Un Ritorno Inatteso Per Una Band Molto Amata, Ed In Ottima Forma: Un Altro Disco Che (Quasi) Non C’è, Solo Vinile E Download Dal 21 Maggio! Counting Crows – Butter Miracle Suite One EP.

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Counting Crows – Butter Miracle Suite One – BMG Rights Management EP Vinile e Download 21-05-2021

Gli anni 90 musicali non hanno fortunatamente prodotto solo grunge e brit-pop, ma anche una bella serie di gruppi che si rifacevano ad un cantautorato rock classico tipico dei seventies, e due tra i migliori esponenti in tal senso erano senza dubbio i Wallflowers ed i Counting Crows. Per un “simple twist of fate” le due band hanno deciso di tornare a pubblicare nuova musica proprio quest’anno, entrambe dopo una lunga assenza dalle scene: se il gruppo di Jakob Dylan ha annunciato di recente un nuovo lavoro in uscita a luglio (Exit Wounds) a ben nove anni da Glad All Over, il combo guidato da Adam Duritz ha deciso un po’ a sorpresa di rifarsi vivo con un EP di quattro canzoni intitolato Butter Miracle Suite One, che segue di sette anni Somewhere Under Wonderland. Sinceramente temevo che l’avventura dei Crows si potesse dichiarare conclusa, dal momento che in questi sette anni l’unico membro attivo musicalmente è stato il multistrumentista David Immergluck, perlopiù coinvolto in progetti per conto terzi (fra i quali vanno ricordate le collaborazioni con John Hiatt e James Maddock), mentre poco si sapeva del resto della combriccola (i chitarristi David Bryson e Dan Vickrey, il tastierista Charlie Gillingham e la sezione ritmica formata da Millard Powers e Jim Bogios).

Duritz sembrava più interessato a condurre il suo podcast radiofonico inaugurato nel 2018 che a comporre nuova musica, ma circa un paio d’anni fa era arrivato l’annuncio che il cantante di Berkeley aveva ripreso a scrivere per una serie di EP con canzoni dal carattere semi-autobiografico, ed ora abbiamo la possibilità di ascoltare il primo prodotto di questa sequenza: Butter Miracle Suite One. E’ chiaro che dopo sette anni di nulla il mio timore sulla forma di Duritz e compagni era più che legittimo, ma è bastato un solo ascolto per spazzare via ogni dubbio: Butter Miracle Suite One è un dischetto davvero bello e riuscito, che ci fa ritrovare un gruppo tra i più creativi delle ultime decadi, e con il suo carismatico leader che non ha perso l’ispirazione. E’ bello ascoltare nuovi pezzi in uno stile familiare, un misto di influenze che vanno da Van Morrison al Bruce Springsteen più classico, con la band che gira a mille: i Counting Crows non hanno mai sbagliato un disco, e anche se forse il successo clamoroso dei primi album e del singolo Mr. Jones non tornerà più, questo EP è un bel modo, anche se un tantino troppo breve (18 minuti totali) per tornare tra noi.

I quattro brani sono uniti come in un medley (da qui il Suite One del titolo), e partono con Tall Grass: una percussione elettronica dà il via, subito doppiata da una chitarra acustica e dalla voce discorsiva di Duritz, che inizialmente sembra che parli più che cantare: poi organo e chitarre elettriche cominciano a farsi largo e lo stesso leader intona una melodia ben definita con un buon pathos (ed anche la batteria entra in azione). Un brano che si apre a poco a poco in un crescendo tipico dei nostri, pur mantenendo un tono intimista di fondo. Elevator Boots è invece una rock ballad potente e decisamente immediata, con un motivo vincente che denota un’indubbia freschezza compositiva ed un bellissimo accompagnamento classico in cui chitarre e piano formano l’ossatura del suono: non a caso è stata scelta come singolo. Con Angel Of 14th il ritmo cresce e si fa molto più sostenuto, le chitarre si mantengono al centro del suono ma la linea melodica, grazie anche ai cori sullo sfondo e ad un notevole wall of sound, fa sì che il brano assuma toni pop-rock diretti e piacevoli (e con un insolito assolo di tromba a metà canzone). La conclusiva Bobby And The Rat Kings è splendida senza mezzi termini: il riff di chitarra doppiato dal pianoforte rimanda direttamente al suono della E Street Band, Duritz intona uno dei refrain in assoluto più coinvolgenti della storia del gruppo, e le similitudini con Springsteen continuano anche nello stile di scrittura. Una canzone magnifica (sentire per credere), che purtroppo interrompe il dischetto sul più bello.

Butter Miracle Suite One è quindi un ottimo lavoro che ci fa ritrovare una band in forma nonostante la lunga assenza: speriamo almeno che il secondo volume di questo EP, disponibile solo in vinile e download arrivi entro fine anno e diventi anche un album completo in tutti i formati.

Marco Verdi

Si Sa Che Le Piante Grasse Hanno Vita Lunga! Cactus – Tightrope

cactus tightrope

Cactus – Tightrope – Purple Pyramid/Cleopatra CD

Non so in quanti si ricordino dei Cactus, gruppo di Long Island formato nel 1969 dall’ex sezione ritmica dei Vanilla Fudge, ovvero il bassista Tim Bogert ed il batterista Carmine Appice (*NDB Io si! https://discoclub.myblog.it/2016/10/28/ci-riprovano-lennesima-volta-cactus-black-dawn/ ) . Fautrice di un hard rock con copiose iniezioni di blues (che li aveva fatti definire da qualche critico troppo entusiasta “i Led Zeppelin americani”), la band ebbe il suo momento di gloria dal 1969 al 1972, con la pubblicazione di quattro album che diedero loro una discreta popolarità; poi Bogert e Appice si unirono al grande Jeff Beck per registrare il seminale Beck, Bogert & Appice ed il gruppo si dissolse. Una prima reunion si ebbe nel 1976 per mano del cantante originale Rusty Day, ma la nuova formazione non consegnò alcunché ai posteri: per avere un nuovo album dei nostri bisognerà attendere il 2006 quando i redivivi Bogert e Appice (insieme anche al chitarrista originale Jim McCarthy, ex Detroit Wheels) pubblicheranno Cactus V, un lavoro peraltro abbastanza ignorato, cosa che peraltro capiterà anche a Black Dawn, uscito nel 2016.

Ora a sorpresa la band dello stato di New York ritorna con Tightrope, il loro settimo lavoro in studio: Appice è ormai rimasto l’ultimo tra i membri originali (Bogert ci ha lasciato nel gennaio di quest’anno, ma non faceva più parte del gruppo già da anni) e si è circondato di onesti mestieranti come il chitarrista Paul Warren (per anni con Rod Stewart), il bassista Jimmy Caputo, l’armonicista Randy Pratt ed il cantante Jimmy Kunes, con McCarthy che si limita ad una comparsata in un paio di canzoni. Devo dire in tutta sincerità che non mi aspettavo nulla di buono da questo nuovo lavoro della band, sia perché Appice è uno che per soldi suonerebbe anche nella sigla di Peppa Pig, sia per il fatto che il gruppo in sé è formato da comprimari, ed anche perché la Cleopatra (etichetta di Los Angeles che distribuisce il CD) spesso non è garanzia di qualità. Invece in parte mi devo ricredere: Tightrope non è certamente un capolavoro, ma neppure una ciofeca, ed in poco più di un’ora (forse anche venti minuti in meno sarebbero bastati) riesce ad intrattenere con una bella dose di rock-blues di matrice hard, un suono decisamente robusto che negli anni 70 andava per la maggiore.

