Altra Anticipazione: Dagli Archivi Personali. Gary Moore – How Blue Can You Get. Esce Sempre Il 30 Aprile

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Gary Moore – How Blue Can You Get – Mascot Provogue – 30-04-2021

Ormai sono passati 10 anni dalla morte di Gary Moore, ma non sembra accennare a rallentare la pubblicazione di album postumi dedicati alla figura del compianto musicista irlandese: un paio di Live, un altro paio di antologie con materiale inedito, ma dalle informazioni che filtrano dalla casa discografica e soprattutto dalla famiglia, negli archivi personali del chitarrista pare ci sia ancora moltissimo materiale interessante e di qualità. In questi tempi di pandemia le case discografiche stanno saccheggiando gli archivi dei musicisti, vivi e morti, alla ricerca appunto di musica inedita che possa rimpinguare la scarsa disponibilità di nuovo materiale disponibile. Questa affannosa ricerca però ogni tanto ci regala a sorpresa dei piccoli gioiellini: anche se la sorpresa spesso è rovinata dalle lunghe attese che intercorrono tra l’annuncio dell’uscita e il tempo effettivo della stessa, con continui rinvii delle date, apparizioni anticipate, spesso di mesi, delle controparti in download e streaming rispetto alle edizioni fisiche, quando escono.

Prendiamo questo How Blue Can You Get, che dovrebbe uscire il 30 aprile, quindi siamo a parlarne in anticipo, sperando che il tutto venga confermato: comunque il materiale per l’ascolto non è mancato, per cui vi parlo almeno dei contenuti. Intanto non è dato sapere, con certezza e precisione quando questo materiale sia stato registrato: si tratta di un misto di brani inediti per Moore, e di versioni alternative di canzoni già apparse in altri album della sua discografia. Si è data la preferenza, anche visto il titolo del CD, a materiale di orientamento blues, ovviamente rivisto nella sua ottica personale, che però negli ultimi anni della sua vita si era fatta anche abbastanza “rigorosa”. Sono solo otto brani, quattro originali, e quattro riletture di classici delle 12 battute, tutti abbastanza lunghi, uno per ciascuno di Elmore James, Sonny Thompson, Memphis Slim e BB King. Nella cartella stampa si evidenzia il perfezionismo che il nostro aveva nel suo approccio allo studio, con diverse versioni provate e riprovate, e questo spiega la pletora di materiale che circola, ma non ci aiuta nel sapere su chi suona nel disco e quando sia stato registrato, ammesso che sia cosa nota, per cui visto che vi devo “illuminare” sui contenuti, vado almeno con la musica, che è peraltro ottima: si parte alla grande con una torrida versione di I’m Tore Down, il classico di Freddie King, un brano che faceva parte del suo repertorio dal vivo, con la chitarra che scorre fluida e con quello splendido timbro che aveva la sua Gibson, ispirato e concentrato come nelle sue migliori performances.

Formidabile anche Steppin’ Out, il classico strumentale di Memphis Slim, che tutti ricordiamo nelle innumerevoli versioni di Eric Clapton, che Moore quasi pareggia con una grinta e un impegno impeccabili, il lavoro della chitarra è veramente superbo, un inno al virtuosismo, è anche il trio, basso, batteria e organo che lo accompagna, è notevole; In My Dreams, è “inedita”, una delle sue classiche ballate, malinconiche ed intense, per quanto molto simile a tante altre scritte dall’irlandese, che infonde nella musica, con le corde della chitarra spesso tese fino allo spasimo, il suo stile inconfondibile. Splendida anche la versione inedita del classico di B.B. King How Blue Can You Get che dà il titolo all’album, sofferta e ricca di pathos, come raramente è dato sentire, con voce e chitarra al massimo delle loro possibilità. L’altro inedito scritto da Moore è uno strano brano come Looking At Your Picture, non classificabile con precisione, un po’ blues, un po’ prog, sempre con buon lavoro alla 6 corde, benché forse un po’ irrisolto nell’insieme, mentre nella versione alternativa dello slow Love Can Make A Fool Of You, non ci sono incertezze, solo grande musica, con un altro magistrale assolo dei suoi. E in Done Somebody Wrong di Elmore James Moore instilla il suo amore per il blues, in modo limpido e “rigoroso”, prima di congedarsi con Living With The Blues, altro lancinante e superbo blues lento, che lo proietta nella stratosfera della sua ispirazione con un altro assolo fenomenale. Se esiste altro materiale di questo livello attendiamo con impazienza nuovi capitoli della saga infinita di Gary Moore.

Bruno Conti

Chitarrista E Cantante: Un Veterano Che Il Blues Lo Conosce A Menadito. Chris Cain – Raisin’ Cain

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Chris Cain – Raisin’ Cain – Alligator Records/IRD

Per certi versi era quasi inevitabile che le strade di Chris Cain e della Alligator Records si sarebbero prima o poi incrociate, visto che l’etichetta di Chicago è sempre alla ricerca di nuovi nomi da inserire nel proprio roster di artisti, e già in passato il musicista californiano aveva inviato la propria musica al management Alligator ma non se ne era fatto nulla. Tanto che comunque dai tempi del suo esordio del 1987 Late City Night Blues, pubblicato nel 1987 dalla Blue Rock’it, l’etichetta del fratello di Robben Ford, Pat, poi Chris ha fatto in tempo a pubblicare altri 14 album, alcuni per la Blind Pig, poi altri per l’etichetta della famiglia Ford, e anche uno a livello indipendente, qualcuno l’ho anche recensito per il Buscadero ai tempi. Cain è un discepolo di B.B. King, nel 2001 ha pubblicato un CD dedicato all’omone di Indianola Cain Does King, ma tra le sue influenze ci sono anche Albert King, Albert Collins, con i quali ha diviso anche i palchi, passando per Ray Charles e Mike Bloomfield, che la mamma di origini greche gli faceva ascoltare fin dagli inizi (alcuni crescendo hanno questi genitori illuminati), mentre il padre afro-americano gli inculcava anche la passione per certo jazz. I risultati sono da sempre presenti nella musica del nostro, che se la cava all’occorrenza anche alle tastiere e pure al sax: con elementi appunto jazz e R&B che confluiscono nel blues spesso fiatistico del musicista di San Jose, vicino al filone delle 12 battute della Bay Area.

