Taj Mahal – Un “Monumento” Della Musica Nera. Parte II

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Seconda Parte.

Volendo, e potendo, a fatica e cercando con pazienza, si dovrebbe trovare ancora in giro il box The Complete Columbia Albums Collection – 16 CD – **** uscito nel 2013, raccoglie l’opera omnia del primo periodo, con in più due CD extra, The Hidden Treasures Of Taj Mahal, in studio e un formidabile Live At the Royal Albert Hall April 18 1970, ancora con Jesse Ed Davis alla chitarra, che quasi da soli varrebbero il prezzo, se già non ci fosse tutto il ben di Dio degli album ufficiali, cercatelo, ne vale la pena, in rete si trova ancora abbastanza facilmente, e anche il doppio si trova separatamente se avete già tutti gli altri CD.

1977-1997 Gli Anni Del Vorrei Fare Di Tutto, Ma Non Sempre Tutto Funziona.

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Anzi direi che non si salva molto di questo periodo, vediamo cosa.

Brothers_Soundtrack

Dei tre album usciti su Warner tra il 1977 e il 1978 nessuno è particolarmente memorabile, forse il migliore è la colonna sonora di Brothers ***. Più interessante, ma introvabile Live & Direct *** registrato e pubblicato nel 1979. Per il resto negli anni ‘80 ci sono svariati dischi di canzoni per bambini e Taj – Gramavision uscito nel 1987, bella la copertina di Robert Mapplethorpe, ma per il resto è notte fonda.

Dancing_the_Blues

Like Never Before – 1991 Private *** è meglio, segnali di vita, ma se consideriamo che la migliore canzone è una ripresa di Take A Giant Step non ci siamo ancora. Buono anche Dancing The Blues – 1993 Private *** se non altro perché nel disco appaiono Bob Glaub, Richie Hayward, Etta James, Bill Payne, Ian MacLagan, e ci sono belle versioni di That’s How Strong My Love Is, Mocking Bird, Sitting On Top Of The World, I’m Ready. Da segnalare Mumtaz Mahal – 1995 Water Lily Acustics *** il disco con i due musicisti indiani N. Ravirikan e V.M. Bhatt, collaboratori anche di Ry Cooder.

Phantom_Blues

E pure Phantom Blues – 1996 Rca Victor *** non è niente male, anche qui c’è una serie di ospiti impressionante: Bonnie Raitt, Eric Clapton, Mike Campbell, David Hidalgo, Jon Cleary, tanto per citarne solo alcuni, produce John Porter, che suona anche la chitarra e notevole anche An Evening Of Acoustic Music – 1994 Ruf Records ***1/2 registrato in Germania nel 1994, che dimostra che le sue qualità di performer sono intatte.

Señor_Blues

Il migliore di questo periodo è peraltro Senor Blues – 1997 **** che lo riporta ai fasti del passato, tanto che vince il premio come miglior disco di Blues Contemporaneo alla 40a edizione dei Grammy (una rarità, visto a chi li danno ai giorni nostri!). Niente ospiti ma una dream band con Tony Braunagel alla batteria, Jonny Lee Schell alla chitarra, Jon Cleary e Mick Weaver alle tastiere e i Texacali Horns come sezione fiati: ottima anche la scelta dei brani, tra cover e materiale scritto per l’occasione, tra cui Queen Bee dello stesso Taj e 21st Century Gypsy Singing Lover Man scritta con Jon Cleary, e tra le riprese Mr. Pitiful dell’amato Otis Redding, Think dei 5 Royales, Senor Blues di Horace Silver.

Mind Your Own Business di Hank Williams, complessivamente è di nuovo un piacere riascoltarlo tornato in grande spolvero, anche al dobro e all’armonica, per non dire della voce, più vissuta, ma sempre potente ed espressiva, sentire il brano di Otis, che grinta ragazzi!

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1998-2020

Hanapepe_Dream

Purtroppo è in parte un fuoco di paglia. Anche se i dischi di musica Hawaiiana, quelli con la Hula Blues Band sono affascinanti, Sacred Island – 1998 Private ***1/2 e Hanapepe Dream – 2003 Tone-Cool ***1/2 con una versione splendida di All Along The Watchtower. Per il sottoscritto eccellente anche il disco dal vivo Shoutin’ In Key – 2000 Private Music ***1/2, registrato nel 1998 con la Phantom Blues Band, in pratica la formazione del disco del 1997, con Danny Freeman aggiunto alla chitarra., ci sono ottime versioni di Honky Tonk, EZ Rider, Stranger In My Own Hometown di Percy Mayfield, Leaving Trunk, Corrina.

Tra il 2003 e il 2006, alla rinfusa, escono varie antologie tra le quali, nel 2003, quella della serie Martin Scorsese Presents The Blues***1/2, nel 2005 un altro disco dal vivo con la Phantom Blues Band In St. Lucia ***1/2, pubblicato anche in DVD, e nel 2004 un Taj Mahal Trio Live Catch ***1/2.

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Poi finalmente, per festeggiare 40 anni di carriera discografica, esce un disco nuovo di studio Maestro – 2008 Heads Up International**** altro disco di notevole caratura, con una quantità iperbolica di ospiti: i Los Lobos presenti in Never Let You Go e Tv Mama, Jack Johnson che duetta con TM in Further On Down The Road, Ben Harper in Dust Me Down, Angelique Kidjo in Zanzibar, Ziggy Marley in Black Man, Brown Man. In più c’è la presenza della Phantom Blues Band come gruppo di accompagnamento, Toumani Diabaté con il quale nel 1999 aveva realizzato un disco Kulanjan, che forse non abbiamo ricordato, e anche la figlia Deva Mahal, che era apparsa nei dischi di canzoni per bambini: ci sono anche Leo Nocentelli, Ivan Neville, Henry Butler, una corposa sezione fiati e il disco ha un suono splendido.

Nel 2009 partecipa come ospite attivo, in ben 9 brani, al disco American Horizon dei Los Cenzontles ***1/2. Poi Taj rallenta decisamente l’attività nella decade successiva: ma occorre citare almeno il delizioso album natalizio Talkin’ Christmas With The Blind Boys Of Alabama – 2014 Sony Masterworks ***1/2 dove le armonizzazioni si sprecano, un altro CD dal vivo, questa volta doppio, con la Hula Blues Band Live From Kauai – 2015 ***1/2 e diversi dischetti di materiale Live registrati nel 1966, 1974 e1978, sotto forma di broadcast radiofonici.

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Infine decide di unire le forza con Keb’ Mo’ per regalarci lo splendido TajMo – 2017 Concord **** che l’anno successivo vince nuovamente il Grammy per Best Contemporary Blues Album: tra le canzoni una inconsueta cover di Squeeze Box degli Who, Waiting On the World To Change di John Mayer e l’immancabile Diving Duck Blues di Sleepy John Estes, mentre tra gli ospiti ricordiamo Billy Branch all’armonica e Lizz Wright alla voce. Per la verità l’ultima apparizione è stata come ospite nell’ottimo disco della BB King Blues Band – The Soul Of The King – 2019 Ruf Records ***1/2 recensito dal sottoscritto su queste pagine.

Per una volta tanto abbiamo voluto dedicargli questa retrospettiva mentre questo grande e geniale artista è ancora vivo e vegeto: lunga vita quindi a Taj Mahal che il 17 maggio del 2022 compirà 80 anni, e che sia un auspicio. Stile musicale: file under Grande Musica!

Bruno Conti

Taj Mahal – Un “Monumento” Della Musica Nera. Parte I

NEWPORT, RI - JULY 1968: Blues musician Taj Mahal (Henry Saint Clair Fredericks) poses for a portrait in July, 1968 at the Newport Folk Festival in Newport, Rhode Island. (Photo by David Gahr/Getty Images)

NEWPORT, RI – JULY 1968: Blues musician Taj Mahal (Henry Saint Clair Fredericks) poses for a portrait in July, 1968 at the Newport Folk Festival in Newport, Rhode Island. (Photo by David Gahr/Getty Images)

Henry Saint Claire Fredericks Jr in arte Taj Mahal, è veramente uno dei tesori assoluti (come il monumento da cui prende il nome) del Blues e delle sue derivazioni: contemporaneamente filologo ed innovatore, cantante appassionato alla Otis Redding e polistrumentista in grado di spaziare soprattutto tra chitarra, piano, banjo, e armonica, ma ne suona molti altri, con uno stile che incorpora, oltre alle classiche 12 battute, anche soul, R&B, rock, reggae, gospel, jazz, country, world music, con una predilezione per quella caraibica, voi le pensate e lui le suona, spesso fuse insieme in un tutt’uno magmatico che ne fa un musicista quasi unico. Con una discografia formidabile che cercherò di sviscerare in questo articolo/monografia sulla sua opera omnia.

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Nativo di Harlem, Manhattan, New York City, New York, per citare le esatte coordinate del luogo di partenza, Taj Mahal è poi cresciuto a Springfield, Massachusetts (non quella dei Simpsons, che è in Ohio o in Oregon, a seconda di come si sveglia il suo creatore), con babbo afro-caraibico, arrangiatore jazz e mamma componente di un coro gospel locale, quindi la musica certo non mancava in famiglia, subito in grado di distinguere tra la musica popolare e quella più raffinata che girava in casa, dove il jazz imperava, tanto che pare che Ella Fitzgerald avesse definito il padre “The Genius”. Padre che purtroppo morì ad inizio anni ‘50, quando Henry Jr., nato nel 1942 in piena guerra, aveva solo 11 anni: in un incidente sul posto di lavoro, perché la pagnotta, salvo rare eccezioni, non si guadagnava solo con la musica, ma attraverso altre professioni, nel caso di babbo Fredericks Sr,, una impresa di costruzioni. Dopo poco la mamma di Taj Mahal si risposò con un altro uomo, che possedeva una chitarra, e tramite un vicino di casa, che era il nipote di Arthur “Big Boy” Crudup (spesso la realtà supera la fantasia), ottenne le prime lezioni con lo strumento, e per il momento sfogava i suoi istinti vocali in un gruppo doo-wop alle scuole superiori, combattuto con l’altra sua grande passione che era quella di farsi una fattoria, tanto che molti anni dopo ha partecipato ad alcune edizioni del Farm Aid.

Quando arriva alla Università del Massachusetts ha già scelto il suo nome d’arte, ispirato dal Mahatma Gandhi e dalle culture orientali. Nel 1964 arriva a Santa Monica in California e l’anno successivo forma i Rising Sons con un giovanissimo (17 anni) Ry Cooder alla chitarra, Jesse Lee Kincaid anche lui alla chitarra, Gary Marker al basso e il futuro Spirit Ed Cassidy alla batteria, anche se dal 1965 arriva e quindi suona nel disco Kevin Kelley. A questo punto direi di iniziare a “sfogliare” l’imponente discografia del nostro amico, che mi sono (ri)ascoltata con grande piacere per scrivere l’articolo, ricca di album e di innumerevoli collaborazioni.

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Rising Sons Featuring Taj Mahal and Ry Cooder – 1992 Columbia Legacy ****All’epoca, pur avendo la band registrato materiale sufficiente per pubblicare un intero album, venne pubblicato, nel 1966, solo un singolo con 2 brani Candy Man b/w “The Devil’s Got My Woman che rimase allora assolutamente sconosciuto, anche se molti critici e giornalisti, nonché frequentatori della scena musicale, dicono che per certi versi anticipò molto delle scelte musicali di gruppi di quegli anni, dai Byrds ai Moby Grape, passando per Buffalo Springfield, Grateful Dead e Allman Brothers. Tutte cose che scoprimmo solo in seguito quando venne pubblicato il CD negli anni ‘90, con ben 22 tracce: prodotto da Terry Melcher il disco ha un suono splendido ed anticipatore, per quanto “ruspante”, sentito ancora oggi, pochi brani originali, quattro, scritti da Kincaid, una sfilza di classici del blues, e due brani d’autore, come un oscuro Dylan Walkin’ Down The Line e una splendida Take A Giant Step, scritta da Goffin/King, che poi diverrà una delle signature songs di Taj Mahal.

Ma tutto il disco è eccellente: da una vorticosa Statesboro Blues cantata con voce roca e stentorea da Taj a If The River Was Whiskey con Ry che comincia ad andare di slide, passando per l’ondeggiante Candy Man cantata coralmente, l’intima 2:10 Train arrangiata da Cooder con Mahal all’armonica, la vibrante Let The Good Times Roll, una 44 Blues che anticipa di anni i Little Feat, la dylaniana 11th Street Ovrecrossing, una corale raffinata Corrina, Corrina e così via. A questo punto il nostro, forte del suo contratto con la Columbia, inizia a pubblicare una serie formidabile di dischi solisti.

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Il Periodo Migliore, The Columbia Years 1968-1976

I primi due/tre dischi poi sono dei (quasi) capolavori , non gli ho dato 5 stellette solo per decenza, visto che ultimamente si sparano a destra e a manca anche per dischi che non le meritano, mi sono limitato “solo” a 4 ½ per ciascuno.

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Taj Mahal – 1968 Columbia ****1/2 Il disco omonimo, registrato nel 1967 e pubblicato l’anno successivo, è veramente formidabile, un disco di blues (rock) poderoso, che anticipa il suono degli Allman, con la doppia chitarra di Ry Cooder, però relegato spesso alla ritmica e al mandolino, e da quella ugualmente “letale” di Jesse Ed Davis, James Thomas e Gary Gilmore si alternano al basso, Sanford Konikoff e Chuck Blackwell alla batteria, mentre all’occorrenza Taj Mahal si ingegna con profitto anche a slide ed armonica, oltre a cantare come un uomo posseduto dalle 12 battute. Produce David Rubinson, il socio di Bill Graham, che poi lavorerà con Santana, Moby Grape, Elvin Bishop, Chambers Brothers.

Otto brani per 33 minuti circa, però non un secondo sprecato: Leaving Trunk di Sleepy John Estes apre l’album alla grande, con Taj subito infervorato e impegnato anche all’armonica, Statesboro Blues è ancora più potente di quella dei Rising Sons e anticipa la versione degli Allman, con il Nativo Americano Jesse Ed Davis alla slide, che poi nella successiva Checking Up On My Baby non ha nulla da invidiare al Mike Bloomfield della Butterfield Blues Band, con Taj Mahal ottimo di nuovo all’armonica e come cantante all’epoca aveva pochi uguali. Notevoli anche Everybody’s Got To Change Sometime di nuovo di Estes e il brano originale di Mahal Ez Rider che ha anche forti connotazioni R&B, grazie al groove del basso di Thomas, mentre Davis è sempre fantastico alla chitarra.

Trascinante la versione di Dust My Brown, dove Jess Ed oltre che ad una ficcante slide è impegnato anche al piano, con Taj che risponde colpo su colpo alla voce e all’armonica, prima di andare a pescare una terza cover del mai troppo lodato Sleepy John Estes con la gagliarda Diving Duck Blues e chiudere con una sublime versione del traditional The Celebrated Walkin’ Blues dove Ryland Cooder al mandolino e Taj Mahal alla slide e all’armonica, in quasi nove minuti distillano pura magia sonora, con una interpretazione vocale sempre magistrale. Lo stesso anno esce il nuovo album: Cooder non c’è più, al piano si aggiunge Al Kooper, Rubinson è sempre il produttore, mentre Davis cura anche gli arrangiamenti dei fiati per un disco che in un paio di brani aggiunge anche forti elementi soul.

