Taj Mahal – Un “Monumento” Della Musica Nera. Parte II

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Seconda Parte.

Volendo, e potendo, a fatica e cercando con pazienza, si dovrebbe trovare ancora in giro il box The Complete Columbia Albums Collection – 16 CD – **** uscito nel 2013, raccoglie l’opera omnia del primo periodo, con in più due CD extra, The Hidden Treasures Of Taj Mahal, in studio e un formidabile Live At the Royal Albert Hall April 18 1970, ancora con Jesse Ed Davis alla chitarra, che quasi da soli varrebbero il prezzo, se già non ci fosse tutto il ben di Dio degli album ufficiali, cercatelo, ne vale la pena, in rete si trova ancora abbastanza facilmente, e anche il doppio si trova separatamente se avete già tutti gli altri CD.

1977-1997 Gli Anni Del Vorrei Fare Di Tutto, Ma Non Sempre Tutto Funziona.

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Anzi direi che non si salva molto di questo periodo, vediamo cosa.

Brothers_Soundtrack

Dei tre album usciti su Warner tra il 1977 e il 1978 nessuno è particolarmente memorabile, forse il migliore è la colonna sonora di Brothers ***. Più interessante, ma introvabile Live & Direct *** registrato e pubblicato nel 1979. Per il resto negli anni ‘80 ci sono svariati dischi di canzoni per bambini e Taj – Gramavision uscito nel 1987, bella la copertina di Robert Mapplethorpe, ma per il resto è notte fonda.

Dancing_the_Blues

Like Never Before – 1991 Private *** è meglio, segnali di vita, ma se consideriamo che la migliore canzone è una ripresa di Take A Giant Step non ci siamo ancora. Buono anche Dancing The Blues – 1993 Private *** se non altro perché nel disco appaiono Bob Glaub, Richie Hayward, Etta James, Bill Payne, Ian MacLagan, e ci sono belle versioni di That’s How Strong My Love Is, Mocking Bird, Sitting On Top Of The World, I’m Ready. Da segnalare Mumtaz Mahal – 1995 Water Lily Acustics *** il disco con i due musicisti indiani N. Ravirikan e V.M. Bhatt, collaboratori anche di Ry Cooder.

Phantom_Blues

E pure Phantom Blues – 1996 Rca Victor *** non è niente male, anche qui c’è una serie di ospiti impressionante: Bonnie Raitt, Eric Clapton, Mike Campbell, David Hidalgo, Jon Cleary, tanto per citarne solo alcuni, produce John Porter, che suona anche la chitarra e notevole anche An Evening Of Acoustic Music – 1994 Ruf Records ***1/2 registrato in Germania nel 1994, che dimostra che le sue qualità di performer sono intatte.

Señor_Blues

Il migliore di questo periodo è peraltro Senor Blues – 1997 **** che lo riporta ai fasti del passato, tanto che vince il premio come miglior disco di Blues Contemporaneo alla 40a edizione dei Grammy (una rarità, visto a chi li danno ai giorni nostri!). Niente ospiti ma una dream band con Tony Braunagel alla batteria, Jonny Lee Schell alla chitarra, Jon Cleary e Mick Weaver alle tastiere e i Texacali Horns come sezione fiati: ottima anche la scelta dei brani, tra cover e materiale scritto per l’occasione, tra cui Queen Bee dello stesso Taj e 21st Century Gypsy Singing Lover Man scritta con Jon Cleary, e tra le riprese Mr. Pitiful dell’amato Otis Redding, Think dei 5 Royales, Senor Blues di Horace Silver.

Mind Your Own Business di Hank Williams, complessivamente è di nuovo un piacere riascoltarlo tornato in grande spolvero, anche al dobro e all’armonica, per non dire della voce, più vissuta, ma sempre potente ed espressiva, sentire il brano di Otis, che grinta ragazzi!

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1998-2020

Hanapepe_Dream

Purtroppo è in parte un fuoco di paglia. Anche se i dischi di musica Hawaiiana, quelli con la Hula Blues Band sono affascinanti, Sacred Island – 1998 Private ***1/2 e Hanapepe Dream – 2003 Tone-Cool ***1/2 con una versione splendida di All Along The Watchtower. Per il sottoscritto eccellente anche il disco dal vivo Shoutin’ In Key – 2000 Private Music ***1/2, registrato nel 1998 con la Phantom Blues Band, in pratica la formazione del disco del 1997, con Danny Freeman aggiunto alla chitarra., ci sono ottime versioni di Honky Tonk, EZ Rider, Stranger In My Own Hometown di Percy Mayfield, Leaving Trunk, Corrina.

Tra il 2003 e il 2006, alla rinfusa, escono varie antologie tra le quali, nel 2003, quella della serie Martin Scorsese Presents The Blues***1/2, nel 2005 un altro disco dal vivo con la Phantom Blues Band In St. Lucia ***1/2, pubblicato anche in DVD, e nel 2004 un Taj Mahal Trio Live Catch ***1/2.

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Poi finalmente, per festeggiare 40 anni di carriera discografica, esce un disco nuovo di studio Maestro – 2008 Heads Up International**** altro disco di notevole caratura, con una quantità iperbolica di ospiti: i Los Lobos presenti in Never Let You Go e Tv Mama, Jack Johnson che duetta con TM in Further On Down The Road, Ben Harper in Dust Me Down, Angelique Kidjo in Zanzibar, Ziggy Marley in Black Man, Brown Man. In più c’è la presenza della Phantom Blues Band come gruppo di accompagnamento, Toumani Diabaté con il quale nel 1999 aveva realizzato un disco Kulanjan, che forse non abbiamo ricordato, e anche la figlia Deva Mahal, che era apparsa nei dischi di canzoni per bambini: ci sono anche Leo Nocentelli, Ivan Neville, Henry Butler, una corposa sezione fiati e il disco ha un suono splendido.

Nel 2009 partecipa come ospite attivo, in ben 9 brani, al disco American Horizon dei Los Cenzontles ***1/2. Poi Taj rallenta decisamente l’attività nella decade successiva: ma occorre citare almeno il delizioso album natalizio Talkin’ Christmas With The Blind Boys Of Alabama – 2014 Sony Masterworks ***1/2 dove le armonizzazioni si sprecano, un altro CD dal vivo, questa volta doppio, con la Hula Blues Band Live From Kauai – 2015 ***1/2 e diversi dischetti di materiale Live registrati nel 1966, 1974 e1978, sotto forma di broadcast radiofonici.

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Infine decide di unire le forza con Keb’ Mo’ per regalarci lo splendido TajMo – 2017 Concord **** che l’anno successivo vince nuovamente il Grammy per Best Contemporary Blues Album: tra le canzoni una inconsueta cover di Squeeze Box degli Who, Waiting On the World To Change di John Mayer e l’immancabile Diving Duck Blues di Sleepy John Estes, mentre tra gli ospiti ricordiamo Billy Branch all’armonica e Lizz Wright alla voce. Per la verità l’ultima apparizione è stata come ospite nell’ottimo disco della BB King Blues Band – The Soul Of The King – 2019 Ruf Records ***1/2 recensito dal sottoscritto su queste pagine.

Per una volta tanto abbiamo voluto dedicargli questa retrospettiva mentre questo grande e geniale artista è ancora vivo e vegeto: lunga vita quindi a Taj Mahal che il 17 maggio del 2022 compirà 80 anni, e che sia un auspicio. Stile musicale: file under Grande Musica!

Bruno Conti

Taj Mahal – Un “Monumento” Della Musica Nera. Parte I

NEWPORT, RI - JULY 1968: Blues musician Taj Mahal (Henry Saint Clair Fredericks) poses for a portrait in July, 1968 at the Newport Folk Festival in Newport, Rhode Island. (Photo by David Gahr/Getty Images)

NEWPORT, RI – JULY 1968: Blues musician Taj Mahal (Henry Saint Clair Fredericks) poses for a portrait in July, 1968 at the Newport Folk Festival in Newport, Rhode Island. (Photo by David Gahr/Getty Images)

Henry Saint Claire Fredericks Jr in arte Taj Mahal, è veramente uno dei tesori assoluti (come il monumento da cui prende il nome) del Blues e delle sue derivazioni: contemporaneamente filologo ed innovatore, cantante appassionato alla Otis Redding e polistrumentista in grado di spaziare soprattutto tra chitarra, piano, banjo, e armonica, ma ne suona molti altri, con uno stile che incorpora, oltre alle classiche 12 battute, anche soul, R&B, rock, reggae, gospel, jazz, country, world music, con una predilezione per quella caraibica, voi le pensate e lui le suona, spesso fuse insieme in un tutt’uno magmatico che ne fa un musicista quasi unico. Con una discografia formidabile che cercherò di sviscerare in questo articolo/monografia sulla sua opera omnia.