Proprio ai Greaseland Studios della città appena citata è stato registrato questo Raisin’ Cain, prodotto dall’ottimo Kid Andersen, che suona in alcuni pezzi, mentre nella metà dei 12 brani, tutti a firma Cain, appare anche una sezione fiati che aggiunge swing ai brani più mossi, senza dimenticare gli slow che da sempre sono uno dei suoi cavalli di battaglia, in grado di convogliare la sua notevole tecnica chitarristica e il pathos che richiedono, ma anche sostenuti dalla bella voce baritonale, ispirata da gente come Witherspoon e Big Joe Turner, come pure da Curtis Salgado, potente e calda, raramente infervorata, con elementi dei King citati, come è possibile riscontrare subito nell’apertura affidata ad Hush Money, dove i fiati swingano alla grande, mentre la Gibson di Chris rilascia lunghe e fluide linee soliste e anche le tastiere affidate a Greg Rahn sono elemento essenziale del sound, soprattutto il piano elettrico, mentre nel poderoso shuffle della grintosa You Won’t Have A Problem When I’m Gone la chitarra è sempre in spolvero con la sua tecnica sopraffina https://www.youtube.com/watch?v=Ws9wRhaJpEE . Too Many Problems con il basso funky di Steve Evans in evidenza e i fiati all’unisono, unisce nuovamente con gli stili anni ‘70 dei due King, Albert e B.B., mentre il piano elettrico aggiunge elementi che ricordano i primi Crusaders e la chitarra disegna linee raffinate, ma è nelle ballate malinconiche e intense come Down On The Ground che il nostro eccelle, niente fiati, ma piano e organo a sottolineare un assolo di gran classe.

I Believe I Got Off Cheap, sempre con vocione pronto alla bisogna, fiati di nuovo in sella e la solista devastante di Cain a dettare i tempi mentre se la gode, è ancora eccellente https://www.youtube.com/watch?v=JREOmSVyv5o , come pure la successiva I Can’t Find A Good Reason, più vicina al R&B o la vibrante Found A Way To Make Me Say Goodbye di nuovo vicina allo stile più jazzy del B.B. King primi anni’70, con il solito piano elettrico di supporto alla chitarra https://www.youtube.com/watch?v=Qsq4z5iUF1s . La ballatona mid-tempo I Don’t Know Exactlly What’s Wrong With My Baby è sempre sofisticata e notturna, meno impetuosa e più rilassata, con solista e piano elettrico ancora al lavoro; in Out Of My Head ritornano di nuovo i fiati per un vibrante shuffle californiano che rimanda al Witherspoon più jazzato e poi tocca ancora al B.B. King light funky-jazz di As Long As You Get What You Want, con la voce di Lisa Andersen di supporto, brano che però non convince del tutto, al di là del solito mirabile lavoro della solista, che viene accantonata per lo strano esperimento della conclusiva Space Force, dove impazza l’ARP Synth suonato dallo stesso Cain, con un funkettino alquanto superfluo che abbassa il livello complessivo del disco, quindi buono ma senza lode.

Bruno Conti

Tra Nuovo E Vecchio, Un Outsider Da Scoprire Assolutamente. Steve Azar – My Mississippi Reunion

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Steve Azar – My Mississippi Reunion – Ride Records

Steve Azar è il classico artista di culto, un musicista che ha saputo muoversi tra stili diversi: il country dei primi dischi, la roots music, il soul bianco e nero, lui definisce la sua musica “Delta Soul” , e ha anche fatto un disco con questo titolo, e quindi il blues rimane sullo fondo, visto che viene proprio da Greenville, Mississippi, una delle patrie delle 12 battute. Steve è un cantautore prestato al blues, o forse viceversa, visto che le canzoni se le scrive e se le canta, magari come nel precedente eccellente Down At The Liquor Store, recensito tre anni fa e in cui era accompagnato dai King’s Men, una pattuglia di musicisti che in passato aveva suonato con alcuni Kings, da Elvis a B.B. , da cui il patronimico https://discoclub.myblog.it/2017/10/17/quasi-un-piccolo-classico-del-rock-steve-azar-the-kings-men-down-at-the-liquor-store/ .

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Ma essendo un artista indipendente cerca sempre di sfruttare al meglio il materiale che incide: già Delta Soul conteneva un misto di canzoni nuove (quattro) e rivisitazioni di vecchi brani incisi ex novo (cinque), ma in questo My Mississippi Reunion Azar fa un ulteriore passo avanti, costruendo una sorta di concept album alla rovescia, dedicato alla sua terra di origine, una serie di brani , undici in tutto, di cui otto estratti da vecchi album, alcuni rimasterizzati, altri reincisi, più tre canzoni nuove, di cui una registrata con Cedric Burnside, un perfetto caso di riciclo ecodiscografico, nulla si butta, tutto si riutilizza. Se poi i suoi dischi sono pure poco conosciuti, è una ulteriore spinta per avvicinarsi alla sua musica.

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Anche nelle canzoni nuove, prevale comunque lo stile discorsivo e cantautorale di Steve, in possesso di una bella voce piana, con uno spiccato gusto per le melodie, come per esempio la delicata Rosedale posta in apertura, inizio attendista, con acustiche, organo, piano, violino e archi, poi entra con il botto il resto del gruppo, la musica si anima, sembra di ascoltare ancora una volta i grandi cantautori degli anni ‘70, sparo un po’ di nomi? Guthrie Thomas, i texani doc, ma anche Springsteen, Mellencamp, nelle loro derive più roots https://www.youtube.com/watch?v=LgIO5P0JZt0 , mentre nel secondo brano Midnight, ancorato da un basso pulsante, citerei pure il primo Dirk Hamilton, e come affinità elettive magari gente come Jim Lauderdale, Lyle Lovett o Marty Stuart, quelli che danno del tu al country d’autore , anche se con vocalità e stili differenti, ma la qualità non manca in un brano arioso ed avvolgente, dove spunta anche una tromba e poi c’è un bellissimo assolo di chitarra https://www.youtube.com/watch?v=uz40V0o-myU ; il richiamo del blues è molto più marcato nella sanguigna Coldwater, un duetto a due voci con Burnside, che suona anche una slide tangenziale che impreziosisce questo bellissimo brano, firmato come tutti quelli contenuti nel CD dallo stesso Azar https://www.youtube.com/watch?v=YP6R7OXshrY .

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One Mississippi è un brano commissionato nel 2017 a Steve dal governatore dello stato della Magnolia per il bicentenario, un pezzo mosso e brioso che potrebbe rimandare al sound dei grandi Amazing Rhythm Aces https://www.youtube.com/watch?v=SB5BL8qi8kQ , anche Flatlands che era su Indianola, l’album del 2007 (e pure su Delta Soul), è un pezzo rock tirato e chitarristico, di nuovo con una bella slide in evidenza, con la band che gira alla grande https://www.youtube.com/watch?v=VDI6rhU5rVs , seguita da Rena Lara, un ottimo country got soul posto in apertura di Down At The Liquor Store, con chitarra e organo molto presenti ed inserimenti dei fiati, per un brano veramente bello. Greenville era la canzone che chiudeva il disco appena citato, una ballata pianistica, che ricorda in modo impressionante Jackson Browne https://www.youtube.com/watch?v=AWzRfuEw_4A .

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Sweet Delta Chains viene da Slide On Over Here del 2009, un funky fiatistico coinvolgente, con piano elettrico e chitarre che ricordano il blues-rock meticciato dei Little Feat, grazia anche a una slide malandrina https://www.youtube.com/watch?v=jcDXmqcuv4E ; viceversa Indianola, dal disco omonimo, è una bella ballata mid-tempo sudista, con interplay tra armonica e bottleneck, sempre cantata con grande partecipazione da Azar, con Mississippi Minute, estratta da Delta Soul Volume One, un altro brano in bilico tra rock e blues, con una bella acustica “Harrisoniana”, e in chiusura troviamo Highway 61, il brano scritto con il bravo James House che apriva il disco appena ricordato, con la Weissenborn in primo piano insieme all’organo, pure questa una bella canzone della serie non solo blues https://www.youtube.com/watch?v=RhV7qBNJdFo , per questo riassunto con nuovi brani di questo musicista che si conferma un outsider di lusso da scoprire assolutamente.