Appice sarà quello che sarà, ma quando si siede ai tamburi picchia ancora come un fabbro, Kunes è un cantante sufficientemente potente ed espressivo e le parti chitarristiche non sono disprezzabili, anche se qua e là i suoni sono un po’ tagliati con l’accetta. Si parte in maniera potente con la title track, rock-blues roccioso con reminiscenze zeppeliniane sia nel sound che nel cantato: forse il songwriting non è proprio di prima scelta ma lo scopo viene comunque raggiunto grazie ad una buona tecnica ed una discreta dose di feeling. Papa Was A Rolling Stone è proprio la vecchia hit dei Temptations, anche se qui il pezzo viene completamente stravolto diventando una rock song sanguigna alla quale l’armonica dona un sapore blues; All Shook Up invece non è quella di Elvis ma una canzone nuova, un rock’n’roll con chitarre al vento e steroidi a mille, mentre Poison In Paradise è una riuscita ballatona elettrica dai forti umori blues, notturna, cadenzata e sinuosa.

Con Third Time Gone si torna a pestare duro, ma il suono di fondo ha forti connessioni southern, a differenza delle solide Shake That Thing e Primitive Touch che rimandano ancora all’ex gruppo di Page & Plant, pur non raggiungendo gli stessi livelli di eccellenza (e ci mancherebbe). Preaching Woman Man Blues è appunto un buon blues saltellante, adatto per la voce arrochita di Kunes ed abbastanza coinvolgente grazie anche all’ottima prestazione di tutta la band; Elevation, puro hard rock ancora dalle tinte blues, porta al pezzo centrale del CD, ovvero la lunga Suite 1 And 2: Everlong, All The Madmen, rock ballad soffusa e quasi psichedelica che rimanda decisamente al sound di fine sixties, con la chitarra di Warren che nel finale si erge a protagonista assoluta. La vivace Headed For A Fall, puro blues dal ritmo acceso, ed il rock anni 70 di Wear It Out chiudono un disco che, pur non essendo affatto imprescindibile, è molto meglio di quanto avessi previsto.

Marco Verdi

Una Bella Festa Musicale All’Insegna Del Miglior Country-Rock Californiano. Richie Furay – 50th Anniversary Return To The Troubadour/Deliverin’ Again

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Richie Furay – 50th Anniversary Return To The Troubadour /Deliverin’ Again– DSDK 2CD o DVD

Quando si pensa al country-rock californiano in voga a cavallo tra gli anni 60 ed i 70, la mente va subito agli Eagles (anche se il loro esordio avverrà solo nel 1972) e poi ai Byrds (gli ultimi anni), ai Flying Burrito Brothers e per molti anche a CSN&Y, nonostante nel famoso supergruppo la componente country non fosse molto presente. In pochi invece si ricordano dei Poco (scusate il bisticcio di parole), gruppo formato nel 1968 per iniziativa degli ex Buffalo Springfield Richie Furay e Jim Messina (quest’ultimo era entrato negli Springfield un attimo prima del loro scioglimento) ed autori di alcuni ottimi album specie nel primo periodo fino al 1976 (ma vi parlerà prossimamente del gruppo in maniera più dettagliata Bruno, con una retrospettiva ad hoc). Oggi i Poco sono ancora in vita con una formazione completamente rimaneggiata (l’unico membro presente in tutte le varie lineup, Rusty Young, è passato a miglior vita da neanche un mese, ma comunque si era già ritirato da qualche anno), e quindi l’unico ex componente a tenere alto il vessillo del gruppo è rimasto proprio Furay, che ha appena pubblicato un bellissimo doppio CD dal vivo, 50th Anniversary Return To The Troubadour, che celebra la stagione d’oro della band da lui fondata, e della quale fino al 1973 è stato uno dei principali autori e voci soliste.

A dire il vero in questo live, che documenta una serata speciale al Troubadour di Los Angeles nel 2018, non è ben chiaro cosa venga festeggiato, in quanto i 50 anni del titolo partono in effetti dal ’68, con i nostri che all’inizio si facevano chiamare Pogo ed al Troubadour avevano tenuto i loro primi concerti, ma poi nel secondo CD viene riproposto canzone per canzone il live Deliverin’, uscito in effetti a gennaio del 1971 ma che col Troubadour non c’entra una mazza essendo stato registrato nel 1970 a Boston e New York. Facezie a parte, 50th Anniversary Live At The Troubadour è un album davvero bellissimo, in cui un Richie in ottima forma ci fa rivivere una stagione unica e irripetibile della nostra musica, con una prima parte di concerto, intitolata Still Deliverin’, che offre una panoramica del meglio della sua carriera, mentre nel secondo dischetto (Deliverin’ Again), come ho già detto troviamo l’omaggio al live del ’70. Furay è ancora in possesso di una voce bella e giovanile, e viene accompagnato da una band solidissima che vede sua figlia Jesse Furay Lynch alle armonie vocali, Scott Sellen alle chitarre e banjo, Jack Jeckot alle tastiere, armonica e chitarra, Aaron Sellen al basso, Alan Lemke alla batteria, Dave Pearlman alla steel guitar e dobro e, nella seconda parte, un ospite speciale a sorpresa che vedremo a breve.

Si parte col botto con il classico dei Buffalo Springfield On The Way Home, scritta da Neil Young ma cantata da Richie anche in origine, preceduta da una lunga intro strumentale in crescendo e col ritmo subito alto: grande melodia e refrain, chitarre in palla e coretti che profumano di California. Dal repertorio degli Springfield in questa prima parte Furay suona anche Go And Say Goodbye (di Stephen Stills, ma l’avevano incisa anche i Poco), gustoso country-rock con banjo e chitarre in gran spolvero ed un eccellente ritornello corale, e quattro pezzi dei Poco, a partire dalla splendida Let’s Dance Tonight (dall’album Crazy Eyes, l’ultimo con Richie), rock song di livello assoluto con un motivo solare ed irresistibile, eseguita in modo grintoso e con ottimi intrecci vocali tra padre e figlia (e Furay dimostra di avere ancora l’ugola di un trentenne). Due brani provengono dall’omonimo secondo album della band, la slow ballad Don’t Let It Pass By, distesa, rilassata e con un bell’assolo di armonica, ed una strepitosa rilettura di quasi nove minuti della sontuosa rock ballad Anyway Bye Bye, piena di stop and go, cambi di ritmo, melodia superba, chitarra di Sellen in tiro ed anche un intermezzo pianistico quasi jazzato.

Stranamente Furay sceglie anche una canzone recente dei Poco, e che quindi non gli appartiene: Hard Country proviene dall’ultimo studio album del gruppo All Fired Up (2013), ed è una incantevole ed ariosa country ballad splendidamente eseguita e lasciata alla voce squillante di Jesse, una piccola ed inattesa gemma. Infine Richie propone quattro pezzi dal suo repertorio solista (purtroppo nessuno dal bellissimo The Heartbeat Of Love del 2006), che reggono molto bene il paragone con i pezzi classici, e di cui tre provengono dal suo lavoro più recente Hand In Hand, 2015: la pulsante e coinvolgente We Were The Dreamers, dedicata proprio ai suoi anni nei Poco e con un’altra melodia da applausi, la limpida e toccante ballata Wind Of Change, altri sei minuti di grande musica tra organo, chitarre ed armonie vocali da brivido, e l’incalzante Someday, puro country-rock che dimostra la sicura influenza che il nostro ha avuto sugli Eagles; per finire con il travolgente bluegrass elettrico Wake Up My Soul (una delle bonus track di studio inserite nel disco dal vivo Alive del 2016), ennesimo pezzo delizioso sotto ogni punto di vista, con il banjo ancora sugli scudi.

