Prosegue La Storia Infinita Della Band Di Joe Camilleri, Sempre Una Garanzia. Black Sorrows – Citizen John

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Black Sorrows – Citizen John – Blue Rose Records/Ird

Album n° 21 per la band di Joe Camilleri, si chiama Citizen John e segue il valido album dello scorso anno Faithful Satellitehttps://discoclub.myblog.it/2017/02/01/l-ennesimo-capitolo-di-una-band-storica-australiana-black-sorrows-faithful-satellite/  : un ennesimo capitolo della saga dei Black Sorrows, iniziata all’incirca 35 anni fa con l’album Sonola. Ma per Camilleri, nelle sue varie incarnazioni, anche come Jo Jo Zep And The Falcons, The Revelators,  e sotto altri svariati pseudonimi, ci viene detto, e mi fido, che questo è il 49° album di una sterminata discografia. Il buon Joe, nato 70 anni fa a Malta, è diventato una delle leggende del rock australiano, in possesso di una voce che a tratti ricorda un riuscito incrocio tra quelle di Van Morrison, Elvis Costello e Graham Parker, e anche musicalmente viaggia su questa lunghezza d’onda, magari inserendo su una base rock pure elementi blues, soul e R&B, senza dimenticare una sorta di unità di intenti con Willy DeVille che è sempre stato un punto di riferimento per lo stile di Camilleri. Il nuovo album, co-prodotto da Joe con il fido John McCall, che è anche il tastierista della band, comprende una decina di nuove composizioni di Camilleri e Nick Smith, il suo paroliere abituale, e tre cover che dimostrano l’eclettismo della band australiana.

Partiamo proprio da queste ultime: abbiamo una bella rilettura della canzone di Nina Simone Do I Move You, un brano dall’album N.S. Sings The Blues, e quindi un classico slow della grande cantante nera, interpretato con grinta dai Black Sorrows che pongono l’accento su armonica, chitarra e piano, in questa versione solida ed elettrica. La scelta di un brano di Bob Dylan cade su una canzone tra le sue meno note, Silvio, ma Camilleri e soci rendono la canzone di Down In The Groove una vivace e galoppante roots song, con in evidenza la slide di Claude Carranza, voci di supporto pimpanti, tra cui quella di Sandy Keenan, e un impianto elettroacustico al quale organo ed acustiche donano un aura divertita e “paesana”. Sitting On Top On The World di solito viene accostata a Howlin’ Wolf, ma in effetti viene dalla tradizione più antica di inizio ‘900 del blues e la versione della band  si rifà a questo canone sonoro, intensa e suggestiva, ma anche intima e gentile, con la bella e profonda voce di Camilleri in primo piano e un flauto che fa le veci dell’armonica. Tra le canzoni originali l’iniziale Wedsneday’s Child  è la tipica composizione alla Camilleri, dal chiaro substrato blues, con chitarre e tastiere, nonché le voci di supporto, guidate dalla Keenan, che si confrontano con la scura voce del leader in uno stile che rimanda appunto al DeVille più bluesy https://www.youtube.com/watch?v=n7oVa72_OTU ; non può certo mancare una delle classiche ed accorate ballate di impianto soul tanto care a Camilleri, e Lover I Surrender ne conferma la classe https://www.youtube.com/watch?v=X5APygIwD_Q .

Messiah ha echi gospel, che al tipico afflato tra soul e blues delle sue canzoni più potenti, affianca un eccellente lavoro di Carranza alla solista. Storm The Bastille, con il violino struggente di Xani Kolac e il mandolino di Kerryn Tolhurst che affiancano la slide di Carranza è un altro ottimo esempio del canzoniere del bravo Joe, che poi fa ricorso all’uso dei fiati per un’altra bella ballata come Way Below The Heavens, dove una tromba struggente affianca il violino, mentre un coro sontuoso avvolge con dolcezza lo spirito quasi celtic rock e morrisoniano di questa  canzone https://www.youtube.com/watch?v=yOZZnCe5uUg . Citizen John è uno swamp blues con uso fiati, tra Chris Rea e Tony Joe White, con il call and response di Camilleri e la Keenan ad insaporire il menu, dove spiccano un liquido piano elettrico e un bel assolo del sax di Wilbur Wilde. Una diversa sezione fiati, The Horns Of Leroy, fa la sua apparizione per un tuffo nel divertente jazz anni ’30 sbucato da qualche fumoso locale di New Orleans dell’era della Depressione, per la deliziosa Brother Moses Sister Mae, con la notturna e soffusa Nothin’ But The Blues, che in modo felpato ci fa apprezzare il lato più intimo del nostro, che poi va di latin rock molto alla DeVille nella mossa e coinvolgente Month Of Sundays  e poi nel rock più classico della brillante Worlds Away, sempre con quel retrogusto blues chitarristico che non manca mai nella sua canzoni migliori, e in questo disco ce ne sono parecchie. Una garanzia.