Bruno Conti

Provenienza Dubbia, Ma Buona Qualità E Tanti Ospiti Per L’Album Della Figlia Di B.B. Shirley King – Blues For A King

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Shirley King – Blues For A King – Cleopatra Blues

Presentato da alcuni come l’esordio discografico di Shirley King, l’album ha creato interesse perché stiamo parlando di colei che è stata definita “Daughter of the blues”, in qualità di figlia del grande B.B. King. In effetti la nostra amica non è più una giovinetta, quest’anno ad ottobre compirà 71 anni, e la sua carriera musicale consta solo di un paio di episodi tra fine anni ‘80 e negli anni ‘90 (quindi questo CD non è l’esordio), poi diverse comparsate sia come ospite di artisti più o meno celebri, che del babbo negli ultimi di carriera di quest’ultimo. Nata a West Memphis, Arkansas, lungo le rive del Mississippi, Shirley non è mai stata una stretta praticante del blues, in gioventù più orientata verso gospel, soul, perfino country & western, ma poi già dal 1969 aveva fatto la sua scelta di vita, diventando una ballerina, attività che ha svolto per una ventina di anni, dice lei anche con successo, e con buoni riscontri economici, senza dover essere vista per forza come la “figlia di B.B. King”. Vivendo a Chicago a lungo è venuta in contatto anche con la scena locale, ed ha avuto pure una relazione di 5 anni con Al Green (ma non era Reverendo?).

Poi dal 1989 ha cercato, come detto, la strada del blues, cantando soprattutto grandi classici, senza tralasciare ovviamente i brani del padre, presenti in quantità. Il successo diciamo che non l’ha mai sfiorata, un’onesta carriera ma nulla più: poi arrivano i nostri amici della Cleopatra che le propongono un contratto discografico, per un album che viene realizzato seguendo le metodologie della etichetta di Chicago. Ovvero, repertorio, ospiti e sistemi di registrazione li scelgono loro. Poi piazzano Shirley in studio con le cuffie, senza incontrare ospiti e musicisti, e spesso, come ha ricordato lei stessa in alcune interviste, senza neppure conoscere bene le canzoni che doveva interpretare. Ma alla fine, per una volta (o forse due), devo dire che all’ascolto questo Blues For A King funziona, si ascolta con piacere, ci sono alti e bassi ed evidenti disparate fonti del materiale: per esempio in Hoodoo Man Blues, un grande classico delle 12 battute, oltre a Joe Louis Walker alla solista, appare all’armonica colui che ha portato al successo il brano, quel Junior Wells che però è scomparso nel 1998, comunque la voce di Shirley King è ancora potente e vibrante e il suono vigoroso.

Altrove, come nell’iniziale All Of My Lovin’, un brano dal repertorio della Motown, sempre con Walker alla chitarra, la voce di Shirley pare più roca e vissuta, come ribadisce la successiva eccellente cover del brano dei Traffic Feelin’ Alright, con Duke Robillard alla solista, guizzante ed inventiva https://www.youtube.com/watch?v=DNaJhEwkKk0 . Chitarristi che si susseguono brano dopo brano, per esempio nel classico Chicago Blues I Did You Wrong troviamo Elvin Bishop, anche se il suono della base sembra quello di una registrazione di decine di anni fa, scherzi dell’immaginazione o ripescaggio da archivi datati? Per That’s All Right Mama, il classico di Arthur Crudup e di Elvis, si materializza Pat Travers, gagliardo nel suo assolo, però forse un po’ troppo sopra le righe; Can’t Find My Way Home, a conferma della scelta eclettica del repertorio e delle sonorità, è proprio il classico dei Blind Faith con Martin Barre dei Jethro Tull alla solista, versione decisamente rock, ma ben realizzata e con la King che si adatta al suono più “moderno”.

Johnny Porter è un vecchio brano minore dei Temptations, e prevede un duetto con un altro bluesman “attempato” come Arthur Adams, discepolo di babbo Riley, ma alla fine i due se la cavano egregiamente, anche se gli archi sintetici non quagliano molto con il resto. Feeling Good, con sezione fiati e archi aggiunti, è un brano che hanno cantato in tanti, da Nina Simone a Michael Bublé, la nostra amica ci mette impeto e passione, alla solista viene accreditato Robben Ford e lascia il suo segno, Give It All Up francamente non so da dove provenga, ma è un gioioso errebì molto piacevole, con Kirk Fletcher alla chitarra. Il traditional Gallows Pole con Harvey Mandel alla solista in modalità wah-wah, sembra quasi un brano psych-rock e rimandi ala versione dei Led Zeppelin https://www.youtube.com/watch?v=NTYWZOVEUXE , e in conclusione troviamo una buona cover del super classico di Etta James At Last, con archi a profusione e ci sta, la King la canta con grande trasporto e Steve Cropper ci mette il suo tocco discreto. Non un capolavoro ma tutto sommato un album onesto.

Bruno Conti

Vent’Anni E Non Sentirli: Torna Un Album Classico, Più Bello Che Mai! B.B. King & Eric Clapton – Riding With The King (20th Anniversary Edition Expanded & Remastered)

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B.B. King & Eric Clapton – Riding With The King (20th Anniversary Edition Expanded & Remastered) – Reprise/Warner

Quando Riley “Blues Boy” King e Eric “Slowhand” Clapton si sono incontrati per la prima volta su un palco era il 1967, al Cafe Au Go Go di NYC, l’attrazione era B.B. King e Clapton suonava ancora con i Cream. Poi Eric, che era comunque un ammiratore di B.B. King, ha rivolto le sue attenzioni più verso gli altri King, Albert e soprattutto Freddie. In ogni caso i due non avevano mai inciso nulla insieme, almeno fino al 1997 per il disco di duetti di B.B. King Deuces Wild, nel quale avevano incrociato le chitarre in una gagliarda Rock Me Baby. I due da allora sono rimasti in contatto e Manolenta avrebbe poi più volte invitato King ai suoi Crossroads Guitar Festival, nel 2004, 2007 e 2010. Ma nel frattempo, nel 1999, i due erano riusciti a far coincidere i loro impegni per incidere un album assieme: doveva essere un album di Eric Clapton, con B.B. King come ospite, ma poi il musicista inglese, accompagnato dalla propria band, e con l’aiuto del suo produttore abituale Simon Climie, ha deciso di mettere fortemente al centro dell’attenzione la voce e la chitarra solista del musicista di Indianola, per cui la coppia si divise equamente i compiti, spesso all’interno dello stesso brano, a parte in due canzoni cantate dal solo B.B., Ten Long Years, il classico lentone firmato Taub/King, dove Eric è alla slide, e in When My Heart Beats Like a Hammer, sempre della stessa accoppiata, altro slow micidiale, con King sempre in forma Deluxe, come peraltro in tutto l’album.