A mio parere personale è addirittura superiore o almeno pari al precedente, con una versione colossale di You Don’t Miss Your Water la ballata di William Bell dove il nostro rivaleggia con Otis Redding in quanto a feeling e pathos, musica dell’anima meravigliosa.

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Comunque tutto

The Natch’l Blues – 1968 Columbia ****1/2 è di nuovo un disco superbo, imperdibile come il precedente. Almeno questi due sarebbero da avere a tutti i costi. Sette canzoni scritte dal nostro amico, di cui un paio di tradizionali riarrangiati, e due brani soul: oltre alla ricordata You Don’t Miss Your Water, c’è anche una cover della scatenata A Lot Of Love di Homer Banks, altro pezzo che rivaleggia con i migliori di Otis Redding, una sferzata di pura energia.

Il resto è di nuovo Blues elettrico di superba fattura: Good Morning Miss Brown con Mahal alla National steel bodied guitar e Kooper al piano, 12 battute scandite alla perfezione, Corinna arrangiata insieme a Davis è una ballata blues squisita cantata sempre con quella voce unica e preziosa, mentre I Ain’t Gonna Let Nobody Steal My Jellyroll è un blues elettroacustico di eccellente fattura, seguito da Going Up To The Country, Paint My Mailbox Blue, intenso lentone elettrico con con ottimo assolo di Jesse Ed Davis.

Done Changed My Way Of Living è un lungo e vibrante Chicago Blues di nuovo eseguito in modo superlativo, e cantato anche meglio, con Mahal che si lancia anche in uno scat con la chitarra di Davis; She Caught The Katy And Left Me A Mule To Ride è uno dei brani più celebri scritti da Taj, lieve e deliziosa, con una andatura ondeggiante e maliziosa, costruita sull’armonica, mentre The Cuckoo è un intenso blues a doppia chitarra, con il basso di Gary Gilmore e la batteria di Earl Palmer, che sono la nuova sezione ritmica, in bella evidenza e con finale in crescendo. Detto dei due pezzi soul, nella edizione in CD del 2000 ci sono due bonus notevoli, come New Stranger Love, uno slow lancinante con eccellente lavoro della solista di Davis e ennesima grande interpretazione vocale, e la scattante Things Are Gonna Work Out Fine, uno scintillante strumentale con grande interplay tra armonica e chitarra. Nel 1968, il suo anno d’oro, partecipa anche al Rock And Roll Circus degli Stones,

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mentre l’anno successivo esce un altro dei suoi capolavori di inizio carriera, ovvero

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Giant Step/De Ole Folks at Home 2 LP Columbia 1969 ****1/2, un doppio, anche se poi in CD sarà singolo, visto che dura 70 minuti scarsi, ma nella versione Legacy del Box è in due CD, con un disco elettrico Giant Step, sempre prodotto da Rubinson, e l’altro acustico in solitaria, De Hole Folks At Home.

Nel primo disco nuovamente il classico quartetto (senza Al Kooper) e con Chris Blackwell che torna alla batteria, dove la percentuale si rovescia, tre brani di Taj e sei cover, tra cui alcune fantastiche: dopo la deliziosa fischiettata di Ain’t Gwine Whistle Dixie Anymo’ troviamo la splendida Take A Giant Step una ballata scritta da Carole King entrata nel repertorio di TM e da sempre a lui legata, con un lavoro squisito di Jesse Ed Davis. Good Morning, School Girl è l’antesignana di quella che diventerà Good Morning, Little Schoolgirl di Sonny Boy Williamson, come si sa nel blues si prende e si dà, per l’occasione il nostro sfodera un approccio più suadente, mentre You’re Gonna Need Somebody On You Own di Blind Willie Johnson è potente e scattante, con la versione di Six Days On The Road che dimostra che Mahal e soci sapevano trattare alla grande anche gli inni del country, sempre mantenendo quel tocco soul alla Redding, una sorta di antenato del country got soul.

Bacon Fat attribuita a Robertson/Hudson è in effetti un brano del vecchio repertorio con gli Hawks pre-Band, ma era nota per l’interpretazione di André Williams, un blues and soul in souplesse con TM sempre sublime. E anche le due canzoni scritte da Taj sono bellissime: Give Your Woman What She Wants, un blues sanguigno dove sfodera di nuovo il suo timbro alla Otis e Farther Down On The Road una ballad mid-tempo che è puro Americana sound, prima che venisse inventato e rimarrà uno dei suoi cavalli di battaglia.

Devo dire che riascoltandolo ho aggiunto mezza stelletta al disco, veramente magnifico, e in più nel secondo disco De Ole Folks At Home TM tocca le corde del blues più puro e non adulterato, quello a cappella vissuto di Linin’ Track di Leadbelly, il Country Blues #1 (il titolo dice tutto), dove accarezza la sua national con bottleneck in questo superbo strumentale, l’arcana Wild Oax Moan, Light Rain Blues, per voce e blues, Candy Man del Rev. Gary Davis con la stessa formula sonora, una solenne Stagger Lee, un divertente strumentale solo per armonica Cajun Tune, dovrei citarle tutte: facciamo così, ve lo comprate e andate ad ascoltarlo.

Dopo una pausa di due anni torna con

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Happy Just To Be Like I Am 1971 Columbia **** Dopo tre capolavori non è che il nostro amico potesse continuare a sfornare dischi di quel livello per sempre, quindi si assesta su degli album “solo” molto belli. Ancora due prodotti da Rubinson, questo e il successivo Live, con Jesse Edwin Davis, solo in due brani in Happy…,

il traditional Oh Susanna con un flautino (detto fife) suonato dallo stesso Mahal, in un pezzo comunque ancora vibrante e groovy come nei tre dischi passati, con fiati a go-go, e ottima anche la blues-rock song trascinante che è Chevrolet.

Stealin’ potrebbe tranquillamente passare per un pezzo della Band (vista la presenza del loro produttore John Simon al piano) o dei Little Feat, con TM che rende funky anche il mandolino/banjo con il suo stile inimitabile. Eighteen Hammers è un blues solo con chitarra acustica e “campanacci”, geniale come al solito, la title track con basso tuba e fiati a pompare di brutto è un altro errebì esultante di quelli tosti suoi, che non fanno rimpiangere Redding,

Stealin’, c’è da dire, blues “funkato” con uso di mandolino solista, ancora Simon al piano e fiati a profusione anticipa lo stile del vecchio pard Ry Cooder, poi impiegato a fine anni ‘70. Anche Tomorrow May Not Be Your Day va euforicamente a tutta tuba e fife, e ci indica quale avrebbe potuto essere la futura svolta sonora di Otis se non ci avesse lasciato così prematuramente. West Indian Revelation con steel drums e le congas di Rocky Dijon, giro Stones, aggiunte, vira verso ritmi caraibici sempre visti attraverso la squisita sensibilità musicale del nostro, che canta sempre in modo orgoglioso delle sue radici, per poi rispolverare la sua National con bottleneck nel suggestivo e quasi misticheggiante strumentale Black Spirit Boogie. Lo stesso anno esce anche un disco dal vivo.

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The Real Thing – 1971 Columbia **** Live alla Carnegie Hall, si parte con Fishin’ Blues, solo Taj in solitaria, ma poi entra una band di dimensioni rispettabili, dieci uomini sul palco, con fiati a profusione che possono riproporre il suo repertorio in modo rigoglioso e superbo (anche con qualche chicca):

Ain’t Gwine Whistle Dixie Anymo’ che era una fischiettata di due minuti scarsi su Giant Step, diventa uno straordinario e complessi brano di nove minuti, dove tutti i musicisti si prendono i loro spazi, dalla sezione fiati, tutti anche alla tuba, a John Hall alla chitarra e John Simon al piano, con il nostro che imperversa da quel fantastico performer che era, segue il funky-blues Sweet Mama Janisse, le 12 battute classiche di Going Up To The Country, Paint My Mailbox Blue, e il pubblico approva ripetutamente. Nel finale arriva un dittico fantasmagorico con la sequenza John Ain’t It Hard, un blues dove TM ipnotizza i presenti ed una esuberante She Caught The Katy And Left Me A Mule To Ride, per chiudere con la tellurica e programmatica You Ain’t No Street Walker Mama,Honey But I Do Love the Way You Strut Your Stuff, che non dura neppure 19 minuti, e che sarà mai?

Fantastico, può bastare?

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Recycling the Blues & Other Related Stuff – 1972 Columbia ***1/2 è mezzo in studio e mezzo dal vivo, con il nostro da solo sul palco, ma uno in grado di suonare kalimba, banjo, steel-bodied guitar, contrabbasso non è mai da solo, e coglie l’occasione per proporre canzoni inconsuete, forse a parte Corinna. Anche nella parte in studio TM è da solo, se non ci fossero le scintillanti Pointer Sisters alle armonie vocali in versioni incredibili di Sweet Home Chicago e Texas Woman Blues.

Se tutti fossero in grado di “riciclare” in questo modo avremmo risolto il problema dei rifiuti nel mondo. Il ritmo delle uscite non rallenta ed esce subito anche

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Sounder – 1972 Columbia *** Prodotto da Teo Macero, quello di Miles Davis, si tratta di una colonna sonora, disco interessante ma interlocutorio, se ne può fare a meno.

Invece notevole il disco successivo

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Oooh So Good And Blues – 1973 Columbia ***1/2 ancora con la formula dell’one man band, rinforzato dalle leggiadre voci delle Pointer Sisters, che gorgheggiano da par loro in due brani originali Little Red Hen e Teacup’s Jazzy Blues Tune, con il titolo esplicativo e in una rilettura eccellente di Frankie And Albert dell’amato Mississippi John Hurt. Ottime anche Dust My Brown di Elmore James e Built For Comfort di Willie Dixon, dall’album in duo con Memphis Slim.

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Mo’ Roots – 1974 Columbia ***1/2 Ebbene sì, lo ammetto, e l’ho scritto varie volte, non sono un grande fan del reggae, con qualche piccola eccezione, e questo disco di TM rientra nella categoria, anche perché con la voce soave che si ritrova potrebbe cantare anche l’elenco telefonico (se esistesse ancora): comunque ottime Johnny Too Bad, la deliziosa Cajun Waltz dove si incontrano Louisiana e Giamaica, il tutto cantato in francese, con Carole Fredericks, la sorella di Taj e Claudia Lennear ad impreziosire il pezzo con le loro armonie, e anche la mossa Why Did You Have To Desert Me?, dove il nostro amico poliglotta canta anche in spagnolo.

A questo punto si ufficializza la svolta Afro-Caraibica, che non è quella che prediligo, lo ammetto, ed esce

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Music Keeps Me Together – 1975 Columbia *** il tastierista Earl Lindo del giro Bob Marley, Perry, Burning Spear è preminente, oltre a scrivere la title-track, lo stile è rilassato e piacevole, con incursioni nel jazz e funky, una strana versione reggae di Brown Eyed Handsome Man di Chuck Berry, le riprese di Further Down On The Road e la raffinata West Indian Revelation nella nuova veste sonora, le tre stellette sono di stima.

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Satisfied ‘N Tickled Too – 1976 Columbia *** E’ l’ultimo album ad uscire per la Columbia, anche questo, sempre a mio parere, non particolarmente memorabile. Salverei la title track, anche se Mississippi John Hurt fatto a tempo di reggae non mi fa impazzire, ma la canzone ha un suo fascino grazie all’uso della sua voce inconfondibile, anche New E-Z Rider Blues che sembra un brano di Marvin Gaye, funky il giusto e la lunga ballata soul Baby Love non sono male, anche se fin troppo leggerine, il delizioso scat di Ain’t Nobody’s Business è invece molto piacevole. Comunque si trova più funky che reggae nell’album.

Fine prima parte.

Bruno Conti

L’Album E’ Un Capolavoro: Ma Vale La Pena Il Costoso Box Per Gli Stessi 14 Brani Ripetuti 7 Volte. Più Qualche Jam? John Lennon Plastic Ono Band

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John Lennon Plastic Ono Band The Ultimate Collection Super Deluxe Box – 6 CD/2 Blu-Ray Audio Apple/Universal – 2 CD – 2 LP

Come per i colleghi George, Paul & Ringo, il primo album da solista di John Lennon fu assolutamente consono alle aspettative dei fans dei Fab Four: un disco “non facile”, ma che negli anni ha acquistato la statura di un capolavoro, forse non a livello di vendite, che non furono straordinarie, quanto a livello critico, dove i giudizi furono quasi unanimemente molto positivi (con i soliti distinguo, per esempio ricordo Dave Marsh, uno bravo, che disse che l’album era meno avventuroso dell’opera di Yoko Ono, ci aggiungerei un per fortuna, senza voler essere troppo scontato). Un disco dal suono volutamente scarno e particolare, con John accompagnato solo da Ringo Starr e Klaus Voorman, bassista dallo stile decisamente diverso da quello di McCartney. La produzione era nelle mani dello stesso Lennnon, di Yoko (?!?) e di Phil Spector, qui molto più sobrio negli arrangiamenti dopo il pasticcio di Let It Be dei Beatles: quindi in pratica un disco in trio, con Lennon che suona chitarre e tastiere, con le sole eccezioni del piano in Love, suonato dallo stesso Spector e da Billy Preston in God.

Come più o meno tutti sanno l’album fu fortemente influenzato, a livello di testi, dalla esperienza che John aveva intrapreso seguendo la “primal therapy” di Arthur Janov, famoso psicologo e psicoterapeuta californiano, che però non venne completata in quanto nel frattempo scadde il permesso di soggiorno di Lennon per rimanere negli USA. Ma i temi salienti del disco, principalmente “l’abbandono” dei genitori, della mamma Julia in particolare, vennero fortemente esplorati nei testi di molte canzoni, ma anche Dio, l’amore, Gesù, Hitler, Buddha, Kennedy, Elvis. Zimmerman e i Beatles, tutta gente in cui non credeva più, citata nel testo della bellissima God. Poi, dopo il ritorno in Inghilterra, l’album venne registrato ad Abbey Road tra il 26 settembre e il 23 ottobre del 1970 e pubblicato l’11 dicembre, per cui è un altro caso di Anniversario 50+1, come l’imminente Déjà Vu.

L’antefatto furono i tre singoli, inseriti come bonus nel box e anche nelle versioni doppie: Give Peace A Chance, l’inno corale pacifista registrato nella camera di Hotel dell’albergo di Montreal il 1° giugno 1969, Cold Turkey, registrata agli Emi Studios di Londra il 30 settembre 1969, con Eric Clapton aggiunto alla chitarra solista, e Instant Karma (We All Shine On), registrata a fine gennaio del 1970, con Alan White alla batteria, al posto di Ringo, George Harrison e Billy Preston, il primo singolo di un ex componente dei Beatles a vendere un milione di copie negli Stati Uniti, senza peraltro raggiungere il primo posto nelle classifiche. Tre ottimi brani, anche loro riproposti in sette differenti versioni.