Bruno Conti

L’ Ennesimo Capitolo Di Una Band “Storica” Australiana. Black Sorrows – Faithful Satellite

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Black Sorrows – Faithful Satellite – Rootsy Music / IRD

Chi ci segue su questo blog avrà notato il mio “innamoramento musicale” per gli artisti irlandesi in generale, e anche altrettanta “passione” per tutto quello che ci arriva dal continente australiano: per cui in un ipotetico podio composto dai migliori gruppi Down Under di sempre (a mio parere personale) ci metto in primis i Triffids, i Cold Chisel di Jimmy Barnes, e sicuramente i Black Sorrows di Joe Camilleri (ne ho parlato ampiamente e più volte su queste pagine recensendo sia Crooked Little Thoughts che Certified Blue, e Endless Sleep/One More Time  http://discoclub.myblog.it/2015/10/04/il-jukebox-personale-joe-camilleri-black-sorrows-endless-sleep/). Questo nuovo lavoro Faithful Satellie è il ventesimo album dei Black Sorrows, e come al solito il buon Joe (chitarre e sax, oltre naturalmente alla voce)) porta nei Woodstock Studios di Melbourne il solito cast stellare di musicisti Aussie, composto da Claude Carranza alle chitarre, John McAll alle tastiere, Mark Gray al basso, Angus Burchall alla batteria, con l’aggiunta di validi “turnisti” del posto a comporre una eccellente sezione fiati, con l’abituale supporto di strumenti come violino, fisarmonica, mandolino e banjo, e non potevano certo mancare le bravissime coriste storiche Vika e Linda Bull, mentre tutte le canzoni sono state composte da Camilleri con il suo paroliere di fiducia Nick Smith.

Per chi non conoscesse il gruppo, la musica dei Black Sorrows attraversa vari generi, a partire dal rock, ma anche bluegrass e country in questo disco, blues, rockabilly, reggae, gospel, soul, e negli ultimi album pure leggere impronte jazz, comunque l’iniziale Cold Grey Moon è davvero spiazzante, si apre con un introduzione di violini da camera, e passa più di un minuto prima che la calda voce di Camilleri si apra in una solenne ballata (marchio di fabbrica del gruppo) con l’accompagnamento della tromba di Travis Woods, per poi passare subito ad atmosfere anni sessanta grazie al rockabilly-jazz di Raise Your Hands (dove è impossibile non muovere il piedino), a cui fa seguito un’altra dolcissima ballata in perfetto stile “messicano” come You Were Never Mine (dove Joe non fa rimpiangere il suo “mentore” Van Morrison).

La bravura dei musicisti si manifesta nel country-honky-tonk di Fix My Bail (con la partecipazione dei Davidson Brothers), mentre la seguente It Ain’t Ever Gonna Happen è un brano blues (con la voce seducente di Sandii Keenan) degno del miglior Willy DeVille; passando poi per le cadenze danzanti a tempo di valzer di una “agreste” Winter Rose, di nuovo con i Davidson Brothers. La seconda parte del disco riparte in modo brillante con l’intrigante “swinging rock” di I Love You Anyhow, mentre Into Twilight mette in evidenza i violini ed anche il supporto delle coriste, ed è seguita da una buona canzone rock come Carolina https://www.youtube.com/watch?v=nVbJcXLQQHk , mentre un brano quasi reggae come Love Is On Its Way, porta l’ascoltatore verso suoni cari ai dimenticati Kid Creole And The Coconuts, ma non ci fa impazzire, andando infine  a chiudere con la musicabilità rocciosa di Land Of The Dead, e una acida e spettrale Beat Nightmare.

Joe Camilleri e i suoi Black Sorrows nonostante vari cambi di line-up avvenuti nei loro 30 anni di vita, hanno conquistato un posto speciale nel cuore di molti amanti della buona musica, con brani che sono diventati dei piccoli classici nel panorama musicale australiano, e anche in questo ultimo Faithful Satellite (dove è difficile trovare un difetto, forse il pezzo reggae), passano con disinvoltura e grande bravura (come detto in precedenza) dal folk al blues, dal funky, appunto al reggae, dal soul al gospel, fino ad arrivare alle ballate sognanti e seducenti che sono sempre state il valore aggiunto del gruppo. Dopo una carriera lunga più di 50 anni, Camilleri continua semplicemente a fare quello che gli riesce meglio, scrivere e far conoscere la sua musica, una musica di qualità che lo consacra una “icona” al pari, a mio parere, di Nick Cave, Paul Kelly, Jimmy Barnes, Archie Roach, e altri musicisti del continente australiano. Consigliato.!