Joe Sample al piano è fenomenale, ed eccellente la sezione ritmica con Nathan East al basso e Jim Keltner alla batteria, Doyle Bramhall II e Andy Fairwather Low sono spesso e volentieri la terza e la quarta chitarra, le sorelle Melvoin, Wendy e Susannah, sono le coriste in sei brani, mentre Tim Carmon è il bravissimo organista in tutto l’album e Jimmie Vaughan aggiunge la sua solista in Help The Poor, un brano firmato da Charles Singleton, spesso autore per il King, ma che rimarrà negli annali della musica soprattutto per avere scritto il testo di Strangers In The Night per Frank Sinatra, fine della digressione. Ma se avete già l’album, come immagino sia il caso (se no rimediate subito), quello che risalta è la qualità sopraffina delle esecuzioni, il suono magnifico, ancora migliorato dalla rimasterizzazione per la nuova edizione del ventennale, e l’intesa quasi telepatica tra i due grandi musicisti: i brani si susseguono splendidamente, dalla travolgente Riding With The King, un brano di John Hiatt, che sull’album del 1983 in cui era contenuto sembrava un brano solo normale, ma che nel testo rielaborato da Hiatt per l’occasione, e nella nuova versione della accoppiata Clapton/King diventa perfetto, con i due che si scambiano versi e licks di chitarra in modo fantastico, con le coriste e tutta la band in grande spolvero.

Le canzoni dovreste conoscerle a memoria, sempre se possedete l’album, ma ricordiamole ancora una volta: le due di King le ho appena citate, poi troviamo una acustica, ma con sezione ritmica, Key To The Highway di Big Bill Broonzy, rigorosa ma calda e vibrante. La funky, benché ben strutturata, Marry You, un pezzo R&B nuovo scritto per l’occasione da Bramhall II, Susannah Melvoin e Craig Ross, con un wah-wah che incombe sullo sfondo e un bel assolo di Eric, Three O’Clock Blues di Lowell Fulson è stato uno dei primi successi di King a inizio anni ‘50, il brano più lungo del disco, con i due che “soffrono”, come si conviene nelle 12 battute, in un altro lento di grande intensità dove gli assoli volano altissimi, tra le cose migliori di un disco che comunque si ascolta tutto di un fiato. I Wanna Be di Bramhall e Charlie Sexton, è un altro dei brani scritti appositamente per l’occasione, un sano errebì dove si gusta la sempre potente voce di King, che all’epoca era ancora in pieno controllo delle sue capacità straordinarie di cantante, e anche come chitarrista non scherzava, mentre Worried Life Blues di Big Maceo Merriweather è uno dei cavalli di battaglia di entrambi, se poi li mettiamo assieme si gode ancora di più, pur se in una versione intima e di nuovo rigorosa, ragazzi in fondo parliamo di Blues.

Days Of Old è un’altra canzone della premiata ditta King/Taub, un brano del 1958, quando il blues di B.B. King andava ancora alla grande di swing e Riley e Eric ci danno dentro di brutto anche in questa versione, prima di tuffarsi a capofitto in uno dei capisaldi del suono Stax, la celeberrima Hold On I’m Coming di Sam & Dave, rallentata ad arte per l’occasione, in una versione scandita, che però si anima in un crescendo fantasmagorico, prima di esplodere in una serie finale di assoli devastanti delle due chitarre. In chiusura troviamo Come Rain Or Come Shine uno dei classici assoluti degli standard della canzone americana, a firma Arlen e Mercer, un pezzo raffinatissimo dove, per quanti progressi abbia fatto Clapton come cantante, B.B. King se lo mangia con una prestazione sontuosa, prima di accarezzare Lucille e non so se la chitarra di Eric abbia un nome, ma anche lui la accarezza, Arif Mardin arrangia la parte orchestrale.

Se già non siete convinti, non avendo ancora il CD, nella nuova versione targata 2020 sono state aggiunte due bonus tracks per tentare anche chi il disco lo aveva già comprato all’epoca: una delicata e ricercata versione di Rollin’ And Tumblin’, sempre sulla falsariga degli altri brani elettroacustici presenti in Riding With The King, brano di cui Clapton ha postato un video sul proprio canale YouTube, e una versione impetuosa di uno dei classici assoluti del blues, quella Let Me Love You scritta da Willie Dixon che fa parte del repertorio dei più grandi bluesmen della storia, soprattutto chitarrist e la versione di Mr. B.B. King francamente non poteva mancare, oltre a tutto con Eric Clapton che lo spalleggia alla grande. Il disco vinse anche il Grammy nel 2001, arrivando al 3° posto nelle classifiche Usa e vendendo circa 5 milioni di copie in tutto il mondo.

Ristampa Blues dell’anno? Mi sa tanto di sì!

Bruno Conti

Da New York A Memphis, Tra Blues E Soul! King Solomon Hicks – Harlem

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King Solomon Hicks – Harlem – Mascot/Provogue

La Mascot/Provogue è sempre più lanciata nella ricerca di chitarristi e cantanti di talento da inserire nel proprio roster: l’ultimo, King Solomon Hicks, come orgogliosamente annuncia il titolo del suo” primo” album per l’etichetta americana, Harlem, viene proprio dal quartiere della Grande Mela, noto anche come la Upper Side di Manhattan, dove il giovane musicista di colore sotto la guida della madre ha iniziato a muovere i suoi primi passi fin da ragazzino, arrivando a pubblicare un disco già nel 2010, Embryonic, come chitarrista della Cotton Club All-Star Band, quando di anni ne aveva solo 14. Ora ne ha 24 e sulla copertina del nuovo album è ripreso con una chitarra che da lontano sembra una Gibson, ma in effetti è una Benedetto GA35, fatta a mano dall’omonimo maestro liutaio. E il disco è un misto di blues, jazz, soul, molto rock, gospel, funky, R&B, Il tutto al servizio di una voce calda e matura, e di uno stile chitarristico eclettico e sfavillante, dove tutte le componenti citate vengono messe in fila dall’ottimo produttore Kirk Yano.

Ed ecco quindi scorrere un misto di materiale classico e brani originali firmati da Hicks, accompagnato da una band dove militano elementi provenienti da Soullive, Lettuce, le band di Jack White, Hank Williams Jr e altri, più in un brano, come ospite, il vecchio batterista di Savoy Brown/Foghat Roger Earl. Nella presentazione del disco King Solomon ricorda che in questa fusione di stili vorrebbe inserire anche elementi più” moderni”, contemporanei rispetto al suono classico, ma, fortunatamente, mi sembra non ci siano riusciti: l’iniziale I’d Rather Be Blind (da non confondere con I’d Rather Go Blind di Etta James) è un pimpante brano dello stesso Hicks, tra blues e R&B, può ricordare lo stile Stax di Albert King, ma anche il suono Delmark dei primi anni ’70, piano e organo in bella evidenza, un ritmo scandito, la voce calda e suadente di Hicks, sembra quasi un brano uscito da Muscle Shoals (manco a dirlo), la chitarra disegna linee e licks classici senza cadere mai nello scontato, mentre una vibrante Everyday I Have The Blues è meno “swingata” rispetto a quella di B.B. King, decisamente più veloce e vicina agli stilemi delle band rock, con la solista in grande spolvero in una serie di interventi gagliardi, quasi allmaniani nel loro dipanarsi.