Facendo un riepilogo dei contenuti del cofanetto: abbiamo un bel libro rilegato di 132 pagine, il poster di War Is Over, 6 CD audio e 2 Blu-Ray, che contengono un totale di 159 nuovi mix delle 11 canzoni del disco originale, inclusi i singoli, oltre ad una ventina di brani tra classici del R&R, due pezzi dei Beatles, qualche pezzo di Yoko, che non citerò (mi dispiace, ma ridateci Cynthia). Mentre i 6 CD audio contengono “solo” i 14 brani in diverse takes, suddivise in The Ultimate Mixes, The Out-Takes, The Element Mixes, The Raw Studio Mixes, The Evolution Documentary Soundtrack, The Jams And The Demos. Confesso che, pur essendo un grande fans dei Beatles e di Lennon, ho fatto parecchia fatica a sentire questa caterva di ripetizioni, sia pure spalmata in ascolti effettuati in diversi giorni. Comunque il suono è eccellente, specie nelle versioni in Dolby Atmos o Hi-Res presenti nei Blu-ray, ma anche i CD suonano bene, con una definizione eccellente.

Si diceva del capolavoro che è l’album originale, aperto con la catartica Mother, l’unico brano ad essere estratto come singolo: quattro tocchi di una campana funeraria aprono la canzone, poi entra il canto appassionato di John in grande forma vocale, anche in leggero falsetto a tratti e con un leggero eco applicato, sostenuto dalla ritmica marcata e scandita, quasi metronomica, con il piano rarefatto ed il ritmo che verso metà del brano inizia ad accelerare mentre la voce si incattivisce, fino alle urla quasi disperate della parte finale, uno dei 3-4 capolavori presenti nell’album, una canzone come raramente si era ascoltata, come impostazione sonora, fino ad allora. Hold On è uno dei rari brani positivi dell’album, su una ritmica agile, Lennon innesta la sua tremolo guitar, per un pezzo breve ma molto godibile. I Found Out torna al pessimismo di fondo delle canzoni di Plastic Ono Band, con i suoi richiami alle false religioni e idoli, John questa volta impiega una chitarra con il fuzz inserito che garantisce un suono più grintoso, quasi cattivo, tipico di molte sue canzoni con i Beatles, incalzante e con il basso di Voorman che trova un groove quasi colossale e fantastico.

Per molti il capolavoro assoluto del disco è Working Class Hero, canzone dal testo indimenticabile, intriso di idee “rivoluzionarie”, come disse lo stesso Lennon, forse lo stesso Dylan non fu mai così esplicitamente politico in una canzone, solo una voce, quella splendida di John e una chitarra acustica, e la parola “fucking” gettata ripetutamente e con noncuranza in faccia all’ascoltatore, per la prima volta in un disco mainstream. Isolation è una bellissima ballata pianistica sulle insicurezze portate dalla fama e dalla fortuna, brano che si infervora durante il suo svolgimento, con un Organo Hammond, sempre suonato da John, che arriva a metà brano e aggiunge profondità al suono. Remember apriva la seconda facciata del vecchio LP (e volendo anche del nuovo), un brano il cui riff di piano era già stato provato con i Beatles ai tempi in cui stavano incidendo Something di George Harrison, ma con un testo sempre fortemente influenzato dal lavoro di e con Janov, altro pezzo incentrato sul trio piano, basso e batteria sempre con un tempo pressante che man mano accelera, con il drumming inconfondibile di Ringo, ma ogni tanto si apre anche in brevi momenti più melodici tipici dell’arte sopraffina di Lennon come autore di canzoni, sempre con quel quid che solo i grandi avevano, anche il colpo di pistola finale (l’avrà chiesto a Spector?); Love, non c’è bisogno di dirlo, è una canzone su tutte le sfaccettature dell’amore, un tema che il nostro ha saputo maneggiare sempre con grande maestria, in questo caso bastano una chitarra acustica e il piano di Phil che va e torna, per ricreare le vecchia magia.

Well Well Well è uno dei pezzi più tirati, quasi da power trio, con lo spirito del vecchio rocker che torna a farsi sentire, riff granitico, Voorman di nuovo solidissimo al basso e chitarra lavorata il giusto, con John che si “incazza” come lui sapeva fare all’occorrenza, come nella parte centrale urlata e primeva, per spazzare tutte le sue problematiche, e finale caotico che riprende le tematiche del pezzo. Look At Me è un pezzo che risale all’epoca del periodo indiano dei Beatles, di nuovo voce e una chitarra in fingerpicking, non dissimile da molti dei brani usati poi nel White Album, sempre un piacere, da ascoltare ripetutamente. L’ultimo capolavoro dell’album è la sublime God, con un colossale (visto l’argomento trattato) Billy Preston al pianoforte a coda e quella sequela memorabile di versi che non si può non pubblicare, perché vale più di quanto io o chiunque altro potrebbe dire sui contenuti della canzone.

God is a concept
By which we measure our pain
I’ll say it again
God is a concept
By which we measure our pain
Yeah, pain, yeah

I don’t believe in magic
I don’t believe in I Ching
I don’t believe in the Bible
I don’t believe in tarot
I don’t believe in Hitler
I don’t believe in Jesus
I don’t believe in Kennedy
I don’t believe in Buddha
I don’t believe in mantra
I don’t believe in Gita
I don’t believe in yoga
I don’t believe in kings
I don’t believe in Elvis
I don’t believe in Zimmerman
I don’t believe in Beatles

I just believe in me
Yoko and me
And that’s reality

The dream is over
What can I say?
The dream is over
Yesterday

I was the dreamweaver
But now I’m reborn
I was the walrus
But now I’m John
And so, dear friends
You’ll just have to carry on
The dream is over

Il disco avrebbe potuto chiudersi qui ma per comletare la vicenda, come in una sorta di ripensamento, in coda viene aggiunta My Mummy’s Dead, il terzo brano dedicato alla mamma, dopo Julia e Mother, un breve brano di meno di un minuto, ripescato dai demo registrati a Bel Air in preparazione dell’album, cantato volutamente in modo monocorde sul tema musicale di una vecchia filastrocca per bambini.

E adesso un bel track by track di tutte le versioni alternative contenute nel cofanetto: scherzo ovviamente, se volete vi comprate il box che non costa poco e ve le ascoltate, anche perché francamente con alternate takes varie delle diverse tracce che vanno dall’1 al 91 non è che ci siano variazioni memorabili o imperdibili, se non per maniaci beatlesiani, però è l’occasione per risentire l’album ripetutamente, magari alla ricerca di quel guizzo di genio che comunque non manca: cito a caso, forse la take 2 di Hold On sul CD 2 è addirittura superiore a quella pubblicata, peccato che non sia completa, spesso discorso per la take 1 di I Found Out, una Love acustica senza piano, o le versioni del CD Elements che mettono in evidenza particolari delle registrazioni, qui solo la voce, là il piano, altrove la chitarra elettrica e così via, e qui troviamo una versione straordinaria di God, che già è splendida di suo e forse merita tutte le sette versioni. O le versioni del CD Raw Studio Mixes che mi sembrano simili a quelle già conosciute, ma sentite a rotazione con le altre hanno un loro fascino, mentre quelle del CD 5 estratte dal documentario Evolution, sono un delizioso dietro le quinte su come nasceva una canzone di John Lennon, narrate dal suo stesso autore mentre dialoga amichevolmente con i suoi collaboratori e amici.

E troviamo anche i demo registrati in studio e a casa: ripeto, da ascoltare, un po’ alla volta, magari nel corso di diversi giorni. Infine le jam che dovrebbero essere uno dei punti di forza dei contenuti musicali inediti del box non sono particolarmente memorabili: alcune, tipo le due parodie di You’ll Never Walk Alone, una via di mezzo tra il brano da musical e la versione di Gerry & The Pakemakers praticamente non partono perché John e soci iniziano immediatamente a ridere come dei pirla e pure nella Elvis Parody di Don’t Be Cruel e Hound Dog si salva giusto la parte strumentale perché il R&R regna sovrano (e il fuck my tit che gli scappa in una delle takes è proprio da John). I due accenni di pezzi dei Beatles, un minuto strumentale di Get Back e 20” di I Got A Feeling sono degli intramuscolo, meglio, ma sempre molto brevi Johnny B. Goode con incorporata Carol, Ain’t That A Shame di Fats Domino, forse la migliore, e Glad All Over di Carl Perkins, niente male neppure Honey Don’t che nei Beatles cantava Ringo e una spiritata Matchbox. Interessanti le due versioni di I Don’t Want To Be A Soldier, che poi sarebbe uscita su Imagine, Goodnight Irene di Lead Belly, due strumentali molto piacevoli di Hold On, ma spesso sono solo dei frammenti con i musicisti che cazzeggiano e si divertono tra loro in studio, insomma non proprio il Santo Graal dei ritrovamenti.

Quindi concludendo, se non avete l’album è assolutamente indispensabile da avere, magari la versione doppia, il cofanetto solo se avete disponibilità economiche, siete dei fan sfegatati di John e degli “archeologi” della musica.

Bruno Conti

Torna La Premiata Ditta “Imbrogli & Fregature”. Seconda Parte: Pink Floyd – Live At Knebworth 1990. Esce Il 30 Aprile.

pink floyd live at knebworth

Pink Floyd – Live At Knebworth 1990 – Parlophone/Warner CD 30-04-2021

Eccomi qua oggi a parlare di un’altra operazione discografica quantomeno discutibile dopo quella che riguardava Tom Petty e la pubblicazione di Finding Wildflowers separatamente dal cofanetto Wildflowers & All The Rest, nel quale era stato incluso lo scorso ottobre come CD esclusivo (e fatto pagare profumatamente): sto parlando di Live At Knebworth 1990, “nuovo” album dal vivo dei Pink Floyd che era già uscito due anni fa sul mastodontico box The Later Years. Con questo live (disponibile dal 30 aprile solo in versione audio, a differenza del cofanetto dove era presente anche in video) continua l’opera di “spacchettamento” di The Later Years, dal momento che lo scorso anno era già uscita a parte la versione restaurata audio/video del famoso doppio dal vivo del 1988 Delicate Sound Of Thunder https://discoclub.myblog.it/2019/12/24/cofanetti-autunno-inverno-15-unopera-lussuosa-costosa-ed-esauriente-anche-se-leggermente-incompleta-pink-floyd-the-later-years-1987-2019-parte-ii/ : giudico però questa operazione un filino meno grave di quella di Petty, in quanto chi possiede il box dei Floyd del 2019 può ancora godere di parecchio materiale esclusivo. Live At Knebworth 1990 a mio parere rappresenta però un’occasione persa da parte del gruppo inglese: infatti tra le varie mancanze di The Later Years, una delle più evidenti era quella del famoso concerto di Venezia del 1989 in versione audio, e se la scelta oggi fosse caduta su di esso invece della solita ripetizione se lo sarebbero accaparrato anche i possessori del costoso box.

Se però non siete tra di essi, questo CD è un acquisto praticamente obbligato soprattutto se siete estimatori del gruppo all’epoca formato da David Gilmour, Nick Mason e Richard Wright: si tratta infatti (ma lo saprete già) del famoso show che i nostri tennero il 30 giugno 1990 nel gigantesco Knebworth Park (a poco più di un’ora a nord di Londra), uno spettacolo di beneficienza che vide alternarsi sul palco nomi del calibro di Paul McCartney, Dire Straits, Genesis, Eric Clapton, Elton John e Robert Plant, e con i Floyd nel ruolo di headliners a chiudere la serata (NDM: caso volle che pochi giorni dopo il loro ex compagno Roger Waters fece parlare di sé ancora di più con il mega-evento The Wall Live In Berlin). Nel 1990 il tour mondiale di Gilmour e soci era già finito da circa un anno, e quindi per lo show di Knebworth dovettero rimettere insieme una band: si rivolsero dunque a membri già “collaudati” (Guy Pratt al basso e voce, John Carin alle tastiere, Tim Renwick alla chitarra, Gary Wallis alle percussioni e Durga McBroom ai cori) ed altri reclutati solo per quellata serata (Vicky Brown e sua figlia Sam alle voci, insieme alla rediviva Clare Torry che era presente anche su The Dark Side Of The Moon (quella che gorgheggia davvero in The Great Gig In The Sky, e non Doris Troy come ha scritto qualcuno erroneamente), oltre agli special guests Candy Dulfer al sax ed il noto compositore/arrangiatore Michael Kamen alle tastiere).

Il concerto, sette canzoni discretamente lunghe per poco meno di un’ora di durata, vede il gruppo in forma spettacolare, e, complice anche l’incisione perfetta, riesce ad intrattenere alla grande l’ascoltatore nonostante una setlist che riserva poche sorprese. I nostri infatti vanno prevedibilmente sul sicuro, iniziando con le prime cinque parti della sempre formidabile Shine On You Crazy Diamond, in cui Gilmour fa sentire subito di essere in serata. Vista la presenza della Torry non poteva mancare The Great Gig In The Sky, e la bionda cantante dimostra di avere ancora una gran voce nonostante i 17 anni passati dall’incisione originale; Wish You Were Here è sempre stata una ballata splendida e toccante, ma qui sembra che i Floyd la eseguano ancora meglio che nel tour precedente. Sorrow è un tributo che i tre pagano all’allora recente A Momentary Lapse Of Reason, ma in quel disco c’era di meglio (penso a On The Turning Away), mentre Money, che è già trascinante di suo, in quellaa serata smentisce quelli che sostengono che i Floyd fossero sempre uguali a loro stessi: infatti dopo una prima parte consueta i nostri si lanciano in una lunga e coinvolgente improvvisazione, durante la quale si concedono perfino un intermezzo reggae e la Dulfer fa la sua parte confermandosi brava oltre che bella (d’altronde ha suonato anche con Van Morrison, uno “abbastanza” esigente).

Il finale è pirotecnico, con la magnifica Comfortably Numb, che soffre un po’ dell’assenza della parte vocale di Waters ma si rifà con l’epico assolo finale di Gilmour, e con una delle Run Like Hell più belle e travolgenti mai sentite. Ripeto: se non avete il box The Later Years, questo Live At Knebworth 1990 è un CD da non lasciarsi sfuggire.

