Purtroppo No… Robbie Robertson – How To Become Clairvoyant

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Robbie Robertson – How To Become Clairvoyant – Fontana/Universal – 2CD Deluxe with 6 bonus tracks

Nel titolo del Post mi rispondo e gli rispondo: nell’anticipazione dell’album di qualche mese fa su questo Blog concludevo con “speriamo bene” e in parte è più no che sì, così pure come sono costretto a dirgli che no, il nostro amico Robbie Robertson non è riuscito a diventare “Chiaroveggente”, come da titolo dell’album.

Espletate queste formalità aggiungo che l’album non è comunque per niente brutto anche se effettivamente non è straordinario e non c’entra niente quella leggenda metropolitana del “troppo lungo”, se avesse qualche brano in meno sarebbe perfetto! Ma che cacchio vuol dire, se un dischetto, un CD può durare fino ad 80 minuti e tu hai scritto parecchio materiale non ci vedo niente di male a sfruttare la durata del supporto, le canzoni belle rimangono belle anche se togli quelle cosiddette brutte e le altre non deturpano la qualità delle migliori. Vogliamo considerarlo un regalo? Ho scritto dieci canzoni nuove molto belle, poi avevo anche queste altre? Non ve le faccio pagare di più, al limite se non vi piacciono usate il tasto skip e le saltate! Volete considerarlo un album “bello” con in omaggio un CD bonus di brani meno belli? Comunque li consideriate secondo me il fattore della durata non c’entra un tubazzo con la qualità di un disco a meno che non sia un doppio, un triplo, un quadruplo e te lo fanno pagare una barca di soldi, allora ti girano le balle. Per i vecchi dischi in vinile era diverso, era difficile superare anche per motivi tecnici e qualitativi i 40 minuti quindi i 10 canonici brani erano spesso, ma non sempre, la regola e se “sprecavi” tempo e spazio il risultato finale ne risentiva.  Fine della divagazione.

Comunque, se proprio vogliamo, se ci fosse qualche canzone in meno sarebbe meglio, ma nel senso che se alcune fossero più belle saremmo tutti più contenti. Qui lo dico e qui lo nego, ma Robbie Robertson ha fatto quattro album da solista e se li metti insieme tutti fai fatica a farne “un” album buono. Anche quelli con gli indiani nativi non mi hanno mai fatto impazzire nonostante la moda del momento e gli altri anche con tutti gli ospiti schierati non erano questi grandi capolavori. E questo lo dice uno che considera Robbie Robertson, leader della Band, chitarrista e compositore, uno dei più grandi autori di canzoni della storia della musica rock americana: uno che ha scritto The Weight, The Night They Drove Old Dixie Down, Up On Cripple Creek, To Kingdom Come, Rag mama Rag, The Unfaithful Servant e decine di altre è lì alla pari con Bob Dylan come narratore della grande tradizione musicale americana, uno scrittore di canzoni dal talento immenso capace in pochi minuti di raccontare delle storie che ad altri avrebbero richiesto libri interi. Ma, c’è un ma: Robertson ha avuto la fortuna di incontrare musicisti come Levon Helm, Rick Danko, Richard Manuel e Garth Hudson ovvero la Band che sono stati capaci interpretare questi brani in un modo sublime. Perchè, come avrete notato, nella lista dei suoi mestieri” non c’è la voce cantante!

Anche il suo grande amico Eric Clapton all’inizio non era un cantante ma con applicazione e studio lo è diventato mentre la voce di Robertson rimane questo strumento indefinito, adeguato nei momenti migliori ma spesso insipido. Certo la chitarra e la composizione hanno coperto questo difetto per anni ma ora che si incaponisce a voler cantare nei suoi album da solista non sempre i risultati sono all’altezza. Certo che quattro album in più di trent’anni non costituiscono questo grande sforzo e più di tredici anni dall’ultimo Contact From The Underworld Of redboy (bruttarello, vogliamo dirlo). L’attesa era notevole ma già alcuni indizi non mi avevano proprio entusiasmato: la scelta del co-produttore, tale Marius De Vries che tra i suoi clienti può vantare Sugarcubes, Cathy Dennis, Soup dragons, Melanie C, Darren Hayes, Sugababes, Madonna e recentemente Pet Shop Boys oltre ad un passato di tastierista con i Blow Monkeys, non sembra indicare uno spirito affine con Robbie Robertson e in alcuni brani questo “modernismo” fa un po’ a pugni con la musica del canadese.