What The Devil Loves è un potente brano tra rock, blues e R&B, scritto da Fred Koller, con un magnifico Earl alla batteria e un impeto fluido e torrenziale nella chitarra del nostro; 421 South Main, uno dei pezzi originali, è un veloce shuffle battente con un florilegio di soliste furiose e un suono palpitante, mentre Love You More Than You’ll Ever Know, è proprio il brano di Al Kooper scritto per i Blood; Sweat & Tears, che negli ultimi anni sta vivendo una seconda giovinezza ( di recente Bonamassa e Gary Moore, ma in passato anche Donny Hathaway), la eccellente versione di Hicks ha tocchi jazzy e latineggianti alla Santana, ma anche un timbro di chitarra tra Peter Green e Moore, spaziale e lancinante al contempo. Headed Back To Memphis è un “bluesone” di quelli duri e puri, tosto il giusto, che illustra questo viaggio musicale da Harlem a Memphis con grinta e grande carica, sia vocale che strumentale, a riprova di una classe innata del giovane Solomon, che si difende egregiamente anche nel settore funky con una versione carnale del vecchio brano di Gary Wright Love Is Alive, che diventa uno strumentale tra sax e chitarrine wah-wah impazzite, sonorità sognanti un attimo e carnali e sensuali quello successivo.

Have Mercy On Me, se mi passate l’ossimoro, è un” indiavolato” gospel-rock preso a velocità da ritiro della patente, con Hicks e i suoi accoliti che ci danno dentro alla grande, e pure Riverside Drive quanto ad intensità non scherza, altro strumentale poderoso con la solista pungente del giovane King Solomon di nuovo in grande spolvero in sonorità quasi futuribili ed hendrixiane, ottimo pure It’s Alright , altro fremente e scandito blues di ottima fattura. In conclusione troviamo una versione ardente e magnifica di Help Me, il classico di Sonny Boy Williamson, riletto con grinta, feeling e una perizia tecnica alla chitarra veramente ammirevoli. Il disco esce il 13 marzo.

Bruno Conti

La Conferma Di Uno Dei Nuovi Talenti Emergenti Del Blues. Breezy Rodio – If It Ain’t Broke Don’t Fix It

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Breezy Rodio – If It Ain’t Broke Don’t Fix It – Delmark Records

Secondo album su Delmark https://discoclub.myblog.it/2018/06/12/e-ora-riesportiamo-anche-il-blues-a-chicago-da-roma-alla-windy-city-con-classe-breezy-rodio-sometimes-the-blues-got-me/ , e quinto complessivamente, per Fabrizio “Breezy “ Rodio, chitarrista e cantante italiano (è nato a Roma), ma da anni una dei più interessanti nuovi prospetti della scena musicale di Chicago, dove è diventato uno dei più rispettati difensori della grande tradizione delle 12 battute classiche, quindi blues elettrico, ma interpretato in modo eclettico e diversificato, con elementi anche della grande tradizione dei crooners, come per esempio l’utilizzo di una sezione fiati di tre elementi che aggiunge anche un retrogusto soul e jazz alle procedure. Gli anni di gavetta con la band di Lynsey Alexander, in studio e dal vivo, come testimoniamo le assai positive note firmate da Billy Branch (che però non appare nel nuovo disco, a differenza del precedente Sometimes The Blues Got Me, dove suonava l’armonica in due brani), confermano quanto detto dalla critica (anche modestamente dal sottoscritto) pure per questo If It Ain’t Broke Don’t Fix It.

Accompagnato da una band di ben sette elementi, l’eccellente Sumito “Ariyo” Ariyoshi al piano, Dan Tabion organo, gli altri due italiani Light Palone basso e Lorenzo Francocci batteria, più la sezione fiati, Constantine Alexander tromba, Ian Letts sax alto e tenore e Ian “The Chief” McGarrie al sax baritono, che rende il sound corposo e variegato, a cui si aggiungono alcuni ospiti tra cui spiccano Monster Mike Welch, Kid Andersen e Corey Dennison alle chitarre e Quique Gomez e Simone “Harp” Nobile all’armonica, Rodio ci regala un album di notevole spessore, dove gran parte del materiale porta la firma del titolare, ma ci sono anche alcune cover scelte con cura: due pezzi di B.B. King, A Woman Don’t Care, uno slow di grande intensità con i fiati in bella evidenza, mentre Breezy canta con grande passione e il suono pungente della sua chitarra ricorda quello del grande Riley, come ribadisce I’ll Survive, un brano più jazzato e romantico, cantato in modo suadente e che ricorda certe ballate del periodo di There Must Be a Better World Somewhere, Desperate Lover è un brano del reggaeman Bob Andy (altra grande passione del nostro) che la trasforma in una fremente canzone di grande fascino, “trucchetto” ripetuto anche per la dolcissima I Need Your Love, una canzone dal repertorio di Toots & The Maytals, cantata splendidamente da Rodio che ci regala anche un assolo di rara finezza.

Gli altri dodici brani sono tutte composizioni originali, tra cui spiccano l’iniziale title track, una funky tune che all’inizio sembra uscire da qualche vecchio vinile del grande James Brown, con fiati sincopati, organo e l’armonica che caratterizzano poi i continui cambi di tempo del pezzo , lo shuffle grintoso di From Downtown Chicago To Biloxi Bay con Corey Dennison alle armonie vocali, Dennison che canta e suona la seconda chitarra anche in Led To A Better Life, sentito omaggio a tempo di gospel allo scomparso Michael Ledbetter, con il danzante piano di Ariyoshi e i fiati di nuovo in bella evidenza, e l’assolo finale, splendido, affidato a un ispirato Monster Mike Welch e pure Kid Andersen è impegnato alla chitarra. A conferma della ecletticità degli stili utilizzati nell’album segnalerei anche la deliziosa I’m A Shufflin’ Fool che coniuga Sam Cooke e blues in modo impeccabile e raffinato, A Minutes Of My Kissing un forsennato R&R alla Chuck Berry, e ancora lo swing pimpante della fiatistica Look Me In The Eyes e l’autobiografica Los Cristianos che ricorda i suoi trascorsi in quel di Copenaghen sotto la forma di une bellissima blues ballad.

Mentre la lunga Green And Unsatisfied ci permette di gustare a fondo la sua squisita tecnica chitarristica e l’accoppiata Pick Up Blues, con armonica di nuovo in evidenza , e il tour de force chitarristico di Dear Blues illustrano al meglio lo spirito delle 12 battute tipico della sua etichetta. Insomma, per concludere, questo Breezy Rodio è veramente bravo e If It Ain’t Broke Fix It è sicuramente uno dei migliori dischi di blues classico uscito negli ultimi mesi.