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Nativo di Harlem, Manhattan, New York City, New York, per citare le esatte coordinate del luogo di partenza, Taj Mahal è poi cresciuto a Springfield, Massachusetts (non quella dei Simpsons, che è in Ohio o in Oregon, a seconda di come si sveglia il suo creatore), con babbo afro-caraibico, arrangiatore jazz e mamma componente di un coro gospel locale, quindi la musica certo non mancava in famiglia, subito in grado di distinguere tra la musica popolare e quella più raffinata che girava in casa, dove il jazz imperava, tanto che pare che Ella Fitzgerald avesse definito il padre “The Genius”. Padre che purtroppo morì ad inizio anni ‘50, quando Henry Jr., nato nel 1942 in piena guerra, aveva solo 11 anni: in un incidente sul posto di lavoro, perché la pagnotta, salvo rare eccezioni, non si guadagnava solo con la musica, ma attraverso altre professioni, nel caso di babbo Fredericks Sr,, una impresa di costruzioni. Dopo poco la mamma di Taj Mahal si risposò con un altro uomo, che possedeva una chitarra, e tramite un vicino di casa, che era il nipote di Arthur “Big Boy” Crudup (spesso la realtà supera la fantasia), ottenne le prime lezioni con lo strumento, e per il momento sfogava i suoi istinti vocali in un gruppo doo-wop alle scuole superiori, combattuto con l’altra sua grande passione che era quella di farsi una fattoria, tanto che molti anni dopo ha partecipato ad alcune edizioni del Farm Aid.

Quando arriva alla Università del Massachusetts ha già scelto il suo nome d’arte, ispirato dal Mahatma Gandhi e dalle culture orientali. Nel 1964 arriva a Santa Monica in California e l’anno successivo forma i Rising Sons con un giovanissimo (17 anni) Ry Cooder alla chitarra, Jesse Lee Kincaid anche lui alla chitarra, Gary Marker al basso e il futuro Spirit Ed Cassidy alla batteria, anche se dal 1965 arriva e quindi suona nel disco Kevin Kelley. A questo punto direi di iniziare a “sfogliare” l’imponente discografia del nostro amico, che mi sono (ri)ascoltata con grande piacere per scrivere l’articolo, ricca di album e di innumerevoli collaborazioni.

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Rising Sons Featuring Taj Mahal and Ry Cooder – 1992 Columbia Legacy ****All’epoca, pur avendo la band registrato materiale sufficiente per pubblicare un intero album, venne pubblicato, nel 1966, solo un singolo con 2 brani Candy Man b/w “The Devil’s Got My Woman che rimase allora assolutamente sconosciuto, anche se molti critici e giornalisti, nonché frequentatori della scena musicale, dicono che per certi versi anticipò molto delle scelte musicali di gruppi di quegli anni, dai Byrds ai Moby Grape, passando per Buffalo Springfield, Grateful Dead e Allman Brothers. Tutte cose che scoprimmo solo in seguito quando venne pubblicato il CD negli anni ‘90, con ben 22 tracce: prodotto da Terry Melcher il disco ha un suono splendido ed anticipatore, per quanto “ruspante”, sentito ancora oggi, pochi brani originali, quattro, scritti da Kincaid, una sfilza di classici del blues, e due brani d’autore, come un oscuro Dylan Walkin’ Down The Line e una splendida Take A Giant Step, scritta da Goffin/King, che poi diverrà una delle signature songs di Taj Mahal.

Ma tutto il disco è eccellente: da una vorticosa Statesboro Blues cantata con voce roca e stentorea da Taj a If The River Was Whiskey con Ry che comincia ad andare di slide, passando per l’ondeggiante Candy Man cantata coralmente, l’intima 2:10 Train arrangiata da Cooder con Mahal all’armonica, la vibrante Let The Good Times Roll, una 44 Blues che anticipa di anni i Little Feat, la dylaniana 11th Street Ovrecrossing, una corale raffinata Corrina, Corrina e così via. A questo punto il nostro, forte del suo contratto con la Columbia, inizia a pubblicare una serie formidabile di dischi solisti.

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Il Periodo Migliore, The Columbia Years 1968-1976

I primi due/tre dischi poi sono dei (quasi) capolavori , non gli ho dato 5 stellette solo per decenza, visto che ultimamente si sparano a destra e a manca anche per dischi che non le meritano, mi sono limitato “solo” a 4 ½ per ciascuno.

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Taj Mahal – 1968 Columbia ****1/2 Il disco omonimo, registrato nel 1967 e pubblicato l’anno successivo, è veramente formidabile, un disco di blues (rock) poderoso, che anticipa il suono degli Allman, con la doppia chitarra di Ry Cooder, però relegato spesso alla ritmica e al mandolino, e da quella ugualmente “letale” di Jesse Ed Davis, James Thomas e Gary Gilmore si alternano al basso, Sanford Konikoff e Chuck Blackwell alla batteria, mentre all’occorrenza Taj Mahal si ingegna con profitto anche a slide ed armonica, oltre a cantare come un uomo posseduto dalle 12 battute. Produce David Rubinson, il socio di Bill Graham, che poi lavorerà con Santana, Moby Grape, Elvin Bishop, Chambers Brothers.

Otto brani per 33 minuti circa, però non un secondo sprecato: Leaving Trunk di Sleepy John Estes apre l’album alla grande, con Taj subito infervorato e impegnato anche all’armonica, Statesboro Blues è ancora più potente di quella dei Rising Sons e anticipa la versione degli Allman, con il Nativo Americano Jesse Ed Davis alla slide, che poi nella successiva Checking Up On My Baby non ha nulla da invidiare al Mike Bloomfield della Butterfield Blues Band, con Taj Mahal ottimo di nuovo all’armonica e come cantante all’epoca aveva pochi uguali. Notevoli anche Everybody’s Got To Change Sometime di nuovo di Estes e il brano originale di Mahal Ez Rider che ha anche forti connotazioni R&B, grazie al groove del basso di Thomas, mentre Davis è sempre fantastico alla chitarra.

Trascinante la versione di Dust My Brown, dove Jess Ed oltre che ad una ficcante slide è impegnato anche al piano, con Taj che risponde colpo su colpo alla voce e all’armonica, prima di andare a pescare una terza cover del mai troppo lodato Sleepy John Estes con la gagliarda Diving Duck Blues e chiudere con una sublime versione del traditional The Celebrated Walkin’ Blues dove Ryland Cooder al mandolino e Taj Mahal alla slide e all’armonica, in quasi nove minuti distillano pura magia sonora, con una interpretazione vocale sempre magistrale. Lo stesso anno esce il nuovo album: Cooder non c’è più, al piano si aggiunge Al Kooper, Rubinson è sempre il produttore, mentre Davis cura anche gli arrangiamenti dei fiati per un disco che in un paio di brani aggiunge anche forti elementi soul.

A mio parere personale è addirittura superiore o almeno pari al precedente, con una versione colossale di You Don’t Miss Your Water la ballata di William Bell dove il nostro rivaleggia con Otis Redding in quanto a feeling e pathos, musica dell’anima meravigliosa.

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Comunque tutto

The Natch’l Blues – 1968 Columbia ****1/2 è di nuovo un disco superbo, imperdibile come il precedente. Almeno questi due sarebbero da avere a tutti i costi. Sette canzoni scritte dal nostro amico, di cui un paio di tradizionali riarrangiati, e due brani soul: oltre alla ricordata You Don’t Miss Your Water, c’è anche una cover della scatenata A Lot Of Love di Homer Banks, altro pezzo che rivaleggia con i migliori di Otis Redding, una sferzata di pura energia.