E veniamo alla seconda parte ed alla riproposizione di Deliverin’, che conteneva ben cinque canzoni inedite, una da Poco, quattro dall’esordio Pickin’ Up The Pieces e due dei Buffalo Springfield. Si inizia con un uno-due decisamente potente e rockeggiante formato da I Guess You Made It e C’mon, entrambe con il solito aroma country di base; a questo punto sale sul palco il già citato ospite, ovvero un applauditissimo Timothy B. Schmit, che dopo l’esordio del 1969 aveva sostituito nei Poco il bassista Randy Meisner (cosa che si ripeterà negli Eagles): il lungocrinito Tim impreziosisce con la sua voce angelica Hear That Music, da lui anche scritta, un altro country-rock assolutamente trascinante. E’ poi la volta della languida country ballad Kind Woman con la steel in grande evidenza, una delle più belle canzoni di Richie, scritta all’epoca degli Springfield per la sua futura moglie (con la quale è ancora insieme dopo 51 anni), seguita da tre pezzi suonati in medley esattamente come sul live del 1970: lo squisito country-grass Hard Luck e le note A Child’s Claim To Fame e Pickin’ Up The Pieces, due canzoni una più bella dell’altra. L’orecchiabile ed avvincente You Better Think Twice è un omaggio del nostro al suo autore Jim Messina, ed è seguita dal ruspante rockin’ country A Man Like Me; finale con un altro strepitoso medley di ben undici minuti che mette in fila Just In Case It Happens, Yes Indeed, lo strumentale Grand Junction e Consequently So Long, in un tripudio di ritmo, chitarre, steel e cori da pelle d’oca. Ma c’è spazio anche per un bis (ancora con Schmit sul palco a duettare con Richie), una fulgida versione della title track dell’album A Good Feelin’ To Know (1972, uno dei più belli dei Poco), che chiude definitivamente un concerto magnifico ed un live che sarà sicuramente tra i migliori dischi dal vivo del 2021.

Marco Verdi

Un Disco Diverso…Figlio Del Lockdown E Delle Sue Dolorose Conseguenze! Todd Snider – First Agnostic Church Of Hope And Wonder

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Todd Snider – First Agnostic Church Of Hope And Wonder – Aimless Records

Tutti gli appassionati conoscono Todd Snider come uno dei migliori cantautori del genere Americana emersi negli ormai lontani anni novanta. Nato a Portland, Oregon, girovagò in giovane età tra Houston, Texas, e Santa Rosa, California, di nuovo nel Lone Star State ad Austin, dove assistendo ad un concerto di Jerry Jeff Walker decise che avrebbe fatto quel tipo di carriera, e infine a Memphis, Tennessee, dove fu notato da Keith Sykes, cantautore e produttore che lo presentò all’amico Jimmy Buffett, grazie al quale ottenne il primo contratto discografico con la major MCA. Esordio fulminante nel ’94 con l’ottimo Songs For The Daily Planet, seguito a breve dagli altrettanto positivi Step Right Up e Viva Satellite, in cui oltre alla brillante combinazione di folk, rock e alternative country mise subito in mostra notevoli doti di paroliere, con uno stile ironico e sferzante che non risparmia nessun aspetto dell’establishment a stelle e strisce. Altro incontro determinante fu quello con John Prine, con cui Todd maturò una solida e fruttuosa amicizia, incidendo nella prima decade dei duemila un’altra bella serie di album per l’etichetta personale di Prine, la Oh Boy Records.

Altri ne seguirono, tutti più o meno apprezzati dalla critica specializzata e dal suo fedele zoccolo duro di fans, presente anche in Europa, fino ai giorni nostri ed al fatidico 2020, l’annus horribilis del Covid e del lockdown. Nel giro di poco tempo, Snider perde tre dei suoi migliori amici, mentori e collaboratori, Jerry Jeff Walker (a cui aveva dedicato un ottimo tribute album nel 2012, Time As We Know It), John Prine e Neal Casal, con cui nell’ultimo decennio aveva fondato una band chiamata Hard Working Americans con due dischi all’attivo. Queste gravi perdite devono averlo segnato parecchio e potrebbero essere una chiave di lettura per comprendere la strana svolta stilistica del nuovo lavoro, il cui titolo è già tutto un programma, First Agnostic Church Of Hope And Wonder. Significativa mi sembra questa sua recente dichiarazione: …Dopo il mio precedente album Agnostic Hymns mi sentivo a corto di idee e non sapevo quale direzione prendere …sono arrivato a questo disco sperando di avere qualcosa di nuovo da dire…volevo fare quello che chiamano funk…avevo ascoltato molto i Parliament e James Brown e molta musica reggae…E’ imbarazzante ammetterlo ma ho cercato di pensare a questo suono per tutta la vita!…

E i primi ad essere imbarazzati siamo noi, non appena partono le prime note del brano di apertura, Turn Me Loose (I’ll Never Be The Same), un insistito groove ritmico su cui si sovrappongono la chitarra acustica e l’armonica in un climax funky-blues che rimanda a Sly Stone. La successiva The Get Together è ancora più straniante, sembra il risultato di una session ad alto tasso alcolico, con i pochi strumenti che sembrano andare per conto loro e la voce allucinata del protagonista che pare reduce da un incubo. Non andiamo meglio né con la monotona ed incolore Never Let A Day Go Bye e neppure con l’urticante funky di That Great Pacific Garbage Patch. Date pure un’occhiata anche ai video che accompagnano questa uscita, in cui si non si può fare a meno di notare lo stato dimesso e sofferente del nostro protagonista nella stanza semi buia dello studio di registrazione di Nashville dove queste canzoni sono state incise. Per fortuna tracce della vecchia ispirazione riemergono nel delicato ricordo di John Prine eseguito con piano ed armonica nella malinconica Handsome John e ancor più nell’altra ballad Sail On, My Friend, dedicata alla memoria di un altro amico, Jeff Austin, leader della formazione bluegrass Yonder Mountain String Band, deceduto prematuramente nel 2019.

Battle Hymn Of The Album potrebbe essere un moderno canto destinato ai detenuti nei campi di lavoro forzato, col suo botta e risposta tra voce solista e coro, mentre di Stoner Yodel Number One salverei solo il contenuto sarcastico del testo. Imbarazzante pure Agnostic Preacher’s Lament, che parte come una finta prova di orchestra e si sviluppa sul solito riff iponotico di percussioni e la voce recitante del protagonista. Finalmente nel pezzo conclusivo, The Resignation vs.The Comeback Special, quantomeno si apprezza un discreto lavoro strumentale dei due collaboratori di Todd, il percussionista Robbie Crowell e il polistrumentista Tchad Blake. Può darsi che qualche critico a la page d’oltre oceano decida di tessere le lodi di questa svolta tra Beck e i Funkadelic che Todd Snider ha deciso di intraprendere, io però preferisco aspettare che la grande depressione passi senza fare altri danni e che ce lo restituisca con lavori degni del suo meritevole passato.

Marco Frosi

Anche Se Non Lo Trovate Nei Negozi, Vale La Pena Procurarselo! Uncut – Dylan Revisited

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VV.AA. – Dylan Revisited – Uncut/Bandlab UK CD

Tra meno di un mese, il 24 maggio, il grande Bob Dylan compirà 80 anni, e gran parte delle testate musicali nel mondo sono già da tempo in fibrillazione per festeggiare a modo loro l’evento. L’unico che sta brillando per il suo assoluto silenzio è proprio il diretto interessato, ma direi una bugia se mi dichiarassi sorpreso dal momento stiamo parlando di un personaggio che ha sempre detestato le autocelebrazioni (il famoso concerto-tributo del 1992 al Madison Square Garden era stato voluto dalla Columbia, e le immagini facevano capire benissimo che Bob avrebbe preferito di gran lunga essere da un’altra parte). Siccome anche la Sony non ha finora annunciato nulla a livello discografico, e non è detto che ci sia qualcosa in programma, vorrei parlarvi di un CD molto particolare oltre che bello, che non si trova nei negozi ma che non è neppure così difficile procurarsi. E’ tradizione delle riviste musicali inglesi, specialmente Classic Rock, Mojo ed Uncut, gratificare i suoi lettori con CD gratuiti allegati alle varie mensilità, perlopiù compilation di materiale già edito riguardanti solitamente uno specifico argomento.