Bruno Conti

Gary Moore, Il Rocker Innamorato Del Blues Parte II

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Seconda Parte.

1982-1989 Gli Heavy Metal Years

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Per chi ama il genere e ammetto che sono in tanti, il periodo “migliore” del musicista irlandese, ma come diciamo noi italo-britannici “it’s not my cup of tea”: finalmente arriva anche per Gary Moore l’agognato successo commerciale (a parte le parentesi con i Thin Lizzy), e anche se non amo particolarmente quel periodo, devo ammettere che qualche sprazzo di classe qui e là c’è, soprattutto in Corridors Of Power – Virgin 1982 ***, per esempio nella cover di Wishing Well dei Free, o nella collaborazione con Jack Bruce (che avrà un ottimo seguito nella decade successiva) nella “acrobatica” e potente End Of The World, cantata a due voci da Bruce e Moore e con un assolo di Gary che dà dei punti anche a Eddie Van Halen.

Nel dicembre del 1983 esce Victims Of The Future – Virgin 1983 *** la title track e Murder In the Skies sono due brani anche di impegno politico, con i musicisti della band che comunque in tutto l’album picchiano come dei fabbri ferrai, non male comunque la cover di Shapes Of Things degli Yardbirds dell’amato Jeff Beck: il suono è sempre durissimo, ma il disco arriva al 12° posto delle classifiche inglesi, in anni in cui l’heavy metal era molto popolare in UK.

Stessa posizione anche per Run For Cover- Virgin 1985 **1/2, disco nel quale al basso si alternano Glenn Hughes e Phil Lynott, e che comprende il singolo di successo (n°5 nelle charts) Out In The Fields, cantata insieme al suo autore Phil Lynott.. Stesso discorso per Wild Frontier – Virgin 1982**, ma con l’aggravante di una batteria elettronica mefitica che imperversa in tutte le canzoni, e “giustamente” il disco arriva all’8° posto.

1990-1995 Gli Anni Del Blues Parte I

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Quindi ritorna alla musica che lo aveva ispirato nei primi tempi a Belfast e lo fa in grande stile, con unanime successo di pubblico e critica: in Still Got The Blues – Virgin 1990 **** ½ tra i musicisti utilizzati nell’album Don Airey, Nicky Hopkins e Mick Weaver alle tastiere, Gary Walker e Brian Downey alla batteria, Andy Pyle e il fedele Bob Daisley al basso, oltre ad una piccola sezione fiati guidata da Frank Mead al sax. Spicca anche la presenza di due maestri del blues come Albert King e Albert Collins, e quella di George Harrison, che scrive That Kind Of Woman oltre a suonare la slide nel brano. Ma è tutto l’album che è splendido, un disco di electric blues con i fiocchi, i controfiocchi e il pappafico, suono perfetto come pure la scelta dei brani.

Un misto di brani originali di Moore, alcuni sublimi, come la lirica e melanconica ballata che dà il titolo all’album con lo squisito tono della chitarra, o l’omaggio a Stevie Ray Vaughan nella vorticosa Texas Strut, l’iniziale poderosa Moving On dove va di slide alla grande, e si ripete con il bottleneck nella fiatistica King Of The Blues, tributo ai Re delle 12 battute e pure la delicata e notturna Midnight Blues è una vera delizia.

In pratica tutte le canzoni, e anche le cover non scherzano: Oh Pretty Woman con Albert King alla seconda solista è devastante, anche grazie al lavoro dei fiati, ma soprattutto delle due fluentissime chitarre, Walking By Myself rivaleggia con le più belle versioni di questo pezzo di Jimmie Rodgers, da quella di Freddie King in giù, in Too Tired di Johnny Guitar Watson lui e Albert Collins si scambiano fendenti di chitarra come se ne dipendesse della loro vita e che dire dello splendido slow blues As The Years Go Passing By con Nicky Hopkins e Don Airey a piano e organo? Una vera meraviglia! E non è finita perché ci sono anche una versione da sballo di All Your Love che rivaleggia con quella di Clapton nel 1° album dei Bluesbreakes con la chitarra di Gary che dimostra una fluidità disarmante e anche a livello vocale Moore una prestazione di tutto rispetto nel corso dell’intero album.

Ovviamente non manca l’omaggio al proprio mentore Peter Green in una eccellente versione di Stop Messin’ Around: e nella versione rimasterizzata del CD uscita nel 2002 tra le cinque bonus, ci sono delle versioni monstre dello strumentale The Stumble, Freddie King via Peter Green, Further On Up The Road da Bobby Blue Bland a Clapton, fino a Bonamassa, e pure questa non scherza, e anche la lancinante The Sky Is Crying è da manuale.

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Un album praticamente perfetto, ma Moore si ripete con un altrettanto bello After Hours – Virgin 1992 ****1/2 che arriva fino al 4° posto delle classifiche inglesi ed ha un notevole successo in tutto il mondo, al solito Stati Uniti esclusi: tra i musicisti cambia il batterista con l’ottimo Anton Fig sullo sgabello, e alle tastiere arriva Tommy Eyre. Sei brani firmati da Moore e cinque cover (più altre due nella deluxe in CD del 2002), Albert Collins ospite in una vibrante The Blues Is Alright , e B.B. King a porre il suo imprimatur regale nella swingante e pimpante Since I Met You Baby cantata a due voci.

Key To Love di John Mayall sparata a tutta forza da Moore, la delicata ballata Jumpin’ At Shadows a completare i legami con i vecchi Fleetwood Mac e Woke Up This Morning ancora di BB King le migliori cover, mentre tra gli originali di Gary spiccano la fiatistica Cold Day In Hell, lo slow sempre con fiati Story Of The Blues, il vibrante rock-blues Only Fool In Town, la malinconica e notturna The Hurt Inside, e tra le bonus la versione lunga di un altro blues lento di grande intensità come All Time Low.

Ma come per il disco precedente è tutto l’insieme che funziona alla grande.

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L’anno successivo esce Blues Alive, ma ne parliamo brevemente nel capitolo dedicato a i dischi dal vivo.

I BBM, detti anche Cream parte 2, per la presenza di Jack Bruce e Ginger Baker, registrano un album Around The Next Dream – Capitol/Virgin 1994 ***1/2 in puro stile power trio, che arriva nella Top 10 delle classifiche ed è un solido disco di rock puro, dove spiccano l’iniziale Claptoniana Waiting In The Wings, a tutto wah-wah, la potente City Of Gold, la scandita High Cost Of Loving e la lunga blues ballad Why Does Love (Have to Go Wrong?) con il classico falsetto di Bruce che ci porta al gran finale strumentale in puro stile jam.

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Nel 1995 per completare la trilogia blues, esce il suo sentito omaggio a Peter Green, Blues For Greeny – Virgin 1995 ****, un disco interamente composto da canzoni del leader dei Fleetwood Mac, registrato utilizzando la stessa Les Paul Standard del 1959 impiegata da Green nei pezzi originali. Sembra quasi di ascoltare Blues Jam At Chess Parte II, con If You Be My Baby, Long Grey Mare, Merry Go Round, I Love Another Woman, la splendida Need Your Love So Bad, l’unico brano non firmato da Green, ma che era la sua signature song, il fantastico strumentale The Supernatural che come Same Way che la precede era su Hard Road di John Mayall, una più bella dell’altra, e pure la lunghissima Driftin’ e la magnetica Lookin’ For Somebody non scherzano.