Il resto è di nuovo Blues elettrico di superba fattura: Good Morning Miss Brown con Mahal alla National steel bodied guitar e Kooper al piano, 12 battute scandite alla perfezione, Corinna arrangiata insieme a Davis è una ballata blues squisita cantata sempre con quella voce unica e preziosa, mentre I Ain’t Gonna Let Nobody Steal My Jellyroll è un blues elettroacustico di eccellente fattura, seguito da Going Up To The Country, Paint My Mailbox Blue, intenso lentone elettrico con con ottimo assolo di Jesse Ed Davis.

Done Changed My Way Of Living è un lungo e vibrante Chicago Blues di nuovo eseguito in modo superlativo, e cantato anche meglio, con Mahal che si lancia anche in uno scat con la chitarra di Davis; She Caught The Katy And Left Me A Mule To Ride è uno dei brani più celebri scritti da Taj, lieve e deliziosa, con una andatura ondeggiante e maliziosa, costruita sull’armonica, mentre The Cuckoo è un intenso blues a doppia chitarra, con il basso di Gary Gilmore e la batteria di Earl Palmer, che sono la nuova sezione ritmica, in bella evidenza e con finale in crescendo. Detto dei due pezzi soul, nella edizione in CD del 2000 ci sono due bonus notevoli, come New Stranger Love, uno slow lancinante con eccellente lavoro della solista di Davis e ennesima grande interpretazione vocale, e la scattante Things Are Gonna Work Out Fine, uno scintillante strumentale con grande interplay tra armonica e chitarra. Nel 1968, il suo anno d’oro, partecipa anche al Rock And Roll Circus degli Stones,

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mentre l’anno successivo esce un altro dei suoi capolavori di inizio carriera, ovvero

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Giant Step/De Ole Folks at Home 2 LP Columbia 1969 ****1/2, un doppio, anche se poi in CD sarà singolo, visto che dura 70 minuti scarsi, ma nella versione Legacy del Box è in due CD, con un disco elettrico Giant Step, sempre prodotto da Rubinson, e l’altro acustico in solitaria, De Hole Folks At Home.

Nel primo disco nuovamente il classico quartetto (senza Al Kooper) e con Chris Blackwell che torna alla batteria, dove la percentuale si rovescia, tre brani di Taj e sei cover, tra cui alcune fantastiche: dopo la deliziosa fischiettata di Ain’t Gwine Whistle Dixie Anymo’ troviamo la splendida Take A Giant Step una ballata scritta da Carole King entrata nel repertorio di TM e da sempre a lui legata, con un lavoro squisito di Jesse Ed Davis. Good Morning, School Girl è l’antesignana di quella che diventerà Good Morning, Little Schoolgirl di Sonny Boy Williamson, come si sa nel blues si prende e si dà, per l’occasione il nostro sfodera un approccio più suadente, mentre You’re Gonna Need Somebody On You Own di Blind Willie Johnson è potente e scattante, con la versione di Six Days On The Road che dimostra che Mahal e soci sapevano trattare alla grande anche gli inni del country, sempre mantenendo quel tocco soul alla Redding, una sorta di antenato del country got soul.

Bacon Fat attribuita a Robertson/Hudson è in effetti un brano del vecchio repertorio con gli Hawks pre-Band, ma era nota per l’interpretazione di André Williams, un blues and soul in souplesse con TM sempre sublime. E anche le due canzoni scritte da Taj sono bellissime: Give Your Woman What She Wants, un blues sanguigno dove sfodera di nuovo il suo timbro alla Otis e Farther Down On The Road una ballad mid-tempo che è puro Americana sound, prima che venisse inventato e rimarrà uno dei suoi cavalli di battaglia.

Devo dire che riascoltandolo ho aggiunto mezza stelletta al disco, veramente magnifico, e in più nel secondo disco De Ole Folks At Home TM tocca le corde del blues più puro e non adulterato, quello a cappella vissuto di Linin’ Track di Leadbelly, il Country Blues #1 (il titolo dice tutto), dove accarezza la sua national con bottleneck in questo superbo strumentale, l’arcana Wild Oax Moan, Light Rain Blues, per voce e blues, Candy Man del Rev. Gary Davis con la stessa formula sonora, una solenne Stagger Lee, un divertente strumentale solo per armonica Cajun Tune, dovrei citarle tutte: facciamo così, ve lo comprate e andate ad ascoltarlo.

Dopo una pausa di due anni torna con

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Happy Just To Be Like I Am 1971 Columbia **** Dopo tre capolavori non è che il nostro amico potesse continuare a sfornare dischi di quel livello per sempre, quindi si assesta su degli album “solo” molto belli. Ancora due prodotti da Rubinson, questo e il successivo Live, con Jesse Edwin Davis, solo in due brani in Happy…,

il traditional Oh Susanna con un flautino (detto fife) suonato dallo stesso Mahal, in un pezzo comunque ancora vibrante e groovy come nei tre dischi passati, con fiati a go-go, e ottima anche la blues-rock song trascinante che è Chevrolet.

Stealin’ potrebbe tranquillamente passare per un pezzo della Band (vista la presenza del loro produttore John Simon al piano) o dei Little Feat, con TM che rende funky anche il mandolino/banjo con il suo stile inimitabile. Eighteen Hammers è un blues solo con chitarra acustica e “campanacci”, geniale come al solito, la title track con basso tuba e fiati a pompare di brutto è un altro errebì esultante di quelli tosti suoi, che non fanno rimpiangere Redding,

Stealin’, c’è da dire, blues “funkato” con uso di mandolino solista, ancora Simon al piano e fiati a profusione anticipa lo stile del vecchio pard Ry Cooder, poi impiegato a fine anni ‘70. Anche Tomorrow May Not Be Your Day va euforicamente a tutta tuba e fife, e ci indica quale avrebbe potuto essere la futura svolta sonora di Otis se non ci avesse lasciato così prematuramente. West Indian Revelation con steel drums e le congas di Rocky Dijon, giro Stones, aggiunte, vira verso ritmi caraibici sempre visti attraverso la squisita sensibilità musicale del nostro, che canta sempre in modo orgoglioso delle sue radici, per poi rispolverare la sua National con bottleneck nel suggestivo e quasi misticheggiante strumentale Black Spirit Boogie. Lo stesso anno esce anche un disco dal vivo.

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The Real Thing – 1971 Columbia **** Live alla Carnegie Hall, si parte con Fishin’ Blues, solo Taj in solitaria, ma poi entra una band di dimensioni rispettabili, dieci uomini sul palco, con fiati a profusione che possono riproporre il suo repertorio in modo rigoglioso e superbo (anche con qualche chicca):

Ain’t Gwine Whistle Dixie Anymo’ che era una fischiettata di due minuti scarsi su Giant Step, diventa uno straordinario e complessi brano di nove minuti, dove tutti i musicisti si prendono i loro spazi, dalla sezione fiati, tutti anche alla tuba, a John Hall alla chitarra e John Simon al piano, con il nostro che imperversa da quel fantastico performer che era, segue il funky-blues Sweet Mama Janisse, le 12 battute classiche di Going Up To The Country, Paint My Mailbox Blue, e il pubblico approva ripetutamente. Nel finale arriva un dittico fantasmagorico con la sequenza John Ain’t It Hard, un blues dove TM ipnotizza i presenti ed una esuberante She Caught The Katy And Left Me A Mule To Ride, per chiudere con la tellurica e programmatica You Ain’t No Street Walker Mama,Honey But I Do Love the Way You Strut Your Stuff, che non dura neppure 19 minuti, e che sarà mai?

Fantastico, può bastare?

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Recycling the Blues & Other Related Stuff – 1972 Columbia ***1/2 è mezzo in studio e mezzo dal vivo, con il nostro da solo sul palco, ma uno in grado di suonare kalimba, banjo, steel-bodied guitar, contrabbasso non è mai da solo, e coglie l’occasione per proporre canzoni inconsuete, forse a parte Corinna. Anche nella parte in studio TM è da solo, se non ci fossero le scintillanti Pointer Sisters alle armonie vocali in versioni incredibili di Sweet Home Chicago e Texas Woman Blues.

Se tutti fossero in grado di “riciclare” in questo modo avremmo risolto il problema dei rifiuti nel mondo. Il ritmo delle uscite non rallenta ed esce subito anche

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Sounder – 1972 Columbia *** Prodotto da Teo Macero, quello di Miles Davis, si tratta di una colonna sonora, disco interessante ma interlocutorio, se ne può fare a meno.