Nel suo ultimo numero però Uncut ha fatto le cose in grande, regalando un dischetto intitolato Dylan Revisited che non è il solito tributo low-cost costruito con performances già note, ma una compilation di incisioni nuove di zecca realizzate apposta per la rivista, con la chicca di un inedito assoluto dello stesso Dylan! Una succosa opportunità di portarsi a casa un dischetto esclusivo, tra l’altro con una spesa minima: infatti l’uscita è acquistabile direttamente sul sito di Uncut, e per soli 12 euro (non pagate neanche la spedizione) riceverete a casa un numero molto interessante della rivista, oppure lo trovate nelle edicole e librerie piuù fornite. Un omaggio a Dylan a 360 gradi attraverso i ricordi di musicisti e produttori che lo hanno conosciuto, con più di un aneddoto divertente. E poi ovviamente c’è Dylan Revisited, in cui il Premio Nobel viene omaggiato da 14 belle riletture da parte di musicisti perlopiù emergenti, anche se non mancano i nomi di prima fascia, ma con tutte cover rispettose degli originali e nessuno sconfinamento in sonorità bislacche. Il CD si apre con il già citato inedito dylaniano: Too Late è una ballata acustica con una leggera percussione alle spalle tratta dalle sessions di Infidels (e che dovrebbe anticipare il sedicesimo volume delle Bootleg Series, dedicato proprio alle prolifiche sedute dell’album del 1983, in uscita pare entro l’anno, forse a luglio, visto che è in uscita anche un estratto in vinile per il Record Store Day), un brano che poi si sarebbe evoluto nella già nota Foot Of Pride. Una bella canzone eseguita in modo rilassato da Bob, che non somiglia molto a ciò che sarebbe diventata né come testo né come melodia (forse ricorda di più George Jackson, il raro singolo del 1971): dopo l’ascolto ho ancora più voglia del nuovo episodio delle Bootleg Series.

E partiamo con il tributo vero e proprio, che inizia col botto: Richard Thompson è un fuoriclasse assoluto, e This Wheel’s On Fire viene proposta con un bell’arrangiamento elettroacustico con l’ex Fairport che suona tutti gli strumenti, nel suo tipico stile tra folk e rock; Courtney Marie Andrews è ancora giovane ma già esperta, e ci delizia con un’interpretazione voce e chitarra della splendida To Ramona, forse un po’ scolastica ma meglio così che stravolta, mentre i Flaming Lips rivestono di una leggera patina pop-psichedelica l’eterea Lay Lady Lay, che mantiene però la sua struttura acustica. I canadesi Weather Station propongono Precious Angel, dal periodo “religioso” di Bob, in una rilettura molto diversa, pianistica e lenta, con la voce solista femminile di Tamara Lindeman quasi sussurrata che accentua il tono di preghiera del brano; rimaniamo in Canada con i grandi Cowboy Junkies, che fanno una scelta non scontata prendendo dal recentissimo Rough And Rowdy Ways la bella I’ve Made Up My Mind To Give Myself To You, che fanno diventare uno splendido valzer dal sapore folk con la voce inconfondibile di Margo Timmins che come al solito si rivela l’arma in più del quartetto: sembrano tornati di botto i Junkies di inizio carriera, una cover magnifica, meglio anche dell’originale.

L’ex Sonic Youth Thurston Moore non si perde in sonorità strane e rilegge Buckets Of Rain per voce e chitarra, da perfetto folksinger, la cantante e chitarrista originaria del Mali Fatoumata Diawara offre una versione tutta ritmo e colori di Blowin’ In The Wind (registrata a…Como!), molto diversa dall’originale ma piacevole, mentre invece la giovane irlandese Brigid Mae Power nel riproporre la bella One More Cup Of Coffee ricalca abbastanza le atmosfere di Desire, violino a parte. Knockin’ On Heaven’s Door è materia pericolosa, ma la indie band Low (che ha in comune con Dylan la città d’origine, Duluth) se la cava benissimo con una interpretazione convincente, lenta e ricca di pathos, facendola diventare una rock ballad notturna e misteriosa. Il duo folk formato da Joan Shelley e Nathan Salsburg rifà Dark Eyes in maniera rigorosa, Patterson Hood e Jay Gonzalez dei Drive-By Truckers sono bravi e lo dimostrano con una Blind Willie McTell sofferta, bluesata e desertica (ma l’originale dylaniano è insuperabile), e lo stesso fa l’ex Be Good Tanyas Frazey Ford con un’ottima The Times They Are A-Changin’ in veste folk-rock ballad elettrica, con chitarre ed organo al posto giusto.

Finale con Jason Lytle, frontman dei Grandaddy, che ci regala una buona versione rilassata di Most Of The Time, con chitarra acustica e piano a scontornare la melodia, e con Weyes Blood (nome d’arte di Nathalie Laura Mering) che affronta in maniera classica la lunga ed impegnativa Sad Eyed Lady Of The Lowlands, riuscendo a fornire una prova decisamente efficace. Un tributo perfettamente riuscito questo Dylan Revisited, serio e ben fatto, che meriterebbe una distribuzione ben più capillare che come allegato ad una rivista mensile.

Marco Verdi

Continua La Riscossa Dei “Giovani Talenti”! Tom Jones – Surrounded By Time

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Tom Jones – Surrounded By Time – EMI CD

Il fatto che tra i migliori album di questo primo terzo di 2021 ci siano i lavori di due quasi novantenni, Willie Nelson e Loretta Lynn, non depone certo a favore di un roseo futuro per la nostra musica. Ora a questo manipolo di giovanotti si aggiunge anche Tom Jones, che è un ragazzino in confronto ai due nomi appena citati in quanto di anni ne compirà “solo” 81 il prossimo giugno. Dopo una lunghissima carriera piena di successi pop ma anche di tanti passaggi a vuoto, il cantante gallese sta vivendo da una decade abbondante una vera e propria rinascita artistica: infatti, dopo essersi riaffacciato prepotentemente nelle parti alte delle classifiche con il tormentone danzereccio Sex Bomb nel 2000, Tom ha iniziato dal 2010 a pubblicare un album più bello dell’altro, reinventandosi interprete in chiave folk-blues-gospel-roots di brani tradizionali ed altri di autori contemporanei anche di stampo rock. Un percorso simile a quello intrapreso negli anni 90 da Johnny Cash con Rick Rubin (ma a differenza di Jones, l’Uomo in Nero non aveva mai smesso di fare musica di qualità, solo non se lo filava più nessuno), con il produttore Ethan Johns, figlio del mitico Glyn Johns, a fungere da mentore come Rubin era stato per Cash. Praise & Blame (2010), Spirit In The Room (2012) e Long Lost Suitcase (2015) erano tre dischi magnifici, nei quali il nostro, sempre in possesso di una grande voce, rileggeva con credibilità da vero musicista roots brani della tradizione o canzoni scritte da Hank Williams, Bob Dylan, Billy Joe Shaver, Los Lobos, Pops Staples, Leonard Cohen, Richard Thompson, Paul Simon, Willie Nelson, Tom Waits, Gillian Welch e Rolling Stones, un percorso culminato poi nel 2017 con lo splendido doppio Live On Soundstage, registrato appunto dal vivo.

