che Buddy Guy, in tempi recenti, ha definito il “Willie Dixon” bianco, ma la maggiore fonte di curiosità è la presenza di un brano firmato Jagger-Richards Looking Tired, inciso nelle sessions per l’album Out Of Our Heads del 1965 e fino ad oggi mai pubblicato a livello ufficiale. Dopo avervi stordito con tutta questa messe di informazioni, la solita domanda che ci interessa è: ma sono bravi? Mah, detto che possiamo anche sopravvivere senza, partiamo proprio dall’interpretazione del pezzo degli Stones, un brano decisamente minore, giocato su sonorità acustiche e con un buon lavoro chitarristico, ma niente per cui stracciarsi le vesti. L’iniziale cover di I Ain’t Superstitious, che ricordiamo nella versione del Jeff Beck Group, è tiratissima, a tutto wah-wah, ma non mi sembra che il cantante, Falckenbach, possa turbare le notti di Plant, e neppure di Rod Stewart che la cantava su Truth. Close together è del buon blues-rock che non dispiacerà agli aficionados del genere, grazie alla chitarra di Van Camp, che è un discreto solista, ma come ce ne sono molti, e anche Love Doctor non brilla per originalità, pur se scritta da Hambridge; meglio lo slow blues Don’t Lie To Me, ma poi Take These Chains e la violenta I’m A Bluesman, a tempo di boogie e con doppia solista non sono così memorabili e All Over Now, che sarebbe la famosa It’s All Over Now di Bobby Womack, che facevano pure gli Stones, è una delle versioni più brutte che abbia mai sentito. In Blackout Blues sembrano gli Status Quo dopo una cura di steroidi, quindi non i migliori, e faccio fatica a ricordare i titoli degli altri brani, con la conclusiva Evil, che pur essendo quella di Willie Dixon scritta per Howlin’ Wolf, sembra più il pezzo omonimo dei Black Sabbath, ma peggio.

In definitiva un disco appena discreto, forse meno peggio di come l’ho descritto, ma se non siete in crisi di astinenza da rock-blues se ne può anche fare a meno

Bruno Conti