Tino Montanari

*NDB Per la cronaca, la versione australiana del CD, uscita a settembre dello scorso anno, ha una sequenza dei brani completamente diversa dalla edizione europea.

Sangue e Sudore, Rabbia e Passione Sul Palco Di Un Locale “Mitico”! Joe Grushecky & The Houserockers – American Babylon Live At The Stone Pony

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Joe Grushecky & The Houserockers – American Babylon Live At The Stone Pony – Self-released

A distanza di vent’anni dall’uscita di American Babylon (95), un album bello e ben fatto, con il pregio o il difetto (dipende da come si guardano le cose) che sembrava un disco di Springsteen cantato da un altro (infatti era prodotto dal Boss), Joe Grushecky e i suoi fidati Houserockers tornano ad Asbury Park, New Jersey, nel mitico club Stone Pony, per rivisitare “la pietra miliare” della propria carriera, in due torride serate svoltasi il 23 e 24 Ottobre del 2015. Davanti ad un pubblico entusiasta e caloroso, il buon Grushecky sale sul palco con l’attuale line-up della sua band storica. composta da Art Nardini al basso, Joffo Simmons alla batteria, Joe Pelesky alle tastiere, Danny Gochnour alla chitarra e mandolino, il bravissimo Eddie Manion al sax, e il “figlio d’arte”, ma vero, Johnny Grushecky, che si alterna alle chitarre e percussioni, per una performance di brani “muscolosi” che a tratti non fanno rimpiangere la mitica E-Street Band dei tempi d’oro, dell’amico fraterno Bruce.

La serata parte con il ritmo indiavolato della splendida Dark And Bloody Ground  dove le chitarre fanno scintille, seguita da una Chain Smokin’ che sembra quasi uscita con la carta carbone da un disco del Boss, dalla ballatona Never Be Enough Time con robusta sezione ritmica, per poi cambiare subito registro con la “rollingstoniana” American Babylon, e ancora dalla dominante Labor Of Love, sorretta da una batteria “granitica” e da un bel gioco di chitarre e tastiere, e chiudere alla grande la prima parte con il rock urbano di una “tirata” What Did You Do In The War. Dopo un paio di birre (forse un po’ di più) ghiacciate, si riparte con il rock venato country di Homestead, con mandolino, armonica e chitarre acustiche in gran spolvero (questa canzone e il brano iniziale portano entrambe la firma di Bruce Springsteen), mentre con Comin’ Down Maria si viaggia dalle parti del Messico, con il bel controcanto di Reagan Richards (nel disco di studio dava la voce Patti Scialfa, moglie del Boss), a cui fa seguito il meraviglioso talkin’ blues alla Willy DeVille di Talk Show con il lancinante sax di Eddie Manion in evidenza, per poi alzare ulteriormente il ritmo con No Strings Attached, una pausa per l’arioso valzer agreste di Billy’s Waltz, e a chiudere la rivisitazione dell’album arriva il blue-collar rock poderoso di Only Lovers Left Alive, dove gli Houserockers (un tempo Iron City Houserockers), dimostrano di essere ancora oggi una delle migliori “boogie-bar band” d’America.

Classico “working class hero” di vecchio stampo, Joe Grushecky è nato e cresciuto all’ombra di Bob Seger e Bruce Springsteen, ha sempre fatto dischi di buona fattura (anche se con alti e bassi) con canzoni urbane dal forte tessuto elettrico, suonate e cantate con fierezza da un musicista onesto che non si è mai venduto, e animato da uno spirito “operaio” ha cantato la stessa America del Boss, supplendo alla mancanza del genio di Bruce, con un rock realistico e vissuto, che si rivolgeva in particolare ad un seguito di “zoccolo duro” che usciva dalle fabbriche di Pittsburgh.

Come in ogni esibizione dal vivo, quando salgono sul palco Joe Grushecky e i suoi Houserockers danno il meglio di loro stessi, e anche questo American Babylon Live At The Stone Pony ne è l’ennesima conferma, con una manciata di belle canzoni, suonate in perfetto rock stradaiolo, album che piacerà a chi segue da tempo Grushecky, ai fans di Springsteen, e non solo a quelli. Imperdibile per rientra in queste categorie!

NDT: Purtroppo il CD non è di facile reperibilità, ma se vi “smazzate” sulle piattaforme in rete o sul suo sito, è possibile venirne in possesso.

Tino Montanari