Continua La Riscossa Dei “Giovani Talenti”! Tom Jones – Surrounded By Time

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Tom Jones – Surrounded By Time – EMI CD

Il fatto che tra i migliori album di questo primo terzo di 2021 ci siano i lavori di due quasi novantenni, Willie Nelson e Loretta Lynn, non depone certo a favore di un roseo futuro per la nostra musica. Ora a questo manipolo di giovanotti si aggiunge anche Tom Jones, che è un ragazzino in confronto ai due nomi appena citati in quanto di anni ne compirà “solo” 81 il prossimo giugno. Dopo una lunghissima carriera piena di successi pop ma anche di tanti passaggi a vuoto, il cantante gallese sta vivendo da una decade abbondante una vera e propria rinascita artistica: infatti, dopo essersi riaffacciato prepotentemente nelle parti alte delle classifiche con il tormentone danzereccio Sex Bomb nel 2000, Tom ha iniziato dal 2010 a pubblicare un album più bello dell’altro, reinventandosi interprete in chiave folk-blues-gospel-roots di brani tradizionali ed altri di autori contemporanei anche di stampo rock. Un percorso simile a quello intrapreso negli anni 90 da Johnny Cash con Rick Rubin (ma a differenza di Jones, l’Uomo in Nero non aveva mai smesso di fare musica di qualità, solo non se lo filava più nessuno), con il produttore Ethan Johns, figlio del mitico Glyn Johns, a fungere da mentore come Rubin era stato per Cash. Praise & Blame (2010), Spirit In The Room (2012) e Long Lost Suitcase (2015) erano tre dischi magnifici, nei quali il nostro, sempre in possesso di una grande voce, rileggeva con credibilità da vero musicista roots brani della tradizione o canzoni scritte da Hank Williams, Bob Dylan, Billy Joe Shaver, Los Lobos, Pops Staples, Leonard Cohen, Richard Thompson, Paul Simon, Willie Nelson, Tom Waits, Gillian Welch e Rolling Stones, un percorso culminato poi nel 2017 con lo splendido doppio Live On Soundstage, registrato appunto dal vivo.

Ora Jones si rifà vivo a sei anni da Long Lost Suitcase con Surrounded By Time, un altro riuscito album che prosegue con la reinterpretazione di classici del passato tra pezzi noti ed altri più oscuri, ancora con Johns in cabina di regia ed anche responsabile di vari tipi di strumenti a tastiera e chitarre, e con la partecipazione di Neil Cowley anch’egli al piano, organo e synth, Nick Pini al basso e Dan See e Jeremy Stacey alla batteria. A differenza dei tre lavori precedenti però in questo album il suono è meno roots e decisamente più moderno, con uso abbastanza insistito di sonorità elettroniche mescolate ad altre più “tradizionali”, anche se a parte un paio di episodi in cui la modernità prende il sopravvento, il tutto è dosato con intelligenza (ci sono similitudini con certe cose di David Bowie ma anche con il Nick Cave più recente). E poi c’è Tom, che nonostante gli anni ha ancora una voce di una potenza formidabile, ed una classe che gli permette di interpretare al meglio qualsiasi tipo di canzone con qualsiasi tipo di arrangiamento: pollice verso invece per la copertina del CD, che ogni volta che la guardo mi fa venire in mente un rotolo di carta igienica…L’album inizia con le tonalità gospel di I Won’t Crumble With You If You Fall, un brano della folksinger ed attivista Bernice Johnson Reogon con la voce magnifica di Jones che si staglia quasi a cappella, dal momento che gli unici strumenti sono synth e basso che producono un effetto simile ai paesaggi sonori di Daniel Lanois.