2001-2006 Gli Anni Del Blues Parte II

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Vista la mala parata di Dark Days In Parade e il danzereccio A Different Beat due dischi bruttarelli e pure di scarso successo, Gary Moore decide di tornare al blues e anche se gli album non raggiungono le vette qualitative della decade precedente, sono comunque dei buoni dischi, spesso con un suono decisamente più blues-rock, come in Back To The Blues – Sanctuary 2001 -***, dove però non mancano i soliti brani con ampio uso di fiati come You Upset Me Baby, o il grande blues lento Stormy Monday, mentre tra le bonus c’è una gagliarda versione di Fire di Jimi Hendrix. Stesso discorso per Power Of The Blues – Sanctuary 2004 ***, siamo più in ambito rock-blues, ma le versioni di I Can’t Quit You Baby (Otis Rush/Led Zeppelin) e Evil di Howlin’ Wolf sono comunque gagliarde, come pure una Memory Pain di Percy Mayfield percorsa da un wah-wah insinuante e vigoroso.

Anche Old New Ballads Blues- Eagle 2006 ***1/2 è “duretto” a tratti, molto wah-wah nell’iniziale Done Somebody Wrong, anche con slide, ma poi mitigato da due ottime blues ballads, You Know My Love , la ripresa della sua stessa Midnight Blues, in origine su Still Got The Blues, come pure All Your Love e le melliflue ed eleganti Gonna Rain Today e No Reason To Cry, certificano una ritrovata vena, ribadita nel sognante strumentale conclusivo I’ll Play The Blues For You.

2007-2010 Gli Ultimi Fuochi.

Nell’ottobre del 2007 registra dal vivo al London Hippodrome Blues For Jimi – Eagle Records 2012 ***1/2,un ottimo tributo al mancino di Seattle che verrà pubblicato postumo cinque anni dopo, con la presenza negli ultimi tre brani di Billy Cox e Mitch Mitchell.

Lo stesso anno esce il buono Clase As You Get – Eagle 2007 ***1/2, dove si riunisce a Brian Downey, il vecchio batterista dei Thin Lizzy, e con Mark Feltham, l’armonicista dei Nine Blow Zero presente in due brani: il disco oscilla tra un rock-blues grintoso e tirato come in Eyesight To The Blind e Checking Up On My baby, e momenti più raccolti come gli slow Trouble At Home, I Had A Dream e la “mayalliana” Have You Heard o addirittura l’acustica Sundown di Son House dove Moore è impegnato al dobro.

L’anno successivo esce il suo ultimo album di studio Bad For You Baby – Castle 2008 ***1/2, ancora una prova positiva con ben due cover di Muddy Waters, una di JB Lenoir e la splendida slow ballad di Al Kooper Love You More Than You’ll Ever Know, con un assolo da urlo, oltre ad una serie di brani tra rock-blues e pezzi alla Led Zeppelin.

Nel 2010 partecipa per l’ennesima volta (credo la sesta) al Festival di Montreux, le cinque precedenti le trovate nel box Essential Montreux – Castle 2009 ****1/2, imprescindibile per chi vuole avere una idea della potenza che Gary Moore era in grado di scatenare nelle sue esibizioni Live: in questo senso ottimi anche il doppio (ma singolo CD) We Want Moore – Virgin1984 ***1/2, per il periodo hard rock, o l’eccellente Blues Alive – Virgin 1993 ***1/2, sempre con l’ospite Albert Collins, e non male pure l’appena ricordato Live At Montreux 2010 – Castle 2011, uscito postumo e che presentava tre brani inediti per un futuro progetto Celtic Rock che non si è mai materializzato a causa della morte avvenuta nel febbraio 2011.

Gary Moore, un grande chitarrista, spesso sottovalutato, e nell’’ultima parte di carriera anche un buon cantante. That’s all.

Bruno Conti

Un Documento Storico Formidabile Per La “Woodstock Nera”, Se Fosse Pure Inciso Bene… Ann Arbor Blues Festival 1969

ann arbor blues festival 1969

Ann Arbor Blues Festival 1969 2 CD Third Man Records

Un disco dal doppio giudizio: quattro e forse avrebbero potuto essere anche cinque stellette per il contenuto musicale e l’importanza dei musicisti coinvolti, due e a tratti anche tre, per la qualità sonora d questo documento, che esce esattamente 50 anni dopo lo svolgimento di questo evento: una sorta di Woodstock “nera “tenutasi ad Ann Arbor, alla Università del Michigan, tra il 1° e il 3 agosto del 1969, come “l’altro” Festival appena più famoso. Si trattò del primo grande Raduno che raccoglieva insieme quasi tutti i più grandi artisti del Blues americano, al di là di quelli itineranti che giravano per l’Europa negli anni ’60, grazie alla enorme popolarità, soprattutto in Inghilterra, ma anche in Europa, del British Blues e del blues-rock in generale,  e che di conseguenza aveva portato anche a collaborazioni importanti tra musicisti bianchi e i grandi delle 12 battute che li avevano  fortemente influenzati.

Senza stare a fare un trattato sulla situazione, comunque musicisti come Muddy Waters, Howlin’ Wolf, B.B. King, per citare i più importanti, ma ce n’erano parecchi altri, cominciavano a vendere dischi in quantità più che rispettabili anche al di fuori del cosiddetto “chitlin’ circuit” in cui si esibivano solo gli artisti afroamericani e nelle “race charts” di blues e R&B, iniziando anche a partecipare a Festival Folk per esempio Newport, che avevano aperto sia agli artisti neri che alla musica elettrica. Questo lungo preambolo per dire che nel cinquantenario di questo avvenimento sono riapparsi dei nastri registrati all’epoca, con apparecchiature di fortuna (piccoli registratori mono con nastri amatoriali e postazioni di fortuna in mezzo al pubblico) con cui gli stessi appassionati che avevano organizzato le serate  le hanno in qualche modo preservate per i posteri: i nastri sono arrivati alla Third Man Records di Jack White, grande appassionato di questa musica quasi arcana, che li ha restaurati nei limiti del possibile e li ha pubblicati in un doppio CD o in due vinili separati. Ripeto, per evitare equivoci, il suono è a livelli di bootleg o di trasmissione radiofonica fine anni ’60, quindi molto “primordiale”, si sente gente che parla, scherza, ride e tossisce, a tratti anche durante le canzoni, ma l’importanza storica giustifica la pubblicazione?