Marco Verdi

Anticipazioni: Una Ottima Edizione Super Deluxe Per Un Disco Storico. The Who – Sell Out. Esce il 23 Aprile

who sell out box

The Who – Sell Out  – Super Deluxe 5 CD/ 2 CD Polydor/IMS/Universal – 23-04-2021

Uscito in origine nel dicembre del 1967 (quindi nessun anniversario particolare), Sell Out fu pubblicato in CD una prima volta nel 1995 con 10 bonus tracks, ed una seconda volta in doppia Deluxe Edition nel 2009, con ben 29 tracce bonus. Si tratta del terzo album di studio degli Who, a volte non troppo considerato rispetto ai successivi Tommy, Who’s Next e Quadrophenia, ma significativo e propedeutico per il passaggio dal pop-mod rock del primo periodo al rock tout court dei dischi che sarebbero venuti in seguito. Prima di parlare del cofanetto lasciatemi infervorare un attimo su questa moda/mania delle versioni Super Deluxe: arma infallibile per scucire agli appassionati e ai fans, anche più volte nel corso degli anni, imbarazzanti quantità di denaro, spesso per riascoltare più e più volte le stesse canzoni in versioni molto spesso quasi identiche a quelle apparse sui dischi originali, quasi sempre in peggio, accompagnate da quello che si è soliti definire memorabilia. Ovvero poster dell’epoca, spillette, certificati fasulli, foto, gigantografie di Ave Ninchi nuda a cavallo, fustini del detersivo in omaggio, voucher per poter partecipare alla estrazione del Gronchi Rosa, DVD e Blu-Ray, spesso in versione solo audio, senza immagini, destinati agli audiofili, ma assai di frequente anche vinili aggiunti (che si potrebbero pubblicare tranquillamente a parte, come i supporti appena citati).

who sell out deluxe 2 cd

Ogni tanto, ma raramente, c’è anche un bel librone rilegato e una quantità congrua di materiale inedito: ed è il caso di questa Super DeLuxe Edition di Sell Out che ha le sue magagne, ovvero versioni a go-go dell’album in Mono e Stereo nei primi due CD, ma anche 46 brani inediti dei 112 compresi nel box. Oltre al bel libro rilegato di 80 pagine appena citato, ricco di note, curato dallo stesso Pete Townshend, troviamo i memorabilia di cui sopra, per l’occasione veramente ricchi: il manifesto originale dell’album di Adrian George, il poster del concerto alla City Hall di Newcastle, il programma di 8 pagine dello show al Saville Theatre, la business card del Bag O’Nails Club di Kingly Street a Soho, una foto del gruppo riservata al fan club degli Who, il volantino per i concerti del Bath Pavilion, uno sticker di Wonderful Radio London, la tessera personale dello Speakeasy Club appartenuta a Keith Moon e una newsletter del Who Fan Club. Poi la casa discografica non ha resistito alla quota vinile, questa volta contenuta, con due singoli 7”, i vecchi 45 giri, di I Can See For Miles e Magic Bus. Ci sarà anche la classica versione “per poveri” in 2 CD, contenente i primi due dischetti del cofanetto, quelli con le versioni mono e stereo, con 52 pezzi complessivi, e svariate versioni in vinile.

Se volete avere il materiale inedito però dovete acquistare il cofanetto: vediamo cosa contiene, in sintesi ma in modo approfondito (lo so è un po’ un ossimoro), visto che ne parliamo in anteprima prima dell’uscita che sarà il 23 aprile prossimo. Nell’album originale, che immagino tutti conoscano, in apertura troviamo la bellissima Armenia City In The Sky, preceduto da uno dei tanti commercials inseriti per ricreare l’atmosfera delle emittenti radiofoniche pirate dell’epoca https://www.youtube.com/watch?v=NN4TTG_9vuc , una delle rare canzoni non scritta dal solo Townshend (a parte qualche saltuario brano di John Entwistle, qui ce ne sono tre), ma con l’aiuto del suo amico e protetto Speedy Keen, quello dei Thunderclap Newman, non so se ricordate la bellissima Something In The Air? Armenia è cantata a due voci da Roger Daltrey e Keen, mentre l’altro brano memorabile è I Can See For Miles, pubblicata come singolo, con Keith Moon che comincia a punire la sua batteria con grande goduria. L’altro brano che uscì come singolo, ma solo in Olanda, è la deliziosa Mary Anne With The Shaky Hands, cantata a due voci da Pete e Roger in modalità psych-pop https://www.youtube.com/watch?v=y0GbhIO0F0Q , Odorono non fu presa molto bene dalla omonima compagnia che produceva deodoranti, ma Townshend che la cantava non ci fece molto caso https://www.youtube.com/watch?v=a_0KV3mGQ2M , Rael Pt.1 & 2 introduce il personaggio che tornerà periodicamente fino a Quadrophenia. Questo è quanto più o meno succede in mono e stereo nei primi 2 CD.

Tra le bonus il travolgente singolo in modalità power pop Pictures Of Lily, le bellissime cover di The Last Time e Under My Thumb degli amici/rivali Stones  , una vibrante Jaguar, cantata a due voci da Pete e John, nel CD 2, quello stereo c’è una versione esplosiva di Summertime Blues e una Sodding About dove Townshend applica alcune delle sonorità che Jimi Hendrix aveva portato al pop inglese per trasformarlo in rock https://www.youtube.com/watch?v=jfI1H-SXAHA , poi riproposte anche in Hall Of The Mountain King, sentire come suonano Entwistle e Moon, due macchine da guerra a rincorrere le evoluzioni chitarristiche di Townshend https://www.youtube.com/watch?v=N5gK0Ll9FQs . C’è molta altra roba interessante nella versione doppia: se invece siete “più ricchi” e vi orientate al cofanetto, il CD 3 contiene le studio sessions 1967/1968, 28 brani tra outtakes, versioni all’impronta, chiacchiere e pirlate varie in studio e chicche assortite, per esempio, per citarne alcune, versioni differenti di Dogs, Shakin’ All Over, Magic Bus, ma c’è veramente molto da sentire. Il CD 4, intitolato The 1968 Sessions – The Road To Tommy è sempre interessante, ma potevano sforzarsi un po’ di più, visto che contiene 14 pezzi per 40 minuti circa di musica, comunque ottime la “scintillante” Glow Girl, già presente in altre versioni anche nei dischetti precedenti, con elementi appunto di Tommy, Faith In Something Bigger, Dr. Jekyll And Mr. Hyde, la scanzonata e tirata Call Me Lightning, forse la migliore versione delle tante che appaiono nel box di Dogs. Ci sono anche due ulteriori versioni di Magic Bus, quella del singolo, e una più lunga, in mono, oltre ad una pimpante Fortune Teller.

Ovviamente come è d’uso in queste versioni Super DeLuxe i cosiddetti brani “inediti” sono spesso all’incirca sempre gli stessi, tanti, ovvero 46, ma ripetuti più volte in alternate takes dove le differenze sono minime, ma visto che sono indirizzati ai cosiddetti fans “completisti” è quello che ci si aspetta. Nel quinto CD Pete Townshend Original Demos, forse il più interessante, ci sono altre 14 tracce, e non sono solo i soliti demo voce e chitarra acustica od elettrica, ma alcuni vengono integrati con organo, basso e batteria, per esempio la piacevole ed inedita Kids! Do You Want Kids, l’alternate version di Glow Girl, molto interessante perché ovviamente in questo come negli altri brani la voce è quella di Pete Townshend. Inside Outside USA sembra quasi un brano dei Beach Boys, anche Jaguar con le robuste pennate dell’acustica di Pete è uno dei demo meglio costruiti, in Little Billy Townshend utilizza anche un inconsueto banjo, mentre Odorono è uno dei demo più rudimentali, come pure Pictures Of Lily poco rifinita, e anche l’alternate di Relax diciamo che non è memorabile, più interessante la poco nota e sognante Melancholia, in un remix del 2018, e a chiudere due eccellenti versioni di Mary Anne With The Shaky Hands in veste acustica ma “lavorata” e una strana psych I Can See For The Miles.

Questo è quanto: vale il centone abbondante (ma anche meno) che viene richiesto? Forse in questo caso la risposta è affermativa, dipende anche dal vostro portafoglio.

Bruno Conti

Savoy Brown – La Band Più Longeva Del British Blues! Parte II

savoy brown 70's

Seconda parte

Gli Anni ‘70, quelli di maggior “successo” commerciale 1970-1975

Successo è una parola forte, visto che al massimo arriveranno al 50° posto in UK, proprio con il disco successivo

savoy brown looking in

Looking In – 1970 Decca **** l’ultimo della formazione con Lonesome Dave Peverett che diventa la voce solista, Tone Stevens al basso e Roger Earl alla batteria, l’album conferma la buona vena compositiva della band, che alterna momenti raffinati ad altri più sanguigni che fanno arrivare il disco anche nella Top 40 americanhttps://www.youtube.com/watch?v=mQ9u3g1Nv-A . Copertina fantasy/horror e sound a tratti decisamente più virato ad un potente rock-blues, che poi i Foghat porteranno a compimento, vedi Poor Girl con Simmonds in gran forma, mentre Take It Easy più laidback, potrebbe passare per un brano di B.B. King, e anche Sunday Night, giocata in punta di dita, illustra il lato più swingante del gruppo, mentre nella sospesa Money Can’t Save Your Soul ci sono delle analogie con i Fleetwood Mac di Peter Green, con la lunga Leaving Again che opta per un approccio più tirato alla Humble Pie. Gran disco che prelude ad un cambio totale: Simmonds ingaggia praticamente quasi tutti i Chicken Shack dell’epoca, Raymond, Sylvester e Bidwell e il nuovo cantante Dave Walker. Il risultato è

savoy brown street corner talking

Street Corner Talking – 1971 Decca ***1/2 forse un filo inferiore, ma con la nuova line-up che va di rock (and roll): Tell Mama, con una ottima slide ricorrente, la cover di I Can’t Get Next To You dei Temptations, dove sembra di ascoltare gli Stones dell’epoca, la potente Let It Rock, la scandita Time Does Tell e la vibrante title track testimoniano di una band in buona salute e con Simmonds in grande forma, che poi nella seconda facciata si scatena nella lunga All I Can Do, dove piano e organo fanno da apripista alla lunga improvvisazione di Kim che poi la ribadisce in Wang Dang Doodle https://www.youtube.com/watch?v=YCSmA0gf14A .

savoy brown hellbound train

Hellbound Train – 1972 Decca *** Copertina ancora memorabile, meno il contenuto, al di là della lunga e travolgente title track che rimane uno dei loro brani più popolari sino ai giorni nostri https://www.youtube.com/watch?v=N6TkCLDcC7o , il resto è meno soddisfacente, benché il disco sarà quello di maggior successo negli States arrivando fino al n° 34 delle classifiche. Intendiamoci il disco non è brutto, però non soddisfa del tutto e segna l’inizio della parabola discendente dei Savoy Brown, ribadita nel successivo

savoy brown lion's share

Lion’s Share – 1972 Decca *** che pure inizia bene con una A Shot In the Head a tutto bottleneck https://www.youtube.com/watch?v=JBqFrMEobtQ  e due cover di blues come Howlin’ For My Far Darlin’ di Howlin’ Wolf e Hate To See You Go di Little Walter, con Simmonds che nel disco suona anche l’armonica, ma manca la grinta degli album precedenti, il suono è fin troppo scolastico.

savoy brown jack the toad

Jack The Toad – 1973 Decca **1/2 è anche peggio. Dave Walker lascia per i Fleetwood Mac e arriva tale Jackie Lynton come voce solista, Sue & Sunny come backing vocalist e Ron Berg alla batteria. Si salva giusto Simmonds alla chitarra e armonica, ma non basta.

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Boogie Brothers – 1974 Decca *** è migliore, grazie alla presenza del nuovo cantante e chitarrista, l’ottimo Miller Anderson, un veterano della scena rock-blues britannica, in arrivo dalla Keef Hartley Band: ottime l’iniziale Highway Blues, dove si apprezza la stentorea voce di Anderson https://www.youtube.com/watch?v=3VxeTV4zFBI , il country-blues Me And The Preacher con lap steel in evidenza, la cover a tutto riff di You Don’t Love Me (You Don’t Care) di Bo Diddley, con armonica aggiunta e il potente blues-rock Rock’n’Roll Star con Kim Simmonds al wah-wah https://www.youtube.com/watch?v=_pw1WNmGD_w .

savoy brown wire fire

Wire Fire – 1975 Decca **

Purtroppo Anderson rimane solo per un album, e in questo nuovo le parti vocali sono divise tra Simmonds, il bassista Andy Rae e il tastierista Paul Raymond: francamente si salva poco del disco, forse solo gli assoli di Simmonds, ma quelli sono sempre rimasti l’unica costante positiva nel percorso della band, insieme alla attività live, che ogni tanto ha riservato dei soprassalti di classe in un percorso in declino.

Come Per Altre Grandi Band, Un Lento Ed Inesorabile Declino 1976-2001

savoy brown greatest hits live in concert savoy brown live and kickin'

Vediamo cosa si può salvare in questo lungo periodo. Skin ‘N’ Bone – 1976 Decca ** è anche peggio, ma gli diamo una stelletta in più per la lunga Walkin’ and Talkin’ registrata dal vivo, dove Kim Simmonds rilascia un lungo assolo che vivacizza le operazioni e lavora di fino anche all’armonica. Su alcuni dischi dell’epoca stendiamo un velo pietoso: con l’uso di musicisti di provenienza Metal e Hard Rock, tipo l’ex cantante del Joe Perry Project. Tra i dischi dal vivo buono Greatest Hits Live In Concert – 1981 Town House *** con il titolo che dice tutto, mentre quelli in studio degli anni ‘80 è meglio dimenticarli. Per Kings Of Boogie – 1989 GNP Crescendo *** torna come cantante Dave Walker, che poi rimane anche per il successivo Live And Kickin’ – 1990 GNP *** Il resto della band, per usare un eufemismo, non è straordinario, ma il medley di 20 minuti con I’m Tired/Hard Way To Go/Louisiana Blues/Street Corner Talkin’/Hellbound Train è veramente gagliardo https://www.youtube.com/watch?v=vekUh34mWxs . In questo periodo escono anche molti CD dal vivo di archivio, alcuni registrati nel periodo 1969-1975, interessanti, ma visto che non credo siano molto reperibili vi ricordo solo, se vi capita di trovarli Live At The Record Plant 1975, Looking From The Outside: Live 69/70, Jack the Toad: Live ’70/’72, Hellbound Train, Live 1969-1972 tutti usciti a cavallo tra fine anni ‘90 e inizio 2000, fateci un pensierino.