Ora Jones si rifà vivo a sei anni da Long Lost Suitcase con Surrounded By Time, un altro riuscito album che prosegue con la reinterpretazione di classici del passato tra pezzi noti ed altri più oscuri, ancora con Johns in cabina di regia ed anche responsabile di vari tipi di strumenti a tastiera e chitarre, e con la partecipazione di Neil Cowley anch’egli al piano, organo e synth, Nick Pini al basso e Dan See e Jeremy Stacey alla batteria. A differenza dei tre lavori precedenti però in questo album il suono è meno roots e decisamente più moderno, con uso abbastanza insistito di sonorità elettroniche mescolate ad altre più “tradizionali”, anche se a parte un paio di episodi in cui la modernità prende il sopravvento, il tutto è dosato con intelligenza (ci sono similitudini con certe cose di David Bowie ma anche con il Nick Cave più recente). E poi c’è Tom, che nonostante gli anni ha ancora una voce di una potenza formidabile, ed una classe che gli permette di interpretare al meglio qualsiasi tipo di canzone con qualsiasi tipo di arrangiamento: pollice verso invece per la copertina del CD, che ogni volta che la guardo mi fa venire in mente un rotolo di carta igienica…L’album inizia con le tonalità gospel di I Won’t Crumble With You If You Fall, un brano della folksinger ed attivista Bernice Johnson Reogon con la voce magnifica di Jones che si staglia quasi a cappella, dal momento che gli unici strumenti sono synth e basso che producono un effetto simile ai paesaggi sonori di Daniel Lanois.

The Windmills Of Your Mind è un noto pezzo del compositore francese Michel Legrand già inciso in passato tra gli altri da Dusty Springfield, Vanilla Fudge e Sting: Tom canta con grande padronanza della melodia mentre la band si produce in un accompagnamento pianistico di algida bellezza, con una leggera percussione e l’organo ad aggiungere pathos; con Pop Star, vecchia canzone di Cat Stevens (era su Mona Bone Jakon) il ritmo cresce, il brano ha una struttura blues ma qui è sostenuto da uno strano arrangiamento molto elettronico che non le rende pienamente giustizia, nonostante l’ingresso dopo la seconda strofa di un bellissimo pianoforte. Un sitar introduce No Hole In My Head di Malvina Reynolds, poi entra una ritmica martellante ed un organo decisamente sixties, per una traccia che si divide tra pop e psichedelia, un genere non abituale per Tom che però non fa una piega e canta con il solito carisma ed anche una buona dose di grinta. Talking Reality Television Blues è il brano che non ti aspetti, una canzone recente scritta da Todd Snider dal testo ironico tipico del songwriter di Portland, arrangiato alla guisa di un rock urbano (non esagero se penso ai Dream Syndicate), e per non smentire il titolo Jones parla invece di cantare. Non tra le mie preferite, anche se la coda finale chitarristica è notevole.

Anche I Won’t Lie (di Michael Kiwanuka) inizia con un tappeto sonoro quasi straniante, ma poi entra la chitarra acustica e Tom canta col cuore in mano trasformando un brano di moderno soul in una folk song pura nonostante l’atmosfera gelida creata dal synth sullo sfondo; This Is The Sea, uno dei capolavori dei Waterboys, è una grande canzone e qui viene riproposta in maniera più classica, con organo, chitarre e sezione ritmica in evidenza (sulla voce di Tom non voglio ripetermi): sette minuti splendidi. Interpretare Dylan sta diventando per Jones una piacevole abitudine dato che Praise & Blame si apriva con What Good Am I? ed in Spirit In The Room c’era When The Deal Goes Down: qui troviamo la bella One More Cup Of Coffee, che ha un inizio quasi jazzato per l’uso solista del basso ma poi entrano gli altri strumenti ed il pezzo mantiene l’andatura western dell’originale con il nostro che vocalizza alla grande, a differenza del traditional Samson And Delilah (l’hanno fatta in tanti, ma la versione più celebre è quella dei Grateful Dead) che assume sonorità etniche, quasi tribali, con un andamento incalzante e coinvolgente.

Tom omaggia anche Tony Joe White con Ol’ Mother Earth, ballata cadenzata e notturna in cui i suoni moderni si adattano perfettamente al tessuto melodico di base, con Jones che ricorre ancora al talkin’ ma in maniera più riuscita che nel brano di Snider; finale con il tributo a due musicisti jazz poco noti come Bobby Cole e Terry Callier, rispettivamente con I’m Growing Old, proposta in una nuda e struggente rilettura per sola voce e piano (e qualche loop non invasivo), e la lunga Lazarus Man, più di nove minuti di pura psichedelia moderna con la voce del leader che un po’ declama ed un po’ canta con il consueto feeling, mentre una chitarra liquida alla Jerry Garcia ricama sullo sfondo. Quindi un altro bel disco per il “vero” Principe di Galles, che dimostra di cavarsela alla grande anche in mezzo a suoni che non sempre gli appartengono.

Marco Verdi

Il Primo Album “Diversamente Bello” Della Band Inglese! Jethro Tull – A (La Mode)

jethro tull A la Mode front

Jethro Tull – A: 40th Anniversary Edition – Parlophone/Warner 3CD/3DVD Box Set

Per rispetto verso il lavoro altrui, non amo mai definire “brutto” un disco, a meno che non siamo di fronte a qualcosa di quasi inascoltabile: ancora meno mi piace farlo nel caso dei Jethro Tull, che nel periodo dal 1968 al 1979 seppur con alti a bassi non avevano mai sbagliato un album. Non posso esimermi però di far notare che A, lavoro del gruppo inglese uscito nel 1980, non fosse esattamente un capolavoro, cosa che la critica dell’epoca non mancò di far notare stroncando sia il songwriting ma soprattutto gli arrangiamenti moderni che anticipavano il sound della nuova decade, con un uso massiccio di sintetizzatori. Ma A non doveva essere nemmeno un disco dei Tull, bensì il primo lavoro solista del leader Ian Anderson (il titolo dell’album era preso dalla scritta che compariva sulle scatole dei nastri delle sedute, A come Anderson), che si tramutò nel tredicesimo LP del gruppo su pressioni della Chrysalis, la loro etichetta all’epoca.

jethro tull A la Mode box

I musicisti coinvolti nelle sessions si ritrovarono quindi all’improvviso ad essere i nuovi membri della band, e se per il chitarrista Martin Barre non era una novità, per il bassista ex Fairport Convention Dave Pegg e per il batterista Mark Craney sì (ma mentre Pegg rimarrà con Anderson fino al 1995 dividendosi con i riformati Fairport, Craney si rivelerà una meteora), mentre il tastierista e violinista Eddie Jobson, vero responsabile del sound modernista del disco, venne accreditato solo come ospite esterno. Ora A esce in versione deluxe proseguendo la serie di ristampe a cofanetto dei Tull, nella consueta bella confezione a libro e con ben tre CD ed altrettanti DVD (che però contengono come vedremo a breve le solite ripetizioni), con il titolo “aggiornato” A (La Mode): come sempre la parte sonora è nelle mani di Steven Wilson, che oltre a rimasterizzare il tutto si occupa anche del remix, con il risultato che un po’ di patina di antico è venuta via, anche se non si poteva certo fare il miracolo di trasformare un disco traballante in un lavoro imperdibile; in compenso il box offre la solita generosa dose di bonus tracks, cioè una manciata di outtakes nel primo dischetto ed un concerto completo negli altri due.