Invece notevole il disco successivo

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Oooh So Good And Blues – 1973 Columbia ***1/2 ancora con la formula dell’one man band, rinforzato dalle leggiadre voci delle Pointer Sisters, che gorgheggiano da par loro in due brani originali Little Red Hen e Teacup’s Jazzy Blues Tune, con il titolo esplicativo e in una rilettura eccellente di Frankie And Albert dell’amato Mississippi John Hurt. Ottime anche Dust My Brown di Elmore James e Built For Comfort di Willie Dixon, dall’album in duo con Memphis Slim.

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Mo’ Roots – 1974 Columbia ***1/2 Ebbene sì, lo ammetto, e l’ho scritto varie volte, non sono un grande fan del reggae, con qualche piccola eccezione, e questo disco di TM rientra nella categoria, anche perché con la voce soave che si ritrova potrebbe cantare anche l’elenco telefonico (se esistesse ancora): comunque ottime Johnny Too Bad, la deliziosa Cajun Waltz dove si incontrano Louisiana e Giamaica, il tutto cantato in francese, con Carole Fredericks, la sorella di Taj e Claudia Lennear ad impreziosire il pezzo con le loro armonie, e anche la mossa Why Did You Have To Desert Me?, dove il nostro amico poliglotta canta anche in spagnolo.

A questo punto si ufficializza la svolta Afro-Caraibica, che non è quella che prediligo, lo ammetto, ed esce

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Music Keeps Me Together – 1975 Columbia *** il tastierista Earl Lindo del giro Bob Marley, Perry, Burning Spear è preminente, oltre a scrivere la title-track, lo stile è rilassato e piacevole, con incursioni nel jazz e funky, una strana versione reggae di Brown Eyed Handsome Man di Chuck Berry, le riprese di Further Down On The Road e la raffinata West Indian Revelation nella nuova veste sonora, le tre stellette sono di stima.

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Satisfied ‘N Tickled Too – 1976 Columbia *** E’ l’ultimo album ad uscire per la Columbia, anche questo, sempre a mio parere, non particolarmente memorabile. Salverei la title track, anche se Mississippi John Hurt fatto a tempo di reggae non mi fa impazzire, ma la canzone ha un suo fascino grazie all’uso della sua voce inconfondibile, anche New E-Z Rider Blues che sembra un brano di Marvin Gaye, funky il giusto e la lunga ballata soul Baby Love non sono male, anche se fin troppo leggerine, il delizioso scat di Ain’t Nobody’s Business è invece molto piacevole. Comunque si trova più funky che reggae nell’album.

Fine prima parte.

Bruno Conti

Solo Del Sano Vecchio Blues E Rock’n’Roll. Reverend Peyton’s Big Damn Band – Dance Songs for Hard Times

Reverend Peyton’s Big Damn Band Dance Songs for Hard Times

Reverend Peyton’s Big Damn Band – Dance Songs for Hard Times – Family Owned Records/Thirty Tigers

Dovrebbe essere l’undicesimo disco per il trio dell’indiana, portatori sani di vintage R&R, blues e rockabilly: Josh Peyton e soci, detti anche The Reverend Peyton’s Big Damn Band, ovvero The Reverend Peyton, che canta e suona vari tipi di chitarra, preferibilmente creati negli anni della Depressione, fine anni ‘20, anni ‘30, benché spesso costruiti comunque anche nella nostra epoca, “Washboard” Breezy Peyton, la moglie, che è facile intuire cosa suoni, e Max Senteney, alle prese con un drum kit veramente minimale. Dopo il disco precedente https://discoclub.myblog.it/2018/11/17/toh-guarda-chi-si-rivede-se-siete-giovani-vecchi-reverend-peytons-big-damn-band-poor-until-payday/l o scorso anno per loro è stato difficile, al di là che non hanno potuto suonare le consuete 250/300 date all’anno, hanno avuto vari problemi, di salute ed economici: Breezy è stata affetta da una forma di Covid non diagnosticata, non asintomatica, visto che non stava per nulla bene, al padre di Josh è stato trovato un cancro, comunque per usare una terminologia anni ‘50 che tanto amano, entrambi l’hanno “sfangata”, e vista l’inattività ne hanno approfittato per comporre, e poi registrare una serie di nuovi brani (finanziati anche dai fans, visto che senza concerti soldi non ne entrano), ispirati dalla vita durante la pandemia, che hanno chiamato Dance Songs For Hard Times.

A produrre è stato chiamato Vance Powell, già collaboratore di Jack White e Chis Stapleton, che li ha aiutati a ricreare il classico suono analogico e vintage dei loro dischi, per l’occasione il Reverendo, oltre alle consuete chitarre acustiche, ha utilizzato anche chitarre elettriche, ispirate dal Chicago Blues di Howlin’ Wolf e Muddy Waters, quindi più a nord delle 12 battute classiche ed abituali di Charley Patton, Bukka White e altre icone del blues del delta, anche quello dei juke joints e della Fat Possum.

Undici canzoni in tutto che partendo da Ways And Means un gagliardo blues and roll, dove le chitarre ruggiscono, le batterie “battono”, la voce è minacciosa il giusto, ma Breezy alleggerisce con i suoi coretti, con Josh che va di slide, il tutto condito da un divertente video registrato in una lavanderia, che fa molto anni ‘50. Rattle Can è un altro frenetico festival del bottleneck, più primevo ma sempre rabbioso nel suo dipanarsi tra blues e rockabilly, Dirty Hustlin’ è quasi una “strana” ballata porta però nel solito stile sgangherato della band, con il vocione volutamente sgraziato del nostro, una specie di Captain Beefheart meno estremo.

 I’ll Pick You Up è una sorta di boogie raccolto, se mai un giorno gli ZZ Top decidessero di fare un disco unplugged, Too Cool To Dance, sempre molto fifties, tra rockabilly e blues, Stray Cats con steroidi o Chuck Berry in crisi di ispirazione, in ogni caso piacevole, No Tellin’ When, con Josh in solitaria, vira verso il blues primigenio delle origini, con svisate di slide a piacere, mentre Sad Songs potrebbe ricordare, magari non la voce sopra le righe, certe cavalcate elettriche del compianto John Campbell, specie quando Peyton comincia ad andare di bottleneck https://www.youtube.com/watch?v=qm60sSzH3bE , con l’autobiografica (?) Crime To Be Poor, un brano cadenzato, dove il Reverendo per l’occasione sfodera pure l’armonica per un altro dei suoi deliranti “attentati” alle 12 battute, sempre con slide acustica preminente nel suono. L’urlata ‘Til We Die deve più di qualcosa a Elmore james e a tutti i suoi discepoli che da anni animano con i loro “colli di bottiglia” le vie del blues più genuino e anche Nothing’s Easy But You And Me trasuda vecchi ardori blues con grinta ed amore per le vecchie sonorità dei padri fondatori delle 12 battute, prima del congedo affidato alla combattiva Come Down Angels. Se amate il genere e la band sapete cosa aspettarvi, quindi niente sorprese, per gli altri solo del sano vecchio blues e Rock’n’Roll.

Bruno Conti

Meglio Solo Che Male Accompagnato! Popa Chubby – Tinfoil Hat

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Popa Chubby – Tinfoil Hat – Dixiefrog

Quando tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo dello scorso anno scatta la pandemia da Covid, Popa Chubby è in giro on the road per promuovere il nuovo album appena uscito It’s A Mighty Hard Road, ma come molti musicisti e artisti (per non dire anche dei comuni mortali, che però ogni tanto hanno potuto allentare l’isolamento) non immagina certo che la sosta sarà così lunga: già da subito manda richieste di aiuto a fans e appassionati, che gli rispondono, e quindi Ted Horowitz inizia a scrivere e registrare un po’ di canzoni nuove dal suo quartiere generale tra Bronx, NY City e Hudson Valley, con argomenti che da universali chiamate alle solidarietà umana Can I Call You My Friends? passano al tema del Black Lives Matter con No Justice No Peace, amichevoli vaffanculo a quello che allora era l’inquilino della Casa Bianca “TheDonald” con You Ain’t Said Shit, meditazioni sulla situazione di oggi che richiama quella dei tempi che furono in 1968 Again.