Il Lungo “Ritorno” 2003-2020

Savoy-Brown-s-Simmonds-proud-of-band-s-longevity

Improvvisamente, agli inizi degli anni 2000, Kim Simmonds decide di porre un freno alla situazione, firma un contratto con la Blind Pig che nel 2003 pubblica Strange Dreams – 2003 Blind Pig ***, il primo di una serie di album, dove il nostro amico , improvvisatosi in seguito quanto meno adeguato cantante, e rimanendo axemen tra i migliori in assoluto in ambito rock-blues, decide di tornare a fare le cose sul serio. La BGO ripubblica in CD, spesso accoppiati a due a due gli album classici e Simmonds inizia a pubblicare per la propria etichetta alcuni dischi dal vivo che danno il via in anticipo ai festeggiamenti per il 50° Anniversario del gruppo in avvicinamento. Ma prima escono alcuni ottimi album per la Ruf Records, dove la nuova line-up, ancora attiva ad oggi, si rivela solida, compatta e finalmente degna delle glorie passate.

savoy brown voodoo moon

Il cantante e sassofonista Joe Whiting rimane solo per l’eccellente Voodoo Moon – 2011 Ruf Records ***1/2 per il quale riprendo quanto detto nella recensione dell’epoca “Non siamo di fronte ad un capolavoro, ma sarà il passaggio ad una casa come la Ruf che conosce l’argomento Blues e dintorni come le proprie tasche, sarà la nuova formazione, comunque il risultato finale non è da buttare, anzi, di tanto il tanto, il vecchio “fuoco” che li aveva portati ad essere una delle formazioni più importanti del cosiddetto British Blues Revival si riaccende https://www.youtube.com/watch?v=_6R7Za5DMb4&list=OLAK5uy_kWdC5oLxYpasJ1Ou1lpyrGb-706NoGWl8 . Non siamo ai livelli dei primi album come Getting To Point o Blue Matter ma ci avviciniamo al sound più rock di ottimi album come Street Corner Talking e Hellbound Train, il loro più grande successo negli States.”.

savoy brown songs from the roadkim simmonds and savoy brown goin' to the delta

Stesso discorso per il successivo Songs From The Road – 2013 Ruf CD/DVD ***1/2 Anche in questo caso mi cito “Era l’ora. Lo so, si dice spesso, ma in questo caso è più vero che mai. Dopo i chiari segnali di ripresa con un buon disco come Voodoo Moon, uscito nel 2011 e di cui vi aveva parlato positivamente sempre chi scrive: il passo successivo poteva, e doveva, essere un bel CD dal vivo (magari con DVD aggiunto): e così è stato, e anche se non sempre l’assioma, “ah, ma dovrebbero fare un disco Live” viene poi confortato dai risultati sperati, per i Savoy Brown, in questo caso, vale!” https://www.youtube.com/watch?v=TZym9Q67WxA  Nel 2014 Whiting abbandona e il gruppo prosegue come power trio, con Simmonds alla voce (uhm!) Tanto che il CD successivo esce come Kim Simmonds And Savoy Brown – Goin’ To The Delta – 2014 Ruf Records ***1/2 lo stile sarà anche Delta Blues, ma, forse per la prima volta, Kim firma tutte le 12 tracce del disco e suona con una grinta e una classe che sembravano perdute: sentire per credere, Laura Lee, grande Chicago Blues, lo slow duro e puro di Sad News, la potente Nuthin’ But The Blues, lo strumentale Cobra dove sembra di ascoltare gli ZZ Top https://www.youtube.com/watch?v=jP8ONu5cVTU .

kim simmonds and savoy brown the devil to paysavoy brown witchy feelin'

E anche il successivo The Devil To Pay – 2015 Ruf Records ***1/2 ribadisce la ritrovata vena, con Simmonds che scrive come un disperato, cosa mai fatta in passato, altre tredici nuove composizioni per festeggiare il cinquantesimo del gruppo che viene celebrato anche con il notevole Still Live After 50 Years Volume 1 pubblicato nel 2017 https://www.youtube.com/watch?v=TFUmjvoFpDk , al quale seguirà il volume 2 uscito nel 2019, entrambi per loro etichetta Panache Records, forse entrambi da 4 stellette. Nel 2017 Kim Simmonds festeggia i suoi 70 anni ed esce l’ultimo disco per la Ruf Records, tra streghe e blues, l’ancora una volta ottimo Witchy Feelin’ – 2017 Ruf Records ***1/2 con lui sempre i fedelissimi Pat DeSalvo al basso e Garnett Grimm alla batteria, in un disco che propone anche lo swamp Why Did You Hoodoo Me o Livin’ On The Bayou, tra Creedence e JJ Cale, il Mississippi Blues a tutto bottleneck di Standing On A Doorway, l’orgia hendrixiana con wah-wah a manetta di Thunder, Lighting And Rain https://www.youtube.com/watch?v=kUd-6ZNuvuc .

savoy brown you should have been theresavoy brown ain't done yet

Conclusa l’avventura Ruf Simmonds firma con la Quarto Valley, ma il risultato non cambia: ancora ottima musica per City Night – 2019 Quarto Valley ***1/2 con il gruppo che dopo tanto cercare sembra avere finalmente trovato l’elisir di lunga vita, con un ulteriore album solo di materiale originale di Simmonds, con le ottime Walking On Hot Stones a tutto riff e slide a manetta, uno slow lancinante come Selfish World e la eccellente title track dove la solista scorre fluida e fluente come ai vecchi tempi https://www.youtube.com/watch?v=2_7dd2IqzTs . Nel frattempo esce anche un ulteriore album dal vivo Savoy Brown Featuring Kim Simmonds  – You Should Have Been There! – Panache Records ****, registrato nel 2003 e che illustra gli inizi del comeback della band. Infine, ed è storia recente, come da titolo del CD https://www.youtube.com/watch?v=2l9HuI1MJ6E , non è ancora finita Savoy Brown – Ain’t Done Yet – Quarto Valley Records ***1/2, mi cito per una ultima volta “Puntuale come un orologio svizzero, quasi ogni anno, Kim Simmonds ci presenta un nuovo album: questo Ain’t Done Yet dovrebbe essere il numero 41 o 42 (parliamo solo di quelli di studio, se aggiungiamo Live e antologie il numero cresce in modo esponenziale), in 55 anni di carriera” https://www.youtube.com/watch?v=SzAgBCCu-hA . Quindi virus o non virus, non è ancora finita, o se preferite non sono finiti: prosegue la saga dei Savoy Brown, forse la più longeva band del blues-rock britannico, non contando nel novero ovviamente gli Stones.. Quindi lunga vita a Kim Simmonds e soci, e in attesa di nuove avventure, per il momento è tutto.

Bruno Conti

Savoy Brown – La Band Più Longeva Del British Blues! Parte I

savoy brown 60's 1savoy brown 60's 2

Proseguendo nella nostra serie di monografie dedicate ad una disamina di alcune delle principali band britanniche, inserite in quel filone che è stato appunto definito British Blues, dopo Fleetwood Mac https://discoclub.myblog.it/2019/06/28/in-attesa-del-cofanetto-inedito-atteso-per-lautunno-ecco-la-storia-dei-fleetwood-mac-peter-green-un-binomio-magico-dal-1967-al-1971-parte-i/ , Ten Years After https://discoclub.myblog.it/2013/03/13/alvin-lee-1944-2013-il-chitarrista-piu-veloce-del-mondo/ , e ovviamente John Mayall, con e senza Bluebreakers https://discoclub.myblog.it/2019/05/20/john-mayall-retrospective-il-grande-padre-bianco-del-blues-parte-i/ , questa volta ci occupiamo dei Savoy Brown, una delle band più longeve, in attività già dal 1965 e a tutti gli effetti, come dicono i nostri amici inglesi “still alive and well”, ancora vivi e vegeti, con una media di una o due nuove uscite discografiche all’anno, l’ultima pubblicazione risalente a fine agosto 2020 https://discoclub.myblog.it/2020/10/05/non-e-ancora-finita-eccoli-di-nuovo-savoy-brown-aint-done-yet/ . Naturalmente nel conteggio non inseriamo i Rolling Stones, che sono i più longevi di tutti, e che ultimamente un paio di capatine dalle parti delle 12 battute le hanno fatte: per essere pignoli mancherebbero i Chicken Shack, di Stan Webb e Christine Perfect, e tutta una serie di band e solisti, di culto o meno, che stanno ai margini di questa scena, o in quanto predecessori del fenomeno, Yardbirds, Animals, Pretty Things, Manfred Mann, “eredi”, dai Free ai Taste, tra i “minori” la Climax Blues Band, i Groundhogs e la Keef Hartley Band passando per Cream, Jeff Beck Group, Led Zeppelin, che però sono fenomeni a sé stanti; poi ci sarebbe la “second wave” del movimento, che partendo a metà anni ‘70 dai Dr. Feelgood, a inizio anni ‘80 approda a gente come la Blues Band e i Nine Below Zero. Magari dedicheremo una puntata al “Best Of The Rest”. Comunque bando alle ciance e veniamo alla vicenda dei nostri amici Savoy Brown: naturalmente mi sono fatto un bel ripasso riascoltando i loro album e ho avuto la conferma che i migliori album come sempre sono quelli di inizio carriera, per quanto punte di eccellenza più saltuarie, ci sono state anche negli anni successivi e nel clamoroso ritorno attuale.

Gli inizi, che coincidono proprio con gli “anni migliori” 1965-1970

Nel febbraio del 1965 Kim Simmonds, “lider maximo” e tuttora alla guida della band, decide di formare a Londra, insieme ad un gruppo di amici, quello che sarà il primo nucleo della sua futura creatura, nsieme a Bryce Portius, uno dei primi musicisti neri a fare parte di una band blues (rock) inglese, che era il vocalist, a cui si aggiungono il tastierista Trevor Jeavons, il bassista Ray Chappell, il batterista Leo Manning e John O’Leary all’armonica, molti dei quali non arriveranno neppure ad incidere, in un tourbillon di sostituzioni, il disco di debutto, che esce sotto il moniker di

SavoyBrownShakeDown

Savoy Brown Blues Band – Shake Down – 1967 Decca ***1/2 Il produttore, quasi inevitabilmente, è il deus ex machina della scena britannica, ovvero Mike Vernon, una garanzia. Undici brani, quasi tutte cover, meno due pezzi: uno The Doormouse Rides The Rails, firmato da Martin Stone, aggiunto come secondo chitarrista solo per questo primo album, poi troverà “fortuna” con i Mighty Baby, band a cavallo tra psych-rock e progressive, di cui se volete approfondire c’è un box di 6 CD At A Point Between Fate And Destiny – The Complete Recordings, con l’opera omnia https://www.youtube.com/watch?v=UnWMLRQ5eW0 . L’altro brano è la lunga Shake ‘Em On Down un traditional arrangiato collegialmente dalla band, con l’aiuto dell’ottimo pianista Bob Hall, che appare in tre brani del disco, in cui spiccano vibranti versioni di I Ain’t Superstitious, Let Me Love You Baby, Black Night, I Smell Trouble, Oh Pretty Woman, It’s All My Fault, ma tutto il disco è eccellente https://www.youtube.com/watch?v=KJKo1QApfVQ , con la formula della doppia chitarra, che viene riproposta per il successivo

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Getting To The Point – 1968 Decca ***1/2 dove come chitarrista arriva Dave Peverett (in futuro nei Foghat come Lonesome Dave Peverett), ottimo alla slide, e il suo socio Roger Earl alla batteria, anche lui poi nei coriacei Foghat. C’è anche un nuovo ottimo cantante Chris Youlden, mentre Bob Hall rimane in pianta stabile, con il nuovo bassista Rivers Jobe. Come vedete il bandleader Simmonds applicava la formula della rotazione, come Mayall con i Bluesbreakers; la band eccelle negli slow blues, dove si apprezza la tecnica sopraffina di Simmonds e la voce potente di Youlden, tipo l’iniziale Flood In Houston https://www.youtube.com/watch?v=pEVKNz0fyZw , Honey Bee di Muddy Waters, Give Me A Penny dove sembra di ascoltare il Jeff Beck Group, la potente Mr. Downchild con doppia chitarra https://www.youtube.com/watch?v=KJKo1QApfVQ , ma anche i pezzi più mossi come You Need Love di Willie Dixon, brano poi trasformato dagli Zeppelin in Whole Lotta Love prendendo spunto soprattutto dalla versione degli Small Faces, ma anche da questa https://www.youtube.com/watch?v=r0AQL0RnXMU . L’anno successivo, con l’innesto di Tone Stevens, viene realizzato

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Blue Matter – 1969 Decca **** che viene considerato (insieme al disco successivo) il loro capolavoro https://www.youtube.com/watch?v=N7wTOiYavCs&list=OLAK5uy_lrUqtRSmh00t70YCyznMN_4s_sjHEpfUE . L’uno-due iniziale con l’accoppiata Train To Nowhere e la minacciosa Tolling Bells è da sballo, ma spiccano anche le cover di Don’t Turn From Your Door di John Lee Hooker, e nella sezione live una superba Louisiana Blues di Mastro Muddy, con le chitarre di Kim e Dave che si inseguono, brano che è tuttora uno dei loro cavalli di battaglia, ottima anche una incendiaria It Hurts Me Too e il brano di Peverett May Be Wrong dove la band tira di brutto. Lo stesso anno, a distanza di pochi mesi, esce anche

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A Step Further – 1969 Decca **** altro disco che prosegue nella collaudata formula studio + live https://www.youtube.com/watch?v=Uybbl1wHWLo . E’ l’ultimo disco con Bob Hall al piano, che faceva da trait d’union tra il loro animo blues e quello più rock: Youlden firma quasi tutte le tracce della prima facciata in studio, tra cui spicca il solito “lentone” intenso Life’s One Act Play, dove appaiono anche gli archi, e spicca un assolo fantastico di Kim, e insieme a Simmonds, il vero tour de force Savoy Brown Boogie, registrato dal vivo a Londra nel Maggio 1969, un lungo medley ribollente di oltre 22 minuti, che incorpora Feel So Good, Whole Lotta Shakin’ Goin’ On, Little Queenie. Purple Haze e Fernando’s Hideway. I Savoy Brown ai vertici della loro potenza, quando competevano alla pari con Ten Years After e Fleetwood Mac, con in più la presenza di Chris Youlden che era un cantante fantastico, sentire per credere., anche se poi la sua carriera solista sarà del tutto deludente. Ma prima di abbandonare registra ancora con loro nel 1969 l’ottimo

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Raw Sienna – 1970 Decca **** non più prodotto da Vernon, ma da Youlden e Simmonds, entrambi anche al piano in alcuni brani, oltre a scrivere la totalità delle canzoni: anche se qualcuno azzarda che Youlden avesse “problemi” di dipendenza e forse fu questa una delle ragioni del suo mancato successo come solista. In effetti in questo album troviamo Needle And Spoon, brano ricercato, come altri presenti nel disco, meno portato al boogie e più rivolto verso il formato canzone https://www.youtube.com/watch?v=R4rQvaL9qxE , come ribadiscono la fiatistica A Litte More Wine, dove Peverett va di slide alla grande, con il supporto di Youlden al piano, in un pezzo in stile Chicago o Blood, Sweat And Tears, come pure That Same Old Feelin’, con grande solo di Kim, reiterato nella superba Master Hare, dove appaiono anche gli archi, mentre anche l’ottima Is That So di Simmonds non scherza, un lungo brano strumentale molto raffinato con forti elementi jazzy. Tutto l’album è comunque solido e centrato, tra i loro migliori.

Fine prima parte.

Bruno Conti

George Thorogood: Mr. Bad To The Bone! Parte II

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(MANDATORY CREDIT Ebet Roberts/Getty Images) UNITED STATES - JULY 13: Photo of LIVE AID and Bo DIDDLEY and George THOROGOOD; w/ Bo Diddley at Live Aid (Photo by Ebet Roberts/Redferns)

(MANDATORY CREDIT Ebet Roberts/Getty Images) UNITED STATES – JULY 13: Photo of LIVE AID and Bo DIDDLEY and George THOROGOOD; w/ Bo Diddley at Live Aid (Photo by Ebet Roberts/Redferns)

Seconda Parte.

