Anche In Versione Principalmente Acustica O In Solitaria, Rimane Un Gran Chitarrista. Lee Ritenour – Dreamcatcher

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Lee Ritenour – Dreamcatcher – The Players Club/Mascot Label Group

Diciamo che negli ultimi 30 anni (con l’eccezione del bellissimo album del 2010 Six String Therapy, ricchissimo di ospiti https://discoclub.myblog.it/2010/07/13/una-festa-per-gli-amici-della-chitarra-lee-ritenour-6-string/ ) avevo perso contatto con la musica di Lee Ritenour, anche se mi pare di avere recensito per il Busca anche un disco di Rit ancora negli anni ‘80. Prima un paladino del jazz nei suoi anni formativi, poi sessionman di lusso già da giovanissimo (come ricorda lui stesso uno dei suoi primi lavori, a 16 anni, fu con i Mamas And Papas), suonando con chiunque nel corso degli anni, tra jazz-rock e fusion, che sono rimaste le sue passioni, passando per i Pink Floyd di The Wall, e moltissimi artisti diciamo sul lato “morbido” della musica, totalizzando centinaia di collaborazioni, uno dei chitarristi più richiesti. Già a metà anni ‘70 ha iniziato una carriera solista che lo ha portato a registrare più di 30 dischi, oltre a 3 album con i Fourplay, sempre con il suo stile ricercato, dove confluiscono le molteplici influenze maturate negli anni, si diceva del jazz, ma anche funky, fusion e il cosiddetto smooth jazz, mellifluo e morbido, che ha molti estimatori, ma non mi fa impazzire.

Tecnica prodigiosa, grande gusto, ma un suono spesso un po’ troppo turgido e leccato, gli ultimi album registrati per la Concord nella prima parte della scorsa decade erano una sorta di ripasso delle puntate precedenti e album ricchi di ospiti. Dal 2015 non pubblicava più nulla, a causa di varie vicissitudini, prima l’incendio che ha distrutto la sua casa di Malibu, incluso il suo studio casalingo e quasi tutte le sue chitarre e amplificatori, poi, una settimana dopo l’incendio, un intervento alla valvola aortica, ma lentamente ha ripreso i fili della sua carriera, preparando il materiale per il nuovo album, fino allo scoppio del coronavirus: a questo punto ha deciso di fare qualcosa mai fatto prima, un album registrato in solitaria, solo lui, sette chitarre (va bene la sobrietà, ma evidentemente era il minimo sindacale), un’interfaccia di computer, e nel suo piccolo nuovo studio ha iniziato questo Dreamcatcher. Un po’ come è stato per l’ultimo Al DiMeola, dove però veniva rivisitata la musica dei Beatles https://discoclub.myblog.it/2020/03/15/anche-fatti-bene-da-al-di-meola-i-beatles-sono-pur-sempre-i-beatles-across-the-universe/ , Ritenour ha inciso tutte le parti, con varie stratificazioni di chitarre, andando a scovare vari generi musicali, molti raramente o mai esplorati nei suoi dischi passati, in un disco completamente strumentale.

Si parte con la title track, un brano dal profumo classicheggiante, con la nylon guitar accarezzata dolcemente da Lee, che fa sfoggio di grande tecnica all’acustica, comunque circondata da sovraincisioni varie che la rendono affascinante, Charleston, dedicata alla città del South Carolina, al centro di disordini e tensioni razziali per il Black Lives Matter, che Lee sostiene, anche se vuole ricordare pure la città com’era in occasione di altre sue visite nel passato, accenti più jazz, tocchi sudisti, per un brano suonato all’elettrica, raffinato ma anche più carnale. The Lighthouse fa riferimento ad un vecchio locale dove nella sua gioventù andava a vedere Wes Montgomery, una delle sue massime influenze, al quale ha dedicato un intero album in passato, brano dalla struttura più complessa, con l’uso di alcune percussioni e incentrato sulla Les Paul del nostro, che poi rivisita con Morning Glory Jam, un brano del 1977 del suo periodo fusion, qui più intimo e raccolto, per quanto sempre intricato. Starlight è addirittura un brano folk, solenne e sereno, nel solco dei grandi chitarristi acustici, Abbott Kinney è un famoso boulevard di Venice, California, che durante il Covid ha dovuto chiudere, nelle vicinanze del quale Lee ha all’improvviso udito il rombo di una elettrica volume 10, che ora nel disco riproduce con voluttà rock e anche sferzate di slide, che si stemperano nel finale.

Couldn’t Help Myself è una sorta di festival del multitracking, chitarre acustiche, elettriche, basso, percussioni, un sound tra il Pat Metheny Group e certo rock progressivo raffinato  https://www.youtube.com/watch?v=s4MAJPR2ubo, molto piacevole anche la soffusa For DG, dedicata all’amico Dave Grusin, melodiosa e sinuosa, con Via Verde, un brano acustico che ricorda certe sonorità della Windham Hill, e anche Low Slow indugia su timbriche più tenui e malinconiche, con la danzante Storyteller che ha un retrogusto brasiliano e la conclusiva 2020, presentata come una sinfonia in tre parti, brano dal deciso mood jazzato che mette il suggello ad un ottimo disco, consigliato agli appassionati di chitarra.