Il nostro non è un fine poeta e dicitore, quindi se serve nei testi usa accetta e piccone, mentre musicalmente, dovendo suonare tutti gli strumenti in solitaria, il suo solito blues ad alta gradazione rock, nutrito negli anni a Cream, Zeppelin e Mastro Jimi, si fa sempre più ruvido, pur inserendo, come è sua consuetudine, elementi punk e qualche tocco di reggae, una spennellata di soul e questa volta anche un po’ di surf, senza mai dimenticarsi di santificare comunque i grandi delle 12 battute. Ovviamente, come per molti altri che praticano le strade del blues la formula è sempre più meno quella, qualche shuffle, dei blues lenti, tanta grinta e moltissimi riff: i suoi ascoltatori quello si aspettano e lui li accontenta, ripreso in copertina con un cappellino di latta Tinfoil Hat, in testa, e mascherina sul volto, per il tocco di raffinatezza si presenta con acustica con il corpo di acciaio e poi procede con 11 canzoni 11 scritte da lui a ribadire le convenzioni non scritte, ma ben codificate ed appena ricordate, della propria musica.

La title track, con video con pupazzetto di uno con improbabile capigliatura bionda (chi sarà mai?) che cavalca anche missili, virus che fluttuano nell’etere, e annuncio iniziale da imbonitore, ritmo scandito primitivo, echi surf blues-rock, ma poi imbraccia la sua Gibson e ci spara un assolo potente dei suoi. Ci esorta anche non fare i pirla Baby Put On Your Mask, lui indossa il suo bottleneck per convincerci con un rock ribaldo, mentre nella antemica No Justice No Peace il messaggio è veicolato in un poderoso rock-blues dove come è sua usanza maltratta la solista e canta pure con convinzione e profitto, la voce ben delineata; in You Ain’t Said Shit dialoga con il suo amico Trump (ma, ohibò, odo forse una pernacchia a fine brano?) in una canzone deliziosa che sembra provenire da un vecchio vinile anni ‘50, c’era la guerra fredda, ma la musica era eccellente. Another Day In Hell è un “bluesazzone” (si può dire?) di quelli tirati, ribaldi, urlati e lancinanti, con la chitarra in spolvero che inchioda un altro assolo dei suoi https://www.youtube.com/watch?v=jKByTD6_39c .

In Can I Call You My Friends? tratta tutti i temi che hanno caratterizzato il 2020, pandemia, politica, proteste, Capitol Hill, con un video recente dove appare anche Biden, è la musica è vigorosa, rock and roll orgoglioso e barricadero, suonato e cantato con grande impeto, bellissima canzone. In Someday Soon (A Change Is Gonna Come) prova a rispondere anche a Sam Cooke con un brano dove una sinuosa slide è protagonista assoluta https://www.youtube.com/watch?v=lq4whvmmNDY , e Cognitive Dissonance a tempo di reggae puro è l’unico brano dell’album che non mi convince appieno (sono allergico, anche se lui ci aggiunge elementi rock con la chitarra insinuante e cattiva), mentre Embee’s Song con la sua andatura da sweet soul music e l’omaggio a Otis con un sentito “Let Me Love You, Baby!” e un assolo rigoglioso da grande rocker conferma la ritrovata vena di un Popa Chubby ispirato https://www.youtube.com/watch?v=3OIqTp2PQ38 , che nel finale ci regala 1968 Again dove utilizza con destrezza l’acustica con uso slide che mostra nella copertina del CD https://www.youtube.com/watch?v=loZz9vQlohg  e prima nello strumentale Boogie For Tony https://www.youtube.com/watch?v=9lURAz897CI  ci ricorda anche perché è giustamente considerato un eccellente chitarrista: e bravo Ted!

Bruno Conti

Altra Anticipazione: Dagli Archivi Personali. Gary Moore – How Blue Can You Get. Esce Sempre Il 30 Aprile

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Gary Moore – How Blue Can You Get – Mascot Provogue – 30-04-2021

Ormai sono passati 10 anni dalla morte di Gary Moore, ma non sembra accennare a rallentare la pubblicazione di album postumi dedicati alla figura del compianto musicista irlandese: un paio di Live, un altro paio di antologie con materiale inedito, ma dalle informazioni che filtrano dalla casa discografica e soprattutto dalla famiglia, negli archivi personali del chitarrista pare ci sia ancora moltissimo materiale interessante e di qualità. In questi tempi di pandemia le case discografiche stanno saccheggiando gli archivi dei musicisti, vivi e morti, alla ricerca appunto di musica inedita che possa rimpinguare la scarsa disponibilità di nuovo materiale disponibile. Questa affannosa ricerca però ogni tanto ci regala a sorpresa dei piccoli gioiellini: anche se la sorpresa spesso è rovinata dalle lunghe attese che intercorrono tra l’annuncio dell’uscita e il tempo effettivo della stessa, con continui rinvii delle date, apparizioni anticipate, spesso di mesi, delle controparti in download e streaming rispetto alle edizioni fisiche, quando escono.

Prendiamo questo How Blue Can You Get, che dovrebbe uscire il 30 aprile, quindi siamo a parlarne in anticipo, sperando che il tutto venga confermato: comunque il materiale per l’ascolto non è mancato, per cui vi parlo almeno dei contenuti. Intanto non è dato sapere, con certezza e precisione quando questo materiale sia stato registrato: si tratta di un misto di brani inediti per Moore, e di versioni alternative di canzoni già apparse in altri album della sua discografia. Si è data la preferenza, anche visto il titolo del CD, a materiale di orientamento blues, ovviamente rivisto nella sua ottica personale, che però negli ultimi anni della sua vita si era fatta anche abbastanza “rigorosa”. Sono solo otto brani, quattro originali, e quattro riletture di classici delle 12 battute, tutti abbastanza lunghi, uno per ciascuno di Elmore James, Sonny Thompson, Memphis Slim e BB King. Nella cartella stampa si evidenzia il perfezionismo che il nostro aveva nel suo approccio allo studio, con diverse versioni provate e riprovate, e questo spiega la pletora di materiale che circola, ma non ci aiuta nel sapere su chi suona nel disco e quando sia stato registrato, ammesso che sia cosa nota, per cui visto che vi devo “illuminare” sui contenuti, vado almeno con la musica, che è peraltro ottima: si parte alla grande con una torrida versione di I’m Tore Down, il classico di Freddie King, un brano che faceva parte del suo repertorio dal vivo, con la chitarra che scorre fluida e con quello splendido timbro che aveva la sua Gibson, ispirato e concentrato come nelle sue migliori performances.

Formidabile anche Steppin’ Out, il classico strumentale di Memphis Slim, che tutti ricordiamo nelle innumerevoli versioni di Eric Clapton, che Moore quasi pareggia con una grinta e un impegno impeccabili, il lavoro della chitarra è veramente superbo, un inno al virtuosismo, è anche il trio, basso, batteria e organo che lo accompagna, è notevole; In My Dreams, è “inedita”, una delle sue classiche ballate, malinconiche ed intense, per quanto molto simile a tante altre scritte dall’irlandese, che infonde nella musica, con le corde della chitarra spesso tese fino allo spasimo, il suo stile inconfondibile. Splendida anche la versione inedita del classico di B.B. King How Blue Can You Get che dà il titolo all’album, sofferta e ricca di pathos, come raramente è dato sentire, con voce e chitarra al massimo delle loro possibilità. L’altro inedito scritto da Moore è uno strano brano come Looking At Your Picture, non classificabile con precisione, un po’ blues, un po’ prog, sempre con buon lavoro alla 6 corde, benché forse un po’ irrisolto nell’insieme, mentre nella versione alternativa dello slow Love Can Make A Fool Of You, non ci sono incertezze, solo grande musica, con un altro magistrale assolo dei suoi. E in Done Somebody Wrong di Elmore James Moore instilla il suo amore per il blues, in modo limpido e “rigoroso”, prima di congedarsi con Living With The Blues, altro lancinante e superbo blues lento, che lo proietta nella stratosfera della sua ispirazione con un altro assolo fenomenale. Se esiste altro materiale di questo livello attendiamo con impazienza nuovi capitoli della saga infinita di Gary Moore.