Gli Anni Della Consacrazione Commerciale E La Conseguente Discesa 1985-1999

Dopo tre anni di concerti infiniti ( ne parliamo a fine articolo) si arriva al nuovo album di studio, nell’anno della partecipazione al Live Aid esce

George_Thorogood_Maverick

Maverick – 1985 Emi America – ***1/2 Dove arriva il nuovo produttore Terry Manning, partito con il soul Stax e poi passato anche per i Led Zeppelin fino ad approdare agli ZZ Top, un’altra band che di boogie e blues se ne intendeva, il suono si fa un più duro e mainstream, ma i nostri ci danno dentro comunque, come dimostra l’uno-due iniziale di Gear Jammer che va di slide, e I Drink Alone, un altro dei grandi cavalli di battaglia di Thorogood, che complessivamente firma ben quattro canzoni https://www.youtube.com/watch?v=4E9ydw_aDMg , notevole anche la famosa Willie And The Hand Jive di Johnny Otis, l’unico singolo che in carriera entrerà nella Top 100, forse perché sembra in tutto e per tutto un brano alla Bo Diddley https://www.youtube.com/watch?v=AuNOkGnEme8 . Insomma la qualità dei dischi comincia a diminuire, benché il tocco country di What A Price di Fats Domino e ldela conclusiva The Ballad Of Maverick e il rockabilly di Dixie Fried di Carl Perkins non sono per niente male, e una minacciosa e sospesa Crawling King Snake di Sor John Lee Hooker, e ben due Chuck Berry il medley Memphis/Little Marie e Go Go Go, dimostrano che il tocco magico non è scomparso. Dopo altri tre anni, e il primo disco ufficiale dal vivo arriva

George Thorogood BornToBeBad

Born To Be Bad – 1988 EMI *** Ancora Terry Manning in cabina di regia, suono sempre troppo secco e anni ‘80, anche se alcuni brani tirano di brutto, come l’iniziale Shake Your Money Maker dell’amato Elmore James dove Thorogood va di bottleneck con libidine  https://www.youtube.com/watch?v=pNKFePZk3rQ , come pure in Highway 49 di Big Joe Williams, rock’n’roll per You Can’t Catch Me e I’m Ready quella di Fats Domino, un po’ di R&B scatenato in Treat Her Right a tutto sax, blues nella “cattiva” e ululante Smokestack Lightning e nel train time di I’m Movin’ On, successo di vendite e fama sempre stabili. Dopo altri tre anni si entra nella nuova decade, con l’arrivo di un nuovo chitarrista Steve Chrismar che appare in

George Thorogood BoogiePeople

Boogie People – 1991 EMI ***1/2, con un suono decisamente più grintoso e sul versante blues-rock e classic rock, come testimonia l’iniziale If You Don’t Start Drinkin’, molto buona Long Distance Lover a tutta slide, il classico boogie Mad Man Blues di John Lee Hooker, come pure la cover acustica di I Can’t Be Satisfied di Muddy Waters, solo voce e chitarra con bottleneck, non un granché la title track, ottima la “lupesca” No Place To Go di Howlin’ Wolf https://www.youtube.com/watch?v=7burMF7K-Lk  , seguita da una gagliarda Six Days On The Road e dalla tirata Born In Chicago, con ottimo lavoro della solista, un tuffo nel country con la piacevole Oklahoma Sweetheart e l’omaggio R&R all’amato Chuck Berry con la riffatissima Hello Little Girl. Quindi un buon disco, che però non ha successo e segnala un declino del successo di Thorogood, che procede anche con il successivo

George Thorogood -Haircut

Haircut – 1993 Capitol *** Un solo pezzo firmato da George, su, indovinato, i canonici dieci: produce ancora Manning, Get A Haircut è un brano divertente ma non essenziale, questa volta ci sono tre canzoni a firma Wiilie Dixon, due per Howlin’ Wolf, tra cui la classica Howlin’ For My Baby, oltre a I’m Ready che ogni tanto Thorogood incide in studio, bene anche Cops And Robbers con il tipico drive sonoro del suo autore Bo Diddley https://www.youtube.com/watch?v=l7QKNP-C-CU , l’immancabile John Lee Hooker di Want Ad Blues e una “strana” Gone Dead Train, un pezzo cantato in origine da Randy Newman nella colonna sonora di Performance, il film con Mick Jagger https://www.youtube.com/watch?v=dSgWQSVGgig . Anche questo disco non rientra nella categoria degli indispensabili. Dopo quattro anni arriva l’ultimo CD per la Capitol, anche questo, per usare un eufemismo, non particolarmente brillante, parliamo di

George Thorogood RockinMyLifeAway

Rockin’ My Life Away – 1997 Capitol **1/2 Prodotto dalla band insieme a Waddy Wachtel(!), variazione sul tema ci sono 12 brani, alcuni anche inconsueti: Trouble Every Day di Frank Zappa, che in questa versione sembra un brano della J.Geils Band, anche vocalmente https://www.youtube.com/watch?v=UT6DRjA8k7s , mentre in Night Rider si va di slide, ma il brano è moscio, anche in The Usual, una bella canzone di John Hiatt il suono non sembra particolarmente brillante, e così via, anche il country Living With the Shades Pulled Down di Merle Haggard non acchiappa più di tanto, si salvano, a fatica, Manhattan Slide di Elmore James, il R&R della title track, e la cadenzata Blues Hangover di Slim Harpo. Non un brutto disco, ma manca la grinte e per un disco di Thorogood è una eresia: per il successivo album, l’ultimo del millennio

George Thorogood Half_a_BoyHalf_a_Man

Half a Boy/Half a Man – 1999 CMC *** torna Terry Manning alla produzione, un po’ meglio, ma niente di che. C’è anche una nuova etichetta del gruppo BMG, ma la collaborazione durerà per un solo album, più un Live: per confondere le idee si prova con 11 canzoni, solo un Chuck Berry e un Fats Domino, poi brani abbastanza oscuri di Keith Sykes B.I.G.T.I.M.E., la title track di Nick Lowe, un pezzo poco noto di Solomon Burke come Be Bop Grandma https://www.youtube.com/watch?v=gawgzsAqL4I  , ma anche due canzoni firmate da Willie Dixon, una per Little Walter e una per Magic Sam, in quota Blues, e Double Shot, tra R&R e R&B. Dopo una pausa di quattro anni, nuovo secolo, nuova casa discografica, nuovo produttore

george thorogood 2000's

Gli Anni 2000, Con Colpo Di Coda Finale.

George_Thorogood_ride_til_i_die

Ride ‘Til I Die – 2003 Eagle Records***1/2 Dietro la consolle c’è Jim Gaines, uno che di solito di blues ne capisce (ma non sempre), però questa volta ci siamo, anche l’arrivo di Jim Suhler, altro chitarrista coi fiocchi, controfiocchi e pappafico, alza il livello, forse non tutte le canzoni sono all’altezza, però: Greedy Man, scritta dal sassofonista jazz Woody Shaw è un ottima partenza, con la slide di George che si confronta con il sax di Hank Carter alla ultima apparizione con i Destroyers https://www.youtube.com/watch?v=y-ZyrDQpAu4 , Sweet Little Lady è un buon pezzo rock dove Thorogood e Suhler che sono anche gli autori se le suonano di gusto, Don’t Let The Bossman Get You Down è un gagliardo blues elettrico di Elvin Bishop del 1991, mentre anche il pezzo di JJ Cale Devil In Disguise subisce il trattamento boogie à la Destroyers, poi ripetuto nella ruvida She’s Gone di Hound Dog Taylor https://www.youtube.com/watch?v=0c7H3mWWwK8 , The Fixer è un robusto rock-blues scritto da Tom Hambridge il batterista/produttore. You Don’t Love Me, You Don’t Care, un brano di Bo Didley, sembra La Grange parte 2, veramente potente, poi si va di R&R con My Way di Eddie Cochran, e niente male anche That’s It I Quit, un tipico pezzo di Nick Lowe, e pure come country ci siamo, I Washed My Hands In Muddy Water, un pezzo che anche Elvis Presley incise in Elvis Country è veramente delizioso https://www.youtube.com/watch?v=QfofoLFQLhU , Move It di Chuck Berry è una garanzia, come pure la title track, un pezzo di John Lee Hooker, in versione acustica ma trascinante. Tre anni dopo arriva

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The Hard Stuff – 2006 Eagle Records ***1/2 Altro buon album, il 13° in studio prodotto nuovamente da Gaines, addirittura ben 15 brani (e nel precedente ce ne erano 13): con il nuovo sassofonista Buddy Leach, che è tuttora con i Destroyers, e una scelta del materiale interessante, grazie anche alla presenza di Rick Steff, alla fisarmonica e piano, e dell’aggiunta di Tom Hambridge, come co-produttore e autore di quattro canzoni, tra cui la esplosiva title-track https://www.youtube.com/watch?v=j1lCNtLQ1mM , la riffatissima I Did’t Know e Any Town U.S.A che sembra un brano del Mellencamp più rock https://www.youtube.com/watch?v=2THiY8mV148 . Ottime Hello Josephine di Fats Domino, che grazie alla fisa sembra, un pezzo cajun https://www.youtube.com/watch?v=3mxdw8j8iOI , Little Rain Falling una bella blues ballad con uso sax, scritta da Jimmy Reed, Dynaflow Blues di Johnny Shines dove George si esibisce alla acustica con bottleneck, una scatenata Rock Party scritta dal musicista contemporaneo texano Holland K. Smith, che sembra un pezzo dei migliori Rockpile o Blasters. Eccellente anche una rispettosa cover di Drifter’s Escape di Bob Dylan, la turbolenta Give Me Back My Wig del vate Hound Tog Taylor, la magnifica Taking Care Of Business, con profumi di Louisiana, grazie al suo autore Rudy Toombs, e un superbo lavoro del nostro alla slide https://www.youtube.com/watch?v=uEi2CN-KbfA , che poi si ripete nella vorticosa Huckle Up Baby di John Lee Hooker. Questo è il Thorogood che ci piace, che poi torna alla Capitol per l’ultimo album pubblicato nella decade

George Thorogood TheDirtyDozen

The Dirty Dozen – 2009 Capitol *** Anche se è una mezza fregatura, perché a fianco di sei brani nuovi tutti belli, ci sono sei canzoni tratte dai vecchi dischi della EMI. Il produttore è ancora Jim Gaines: le sei canzoni nuove sono tutte cover, Tail Dragger, Willie Dixon per Howlin’ Wolf, solita formula dei Destroyers, ovvero sano rock-blues tirato https://www.youtube.com/watch?v=beGfipR1mIY , Drop Down Mama è di Sleepy John Estes, un boogie con slide, una sorta di southern rock nordista, vista l’origine del nostro, Run Myself Out Of Townè un pezzo degli Holmes Brothers, un bel roots-rock, Born Lover di Muddy Waters, sempre con bottleneck a manetta, è un boogie rock travolgente, Twenty Dollar Gig tra R&R e R&B, con sax in evidenza e Let Me Pass di Ellas McDaniel completano il CD a tempo di robusto Bo Diddley beat.

george thorogood live in boston 1982 first edition

La nuova decade parte con il botto: intanto nel 2010 viene pubblicato il Live In Boston 1982 ****, dalla Rounder, la vecchia etichetta di George,che è stato diciamo la causa scatenante per questo articolo. All’inizio dell’anno successivo esce un altro eccellente album della discografia del musicista di Wilmington, ovvero l’ottimo

George Thorogood 2120_South_Michigan_Ave.

2120 South Michigan Avenue – 2011 Capitol **** Stiamo parlando dell’indirizzo dei famosi Chess Studios a Chicago, una delle mecche del blues, dove anche i Rolling Stones registrarono negli anni ‘60. Il produttore è di nuovo Tom Hardbridge, e come ospiti appaiono Buddy Guy, in una strepitosa rilettura di Hi-Heel Sneakers, un brano di Tommy Tucker dove i due chitarristi, soprattutto Guy, se le “suonano” di santa ragione https://www.youtube.com/watch?v=rhQtXHN8TvM , e anche Charlie Musselwhite è presente in due brani, prima una vibrante My Babe e poi nella title track, attribuita a Nanker Phelge, che era lo pseudonimo che usavano i Rolling Stones per le composizioni collettive, a piano ed organo per questo strumentale molto sixties anche Kevin McKendree, che insieme a Tommy McDonald e Hambridge, suona in alcuni brani del CD, quando non appaiono i Destroyers https://www.youtube.com/watch?v=SYMQQzIOFyg . Ottimi anche i due brani dell’accoppiata Thorogood/Hambridge, la potentissima Going Back a tutta slide e Willie Dixon’s Gone, altra blues song tosta e poi una sequenza di classici del blues, Seventh Son, Spoonful, Two Trains Running, Mama Talk To Your Daughter, Help Me, Chicago Bound e del rock and roll, Let It Rock e Bo Diddley, tutti eseguiti in modo brillantissimo con Thorogood in grande spolvero https://www.youtube.com/watch?v=u7UlDyUcV4I . Sembrava essere un ritorno di George ai livelli della prima parte di carriera, e invece cala il silenzio. Concerti dal vivo ne escono un paio, uno del 2013 e uno registrato nel 1980, ma per un nuovo album di studio, dobbiamo attendere fino all’uscita dell’unico album solo di George Thorogood

george thorogood party of one

Party Of One – 2017 Rounder/Spinefarm ***1/2 che esce 40 anni dopo il debutto omonimo, un album principalmente acustico, anche se il nostro amico non resiste ed in alcuni brani tira fuori la sua Gibson elettrica: produce di nuovo Jim Gaines ed il disco è proprio bello, anche se il titolo è “rubato” da un disco di Nick Lowe del 1990, I’m A Steady Rollin’ Man di Robert Johnson, apre le procedure, acustica con bottleneck e grande intensità https://www.youtube.com/watch?v=zKhgnxbsGlw , Soft Spot di Gary Nicholson è una via di mezzo tra Cash e il Presley ‘68 in modalità unplugged, Talahassee Women è un pezzo anni ‘30 che assomiglia a certe cose del primo Rory Gallagher, Wang Dang Doodle di Willie Dixon regge anche in versione acustica, come pure una delicata Boogie Chillen di John Lee Hooker. Eccellente anche No Expectations degli Stones, solo voce e acustica con bottleneck https://www.youtube.com/watch?v=qSyh5tC94l8 , Bad News di John D. Loudermilk sembra nuovamente un pezzo del Johnny Cash anni ‘60, mentre Down The Highway era su The Freewheelin’ Dylan, anche questa fatta molto bene, e Got To Move di Elmore James non si può fare senza una elettrica, ma The Sky Is Crying evidentemente sì, sempre in modalità slide. Dal lato tradizionale anche un Brownie McGhee e un Hank Williams, altre due canzoni del vecchio Hook, tra cui una One Bourbon, One Scotch, One Beer, dal vivo in solitaria e a chiudere una Dynaflow Blues dylaniana, alla faccia di chi pensa che i dischi di Thorogood siano tutti uguali  , saltiamo le sette antologie e veniamo ai dischi dal vivo.

george thorogood livegeorge thorogood live let's work together

Il primo, l’omonimo Live – 1986 EMI *** non è però rappresentativo della vera forza dei concerti del nostro, un po’ come era stato per Springsteen con il suo cofanetto ufficiale dal vivo, questa data registrata in Ohio, pur contenendo molti classici non soddisfa a fondo, intendiamoci non parliamo di un brutto album, d’altronde Who Do You Love? https://www.youtube.com/watch?v=mYcob11rKHc , Bottom Of The Sea di Muddy Waters, Night Time, I Drink Alone, One Bourbon, One Scotch, One Beer, Madison Blues, una attesissima Bad To The Bone, The Sky Is Crying e Reelin’ And Rockin’ danno l’idea del suo carisma di performer, e neppure Live: Let’s Work Together – 1995 Capitol *** registrato in due date del 1994 a Saint Louis e Atlanta, pur essendo più che rispettabile, soddisfa del tutto: non ci sono brani in comune con il Live del 1986, il pubblico è comunque entusiasta già da prima che inizi il concerto, il suono è più brillante e presente, ma come detto non convince a fondo, ottime No Particular Place To Go di Chuck Berry e Ride On Josphine con il classico Diddley Beat, il country-boogie di Cocaine Blues, una galoppante I’m Ready, Get A Haircut molto stonesiana  , la pimpante Move It On Over e la dirompente Let’s Work Together, oltre alla conclusiva Johnny B. Goode, presentata come inno nazionale del R&R e che se la batte con la versione di Johnny Winter https://www.youtube.com/watch?v=xZYcBFqaca0 .