Tra i fattori positivi c’è la chitarra (non sempre) ma comunque: tanta e tanti chitarristi, oltre a Robertson stesso, Eric Clapton in sette brani, Tom Morello e Robert Randolph, non sempre al meglio delle loro capacità ma che aggiungono tessiture sonore inconsuete ai brani. Pino Palladino al basso e Ian Thomas alla batteria sono una sezione ritmica di rispetto anche se spesso sono “coperti” dalle sonorità sintetiche di De Vries. Moltissimi vocalist aggiunti tra cui spiccano le voci di Angela McCluskey e Rocco De Luca. E, purtroppo, anche tante tastiere elettroniche a cura degli stessi Robertson e De Vries, con l’organo di Stevie Winwood che di tanto di tanto dona un tocco di umanità alle canzoni.

Per finire, le canzoni: parliamo di quelle belle o di tutte? Facciamo un misto: l’iniziale Straight Down The Line con le particolari sonorità della pedal steel di Robert Randolph e della solista di Morello è un inizio più che accettabile.

La successiva When The Night Was Young è proprio bella, un classico brano di Robbie Robertson che la canta anche bene favorito dal controcanto della McCluskey, d’altronde la classe non è acqua. He Don’t Live Here Anymore non è fantastica con quella batteria dal suono filtrato e ritmi elettronici ma viene riabilitata in parte, dal testo e dagli assoli delle chitarre di Clapton e Robertson (ma dal vivo da Letterman con i Dawes è decisamente bella).

The Right Mistake, vagamente modern soul non è male, una trama melodica ancora abbellita dagli interventi vocali dei coristi e dall’organo di Winwood, può andare. This Is Where I Get Off è una delle migliori, forse perché racconta il suo glorioso passato con quella Band, lenta e avvolgente cantata da Danko, Manuel o Levon Helm sarebbe stata fantastica ma anche nella versione Robertson rimane una bella canzone.

Anche la successiva Fear Of Falling è una bella canzone, vagamente bluesata, cantata a due voci da Eric Clapton, che apre e Robbie Robertson che lo segue con diligenza, non male l’organo di Winwood che scalda i cuori. Buona anche She’s Not Mine che conclude la trilogia delle partecipazioni di Winwood che non a caso coincide con alcuni dei brani migliori del disco.

Madame X è lo strumentale che vede la partecipazione alle “tessiture” di Trent Reznor ma sarà la chitarra acustica di Clapton, saranno i ritmi tranquilli ma mi ha ricordato molto i brani di Santo & Johnny o del Guardiano del faro. Axman con le chitarre di Morello e Robertson a duellare mi pare bruttarella, ciofega si può dire? Torna l’acustica di Clapton per Won’t Be Back ma non è che lo cose migliorino poi molto nonostante la presenza dei fiati, un discreto lentone.

La title-track How To Become Clairvoyant ancora con Robert Randolph dovrebbe essere il brano trainante, il singolo ed in effetti è piacevole ed orecchiabile senza essere “streordinaria”.

Conclude lo strumentale Tango For Django, un omaggio al grande chitarrista belga, con fisarmonica, violino e una sezione archi, piacevole ma niente di memorabile come gran parte dell’album che ha le sue “luci” ma anche molte ombre.

Le sei bonus tracks sono cinque versioni demo di brani già presenti nel disco che quasi mi fanno rimpiangere la produzione di De Vries e un inedito Houdini che avrebbe fatto la sua bella figura nell’album, meglio di molti altri brani. Comunque ve lo fanno pagare come un singolo quindi vale le pena comunque di avere la versione doppia (e all’inizio solo quella troverete).

Fate Vobis, applico il mio infallibile sistema Ponzio Pilato e me ne lavo le mani, anche se il mio parere (appunto “Veltronamente anche se”) l’ho dato.

Bruno Conti