The Windmills Of Your Mind è un noto pezzo del compositore francese Michel Legrand già inciso in passato tra gli altri da Dusty Springfield, Vanilla Fudge e Sting: Tom canta con grande padronanza della melodia mentre la band si produce in un accompagnamento pianistico di algida bellezza, con una leggera percussione e l’organo ad aggiungere pathos; con Pop Star, vecchia canzone di Cat Stevens (era su Mona Bone Jakon) il ritmo cresce, il brano ha una struttura blues ma qui è sostenuto da uno strano arrangiamento molto elettronico che non le rende pienamente giustizia, nonostante l’ingresso dopo la seconda strofa di un bellissimo pianoforte. Un sitar introduce No Hole In My Head di Malvina Reynolds, poi entra una ritmica martellante ed un organo decisamente sixties, per una traccia che si divide tra pop e psichedelia, un genere non abituale per Tom che però non fa una piega e canta con il solito carisma ed anche una buona dose di grinta. Talking Reality Television Blues è il brano che non ti aspetti, una canzone recente scritta da Todd Snider dal testo ironico tipico del songwriter di Portland, arrangiato alla guisa di un rock urbano (non esagero se penso ai Dream Syndicate), e per non smentire il titolo Jones parla invece di cantare. Non tra le mie preferite, anche se la coda finale chitarristica è notevole.

Anche I Won’t Lie (di Michael Kiwanuka) inizia con un tappeto sonoro quasi straniante, ma poi entra la chitarra acustica e Tom canta col cuore in mano trasformando un brano di moderno soul in una folk song pura nonostante l’atmosfera gelida creata dal synth sullo sfondo; This Is The Sea, uno dei capolavori dei Waterboys, è una grande canzone e qui viene riproposta in maniera più classica, con organo, chitarre e sezione ritmica in evidenza (sulla voce di Tom non voglio ripetermi): sette minuti splendidi. Interpretare Dylan sta diventando per Jones una piacevole abitudine dato che Praise & Blame si apriva con What Good Am I? ed in Spirit In The Room c’era When The Deal Goes Down: qui troviamo la bella One More Cup Of Coffee, che ha un inizio quasi jazzato per l’uso solista del basso ma poi entrano gli altri strumenti ed il pezzo mantiene l’andatura western dell’originale con il nostro che vocalizza alla grande, a differenza del traditional Samson And Delilah (l’hanno fatta in tanti, ma la versione più celebre è quella dei Grateful Dead) che assume sonorità etniche, quasi tribali, con un andamento incalzante e coinvolgente.

Tom omaggia anche Tony Joe White con Ol’ Mother Earth, ballata cadenzata e notturna in cui i suoni moderni si adattano perfettamente al tessuto melodico di base, con Jones che ricorre ancora al talkin’ ma in maniera più riuscita che nel brano di Snider; finale con il tributo a due musicisti jazz poco noti come Bobby Cole e Terry Callier, rispettivamente con I’m Growing Old, proposta in una nuda e struggente rilettura per sola voce e piano (e qualche loop non invasivo), e la lunga Lazarus Man, più di nove minuti di pura psichedelia moderna con la voce del leader che un po’ declama ed un po’ canta con il consueto feeling, mentre una chitarra liquida alla Jerry Garcia ricama sullo sfondo. Quindi un altro bel disco per il “vero” Principe di Galles, che dimostra di cavarsela alla grande anche in mezzo a suoni che non sempre gli appartengono.

Marco Verdi

Poca Polvere, Sotto I Tappeti E Tante Stelle Luccicanti A Scaldare I Nostri Cuori. Mary Chapin Carpenter – The Dirt And The Stars

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Mary Chapin Carpenter – The Dirt And The Stars – Lambent Light Records

Credo che la nostra amica non potrebbe fare un disco brutto neanche volendo: forse solo Songs From The Movie, un album del 2014 dove rivisitava il suo vecchio repertorio con una orchestra di 63 elementi ed un coro di 15, era troppo ridondante, mentre la stessa operazione di rivedere una dozzina di perle del suo repertorio nell’eccellente disco del 2018 Sometimes Just The Sky, grazie forse ad un approccio più meditato e su una scala sonora più scarna e meno lussureggiante, anche per merito della produzione di Ethan Johns, era risultato tra i migliori degli ultimi anni https://discoclub.myblog.it/2018/05/11/non-ci-eravamo-dimenticati-rileggendo-vecchie-pagine-damore-mary-chapin-carpenter-sometimes-just-the-sky/ . Per questo nuovo The Dirt And The Stars, il quindicesimo album della sua splendida carriera, Mary Chapin Carpenter si affida nuovamente a Ethan Johns, per l’occasione presentando undici nuove composizioni, che confermano che la sua vena compositiva non si è certo inaridita, anzi, e che la sua voce è una delle più limpide ed espressive dell’attuale panorama cantautorale, magari lontana dagli accenti più country del passato, in favore di una musicalità più ricca e complessa, anche di un certo eclettismo sonoro, dove la forma classica della ballata rimane il suo tratto distintivo principale, ma Mary è sempre in in grado di inserire delle piccole ma decisive variazioni sul tema, in modo che il menu rimanga ricco e variegato.