george thorogood live in '99george thorogood live 30th anniversay

Anche Live In ‘99 – 1999 CMC *** è un disco dal vivo di discreta qualità (parliamo sempre del prodotto discografico, il perfomer non si discute), con punte di eccellenza nelle “solite” Who Do You Love?, una colossale anche se spezzettata One Bourbon, One Scotch, One Beer, l’uno-due di Get A Haircut/Bad To The Bone e la conclusiva You Talk To Much. Finalmente con Live 30TH Anniversary Tour – 2004 Capitol ***1/2 ci siamo, suono potente e presente, preceduto dal suo solito saluto al pubblico “How Sweet It Is”, vengono presentate, a fianco delle immancabili Who Do You Love, One Bourbon…, The Sky Is Cryng e Bad The Bone, anche I Drink Alone, lo slow blues Don’t Let The Bossman Get You Down, una scatenata Sweet Little Lady https://www.youtube.com/watch?v=cH3Twc55od8  e nella parte finale Greedy Man, The Fixer molto garage, That’s It I Quit e Rockin’ My Life Away.

george thorogood live in boston 1982george thorogood live at montreux 2013

Nella seconda parte della decade escono forse i due Live mgliori in assoluto, insieme alla recente strepitosa ristampa potenziata di Live In Boston 1982 – 2020 2 CD Rounder/Universal **** https://www.youtube.com/playlist?list=OLAK5uy_n-_3nWNtXXXuc083M4gGHqJL1fvbOy13M , ovvero Live At Montreux 2013 – CD DVD e Blu-ray Eagle Records **** con qualità audio/audio superba e qui mi cito: “anche i “malcapitati” (o fortunati) del Festival di Montreux dopo lo “Smoke On The Water” dei tempi che furono vedono di nuovo il fumo alzarsi dai locali del casinò, ma è quello dell’energia che sprigiona da questo uomo, sempre uguale ma sempre diverso nei sentimenti che ti ispira. Sarà solo Rock’n’roll ma minchia (scusate), che grinta, non ha nulla da invidiare a quella delle origini, voce e chitarra sono ancora oggi incredibili, la bandana non manca mai e lui è sempre una forza della natura https://www.youtube.com/watch?v=wZwHXdUVBuQ , il “solito” George Thorogood, grazie di esistere!” I brani sono più o meno quelli abituali, forse troviamo le inconsuete Rock Party e Tail Dragger, ma confermo quanto detto sette anni fa.”

george thorogood live at rockpalast

Anche per il successivo Live At Rockpalast – Dortmund 1980 – MIG Made In Germany 2CD+DVD ****, ma pubblicato nel 2017, rispolvero quanto scritto nella recensione originale, faccio una cover di me stesso: “per l’occasione siamo a Dortmund, quindi in “trasferta” rispetto alla più famosa location della Grugahalle di Essen, ma comunque anch’essa teatro di memorabili serate dal vivo, preservate per i posteri dalla emittente radiotelevisiva WDR, nella serie Rockpalast. Per la precisione è il 26 novembre del 1980, il nostro amico aveva appena pubblicato quello che sarebbe stato il suo terzo e ultimo album per la Rounder, More George Thorogood And The Destroyers. La prima cosa che colpisce l’occhio è la scelta del repertorio: su 15 brani (sia nella versione DVD, immagini un po’ buie, ma efficaci, come nel doppio CD https://www.youtube.com/watch?v=1zHsAyyS1_Y ), uno solo porta la firma di Thorogood, il resto è una scorribanda nelle pieghe del miglior blues e R&R d’annata, suonato a velocità supersonica, ma quando e dove serve, capace anche di momenti di finezza e abbandono (non molti, ma ci sono)! Chuck Berry, John Lee Hooker e Elmore James sono i più “saccheggiati”, ma tutto il Gotha della grande musica viene omaggiato.” Quindi da allora ad oggi poco è cambiato, se non la forza e la consistenza del suo repertorio. Dopo la lunga pausa dai concerti a causa del Covid il nostro amico è pronto a ripartire non appena la situazione lo consentirà. Direi che è tutto, leggete con attenzione e poi se volete approfondire, con il classico “celo manca” scegliete con cura.

Bruno Conti

George Thorogood: Mr. Bad To The Bone! Parte I

george thorogood 1

Anche se, a quanto dicono alcuni dei suoi detrattori, “…i dischi di George Thorogood sono tutti uguali e non c’è mai un vero assolo di chitarra”, il nostro amico, soprannome Lonesome George, oltre che Mr. Bad To The Bone, in effetti è uno degli axemen più travolgenti in circolazione, con quel suo stile che coniuga blues, rock and roll, boogie e rock classico, ed un altro nickname con il quale viene ricordata la sua tecnica prepotente al bottleneck è “The Satan Of Slide”. La maggior parte delle biografie riportano come luogo di nascita Wilmington, nel Delaware, ma il nostro amico dovrebbe invece essere nato a Baton Rouge, in Louisiana, dalla quale si trasferì con la famiglia per essere cresciuto poi appunto nel Delaware: la certezza è la data di nascita, il 24 febbraio del 1950, quindi pure lui ha tagliato il traguardo dei 70 anni nel 2020. Nell’anno 1970 ci fu l’evento discriminante che trasformò un fervente praticante e appassionato del baseball, nel quale forse vedeva anche una futura carriera, in un bluesman a tutto tondo (benché per alcuni anni, anche se era già quasi una rock star, continuò a livello semi-professionale a frequentare i campi di baseball), grazie alla musica che era la sua altra grande passione, quando assistette a NY ad un concerto di John Hammond Jr, e pure lui, come Jake Joliet Blues a.k.a. John Belushi, ricevette l’illuminazione divina che lo portò su quella strada, dove tuttora si trova, a cinquanta anni di distanza dagli esordi.

george thorogood 2

Esordi con una bella gavetta, anche come roadie di Hound Dog Taylor, che era uno dei suoi eroi, insieme a Chuck Berry, John Lee Hooker, Bo Diddley, Howlin’ Wolf, Muddy Waters, Elmore James, tutta gente della quale nel corso degli anni ha saccheggiato il repertorio (insieme a quello di molti altri, in quanto il repertorio del nostro è composto per la quasi totalità di cover): già intorno al 1973, tra un concerto e l’altro, forma la prima edizione dei Destroyers, agli inizi Delaware Destroyers, con il fedele compagno Jeff Simon, il batterista che ancora oggi divide con lui i palchi (e le sale di registrazione). Comunque con la prima line-up in essere, si spostano in quel di Boston, dove cominciano ad infiammare la scena dei club locali e già nel 1974 registrano un primo demo, che poi verrà pubblicato anni dopo dalla MCA come Better Than The Rest, ma ne parliamo nella disamina della discografia.

Gli Inizi 1974-1980

Nel 1976 arriva al basso Billy Blough, anche lui ancora oggi nella formazione dei Destroyers, che hanno eliminato il Delaware dalla ragione sociale, e messi sotto contratto dalla Rounder entrano in studio per registrare il primo album.

George Thorogood And The Destroyers

George Thorogood and the Destroyers – 1977 Rounder **** con la produzione di Ken Irwin, nei Dimension Sound Studios di Boston: dieci brani, con due soli originali di George, una vera schioppettata di energia, che esce a fine 1977 in piena esplosione punk, tanto che vista la potenza e la ruvidità del suono venne addirittura accostato ai tempi proprio al punk che nasceva in quel periodo, anche se la foto di copertina con Gibson di ordinanza, ed un repertorio che per autocitarmi da una vecchia recensione “è la reincarnazione dello spirito della trinità del rock’n’roll e del blues di Chuck Berry, Bo Diddley e John Lee Hooker che da sempre vivono in lui”: l’apertura è affidata ad un pezzo di un altro Hooker, Earl, You Got To Loes riff insistito e sound che ricorda i primi Stones, che a loro volta prendevano a piene mani da Chuck Berry, ottima Madison Blues un brano di Elmore James, altro mito, dove George va di bottleneck alla grande https://www.youtube.com/watch?v=LIh6I_0bmNw , seguito da una versione travolgente di One Bourbon, One Scotch, One Beer di Mastro “Hook”, con il tipico incalzante stile boogie del grande bluesmen del Mississippi, e l’assolo, al contrario di quanto dicono i suoi detrattori, c’è, mentre Blough pompa alla grande con il basso, per quanto aggiunto in seguito alla registrazione https://www.youtube.com/watch?v=obJpegVB5zk . Kind Hearted Woman di Robert Johnson, con acustica slide in bella mostra, ricorda di nuovo certe sonorità degli Stones tipo Love In Vain, Cant Stop Lovin’ è il secondo brano di Elmore James, anche questo tipico dello stile impetuoso di George, che per certi versi impugnava la chitarra come una clava o, appunto, una mazza da baseball, colpire precisi e con forza.

george thorogood and the delaware destroyers

Non manca ovviamente un brano dell’amato Ellas McDaniel a.k.a Bo Diddley, boogie, riff e ritmo, tre elementi immancabili del nostro, che vengono esplicati in una rutilante Ride On Josephine https://www.youtube.com/watch?v=A_FD3bvjfDs , che poi nelle volute di bottleneck di Homesick Boy, dimostra che volendo, raramente e con parsimonia, era in grado anche di attingere al proprio songbook, comunque sempre stretto parente di quello dei suoi ispiratori, e all’occorrenza anche ricorrere al patrimonio tradizionale della grande canzone popolare, come in John Hardy, un pezzo dai profumi folk solo per chitarra acustica, voce e armonica, prima di tentare anche la strada della ballatona blues in I’ll Change My Style dal repertorio di Jimmy Reed. Ma in chiusura scatena tutta la potenza dei suoi Destroyers nell’autoctona Delaware Slide, un nome, un programma https://www.youtube.com/watch?v=Z30ArnxgD4o . *NDB Nel 2015 il primo album viene ripubblicato come George Thorogood And The Delaware Destroyers ****, come era stato registrato in origine, senza le parti di basso, aggiunte in fase di mixaggio, quasi un disco nuovo. Esattamente un anno dopo, esce

George Thorogood MoveItonOver

Move It On Over – 1978 Rounder ****, degno successore del formidabile esordio, due dischi che per molti sono i migliori della sua carriera. Di nuovo dieci brani, tutte cover, perché evidentemente George era spossato dopo avere composto ben due canzoni per il disco precedente: ma non importa, materiale da cui scegliere ce n’è a iosa, e la band prende d’infilata prima la title track, un pezzo di Hank Williams, che subisce il classico trattamento à la Thorogood, poi una fenomenale Who Do You Love? di Bo Diddley, a tutto riff https://www.youtube.com/watch?v=k6fGcpp3KzE , e ancora una formidabile The Sky Is Crying con il bottleneck che scivola, scivola, scivola…  https://www.youtube.com/watch?v=qGBbsQ6QTsc Cocaine Blues è uno standard della canzone americana, Thorogood goes country, in una canzone che si ricorda soprattutto in diverse versioni di Johnny Cash, alle quali si è sicuramente ispirato il nostro. Chuck Berry mancava ancora all’appello, ma anche senza leggere il nome dell’autore It Wasn’t Me è R&R all’ennesima potenza e George e soci ci danno dentro alla grande e pure That Same Thing di Willie Dixon per Muddy Waters, viene “thorogoodizzata”.

george thorogood 1978

So Much Trouble di Brownie McGhee conferma l’assunto del suo autore, “the blues had a baby and they called it rock and roll”, con la solista che impazza, poi una pausa di riflessione per la splendida I’m Just Your Good Thing di Slim Harpo, sempre con influenze stonesiane. Si torna a rollare e roccare in Baby Please Set A Date di Homesick James, di nuovo con la slide in azione, che poi accelera ulteriormente in New Hawaiian Boogie, il titolo dice tutto, un altro brano d’annata di Elmore James https://www.youtube.com/watch?v=dlZXnG8RgCg . Il disco entra nella Top 40 americana e vende mezzo milione di copie (alla faccia di chi dice che Thorogood è un musicista di culto poco conosciuto al di fuori della cerchia degli appassionati , ma che nella sua carriera ha venduto più di 15 milioni di dischi) e a questo punto sbuca la MCA che pubblica

George Thorogood BetterThantheRest

Better Than The Rest – 1979/1974 MCA *** Diciamo un episodio minore, registrato nel 1974 quando GT era un illustre sconosciuto: le solite dieci canzoni, ma per complessivi 27 minuti, il suono è molto più ruspante, comunque abbastanza già ben definito: In The Night Time un pezzo garage sbucato da Nuggets, e anche I’m Ready un R&R frenetico, Howlin’ For My Darlin’ non può competere con l’originale di Howlin’ Wolf, fin troppo sguaiata e poco rifinita, You’re Gonna Miss Me non è quella dei 13th Floor Elevators ma un blues acustico di Memphis Slim, solo slide e voce, mentre Worried About My Baby è un’altra canzone di Howlin’ Wolf che riceve il trattamento Garage/R&R grintoso ma embrionale, con Huckle Up Baby di John Lee Hooker, qui in veste acustica, con un eccellente lavoro di Thorogood alla chitarra. Nel corso del 1980 Thorogood registra, e pubblica a fine anno, quello che sarà il suo ultimo album per la Rounder

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More George Thorogood And The Destroyers – 1980 Rounder ***1/2 Ancora un ottimo album, con le classiche e canoniche dieci canzoni, nove cover ed una firmata dallo stesso George come Jorge Thoroscum, per non “farsi riconoscere”! Il disco nella versione in CD è uscito anche come I’m Wanted, ma sempre quello è: il menu è il solito, ma c’è una novità, l’ingresso di Hank Carter al sax, che poi rimarrà fino al 2003, nello stile di Thorogood, come per esempio nella iniziale I’m Wanted di Willie Dixon, sempre in veste rock and roll, con assolo di sax aggiunto, le note vengono allungate per creare quell’effetto che poi permetterà al nostro una sorta di rito, ovvero quello di “battezzare” i fans nelle prime file ai suoi concerti, pratica alla quale ho partecipato anch’io, quando l’anno successivo George è venuto in Italia per il suo primo concerto nel Belpaese https://www.youtube.com/watch?v=UpewYYtheB8 .

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Tornando al disco Kids From Philly è uno strumentale frenetico, chi ha misurato dice 180 bpm, ma è comunque un bel sentire https://www.youtube.com/watch?v=Jwk0-oZH070 , One Way Ticket è il classico blues alla e di John Lee Hooker, declamato da Thorogood, Bottom To The Sea è un Muddy Waters d’annata, che evidenzia similitudini con un altro che praticava un blues ruspante sull’altro lato dell’oceano Rory Gallagher, anche la voce è tipicamente roca e vissuta, come chitarrista l’irlandese era decisamente superiore ma George si difende con onore. Night Time è proprio quella degli Strangeloves, un pezzo tra psych e garage, che diventa più R&R nelle mani di George, con il sax entrano anche elementi R&B nel sound dei Destroyers, vedi Tip On In di Slim Harpo, mentre Goodbye Baby è il classico lento in modalità slide di Elmore James, e una turbolenta House Of Blue Lights è puro Rock’n’Roll all’ennesima potenza https://www.youtube.com/watch?v=UenvtCLHIbQ , con Just Can’t Make It che rende omaggio al maestro Hound Dog Taylor e la vertiginosa Restless a Carl Perkins.