Bruno Conti

Anticipazioni: Il Ritorno di Uno Dei Geni Della Musica Americana. Steve Cropper – Fire It Up. Esce Il 23 Aprile

steve cropper fire it up

Steve Cropper – Fire It Up – Mascot Provogue 

Steve Cropper lo presenta come il suo secondo album solista dopo With A Little From My Friends, uscito nel 1969. Non è l’esatta realtà dei fatti, prima e dopo c’è stato moltissimo altro: prima ci sono stati i Mar-Keys, nati nel 1958 a Memphis, e che poi con la scissione di Steve e Donald “Duck” Dunn diventano Booker T. & The Mg’s, entrambi i gruppi fondamentali nella storia della soul music e della Stax in particolare. Steve Cropper ha scritto molto materiale strumentale, ma ha anche firmato alcune delle pagine indimenticabili del soul per Otis Redding, Wilson Pickett, Eddie Floyd, Sam & Dave e ha suonato in un numero colossale di dischi usciti con il marchio Stax/Volt. Dagli inizi ‘70 intensifica la sua attività di produttore anche al di fuori della Stax, con Jeff Beck, José Feliciano, John Prine (per citarne alcuni), oltre a suonare la chitarra in una miriade di dischi: poi nel 1978 inizia anche l’avventura con i Blues Brothers. In seguito pubblica tra ‘80 e ‘82 due album solisti che ricorda malvolentieri, mentre nel 1969 era uscito anche Jammed Together, una collaborazione con Pop Staples e Albert King, poi un lungo silenzio fino al 2008 quando viene pubblicato il primo di due album collaborativi con Felix Cavaliere dei Rascals, che ricordiamo, perché in quelle sessions vengono messe le basi per alcune idee e canzoni, accantonate ma salvate, per essere completate e riutilizzate, proprio per Fire It Up, insieme al produttore Jon Tiven, “vicino di casa” di Steve a Nashville, e con il quale è continuamente in contatto per interscambi di idee musicali.

Questa quindi è la genesi del nuovo album: non so dirvi molto altro, ci sono due chitarristi, un tastierista, e un cantante, che francamente non avevo mai sentito nominare prima, tale Roger C. Reale, peraltro in possesso di una bella voce, amico di Tiven ma anche di Steve. Il tutto perché ho scritto la recensione molto prima e l’album è in uscita per il 23 aprile. Però le canzoni le ho ascoltate e quindi vi illustro i contenuti, non senza prima ricordare che nel 2011 è uscito anche un disco All-Stars Dedicated, basato sulla musica dei 5 Royales https://discoclub.myblog.it/2011/08/04/il-migliore-del-colonnello-steve-cropper-dedicated/ , e nel 2017 la eccellente reunion e celebrazione della Blues Brothers Band The Last Shade Of Blue Before Black https://discoclub.myblog.it/2017/11/15/il-tempo-passa-per-tutti-ma-non-per-loro-the-original-blues-brothers-band-the-last-shade-of-blue-before-black/ . Il nuovo disco vede la presenza di un solo brano strumentale Bush Hog, che però è ricorrente. Parte 1 e 2, più in chiusura il pezzo completo, e ascoltandolo non si direbbe che che Cropper sia un brillante diversamente giovane che a ottobre compirà 80 anni, il tocco di chitarra è sempre inconfondibile, un chitarrista ritmico creatore di riff, come lui ama definirsi, ma in grado di suonare anche da solista, tanto da essere considerato un maestro da gente come Brian May, Jeff Beck, Eric Clapton.

Sembra di ascoltare un pezzo dei Mar-Keys o di Booker T. & The Mg’s, le mani che volano sul manico della chitarra, un ritmo incalzante con fiati e organo di supporto, un timbro della solista limpido e geniale, ribadisco, uno degli inventori degli strumentali di marca R&B, ma anche con un rimando al riff di Soul Man, come nella grintosa e deliziosa title track, dove si autocita, mentre Reale canta con voce vissuta, e fiati, organo e una armonica imperversano sullo sfondo. E non manca una deep soul ballad in mid-tempo come One Good Turn, con assolo breve, ma limpido e cristallino, o il funky ribaldo e reiterato di I’m Not Havin’ It, con Reale sempre ottimo anche nei pezzi più mossi, vedi Out Of Love, cadenzata come richiede la materia e la solista di Cropper sempre in spolvero; la trascinante Far Away sta alla intersezione tra R&B e R&R e ci sono anche delle coriste che aizzano Reale, mentre la chitarra di Steve punteggia l’arrangiamento corale. Say Don’t You Know Me sembra uno di quei brani danzabili dell’epoca d’oro del R&B, ruvido ma dal ritmo irresistibile, mentre She’s So Fine sarebbe piaciuta moltissimo a Sam & Dave e Two Wrongs al grande Otis, Reale non è ovviamente a quei livelli, ma ci mette comunque impegno e grinta, come dimostra anche la successiva Hearbreak Street, e poi si riabilita nella conclusiva The Go-Getter Is Gone, scritta a due mani con Cropper, che viene spronato a pescare nel meglio del suo repertorio in questo robusto R&B dove maltratta anche la sua chitarra con libidine.

in fondo è pur sempre “The Colonel” della truppa, lui guida e gli altri lo seguono, in questo solido sforzo complessivo che lo mostra di nuovo vitale e all’altezza della sua fama.

Bruno Conti

Chitarrista E Cantante: Un Veterano Che Il Blues Lo Conosce A Menadito. Chris Cain – Raisin’ Cain

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Chris Cain – Raisin’ Cain – Alligator Records/IRD

Per certi versi era quasi inevitabile che le strade di Chris Cain e della Alligator Records si sarebbero prima o poi incrociate, visto che l’etichetta di Chicago è sempre alla ricerca di nuovi nomi da inserire nel proprio roster di artisti, e già in passato il musicista californiano aveva inviato la propria musica al management Alligator ma non se ne era fatto nulla. Tanto che comunque dai tempi del suo esordio del 1987 Late City Night Blues, pubblicato nel 1987 dalla Blue Rock’it, l’etichetta del fratello di Robben Ford, Pat, poi Chris ha fatto in tempo a pubblicare altri 14 album, alcuni per la Blind Pig, poi altri per l’etichetta della famiglia Ford, e anche uno a livello indipendente, qualcuno l’ho anche recensito per il Buscadero ai tempi. Cain è un discepolo di B.B. King, nel 2001 ha pubblicato un CD dedicato all’omone di Indianola Cain Does King, ma tra le sue influenze ci sono anche Albert King, Albert Collins, con i quali ha diviso anche i palchi, passando per Ray Charles e Mike Bloomfield, che la mamma di origini greche gli faceva ascoltare fin dagli inizi (alcuni crescendo hanno questi genitori illuminati), mentre il padre afro-americano gli inculcava anche la passione per certo jazz. I risultati sono da sempre presenti nella musica del nostro, che se la cava all’occorrenza anche alle tastiere e pure al sax: con elementi appunto jazz e R&B che confluiscono nel blues spesso fiatistico del musicista di San Jose, vicino al filone delle 12 battute della Bay Area.

Proprio ai Greaseland Studios della città appena citata è stato registrato questo Raisin’ Cain, prodotto dall’ottimo Kid Andersen, che suona in alcuni pezzi, mentre nella metà dei 12 brani, tutti a firma Cain, appare anche una sezione fiati che aggiunge swing ai brani più mossi, senza dimenticare gli slow che da sempre sono uno dei suoi cavalli di battaglia, in grado di convogliare la sua notevole tecnica chitarristica e il pathos che richiedono, ma anche sostenuti dalla bella voce baritonale, ispirata da gente come Witherspoon e Big Joe Turner, come pure da Curtis Salgado, potente e calda, raramente infervorata, con elementi dei King citati, come è possibile riscontrare subito nell’apertura affidata ad Hush Money, dove i fiati swingano alla grande, mentre la Gibson di Chris rilascia lunghe e fluide linee soliste e anche le tastiere affidate a Greg Rahn sono elemento essenziale del sound, soprattutto il piano elettrico, mentre nel poderoso shuffle della grintosa You Won’t Have A Problem When I’m Gone la chitarra è sempre in spolvero con la sua tecnica sopraffina https://www.youtube.com/watch?v=Ws9wRhaJpEE . Too Many Problems con il basso funky di Steve Evans in evidenza e i fiati all’unisono, unisce nuovamente con gli stili anni ‘70 dei due King, Albert e B.B., mentre il piano elettrico aggiunge elementi che ricordano i primi Crusaders e la chitarra disegna linee raffinate, ma è nelle ballate malinconiche e intense come Down On The Ground che il nostro eccelle, niente fiati, ma piano e organo a sottolineare un assolo di gran classe.