Prendiamo la title track, una canzone ispirata da una sorta di epifania provata all’età di 17 anni, ascoltando alla radio durante una corsa in macchina Wild Horses, in effetti il brano ha un che di stonesiano, grazie all’organo avvolgente del grande Matt Rollins e ad un ficcante e complesso assolo della 6 corde di Duke Levine, entrambi abituali compagni di avventura della Carpenter, che canta poi la canzone con una ricchezza di timbri vocali che affascinano l’ascoltatore, mentre l’arrangiamento architettato da Johns, in un lento ma inesorabile crescendo sonoro rendono questo pezzo semplicemente splendido, quasi otto minuti di pura magia sonora. Anche nel blues-rock incalzante di American Stooge il lavoro della solista di Levine è superbo, sottolineato dalla sezione ritmica di Nick Pini al basso e Jeremy Stacey alla batteria e dal piano di Rollins, mentre la Chapin Carpenter racconta con voce partecipe e vibrante la vicenda del senatore americano Lindsey Graham, un “fantoccio” come lo definisce senza mezzi termini nel titolo; e per concludere il trittico più rockista dell’album anche Secret Keepers ha una grinta più accentuata rispetto al suo solito mood sonoro, con un Duke Levine ancora una volta veramente ispirato alla chitarra.

Ovviamente non mancano gli episodi più raccolti, come il leggero jingle jangle del delizioso folk-rock della iniziale Farther Along And Further, dove si percepiscono anche dei mandolini, malinconica e riflessiva come ci ha abituati spesso nel suo songbook, ancora più evidente, sin dal titolo, in It’s Ok To Feel Sad, tra accenti Pettyani e scandite derive spirituali quasi gospel, sempre con la sua magnifica band che crea sfondi sonori ideali per quella voce così unica e particolare. Splendida anche All Broken Hearts Breaks Differently, bellissimo titolo, che mi ha ricordato certe elegiache canzoni del miglior Jackson Browne anni ‘70, con il suono della California più ispirata di quei tempi, anche se lei è una “nordista” di Princeton e il disco è stato registrato in Inghilterra a Bath negli studi Real World di Peter Gabriel, comunque di nuovo attualizzato in questa visione al femminile di una cantautrice che è in grado di infondere rinnovata struggente bellezza e nostalgia per tematiche amorose sempre attuali e ricorrenti. Old D-35, dal nome della sua vecchia chitarra acustica Martin, ci riporta al classico sound elettroacustico delle sue pagine migliori, che illustrano il suo lato più intimistico, grazie anche ai tocchi quasi timidi del piano di Rollins.

Suono ribadito anche nella soffusa Where The Beauty Is, e poi ancor più per sottrazione nella raffinata e rarefatta Nocturne, dove chitarre acustiche, pianoforte e la voce calda della Carpenter tengono avvinto l’ascoltatore in un tenue ambiente sonoro che poi si anima leggermente con l’ingresso di percussioni e una chitarra elettrica appena accennata, e con un testo compassionevole e reale “We’re all trying to live up to some oath to ourselves….No king has the power, no mortal the skill/But still you keep trying to see/What’s waiting for you at the end of your days”. E pure in Asking For A Friend Mary pone con discrezione domande che forse non hanno risposte, sempre coadiuvata dal finissimo lavoro di Rollins al piano e Levine alla chitarra, dal contrabbasso con archetto di Pini e dalla sua sensibilità di interprete sempre partecipe, sublime e mai sopra le righe, che si manifesta ancora nelle delicate volute della dolce Everybody Got Something, mandolini pizzicati, chitarre acustiche e piano, la voce porta con un leggero vibrato, tutti ancora decisivi in un’altra canzone che aggiunge ulteriore spessore ad un album che la conferma cantautrice senza tempo e con pochi raffronti nel panorama musicale attuale. Poca polvere sotto i tappeti e tante stelle luccicanti a scaldare i nostri cuori.

Bruno Conti