L’album originale risentito oggi non è neanche così orrendo (secondo me il fondo i nostri lo toccheranno nel 1984 con Under Wraps): Crossfire ha una melodia tipica di Anderson, con una base strumentale leggermente funky-disco ma non spregevole, l’incalzante Flyingdale Flyer è un pop-rock gradevole ed abbastanza coinvolgente specie nel refrain, Working John, Working Joe, unico singolo estratto (senza alcun successo), è una rock song energica e dal ritmo sostenuto ma con un occhio al sound radiofonico. Un brutto intro di synth cede per fortuna il passo ad un arrangiamento più rock nella non disprezzabile Black Sunday, Protect And Survive non è niente di speciale, mentre la frenetica Batteries Not Included, già non un capolavoro, è rovinata da un florilegio di tastiere elettroniche. Il violino elettrico dona a Uniform un discreto sapore folk-rock, 4.W.D. (Low Ratio) è un midtempo piuttosto nella media e leggermente caotico, ma il folkeggiante strumentale The Pine Marten’s Jig è il pezzo più comparabile al classico suono Tull, e la rock ballad And Futher On, che chiude il disco del 1980, di sicuro non è il miglior brano dei nostri ma almeno non fa danni.

Come bonus sul primo CD abbiamo cinque outtakes inedite: a parte una versione estesa di Crossfire, una alternata di Working John, Working Joe ed il breve frammento di 39 secondi Cheerio, il meglio si ha con Coruisk, evocativa canzone strumentale tra rock e folk che era meglio di molto del materiale finito su A (ci sarebbe anche Slipstream Introduction, un breve brano in stile ambient usato all’epoca per aprire i concerti, ma non è il massimo). Gli altri due CD documentano uno show del gruppo, con la stessa lineup del disco, tenuto il 12 novembre del 1980 alla Sports Arena di Los Angeles: un buon concerto, che presenta ben sette pezzi tratti da A, con gli stessi pregi e difetti anche se on stage la componente rock è decisamente più accentuata grazie al maggior spazio riservato a Barre. Purtroppo però ci sono anche lunghe improvvisazioni strumentali che rompono un po’ il ritmo del concerto, specie i lunghi ed autoindulgenti assoli di tastiera e batteria.

La parte migliore è quindi riservata ai brani dei dischi precedenti ad A, con belle riletture delle allora recenti Songs From The Wood, Hunting Girl e Heavy Horses, un paio di classici minori tratti da War Child (Skating Away On The Thin Ice Of The New Day e Bungle In The Jungle), ed il consueto bis che non fa prigionieri, forse prevedibile ma se uno va ad un concerto dei Tull si incazza se non le suonano: una splendida Aqualung di quasi dieci minuti e la sempre trascinante Locomotive Breath, che neanche il synth riesce a rovinare. I tre DVD contengono le stesse cose dei CD, in vari formati audio compreso “l’indispensabile” (per qualcuno) 5.1 surround, e nella parte video il film Slipstream uscito all’epoca in VHS, uno strano lungometraggio che alterna videoclip, sezioni animate, brani presi da concerti e parti recitate dai membri del gruppo (con Anderson nel doppio ruolo di Aqualung e…Dracula!). L’anno prossimo le ristampe dei Tull si prenderanno una vacanza (ma A sarebbe dovuto uscire nel 2020, poi la pandemia si è messa di mezzo) fino al 2022 quando toccherà al discreto The Broadsword And The Beast, anche se alcune voci parlano per fine 2021 di un “recupero” di Benefit del 1970, l’unico a non aver ancora beneficiato (nonostante il titolo…) dell’edizione “a libro”.

Marco Verdi

Lo Springsteen Della Domenica: Un Gran Concerto Per Tre Quarti, Con Un Finale “Normale”. Bruce Springsteen & The E Street Band – Madison Square Garden, New York, 6/27/2000

bruce springsteen madison square garden 27-06-2000

Bruce Springsteen & The E Street Band – Madison Square Garden, New York, 6/27/2000 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Partiamo dal presupposto che l’aggettivo “normale” associato ad un concerto di Bruce Springsteen & The E Street Band sottintende comunque un livello inarrivabile per circa il 90% dei gruppi rock al mondo, ma in ogni caso non sarebbe corretto spacciare per leggendario ogni singolo show tenuto dal rocker del New Jersey e dal “suo” gruppo, anche se penso che nessuno dei suoi fans se ne sia mai tornato a casa insoddisfatto. Il famoso Reunion Tour tenuto dal Boss nel biennio 1999-2000, che lo vedeva ricongiungersi con i suoi “blood brothers” dopo undici anni, terminò nell’estate del duemila con ben dieci serate consecutive al Madison Square Garden di New York, delle quali quella finale del primo luglio è già stata pubblicata tra le uscite mensili degli archivi live del nostro (ed in parte anche nel doppio CD del 2001 Live In New York City).

Oggi mi occupo del penultimo episodio della serie, Madison Square Garden, New York, 6/27/2000, che invece documenta l’ottava serata, a detta di molti la migliore dopo appunto quella conclusiva, e con nove canzoni diverse in scaletta. Ebbene, come ho accennato nel titolo del post per tre quarti lo show è una bomba, con il Boss ed i suoi compari in perfetta simbiosi ed in totale sintonia col pubblico: nei bis però, quando cioè di solito Bruce spende le ultime briciole di energia rimaste in corpo, sembra che i nostri inseriscano all’improvviso il pilota automatico, complice forse una parte finale di setlist che riserva poche sorprese. E comunque il giudizio complessivo rimane ampiamente positivo, grazie soprattutto a più di un momento esaltante nella parte di spettacolo prima dei bis. L’avvio è formidabile, con la rara Code Of Silence, una grande rock song suonata molto di rado, seguita dalla sempre irresistibile The Ties That Bind e da una potentissima Adam Raised A Cain, con Bruce che inizia a farci sentire la voce della sua sei corde. Un’energica Two Hearts, tradizionalmente un duetto con Little Steven, precede l’amatissima Trapped di Jimmy Cliff, vero e proprio “crowd-pleaser” con ritornello da cantare a squarciagola, ed una struggente Factory, dotata di un inedito arrangiamento country.

Dopo l’allora nuova American Skin (41 Shots), ispirata ad un tragico caso di abuso di potere da parte della polizia verso un uomo disarmato (ma musicalmente non eccelsa), lo show prosegue con ottime riletture di classici alternati a pezzi più recenti: vediamo quindi susseguirsi versioni super-coinvolgenti di The Promised Land, Badlands e Out In The Street, una Youngstown molto più rock e tagliente che in origine ed una scatenata Murder Incorporated. Tenth Avenue Freeze-Out, con i suoi 18 minuti di durata e varie improvvisazioni al suo interno (It’s Alright di Curtis Mayfield, Take Me To The River di Al Green, Red Headed Woman di Bruce e Rumble Doll cantata da Patti Scialfa), è forse il momento centrale della serata https://www.youtube.com/watch?v=r1twvwbB_cU , ma poi abbiamo un trittico di rarità (la splendida e trascinante Loose Ends, la bellissima soulful ballad Back In Your Arms e l’antica Mary Queen Of Arkansas) e la strepitosa Backsteets, a mio giudizio la migliore ballata della “golden age” del Boss insieme a Jungleland e The River.