Bruno Conti

Il “Solito” Popa Chubby, E Basta -The Catfish

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Popa Chubby – The Catfish – earMUSIC/Edel

Il “Pesce gatto” in un certo senso è il re dei pesci di acqua dolce, soprattutto dei fiumi e dei laghi americani, ma è anche una delle figure ricorrenti in alcune delle iconografie classiche del Blues, e per Popa Chubby che si è autoproclamato “The King Of The New York City Blues” era quasi inevitabile che prima o poi si arrivasse a questo titolo. E il nostro amico Ted Horowitz lo fa in quello che è il suo esordio per una nuova etichetta discografica, la earMUSIC, che si avvicenda alla Dixiefrog e alla Blind Pig, oltre alla Provogue che per un paio di album aveva distribuito i prodotti dell’artista americano. The Catfish arriva dopo il buon doppio dal vivo dello scorso anno Big, Bad and Beautiful ed il precedente I’m Feelin’ Lucky (The Blues According To Popa Chubby), un album dai risultati altalenanti almeno per il sottoscritto, dopo le buone prove per la Provogue. Devo dire che ad un primo ascolto questo album non mi aveva convinto del tutto, ma poi risentito a volumi consoni, cioè alti, tutto comincia, almeno nella prima parte, ad assumere un senso: dalla scarica di adrenalina del vigoroso funky-blues-rock dell’iniziale Going Downtown, con wah-wah a tutta manetta e la sezione ritmica Matt Lapham, basso e Dave Moore, batteria che ci dà dentro di brutto, all’altrettanto virulenta Good Thing che qualcuno ha voluto accostare al funky di Prince, ma secondo chi scrive si avvicina più a quello classico di Sly & Family Stone o al limite dei Parliament/Funkadelic, con decise galoppate della solista del Popa che maltratta di gusto la sua chitarra, ben coadiuvato anche dal piano del bravo tastierista Dave Keyes.

Anche la versione reggae e strumentale del famoso classico degli Everly BrothersBye Bye Love al primo giro non mi aveva acchiappato subito, mi era parsa pacchiana, ma ai giusti volumi si gusta il suono rotondo e corposo del basso, le accelerazioni della batteria e soprattutto della solista di Popa Chubby che si diverte un mondo a rifare questa piccola perla del primo rock. Cry Till It’s A Dull Ache ha qualche retrogusto del suono Muscle Shoals che usciva dai dischi soul della Memphis dell’epoca dorata, mista alle solite energiche folate del blues chitarristico del musicista newyorkese, ben sostenuto anche dalle tastiere di Keyes che in tutto il disco aggiungono piccole coloriture extra al solito sound da power trio. In Wes Is More il nostro amico addirittura si cimenta con il jazz after hours del grande Wes Montgomery, in un brano felpato ed inconsueto dove si apprezza tutta la perizia tecnica di Chubby e soci. Motorhead Saved My Life è un brano “duretto” anziché no (anche se non come potrebbe far pensare il titolo) dove Horowitz rende omaggio ad uno degli “eroi” musicali” della sua formazione musicale giovanile, Lemmy, già coverizzato in passato con una versione di Ace Of Spades che era su The Fight Is On, e qui trattato con un impeto più garage che metal, per quanto energico.

Il brano migliore di questo The Catfish è probabilmente un intenso slow intitolato Blues For Charlie, dove Popa Chubby rende omaggio alle vittime degli attentati di Parigi, capitale di quella che è ormai diventata la sua seconda patria, la Francia, il pezzo è splendido, uno strumentale intenso e lancinante, dove il nostro amico esplora con grande tecnica e feeling il manico delle sue chitarre (qui raddoppiate) per una delle migliori performances della sua carriera discografica, veramente un grande blues. Dirty Diesel è un onesto pezzo rock con qualche deriva hendrixiana, quello più selvaggio dei singoli iniziali, anche se da quelle parti eravamo su un altro pianeta, ma l’amico si impegna e poi ci stupisce in uno strano urban jazz quasi Davisiano, dove la figlia Tipitina è impegnata alla tromba con la sordina, in quello che è un esperimento riuscito a metà, una fusione tra hip-hop e jazz che non mi convince del tutto. Last Time Blues è un piacevole blues con uso di organo, che non resterà negli annali della storia del genere, mentre la title-track racconta la storia del re del fiume, il Pesce gatto, con un brano dal vago sentore southern, anche in questo caso buono ma non memorabile. Il finale è affidato ad una cover acustica di C’Mon In My Kitchen, dove Popa Chubby si esibisce al dobro, ben supportato dal piano di Keyes buona versione ma anche in questo caso niente per cui strapparsi le vesti. Insomma, per riassumere, il disco parte molto bene, ha alcune punte di eccellenza e poi si smorza un po’ nel finale, ma nel complesso è onesto e positivo, il “solito Popa Chubby (vedasi titolo del Post sugli Stones)!

Bruno Conti