I Believe I Got Off Cheap, sempre con vocione pronto alla bisogna, fiati di nuovo in sella e la solista devastante di Cain a dettare i tempi mentre se la gode, è ancora eccellente https://www.youtube.com/watch?v=JREOmSVyv5o , come pure la successiva I Can’t Find A Good Reason, più vicina al R&B o la vibrante Found A Way To Make Me Say Goodbye di nuovo vicina allo stile più jazzy del B.B. King primi anni’70, con il solito piano elettrico di supporto alla chitarra https://www.youtube.com/watch?v=Qsq4z5iUF1s . La ballatona mid-tempo I Don’t Know Exactlly What’s Wrong With My Baby è sempre sofisticata e notturna, meno impetuosa e più rilassata, con solista e piano elettrico ancora al lavoro; in Out Of My Head ritornano di nuovo i fiati per un vibrante shuffle californiano che rimanda al Witherspoon più jazzato e poi tocca ancora al B.B. King light funky-jazz di As Long As You Get What You Want, con la voce di Lisa Andersen di supporto, brano che però non convince del tutto, al di là del solito mirabile lavoro della solista, che viene accantonata per lo strano esperimento della conclusiva Space Force, dove impazza l’ARP Synth suonato dallo stesso Cain, con un funkettino alquanto superfluo che abbassa il livello complessivo del disco, quindi buono ma senza lode.

Bruno Conti

Una Delle Ultime Leggende Del Piano Boogie, Blues E Jazz! Erwin Helfer – Celebrate The Journey

erwin helfer celebrate the Journey

Erwin Helfer & The Chicago Boogie Ensemble – Celebrate The Journey – The Sirens Records

Erwin Helfer, da Chicago Illinois, è una piccola leggenda della musica locale, sulle scene da tantissimi anni: la sua etichetta, la Sirens Records, lo presenta come ”Legendary Chicago Blues, Boogie, Jazz e Gospel Piano”, e qui si potrebbe chiudere la recensione. Ma visto che non sono un sadico elaboriamo un poco l’argomento: questo signore è ovviamente un artista di culto, a gennaio 2021 ha compiuto 85 anni, ma non è che al di fuori di una ristretta cerchia di appassionati sia molto conosciuto, anche perché i suoi dischi non sono di facile reperibilità, benché solo negli anni 2000 ne abbia pubblicati ben sei per la Sirens Records, (un paio con Barrelhouse Chuck, altro virtuoso del piano) più altrettanti per etichette diverse nei 40 anni precedenti. Il Chicago Blues Ensemble che lo accompagna in questo Celebrate The Journey è un quartetto con doppio sassofono tenore, John Brumbach e Skinny Williams, Lou Marini al basso e Davide Ilardi alla batteria: il resto la fa tutto il piano di Erwin Helfer, che alla sua non più tenera età è ancora un fulmine di guerra con gli 88 tasti del suo strumento di lavoro, brillante, creativo, divertente, dotato di grande tecnica che applica ad uno stile swingante e divertente, ma anche riflessivo a tratti.

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L’apertura con DOXY ha chiari profumi jazz, poi uno guarda l’autore e capisce il perché visto che la firma è di Sonny Rollins, prima Krumbach e poi Williams, ma anche all’unisono, si lanciano in lunghe improvvisazioni al tenore, con un suono comunque caldo e indicato anche per chi non è uno stretto aficionado del jazz, a metà brano arriva il piano di Erwin, e poi nel finale c’è spazio anche per il contrabbasso di Marini https://www.youtube.com/watch?v=mvvlHYiFNpQ . Ma è quando si passa al blues che ci si inizia a divertire, Ain’t Nobody’s Business è una struggente ballata di Jimmy Witherspoon, nella quale Helfer inizia a titillare il suo pianoforte, sempre lasciando ampio spazio ai sassofoni dei suoi compari, qui più intimi ed avvolgenti, sempre con Marini soave contrabbassista al servizio del boss https://www.youtube.com/watch?v=dxcNc41ylLk , poi si passa ad un brano tradizionale come Down By The Riverside, a tutto swing, sempre con sax pronti alla bisogna e il nostro amico che comincia a fare volare le mani sulla tastiera con assoluta nonchalance e classe https://www.youtube.com/watch?v=a3IY_z50hpg .

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Pooch Piddle è uno dei brani firmati dallo stesso Helfer, e qui si comincia ad andare di boogie woogie marcato Chicago, con lavoro sublime del nostro amico, che ha un gusto veramente delizioso https://www.youtube.com/watch?v=SsU_bhQE6_c , poi confermato in un altro classico senza tempo come St. James Infirmary, legato ad Armstrong, ma che hanno suonato tutti i grandi del jazz, del blues, e anche del rock, di nuovo con tutti i solisti in grande spolvero, anche Marini al contrabbasso con l’archetto. Altro pezzo celeberrimo è Alexander’s Ragtime Band di Irving Berlin, un classico dell’American Songbook, sempre suonato con il giusto swing dal quartetto, mentre la lunga Big Joe, ulteriore composizione di Erwin è più felpata e notturna, raffinata il giusto, con il mestiere di questi musicisti sublimi che viene evidenziato dalla registrazione limpida, nitida e precisa https://www.youtube.com/watch?v=IGolArmTo9s . A chiudere Day Dream, un brano per solo piano https://www.youtube.com/watch?v=e1u2C_8-weg  dove si apprezza nuovamente la tecnica ed il feeling senza tempo di questo vecchio marpione della musica.

Bruno Conti

Come Per Altre “Colleghe”, Voce Non Memorabile, Ma Chitarrista Notevole! Ally Venable – Heart Of Fire

ally venable heart of fire

Ally Venable – Heart Of Fire – Ruf Records

Evidentemente Mike Zito, che le aveva prodotto il precedente Texas Honey, uscito nel 2019 (come anche il Blues Caravan 2019) https://discoclub.myblog.it/2019/05/11/una-donna-chitarrista-da-aggiungere-alla-lista-garantisce-mike-zito-ally-venable-texas-honey/ , era impegnato con le numerose uscite della propria etichetta Gulf Coast Records, e quindi per questo nuovo Heart Of Fire, il quarto album della giovane chitarrista e cantante texana Ally Venable, ci si è affidati alle capaci mani di Jim Gaines, un altro dei maghi della console in ambito blues, lo scorso anno alla guida dello strepitoso Believe, l’album di Albert Cummings https://discoclub.myblog.it/2020/02/11/il-disco-della-consacrazione-per-uno-dei-nuovi-fenomeni-della-chitarra-albert-cummings-believe/ . Per il nuovo album della Venable Gaines ha convocato negli studi di Stantoville, Tennesse una piccola pattuglia di ottimi musicisti, tra i quali spicca il meno noto dei fratelli Dickinson, Cody alla batteria, e qualche ospite in grado di valorizzare alcune canzoni dell’album, che vediamo a breve. I brani sono undici in totale, ben nove firmati da Ally, un paio con l’aiuto di Vance Lopez, tra i quali a mio parere spicca una strepitosa Tribute To SRV, un pezzo strumentale nel quale la 21enne dà libero sfogo alla sua tecnica chitarristica, che non si discute, in un blues lento dove viene evidenziato anche il feeling e il gusto sopraffini che impiega in questa lunga improvvisazione, dedicata a quello che è sempre stato l’eroe musicale della Venable https://www.youtube.com/watch?v=PAzYPlF0Ux4 .

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Come già dicevo, parlando del precedente Texas Honey, il punto debole della nostra amica risiede nel fatto di non avere, a mio parere, una voce fenomenale, non scarsa, come si suol dire adeguata, forse un po’ “leggerina”, ma non si può avere tutto nella vita, visto che Ally è anche molto avvenente (anche se da ragazzina era cicciotta, vedi https://www.youtube.com/watch?v=u0T5iu1Eijw . Ma aldilà dei pregi estetici la Venable prosegue nella sua lenta ma inesorabile crescita a livello qualitativo: il repertorio è sempre virato verso un blues-rock robusto anziché no, aggressivo e potente, come dimostra subito con la vorticosa title track, dove il pedale cry baby del wah-wah è subito premuto con vigore, mentre il risultato complessivo è vigoroso e altamente energetico con la band che la segue come un sol uomo  ; nella successiva Played The Game, l’atmosfera si fa più swampy, ci si avvia verso le paludi della Louisiana con una insinuante e minacciosa slide, mentre Rick Steff dei Lucero è ospite all’organo, la voce è quella che è, “accontentiamoci” https://www.youtube.com/watch?v=GkL_c7q5YYc ! Ma a dimostrazione che la stoffa c’è, la cover dell’oscuro bluesman anni ‘20 Perry Bradford in Hateful Blues, brano che però cantava Bessie Smith, miscela rigore e fremiti rock, di nuovo con la slide in grande spolvero  https://www.youtube.com/watch?v=NC5fLhzfUYU.