Da qui in poi come dicevo il concerto da eccellente diventa “solo” buono: Light Of Day l’ho sempre vista come un pretesto per mostrare i muscoli (tra l’altro per quasi un quarto d’ora) ma non una gran canzone, Hungry Heart e Born To Run sono fra i pochi pezzi che Springsteen esegue sempre allo stesso modo, mentre sia la vecchia e solare Blinded By The Light che l’inimitabile Thunder Road fanno salire nuovamente la temperatura. Finale con If I Should Fall Behind, che in quel tour serviva come showcase per i vari membri “cantanti” della band che avevano una strofa a testa (quindi Bruce, Patti, Little Steven, Nils Lofgren e Clarence Clemons) e con l’allora inedita Land Of Hope And Dreams, un brano che non mi ha mai fatto impazzire ed anche discretamente tirato per le lunghe. Per la prossima uscita ci sposteremo sulla costa ovest e ci imbarcheremo sul “Tunnel Of Love Express”.

Marco Verdi

La Prova Del Terzo Disco Per Il “Piccolo Dirigibile”, Brillantemente Superata! Greta Van Fleet – The Battle At Garden’s Gate

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Greta Van Fleet – The Battle At Garden’s Gate – Republic/Universal CD

In realtà quello di cui mi accingo a parlare sarebbe il secondo album dei Greta Van Fleet dopo il celebrato (e discusso) Anthem Of The Peaceful Army del 2018 https://discoclub.myblog.it/2018/10/28/una-nuova-speranza-forse-piu-lattacco-dei-cloni-greta-van-fleet-anthem-of-the-peaceful-army/ , ma il quartetto di Frankenmuth, Michigan aveva esordito nel ’17 con From The Fires, EP di otto canzoni che però con i suoi 32 minuti durava più di tanti album. I GVF (i tre fratelli Josh, voce, Jake, chitarra, e Sam Kiszka, basso e tastiere, e l’amico Danny Wagner alla batteria) con i due lavori precedenti hanno diviso pubblico e critica come poche altre band, almeno in tempi recenti: chi li celebrava come una ventata di aria fresca nel panorama rock visto che i loro colleghi coetanei (i ragazzi sono poco più che ventenni) sono perlopiù artisti rap, hip-hop, trip-hop e boiate varie, chi li stroncava perché li considerava un vero e proprio clone dei Led Zeppelin. Forse la verità stava nel mezzo: il paragone con il Dirigibile ci stava benissimo (ed i nostri un po’ ci marciavano) sia per lo stile musicale proposto, un solido rock-blues molto anni 70, sia per il timbro vocale di Josh incredibilmente simile a quello di Robert Plant, ma nello stesso tempo il fatto di avere una ventata di aria fresca e giovane nel mondo del rock è una cosa indubbiamente positiva. Il problema quando sei associato a doppio filo ad una determinata band è però quello di smarcarti dallo scomodo paragone, e quindi tutti aspettavamo al varco i quattro con il nuovo album The Battle At Garden’s Gate.

Come al solito le critiche sono state alterne, nel senso che i loro detrattori hanno continuato ad accusarli di essere derivativi, mentre altri hanno intravisto nelle varie canzoni più di un tentativo di proporre qualcosa di nuovo, anche se sempre nell’ambito di un suono rock classico. Siccome io sono un po’ come San Tommaso, ho voluto toccare con mano (anzi, con orecchio), e devo dire che The Battle At Garden’s Gate è un deciso upgrade rispetto al seppur buon disco precedente, sia in termini di suono che di songwriting che di performance, e gran parte del merito va certamente al produttore Greg Kurstin (Foo Fighters, Adele, ma anche il Paul McCartney di Egypt Station). Certo, parecchi residui dell’influenza del gruppo di Page & Plant ci sono ancora, meno evidenti ma comunque presenti in più di un pezzo, ma qua e là abbiamo anche “l’ingresso” di sonorità di stampo quasi californiano e psichedelico, in linea con i testi che evocano temi esoterici e mondi paralleli (basta vedere la copertina e le immagini interne). Le canzoni sono solide e godibili dalla prima all’ultima, al punto che i 63 minuti complessivi trascorrono abbastanza facilmente, cosa non affatto scontata. Heat Above inizia con un organo inquietante, poi arriva la batteria lanciatissima ed entra il resto della band per una power ballad abbastanza diversa dallo stile del disco precedente (a parte la voce “plantiana”, ma quella non si può cambiare): arrangiamento elettroacustico ma potente con un quartetto d’archi sullo sfondo, chitarre ed organo ad evocare ampi spazi aperti e melodia molto fluida.

Un buon inizio. My Way, Soon è il primo singolo che gira già da qualche mese, un brano decisamente più rock a partire dal riff elettrico iniziale, anche se il motivo ed il cantato rilassato portano un po’ di sensibilità pop che non pensavo fosse nelle corde dei ragazzi (e qui la voce è più simile a quella di Geddy Lee dei Rush), a differenza di Broken Bells che è una suggestiva ballata il cui attacco (ma anche l’assolo finale) non può che ricordare Stairway To Heaven, ma poi il gruppo prende una direzione sua anche se Josh torna in modalità Plant: il brano comunque risulta molto bello, ricco di pathos e di ottimo livello compositivo. La dura Built By Nations è forse la più in linea con l’album di tre anni fa (e quindi la più zeppeliniana), un rock-blues solido e roccioso ma anche coinvolgente e suonato benissimo; un bell’intro di chitarra ed un’entrata decisamente “pesante” della sezione ritmica fanno di Age Of Machine una hard rock ballad coi fiocchi, dal suono al 100% anni 70 e solo vaghe reminiscenze di un gruppo che sapete qual è, mentre la lenta Tears Of Rain invade ancora i territori prog-rock cari ai Rush (una band a mio parere sottovalutata) e Stardust Chords è “semplicemente” una gran bella rock song, senza particolari influenze.

La potente Light My Love, con la chitarra ed un bel pianoforte in evidenza, è una lucida ballata dal leggero sapore californiano, zona Laurel Canyon (tra le più riuscite del CD), Caravel è dura, chitarristica e fa emergere il lato più puramente rock dei nostri, The Barbarians ha elementi psichedelici ed una chitarra wah-wah che rende tutto godurioso e ci fa tornare ai tempi in cui David Crosby non si ricordava il suo nome, solo con qualche tonnellata di decibel in più. Finale con Trip The Light Fantastic, che ricorda gli Zeppelin “leggeri” di In Through The Out Door e con la maestosa The Weight Of Dreams, più di otto minuti di sano rock anni 70 tra chitarre, archi e melodie ad ampio respiro, con il miglior assolo del disco. Saranno anche derivativi (in questo album un po’ meno), ma a me i Greta Van Fleet piacciono.

Marco Verdi

Un Box Monumentale, Splendido E Costosissimo, Ma Con Alcune Magagne Non Da Poco. John Mayall – The First Generation 1965-1974

john mayall first generation front

John Mayall – The First Generation 1965-1974 – Madfish/Snapper 35CD Box Set

Verso la fine del 2020 era uscito l’annuncio che la Madfish, etichetta inglese specializzata in cofanetti retrospettivi di gran lusso (ricordo di recente quelli dedicati a Gentle Giant e Wishbone Ash), avrebbe pubblicato all’inizio di quest’anno The First Generation 1965-1974, enorme box di 35 CD che riepiloga i primi dieci anni di carriera (cioè i migliori) del grande John Mayall. Non credo sia il caso di descrivere ancora una volta l’importanza di Mayall nella storia della musica: definito a ragione “The Godfather of British Blues”, oltre ad essere un notevole musicista a 360 gradi (cantante, armonicista, pianista, chitarrista ritmico e songwriter) e ad aver pubblicato più di un album passato giustamente alla storia, è stato anche capace di scovare talenti ospitandoli a suonare sui suoi dischi spesso prima che questi diventassero famosi. I casi più eclatanti sono quelli di Eric Clapton, Peter Green e Mick Taylor ben prima che si facessero un nome rispettivamente con Cream, Fleetwood Mac e Rolling Stones, ma negli anni John ha suonato anche con John McVie (anche lui da lì a poco fondatore dei Fleetwood Mac), Larry Taylor e Harvey Mandel poi nei Canned Heat, il noto batterista Aynsley Dunbar, il chitarrista Jon Mark ed il sassofonista Johnny Almond (che nei seventies avranno un buon successo come duo a nome Mark/Almond) ed anche in breve con Jack Bruce e Mick Fleetwood: per una disamina più dettagliata della discografia ufficiale di John vi rimando però all’ottima retrospettiva di Bruno pubblicata su questo blog nel 2019 https://discoclub.myblog.it/2019/05/20/john-mayall-retrospective-il-grande-padre-bianco-del-blues-parte-i/ e  https://discoclub.myblog.it/2019/05/21/john-mayall-retrospective-il-grande-padre-bianco-del-blues-parte-ii/ .

