Una Riuscita Miscela di “Black Ad White”! Band Of Heathens – Top Hat Crown & The Clapmaster’s Son

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The Band Of Heathens – Top Hat Crown & The Clapmaster’s Son – Blue Rose Records

Non mi riferisco al whisky nel titolo, ovviamente, ma al riuscito cocktail tra musica “nera” e “bianca”, tra rock e soul, funky e country&pop, New Orleans e Austin, Texas la loro città. Musica delle radici e gusto per il ritornello pop, slide e soliste infervorate ma anche tastiere a profusione (di quelle giuste). Non guasta il fatto di avere nella propria formazione tre vocalist che sono anche autori (tutti e tre hanno le spalle una carriera come cantautori con due album ciascuno, pubblicati prima di unire le forze nei Band Of Heathens). Dal 2007 a oggi hanno pubblicato quattro album, due in studio e due dal vivo, ma mi sembra che il loro raggio d’azione, rimanendo in quell’ambito sonoro che per comodità si definisce Americana, abbia aggiunto nuove frecce al loro arco. Il country-rock energico e variato e tendente al southern nei dischi live ha aggiunto una abbondante dose di musica nera, sia soul o errebi o blues che unito allo spirito profondamente rock del disco fa sì che questo Top Hat Crown & The Clapmaster’s Son ricordi molto gruppi come i Black Crowes (e di conseguenza i loro modelli iniziali, Stones e Faces), ma anche il sound universale della Band e quello dei Little Feat, tutti gruppi che hanno sempre avuto uno spettro sonoro assai ampio e variegato. Sicuramente aiuta anche il fatto che il produttore sia George Reiff che ha avuto tra i suoi clienti precedenti Chris Robinson (Black Crowes) e le  Court Yard Hounds.

Ma il resto lo fa la crescita esponenziale della qualità e della varietà delle canzoni: dal’iniziale Medicine man che al battito di una diavoleria elettronica sostituisce immediatamente il calore di una batteria percossa in modo funky da un essere umano, Gordy Quist l’autore del brano si è avvalso dell’aiuto di due ottimi corregionali, Adam Carroll e Owen Temple, per creare un brano che tra piano elettrico, slide e chitarre varie, si avvale anche dell’intreccio sonoro delle voci degli altri componenti per un ibrido sonoro che oscilla tra rock e black music. Should Have Known firmata anche da Colin Brooks e Ed Jurdi, in bilico tra chitarre e piano acustico, un’aria da sagra paesana e quel carattere ribaldo delle canzoni dei Faces di Rod Stewart dell’epoca d’oro ha anche tocchi blues (l’armonica e la slide) e un finale gospel con un bel crescendo vocale nel finale (nel gruppo cantano tutti, anche il bassista Seth Whitney e il batterista John Chipman).

Il terzo brano se non si chiamasse già Enough, potrebbe intitolarsi, a mò di film, Everybody Got Funky, con il piano elettrico e le chitarre choppate a evocare profumi di Little Feat e Sly & the Family Stone, con la voce piena di negritudine di Colin Brooks che domina le operazioni.

Polaroid è una bella canzone scritta in omaggio della macchina fotografica che da poco ci ha lasciato, come la Kodachrome dei tempi di Paul Simon, unisce accenti pop alla Beatles a un flavour country accentuato dal banjo di Jurdi che le regala quell’aria scanzonata tipica dei tempi che furono. Nothing To See Here unisce ancora questo amore per il pop d’autore ( il post-Beatles di Big Star e Badfinger) con chiare e limpide armonie vocali che ricordano i migliori Jayhawks. The other broadway con il cantato pieno di “anima” di Jurdi e l’andatura molto ritmata, il call and response del gospel che si unisce al piano e organo Gumbo di New Orleans, una bella spruzzata di fiati e una bella melodia che non guasta, rievoca i fasti della Band, forse il brano migliore di tutto il lotto in offerta. Ancora Funky anzi super-funky nella irresistibile I Ain’t Running, con Jurdi che attizza gli altri a estrarre dal cilindrone della copertina un falsetto micidiale in puro stile seventies, anche se non manca una breve citazione Beatlesiana nei coretti centrali prima di un assolo di chitarra acidissimo e distorto e un finale in overdrive ritmico. Gravity espande ulteriormente il fronte sonoro verso territori cari ai Little Feat, con intrecci raffinati di chitarre e tastiere nella migliore tradizione della band di Lowell George, con quei “bianchi e neri” tipici dei Feat, percussioni in libertà e un sound denso e raffinato.

Free Again, firmata dal solo Jurdi, con le sue citazioni del Golfo del Messico e la sua andatura tipicamente texana si riallaccia agli album precedenti dei Band Of Heathens ed è comunque un brano che era già presente da tempo nel repertorio Live del gruppo, divertente e scanzonata. Hurricane (non è quella di Young perché manca un Like e neppure quella di Dylan, perché manca un violino) è invece proprio il brano scritto da Keith Stegall con Stewart Harris e Thom Schuyler che Levon Helm cantava divinamente nel suo American Son e che gli Heathens ci restituiscono in una versione possente e sofferta, con armonie vocali da leccarsi i baffi, chitarre slide insinuanti e un piglio sudista che nemmemo i Black Crowes (i migliori forse sì, ma i migliori però), altro brano straordinario.

Gris Gris Satchel nonostante il titolo non è una incursione nei territori della Louisiana (almeno musicalmente, perchè nel testo cita il Lago Pontchartrain già presente nei versi della precedente Hurricane): si tratta di una bella ballata country-folk acustica, tipica del repertorio del gruppo, con le solite armonie vocali eccellenti e un arrangiamento scarno e raffinato al tempo stesso. Conclude Motherland un brano che inizia coralmente in un modo non dissimile da certe canzoni di Stills con i CSN e poi diventa una bella cavalcata blues-rock tra Blind Faith e i furori slide di Little Feat e Black Crowes.

Che vi devo dire, so’ bravi sti ragazzi! (Lo so sembro Boldi quando fa i romani). Comunque il disco è bello a prescindere.

Bruno Conti

Una Riuscita Miscela di “Black Ad White”! Band Of Heathens – Top Hat Crown & The Clapmaster’s Sonultima modifica: 2011-03-06T19:01:00+01:00da bruno_conti
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