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Per la successiva Road To Nowhere si fa aiutare da Devon Allman che duetta con lei e aggiunge la sua chitarra in un brano che ha anche un certo appeal southern, misto a un tocco radiofonico che forse le viene dal suo grande amore per Miranda Lambert, altro punto di riferimento, ma quando parte l’assolo di Devon non ce n’è per nessuno https://www.youtube.com/watch?v=p9JfsN4pcpI . Un altro che come axemen non scherza (ma vocalmente non è una cima) è Kenny Wayne Shepherd , che scatena tutta la sua potenza nel vibrante blues-rock di impronta sudista Bring On The Pain, uno dei due scritti con Lopez, dove i due si scambiano sciabolate con le chitarre nella jam strumentale https://www.youtube.com/watch?v=cjhvksgDvT4  e anche nella successiva Hard Change, la seconda scritta con Lopez, una certa vena zeppeliniana viene a galla, con riff a destra e a manca e con la sezione ritmica che picchia di brutto mentre Ally strapazza la sua Gibson con libidine https://www.youtube.com/watch?v=WgsGiUS1xU4 .

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E anche in Do It In Heels, a parte il titolo “modaiolo”, prevale la modalità fabbro ferraio e qualche retrogusto vicino alle Heart, che notoriamente erano discepole degli Zeppelin; e pure in Sad Situation non si scherza, wah-wah come piovesse, riff e ritmo che vanno di pari passo, fino al selvaggio ed immancabile assolo che Jimmy Page avrebbe approvato https://www.youtube.com/watch?v=Mlm7UZ5Hd8s . Nell’altra cover, una sorprendente Use Me di Bill Withers, si punta invece sulla raffinatezza, basso funky, congas santaniane (se esiste l’aggettivo), anche se l’arrangiamento complessivo non mi convince del tutto, detto del superbo tributo a SRV, la conclusiva What Do You Want From Me è un’altra orgia di wah-wah, con assolo liberatorio nel finale, ma manca quel quid che altri pezzi hanno. Comunque la ragazza è brava: per chi ama il suo blues ad alta gradazione rock!

Bruno Conti

Produce Joe Bonamassa E Lei Ci Dà Dentro Di Brutto, Forse, Ma Forse, Anche Troppo! Joanna Connor – 4801 South Indiana Avenue

joanna connor 4801 south indiana avenue

Joanna Connor – 4801 South Indiana Avenue  – Keeping The Blues Alive

Ormai sembra che Joe Bonamassa stia perdendo lo scettro di artista più prolifico a favore di Neil Young che ultimamente cento ne pensa e cento ne fa: quindi il buon Joe ha pensato di incrementare il “suo secondo lavoro”, come produttore discografico per la propria etichetta Keeping The Blues Alive che,  dopo la pubblicazione dell’album di Dion Blues With Friends (e l’uscita del CD degli Sleep Eazys) ora si occupa del rilancio di Joanna Connor, una delle musiciste più valide e interessanti in ambito blues, nativa di New York, ma basata a Chicago, con una carriera discografica iniziata nel lontano 1989 con Believe It!, e proseguita, tra alti e bassi, con altri quattordici album, inclusi diversi dischi dal vivo, ed escluso questo nuovo 4801 South Indiana Avenue, dall’indirizzo del famoso locale della Windy City Theresa’s Lounge. La Connors (scusate ma mi scappa di dirlo, non è più una giovanissima, l’anno prossimo compirà 60 anni) fa parte della pattuglia delle musiciste bianche che praticano un blues piuttosto energico anziché no, quindi chitarriste cantanti molto influenzate anche dalla musica rock, con uno stile aggressivo e a tratti roboante, in grado di “maltrattare” spesso la sua Gibson (o una Delaney) per ridurla a più miti consigli https://www.youtube.com/watch?v=suwb2pdE2_g : era parecchi anni che non mi capitava di recensire un suo album per il Buscadero, ma il nuovo CD, grazie anche al lavoro di Bonamassa, mi sembra che la riporti ai fasti passati.

Joanna Connor by Maryam Wilcher

Joanna Connor by Maryam Wilcher

Joe e Joanna.una bella accoppiata. Non guasta il fatto che Joe le abbia affiancato un manipolo eccellente di musicisti, da Reese Wynans alle tastiere, a Calvin Turner al basso e Lemar Carter alla batteria, una piccola sezione fiati che ogni tanto interviene e i due co-produttori, Bonamassa e Josh Smith che spesso e volentieri fanno sentire anche le loro chitarre. La nostra amica è conosciuta soprattutto come una virtuosa della slide, e nel disco ce n’è a iosa: in effetti nel brano di apertura Destination, dal repertorio degli Assassins di Jimmy Thackery, la Connors inizia a mulinare il suo bottleneck a velocità vorticose, ben sostenuta dal piano di Wynans, con la sua voce potente supportata anche da quella del grande Jimmy Hall dei Wet Willie, con tutta la band che tira di brutto https://www.youtube.com/watch?v=89wb2tqg0io , mentre Come Back Home di nuovo con uno scatenato Wynans al piano, è una sorta di boogie rallentato, intenso e scandito, con Joanna che piazza un altro solo vigoroso di slide che ricorda quelli del miglior Thorogood https://www.youtube.com/watch?v=JUj5-MAcoiY . Bad News è uno dei pezzi più conosciuti di Luther Allison, per il quale la Connors in passato apriva i concerti, un lentone di quelli appassionati ed intensi, dove Joanna si cimenta in un lavoro di chitarra ricco di finezza e forza, mentre la sua voce è in grado di evocarne le atmosfere quasi stregate e sofferte, e Wynans alle tastiere è ancora una volta all’altezza della situazione, con i fiati a colorare l’atmosfera sullo sfondo https://www.youtube.com/watch?v=FvYKatLNbc0 .

joanna connor 4801 south indiana avenue 1

I Feel So Good è uno dei grandi cavalli di battaglia di Magic Sam, un boogie frenetico e selvaggio, con il bottleneck sempre in grande evidenza, a duettare con la batteria di Carter, prima sfuma e poi riprende forza con finale a sorpresa https://www.youtube.com/watch?v=JUj5-MAcoiY . For The Love Of A Man è un classico blues rovente con fiati, scritto da Don Nix, proveniente dal repertorio di Albert King, seguito da un altro piccolo classico delle 12 battute come Trouble Trouble, a firma Lowell Fulsom, reso noto da Otis Rush, altro slow blues lancinante, con Josh Smith alla seconda chitarra e Wynans che raddoppia a piano e organo, per un pezzo che sta tra Bloomfield, sentire i fiati, please e Stevie Ray Vaughan e la Connors che si infervora alla solista https://www.youtube.com/watch?v=0CgFMl5tGKc . Please Help era di JB Hutto ma è un tributo al grande Hound Dog Taylor, slide music alla ennesima potenza, Cut You Loose la faceva anche il vecchio Muddy, Chicago Blues attualizzato da un arrangiamento moderno, dove la quota rock si fa prevalente e il bottleneck fa sempre furore https://www.youtube.com/watch?v=6-TF4bsd2Fk . Per gli ultimi due pezzi Joe Bonamassa fa un passo avanti e duetta con Joanna, prima nelle volute soul blues di Part Time Love dove organo, sax e fiati tutti prendono la direzione del Sud https://www.youtube.com/watch?v=hTApLuD5Jow  e nella gagliarda It’s My Time, scritta da Josh Smith e che è l’occasione per un duello di slide tra Joe e Joanna, pezzo che rievoca le atmosfere del Cooder più trascinante, con la musica che scivola, scivola, scivola… https://www.youtube.com/watch?v=vDjQMaSL4Nc 

Bruno Conti