john mayall first generation box

Sinceramente sono stato combattuto per alcune settimane se acquistare o no questo box, più che altro per il prezzo di 275 sterline (più spedizione ed impostazione) dato che io di Mayall possedevo i lavori più recenti e solo un paio di cose risalenti alla “golden age”. Devo dire però che il sacrificio economico non è stato vano (tra l’altro il box, stampato in 5000 copie, è ancora disponibile su uno dei due canali ufficiali, ma occhio ai vari siti dove viene rivenduto quasi al doppio), in quanto The First Generation 1965-1974 è un manufatto formidabile, un cofanetto importante anche nelle dimensioni, con un bellissimo libro rilegato di 168 pagine pieno di foto, scritti e note, alcuni pezzi di memorabilia e, come ciliegina, una foto autografata dallo stesso Mayall. I CD della sua discografia ufficiale sono stati tutti rimasterizzati e presentati in confezioni simil-LP, in molti casi con bonus tracks aggiunte (non inedite, ma le stesse già presenti in precedenti ristampe), un paio di CD singoli che riportano altrettanti 45 giri di inizio carriera (I’m Your Witchdoctor/Telephone Blues e Lonely Years/Bernard Jenkins) ed il raro EP All My Life registrato con Paul Butterfield, che se non erro è la prima volta che esce su CD come entità a sé stante.

A parte la retrospettiva di Bruno di cui sopra, lasciatemi aggiungere che qui per un neofita c’è da godere assai, in quanto tra i vari album ci sono almeno due capolavori assoluti (il famoso Blues Breakers con Clapton, e A Hard Road con Green) e tanti altri dischi da non meno di quattro stellette (Crusade, Bare Wires, Blues From Laurel Canyon, gli strepitosi live The Turning Point e Jazz Blues Fusion), oltre ai classici “personal favorites” (The Blues Alone, Empty Rooms, Back To The Roots). In questa recensione vorrei soffermarmi principalmente sul materiale inedito del box, che consiste in uno strepitoso doppio CD intitolato BBC Recordings ed in una serie di concerti mai pubblicati prima che occupa i sette dischetti finali. BBC Recordings è, come accennato poc’anzi, un mezzo capolavoro, che chi non ha comprato il box perché già possedeva tutta la discografia ufficiale di Mayall meriterebbe di vedere pubblicato a parte (ma con la Madfish so già che non sarà così).

Si tratta di sessions inedite registrate presso gli studi della mitica emittente britannica dal 1965 al 1968 e messe in onda in programmi popolarissimi come Saturday Club e Top Gear, dove ritroviamo insieme a Mayall parecchi dei nomi citati ad inizio recensione: Clapton, Green, Taylor, Bruce e McVie, oltre ai noti batteristi Colin Allen e Keef Hartley. Due ore complessive di musica, registrata perlopiù in mono, con un suono che varia dal discreto al buono anche se qualche incisione sotto la media c’è. Nel primo CD ci sono ben 13 brani con Clapton alla solista, tra i quali spiccano la vivace Crawling Up A Hill, con un breve ma ficcante assolo di Manolenta, la sinuosa Crocodile Walk, la coinvolgente Bye Bye Bird, con una prestazione maiuscola di Mayall all’armonica, una Hideaway di Freddie King ricca di swing e con Eric che arrota da par suo, il magnifico slow blues Tears In My Eyes, che vede Clapton in modalità “God” https://www.youtube.com/watch?v=kHeJ1lHh2jo , la classica All Your Love di Otis Rush e la pimpante Key To Love. In mezzo abbiamo cinque pezzi con alla chitarra il poco noto Geoff Krivit ma con Jack Bruce al basso: da segnalare l’arrochita Cheatin’ Womanhttps://www.youtube.com/watch?v=qefVuAMu2Eo  una strepitosa Parchman Farm di Mose Allison, con il basso di Bruce come strumento solista, e la jazzata Nowhere To Turn.

Il primo dischetto si chiude così come si apre il secondo, e cioè con Peter Green come axeman (sette brani totali): imperdibili il saltellante country-blues Sitting In The Rain, l’ottimo strumentale Curly (in due diverse versioni), scritto da Green stesso e con le sue dita grandi protagoniste e le splendide Ridin’ On The L And N (Lionel Hampton) e Dust My Blues (Elmore James), entrambe con Greeny alla slide. Le restanti canzoni vedono Mick Taylor alla solista ed in molti casi una sezione fiati a dare più corpo al suono, e qui il meglio lo abbiamo con la suadente e sensuale Worried Love, il potente rock-blues strumentale Snowy Wood, la lenta e raffinata Another Man’s Land, con il sax di Chris Mercer a duettare con la slide di Mick, il blues-jazz Knockers Step Forward, che vede il futuro Rolling Stone rilasciare un assolo sensazionale e la roboante Long Gone Midnight, con la chitarra in modalità wah-wah.

Infine veniamo alle dolenti note del box (le magagne del titolo), che riguardano gli ultimi sette dischetti riportanti altrettanti concerti dal vivo, o parti di essi (nel dettaglio: Bromley Technical College 1967, Live 1967, registrato in varie locations, 7th National Jazz & Blues Festival 1967, Gothenburg 1968, Berlin 1969, Bremen 1969 e Fillmore West 1970). Tutti show reputati di altissimo profilo…peccato che si faccia una fatica boia ad ascoltarli! Sì perché, in nome del caro vecchio “valore storico”, il box ci propina una serie di CD registrati letteralmente coi piedi (per non dire di peggio), un suono da bootleg di bassissima qualità che rende praticamente impossibile quando non fastidioso l’ascolto, e siccome non stiamo parlando di album di dubbia legalità tratti da concerti radiofonici ma di un cofanetto che viene fatto strapagare, mi sento anche un po’ preso per il culo (possibile che negli archivi non ci fosse qualcosa di inciso meglio?).

In tutta onestà devo dire che questo discorso si applica sicuramente per i primi cinque CD (quello di Gothenburg all’inizio mi aveva dato qualche speranza, peccato però che la voce non si senta quasi per niente), mentre quelli di Brema e Fillmore West sono incisi in maniera più che accettabile, e quindi sono gli unici che sono riuscito ad ascoltare senza farmi venire la voglia di gettare il CD dalla finestra, apprezzando una stratosferica Parchman Farm di 14 minuti dallo show tedesco e, da quello di San Francisco, i 21 minuti totali della lenta e cadenzata What’s The Matter With You e del puro blues Travelling Man. Un cofanetto che, a parte la macchia indelebile di gran parte dei contenuti inediti che anche se restavano tali era meglio, contiene una bella fetta di storia del blues, anche se il tutto viene fatto pagare a carissimo prezzo.

Marco Verdi