Francamente non lo so, probabilmente sì, basta saperlo: comunque i nomi citati sopra ci sono tutti: un B.B. King sontuoso e veemente con la sua orchestra, un Luther Allison “arrapato” in un lunghissimo medley (oltre 14 minuti) di Everybody Must Suffer / Stone Crazy, in cui la ferocia della esibizione è quasi inversa alla qualità del suono https://www.youtube.com/watch?v=M2LwSR8nw4M .I musicisti sono liberi di improvvisare e non sono costretti nei tempi dei dischi, però il suono è un grosso limite. Altrove, per esempio in alcune performance in solitaria, come quella iniziale, solo voce e piano, di Roosevelt Sykes, il suono è quasi accettabile, come pure nel brano di Arthur “Big Boy” Crudup, o Jimmy Dawkins che fa I Wonder Why, e ancora Junior Wells in un tributo a Sonny Boy Williamson, Howlin’ Wolf in una colossale versione, oltre 16 minuti, di Hard Luck, con il suo vocione più minaccioso che mai, un suadente Otis Rush in una spaziale So Many Roads, So Many Trains, incisa persino bene https://www.youtube.com/watch?v=mVCTG0nI_Nc .

Nel secondo CD troviamo un intenso Muddy Waters in una gagliarda Long Distance Call, incisa quasi “bene”, T-Bone Walker nei 10 minuti del suo capolavoro Stormy Monday, Big Mama Thornton che risponde alla Janis di Monterey con la sua Ball And Chain, e qui avremmo apprezzato un miglior sound per goderci al meglio la performance, e la James Cotton Blues Band nei 13 minuti vorticosi di Off The Wall. In qualità di cronista ho riferito a grandi linee cosa dovete aspettarvi, poi fate vobis. Quindi “consigliato” con riserva: e se siete bluesofili incalliti nei brani dalla qualità sonora non eccelsa fate finta che siano dei vecchi 78 giri.

Bruno Conti

Anche Senza Il Vecchio “Titolare” Un Gruppo Formidabile! The BB King Blues Band – The Soul Of The King

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B.B. King Blues Band – The Soul Of The King – Ruf Records

Sono stati per 35 anni i fedeli compagni di avventura di B.B. King, gli eredi di quella formidabile formazione che dall’inizio degli anni ’70, sotto la definizione di B.B. King Orchestra, aveva accompagnato l’omone di Indianola attraverso una serie di album di studio, ma anche infuocate esibizioni live che erano una sorta di celebrazione della blues e soul revue, con fiati a profusione, l’immancabile MC (Master Of Ceremonies) ad attizzare il pubblico con le sue infervorate presentazioni quasi simili ad un sermone, ed uno stile gioioso ed esuberante, che però non dimenticava mai gli anni difficili della gioventù nelle piantagioni, anche attraverso una serie di sofferti blues lenti dove BB King faceva cantare la sua Lucille e si confermava cantante di grande classe ed eleganza.

Anche se discograficamente non era più attivo dal 2008 King aveva proseguito con le esibizioni live fino all’ottobre del 2014, poco meno di un anno prima della sua morte. Questa B.B. King Blues Band, al momento un ensemble di 10 elementi (anche se in copertina se ne vedono otto), ha raccolto il testimone del blues, ed ora, sotto gli auspici della Ruf Records e con l’aiuto del produttore esecutivo Terry Harvey, realizza The Soul Of The King, un tributo alla musica del Maestro, attraverso la rivisitazione di alcuni classici di Riley B. King e alcuni brani composti per l’occasione dai componenti della band. Sono della partita anche quattro ospiti di pregio come Kenny Wayne Shepherd, Taj Mahal, Joe Louis Walker, Kenny Neal e il nuovo vocalist del gruppo, Michael Lee, presente solo nella conclusiva The Thrill Is Gone. Nel disco cantano anche, oltre agli ospiti, il trombettista e leader della band James Boogaloo Bolden, il bassista ed abituale voce solista Russell Jackson e il sassofonista Eric Demmer, con un piccolo aiuto da parte delle voci femminili di Diunna Greenleaf e Mary Griffin. Il risultato, manco a dirlo (ma non era scontato), è assolutamente delizioso, con alcune punte di eccellenza, e forse qualche brano dove le versioni sono fin troppo simili agli originali, ma d’altronde le hanno suonate sempre loro! Senza fare un lungo elenco di nomi, a parte i principali appena citati, basta dire che ci sono due batteristi, un tastierista, un bassista, un chitarrista e una sezione fiati con ben cinque elementi ,che garantiscono un suono pieno ed esuberante:

Irene Irene apre le danze, con la rovente chitarra di Kenny Wayne Shepherd ad offrire un diverso punto di prospettiva rispetto al più elegante per quanto intenso solismo di B.B., mentre i fiati punteggiano questa ottima ballata, cantata con sicurezza dalla voce vissuta di Russell Jackson https://www.youtube.com/watch?v=nlqaZAFGshI . Sweet Little Angel , uno dei capolavori assoluti di King è uno di quei brani sulla falsariga dell’originale, con organo e fiati in grande spolvero, e Kenny Neal, alla solista e all’armonica, per una interpretazione che cerca, riuscendoci, di non fare rimpiangere l’originale https://www.youtube.com/watch?v=ePD8DECct6c , ottima anche There Must Be A Better World Somewhere, ballata notturna e splendida, con un sax languido e una interpretazione vocale da brividi di Diunna Greenleaf, per non dire di Paying The Cost To Be The Boss , un vibrante e swingato duetto, con un dancing bass eccellente di Jackson, e un duetto inconsueto tra Mary Griffin e un pimpante Taj Mahal, al posto dell’armonica un assolo di sax di Demmer. Low Down è uno dei brani scritti per l’occasione, con tuba e tromba che gli conferiscono uno spirito molto New Orleans, grazie anche ad un ritmo sincopato e all’ottimo Jackson sempre impeccabile tra voce e basso, anche She’s The One è stata scritta per l’occasione, una sognante ballata con l’organo e il sax in grande spolvero, cantata appunto Demmer, mentre Taking Care Of Business, un ottimo funky, rimanda al sound del periodo di King con i Crusaders, canta ancora Jackson e l’assolo di chitarra sinuoso è di Wilbert Crosby.

Becoming The Blues è un intenso duetto di blues old school, una ballatona cantata da Jackson e la Greenleaf, con Neal all’armonica, brano che poi prende corpo e cresce nella seconda parte, con un ottimo Crosby alla solista https://www.youtube.com/watch?v=vyRU5GMC0Ew , seguita da Hey There Pretty Woman, cantata da Bolden, che rimanda al BB King anni ’70, più leggero e orecchiabile, non male anche Here Today, Gone Tomorrow, molto swingata  e mossa, che cede poi spazio ad una sontuosa , come da titolo, Regal Blues, con Joe Louis Walker che fa il BB King della situazione, con una grande prestazione in ricordo dei tempi andati, alla voce e alla solista. Molto bella anche la jazzata Pocket Full Of Money, una canzone quasi da crooner cantata da Bolden, che però non può competere con l’impeto vocale e chitarristico del grande B.B., che invece l’ottimo Michael Lee cattura in parte (l’originale era un capolavoro) in una versione esemplare e più contemporanea di The Thrill Is Gone. B.B. King avrebbe sicuramente approvato i suoi vecchi discepoli.

Bruno Conti