Gli Anni Della Consacrazione 1981-1999

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Con questo disco finisce il trittico per la Rounder, forse i suoi dischi migliori ancora oggi, nel 1981 Thorogood realizza il 50/50 Tour dei record, ovvero 50 concerti in 50 giorni nei 50 Stati americani e in un giorno tenne pure due concerti nella stessa giornata. Lo stesso anno fece anche da supporto agli Stones nella loro tournée, e vennero anche in Europa, puntata a Milano compresa, come ricordato, tra l’altro il 13 aprile, due giorni dopo la storica data di Springsteen all’HallenStadion di Zurigo, all’Odissea 2001, locale basso e stretto, dove dopo il rito della “benedizione” ricordo che già in pochi minuti eravamo tutti schiacciati contro la parete opposta al palco, per essere lontani da una onda sonora micidiale con rischio tinnito, e comunque due giorni di fischi alle orecchie. Però gran concerto. Nel 1982 firma per la EMI, quindi una major, ed esce il “mitico”

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Bad To The Bone – 1982 Emi America Music ***1/2-**** La differenza nel giudizio verte sul fatto che riusciate a trovare o meno la versione Deluxe uscita nel 2007, con sette bonus tracks re-incise quell’anno, ma va bene anche quella normale. Il repertorio si fa più vario, George scrive “ben tre brani”, tra i quali la leggendaria title track, che nel corso degli anni è diventata la sua signature song, ma sin da allora è diventata una canzone di culto, senza vendite clamorose (come l’album, che arrivò comunque al 43°posto delle classifiche USA, con la rispettabile cifra di mezzo milione di copie vendute), ma prima, grazie al divertente video su MTV, dove giocava a biliardo con il suo idolo Bo Diddley, che però in Europa non è disponibile su YoTube, quindi https://www.youtube.com/watch?v=8KciRaANKmo. poi con l’utilizzo nella colonne sonore di Christine e Terminator 2, e nel corso degli anni in decine di altri film e spot pubblicitari, si è trasformata in un tormentone. Alla riuscita del disco contribuì sicuramente anche la presenza del “sesto” Rolling Stone, ovvero Ian Stewart, al pianoforte in tutto l’album: il repertorio è consistente, dall’iniziale Back To Wentzille, sempre firmata da Thorogood, con sax, pianino e chitarra scatenati, Blue Highway scritta da Nick Gravenites per Brewer & Shirley illustra il lato cantautorale del nostro amico.

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Nobody But You un pezzo soul tipo Shout degli Isley Brothers, diventa una volata R&R a rotta di collo, mentre It’s A Sin di Jimmy Reed è una ballata blues, seguita dal super classico di John Lee Hooker New Boogie Chillum, dove George insegna il boogie ai suoi seguaci https://www.youtube.com/watch?v=uVHJNdzZIhA , di Bad To The Bone abbiamo detto, Miss Luann il terzo originale di Thorogood, pesca dal R&B anni ‘50, As The Years Go Passing By è uno dei grandi blues lenti delle 12 battute, e dimostra che il musicista del Delaware sa essere anche raffinato con assolo d’ordinanza, ma quando può scatenare tutta la potenza dei suoi Destroyers in una devastante No Particular Place To Go di Chuck Berry non ce n’è per nessuno, sentire anche Stewart please https://www.youtube.com/watch?v=hFyCxJuhEB0 , in chiusura una fantastica e trascinante ripresa di Wanted Man di Bob Dylan https://www.youtube.com/watch?v=4tbSbzCwrvU , per un album che rivaleggia con i suoi migliori, anche grazie alle riprese di alcuni brani nelle bonus tracks.

Fine della prima parte, segue.

Bruno Conti

Un Cofanetto “Vorrei Ma Non Posso” Per Una Band Dal Glorioso Passato (E Dal Solido Presente). Uriah Heep – 50 Years In Rock

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Uriah Heep – 50 Years In Rock – Sanctuary/BMG 23CD/LP Box Set

Tra le varie celebrazioni del 2020 c’è stata anche quella, passata un po’ in sordina, dei 50 anni di carriera degli Uriah Heep, storica band hard rock londinese che nei primi anni 70 era considerata una delle quattro pietre angolari del genere insieme a Led Zeppelin, Deep Purple e Black Sabbath, anche se sia come successo che come popolarità sono sempre stati uno o due gradini sotto i tre gruppi appena citati. Almeno nei loro primi anni però gli Uriah Heep (che hanno preso il nome da un personaggio del David Copperfield di Charles Dickens) hanno sfornato alcuni album di grande levatura, con uno stile che fondeva mirabilmente hard rock e prog grazie all’uso marcato delle tastiere, che nell’economia del gruppo hanno sempre avuto quasi la stessa importanza della chitarra: il nucleo iniziale era formato dal tastierista e principale songwriter Ken Hensley, rimasto per tutta la prima decade (e morto lo scorso 4 novembre a seguito di una grave malattia), il chitarrista Mick Box, unico presente in tutti gli album della band, ed il cantante David Byron, possessore di un’ugola potente che lo faceva rientrare nella stessa categoria di “screamers” come Ian Gillan e Bruce Dickinson, mentre la sezione ritmica è quella che negli anni ha subito più avvicendamenti.

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Lo scorso ottobre la BMG per celebrare il mezzo secolo dei nostri (attivi ancora oggi), ha pubblicato 50 Years In Rock, un monumentale cofanetto di ben 23 CD (ed un LP, contenente il classico album The Magician’s Birthday con la copertina ridisegnata da Roger Dean – famoso per gli artwork dei dischi degli Yes – autore anche della cover originale): il box, che contiene (quasi) tutta la discografia degli Heep più quattro CD extra, presenta però diverse magagne non di poco conto, la cui gravità è secondo me amplificata dall’alto costo richiesto (tra i 165 ed i 200 euro a seconda dei vari siti), e che vi vado ad elencare brevemente prima di addentrarmi nei contenuti. 1: intanto non è vero che ci sono tutti i dischi, dato che l’unico live incluso è quello famoso del 1973, e poi mancano i due album del corrente millennio nei quali la formazione attuale ha reinciso i vecchi classici, cioè Remasters: The Official Anthology del 2001 (poi ristampato nel 2015 con il titolo Totally Driven) e Celebration del 2009. 2: i dischetti non sono stati rimasterizzati per l’occasione, e non contengono neppure mezza bonus track, cosa che rende il cofanetto appetibile solo per chi, come il sottoscritto, non possiede tutta la discografia completa, dato che i neofiti si accontenteranno di una delle mille antologie sul mercato.

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3: il consueto libro incluso è pieno al 90% di foto e come testi si limita alle varie lineup del gruppo oltre a quattro brevi introduzioni dei curatori del progetto (Box, Hensley, il primo bassista Paul Newton ed il batterista di lungo corso Lee Kerslake, anch’egli scomparso nel 2020); inoltre, la grafica delle copertine dei CD è davvero pessima, in quanto sembrano fotocopie di bassa qualità degli originali. 4: alcuni album sono stati accoppiati con la formula “due LP in un CD”, e fin qui nulla di male, peccato che si sia scelto di “fondere” insieme le due copertine creando degli ibridi abbastanza inguardabili, e non, come è stato correttamente fatto solo per Demons And Wizards e The Magician’s Birthday, metterne una sul fronte e l’altra sul retro. 5: la magagna più grave: i quattro CD finali sono in realtà quattro compilation “esclusive” con la scelta delle canzoni preferite dei quattro curatori, ma non in versioni alternate o live ma nelle stesse già sentite nei primi 19 dischetti! In pratica quattro aggiunte totalmente inutili (e pure con diverse ripetizioni tra uno e l’altro), quando sarebbe bastato inserire b-sides, rarità e magari un paio di concerti inediti.

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Ma veniamo ad un breve excursus sulla discografia contenuta nel box, un percorso di alti e bassi che ha però nel periodo 1970-73 una striscia di album di grande profilo, a partire dall’esordio …Very ‘Eavy…Very ‘Umble del 1970, disco con una delle copertine più orrorifiche dell’epoca (che ritrae un irriconoscibile Byron agonizzante e coperto di ragnatele) ma con pezzi hard rock di altissimo livello come Gypsy, la potente e riffata Walking In Your Shadow, il blues afterhours Lucy’s Blues, con Hensley strepitoso all’organo, la saltellante Dreammare e la suggestiva ballata Come Away Melinda, primo classico della band https://www.youtube.com/watch?v=KzylV7LpDyM . Salisbury del 1971 si apre alla grande con l’epica Bird Of Prey e si chiude con la maestosa suite di sedici minuti che intitola il disco (con l’accompagnamento di un’orchestra di 24 elementi); in mezzo, la nota Lady In Black che mostra il lato soft, romantico e folkeggiante dei nostri, bissata dall’affascinante The Park, nella quale Byron fornisce una prova vocale notevole https://www.youtube.com/watch?v=C3C8HnBT_lg . Look At Yourself, ancora del ’71, è un altro album eccelso, che vede in pratica Hensley unico compositore: la trascinante title track, tra i pezzi migliori di sempre del gruppo, e la straordinaria rock ballad July Morning sono classici assodati, ma non vanno trascurate le roboanti I Wanna Be Free e Love Machine e la “leggera” What Should Be Done https://www.youtube.com/watch?v=kk5K6L2OPj4 .

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Demons And Wizards (1972, anche questo con la copertina di Roger Dean) è forse insieme al seguente il lavoro più famoso di Box e compagni, con la galoppante Easy Livin’ che è uno dei loro brani più conosciuti. Ottime anche la fascinosa The Wizard, Traveller In Time, Circle Of Hands, Rainbow Demon ed il boogie The Spell, ma non c’è un solo momento sottotono https://www.youtube.com/watch?v=hBAZLERYy7M . The Magician’s Birthday, sempre del 1972, ha in Sweet Lorraine un’altra canzone decisamente popolare, ma anche rock songs potenti ed epiche come Sunrise, Echoes In The Dark e la title track https://www.youtube.com/watch?v=A6mK7HKC8lI . La prima fase della carriera dei nostri si chiude nel 1973 con il noto Uriah Heep Live, registrato alla Town Hall di Birmingham ed uno dei grandi dischi dal vivo degli anni 70, con magnifiche riletture di Sweet Lorraine, Traveller In Time, Easy Livin’, July Morning, Tears In My Eyes e Look At Yourself, oltre ad un trascinante rock’n’roll medley di otto minuti che comprende Roll Over Beethoven, Blue Suede Shoes, Whole Lotta Shakin’ Goin’ On, Mean Woman Blues, Hound Dog e At The Hop https://www.youtube.com/watch?v=2NlqM8FPT1Y&list=PLO2DpnSLxoYXnY7Et3EvUw2ac1pBGwrgz .

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Con Sweet Freedom del 1973 gli Heep iniziano ad esplorare sonorità leggermente più radiofoniche che ne faranno l’album il più venduto della loro discografia https://www.youtube.com/watch?v=znmgVKSBnXc , e lo stesso sound proseguirà in Wonderworld del 1974, un gradino sotto come qualità, e nel riuscito Return To Fantasy del 1975: in questi tre album trovano posto canzoni piacevoli e molto poco hard come Dreamer, Stealin’, One Day, Sweet Freedom, So Tired, Prima Donna, la pop ballad The Easy Road e la “californiana” Your Turn To Remember, in cui più che gli Uriah Heep sembra di ascoltare gli Eagles https://www.youtube.com/watch?v=2o-CSc0j3dE . Ma comunque i cinque non hanno perso il tono epico, riscontrabile in Pilgrim, Return To Fantasy e nella bluesata I Won’t Mind. I restanti album della decade vedono un ulteriore ammorbidimento dei toni, con la comparsa del synth ed un suono a metà tra Toto e Boston: High And Mighty del 1976 sarà anche l’ultimo album con Byron, che verrà sostituito nei seguenti Firefly, Innocent Victim (entrambi del 1977) e Fallen Angel del ’78 da John Lawton, un buon vocalist dall’impostazione più teatrale. Non mancano anche in questi lavori i brani ottimi, come Can’t Keep A Good Band Down, Make A Little Love, Keep On Ridin’, Do You Know, la maestosa Choices, in cui Lawton sembra Ronnie James Dio, e Free Me, che sarà anche soft rock ma è indubbiamente splendida https://www.youtube.com/watch?v=lK45E6zfJeA .

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A quel punto però nel gruppo iniziano i tumulti seri: Lawton se ne va ed anche Hensley non è più tanto felice di stare ancora nella band, e quindi l’album Conquest del 1980 (con il tastierista che ha già un piede fuori) si rivela il più debole dei nostri fino a quel momento, a causa anche del nuovo cantante John Sloman, non esattamente un fuoriclasse. A questo punto Box decide di rifondare il gruppo e si affida al ritorno di Kerslake dietro i tamburi e ad un altro vocalist, Peter Goalby, che resta per tre album. Il problema di Abominog (1982), Head First (1983) e Equator (1985, anno in cui muore Byron) è che seguono al 100% il trend pop metal (o hair metal) tipico della decade, con canzoni piene di sintetizzatori e big drum sound, una veste sonora che si addice ben poco agli Heep specie se paragonata a quella di inizio carriera. E pure come band hair metal in giro c’è di meglio, e quindi i vecchi fans, dopo aver relativamente premiato Abominog che ha vendite discrete, li abbandonano senza essere rimpiazzati da nuovi estimatori. Raging Silence del 1989 è importante solo perché introduce il nuovo cantante Bernie Shaw (una sorta di clone di Byron) ed il tastierista Phil Lanzon, entrambi in sella ancora oggi, ma il disco prosegue il trend sonoro dei suoi predecessori, ed ancora più pop è Different World del 1991, dove in parecchi brani il quintetto suona meno rock di Sting (e ho detto tutto).

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Sea Of Light del 1995 (terzo disco con la copertina disegnata da Dean) segna un sorprendente ritorno ad atmosfere più classiche, con la chitarra di Box più in evidenza e canzoni migliori https://www.youtube.com/watch?v=jnNghFBupVg , e lo stesso fa Sonic Origami del 1998 seppur piazzandosi un gradino sotto. A questo punto gli Heep si prendono una pausa discografica di ben dieci anni, ripresentandosi nel 2008 con Wake The Sleeper, finalmente un album di rock duro e puro che rimanda direttamente all’età d’oro della band, anche se sembra quasi che si sia dato più spazio ai muscoli che alla scrittura delle canzoni. Molto meglio saranno i seguenti tre lavori (Into The Wild, 2011, Outsider, 2014, e Living The Dream, 2018), ottimi album di puro hard rock classico ben bilanciati tra energia e fruibilità, nonostante il suono più che gli Heep ricordi i Deep Purple, anche per la voce “gillaniana” di Shaw. 50 Years In Rock, a parte le contraddizioni di un progetto “vorrei ma non posso” o forse ancora meglio “potrei ma non voglio”, contiene quindi al suo interno diversa ottima musica specie nei primi otto-dieci CD e negli ultimi tre (se vi piace il genere, ovvio), ed è un modo seppur costoso di rievocare l’epopea degli Uriah Heep, una grande band oggi un po’ dimenticata.

Marco Verdi