Continua La Riscossa Dei “Giovani Talenti”! Tom Jones – Surrounded By Time

tom jones surrounded by time

Tom Jones – Surrounded By Time – EMI CD

Il fatto che tra i migliori album di questo primo terzo di 2021 ci siano i lavori di due quasi novantenni, Willie Nelson e Loretta Lynn, non depone certo a favore di un roseo futuro per la nostra musica. Ora a questo manipolo di giovanotti si aggiunge anche Tom Jones, che è un ragazzino in confronto ai due nomi appena citati in quanto di anni ne compirà “solo” 81 il prossimo giugno. Dopo una lunghissima carriera piena di successi pop ma anche di tanti passaggi a vuoto, il cantante gallese sta vivendo da una decade abbondante una vera e propria rinascita artistica: infatti, dopo essersi riaffacciato prepotentemente nelle parti alte delle classifiche con il tormentone danzereccio Sex Bomb nel 2000, Tom ha iniziato dal 2010 a pubblicare un album più bello dell’altro, reinventandosi interprete in chiave folk-blues-gospel-roots di brani tradizionali ed altri di autori contemporanei anche di stampo rock. Un percorso simile a quello intrapreso negli anni 90 da Johnny Cash con Rick Rubin (ma a differenza di Jones, l’Uomo in Nero non aveva mai smesso di fare musica di qualità, solo non se lo filava più nessuno), con il produttore Ethan Johns, figlio del mitico Glyn Johns, a fungere da mentore come Rubin era stato per Cash. Praise & Blame (2010), Spirit In The Room (2012) e Long Lost Suitcase (2015) erano tre dischi magnifici, nei quali il nostro, sempre in possesso di una grande voce, rileggeva con credibilità da vero musicista roots brani della tradizione o canzoni scritte da Hank Williams, Bob Dylan, Billy Joe Shaver, Los Lobos, Pops Staples, Leonard Cohen, Richard Thompson, Paul Simon, Willie Nelson, Tom Waits, Gillian Welch e Rolling Stones, un percorso culminato poi nel 2017 con lo splendido doppio Live On Soundstage, registrato appunto dal vivo.

Ora Jones si rifà vivo a sei anni da Long Lost Suitcase con Surrounded By Time, un altro riuscito album che prosegue con la reinterpretazione di classici del passato tra pezzi noti ed altri più oscuri, ancora con Johns in cabina di regia ed anche responsabile di vari tipi di strumenti a tastiera e chitarre, e con la partecipazione di Neil Cowley anch’egli al piano, organo e synth, Nick Pini al basso e Dan See e Jeremy Stacey alla batteria. A differenza dei tre lavori precedenti però in questo album il suono è meno roots e decisamente più moderno, con uso abbastanza insistito di sonorità elettroniche mescolate ad altre più “tradizionali”, anche se a parte un paio di episodi in cui la modernità prende il sopravvento, il tutto è dosato con intelligenza (ci sono similitudini con certe cose di David Bowie ma anche con il Nick Cave più recente). E poi c’è Tom, che nonostante gli anni ha ancora una voce di una potenza formidabile, ed una classe che gli permette di interpretare al meglio qualsiasi tipo di canzone con qualsiasi tipo di arrangiamento: pollice verso invece per la copertina del CD, che ogni volta che la guardo mi fa venire in mente un rotolo di carta igienica…L’album inizia con le tonalità gospel di I Won’t Crumble With You If You Fall, un brano della folksinger ed attivista Bernice Johnson Reogon con la voce magnifica di Jones che si staglia quasi a cappella, dal momento che gli unici strumenti sono synth e basso che producono un effetto simile ai paesaggi sonori di Daniel Lanois.

The Windmills Of Your Mind è un noto pezzo del compositore francese Michel Legrand già inciso in passato tra gli altri da Dusty Springfield, Vanilla Fudge e Sting: Tom canta con grande padronanza della melodia mentre la band si produce in un accompagnamento pianistico di algida bellezza, con una leggera percussione e l’organo ad aggiungere pathos; con Pop Star, vecchia canzone di Cat Stevens (era su Mona Bone Jakon) il ritmo cresce, il brano ha una struttura blues ma qui è sostenuto da uno strano arrangiamento molto elettronico che non le rende pienamente giustizia, nonostante l’ingresso dopo la seconda strofa di un bellissimo pianoforte. Un sitar introduce No Hole In My Head di Malvina Reynolds, poi entra una ritmica martellante ed un organo decisamente sixties, per una traccia che si divide tra pop e psichedelia, un genere non abituale per Tom che però non fa una piega e canta con il solito carisma ed anche una buona dose di grinta. Talking Reality Television Blues è il brano che non ti aspetti, una canzone recente scritta da Todd Snider dal testo ironico tipico del songwriter di Portland, arrangiato alla guisa di un rock urbano (non esagero se penso ai Dream Syndicate), e per non smentire il titolo Jones parla invece di cantare. Non tra le mie preferite, anche se la coda finale chitarristica è notevole.

Anche I Won’t Lie (di Michael Kiwanuka) inizia con un tappeto sonoro quasi straniante, ma poi entra la chitarra acustica e Tom canta col cuore in mano trasformando un brano di moderno soul in una folk song pura nonostante l’atmosfera gelida creata dal synth sullo sfondo; This Is The Sea, uno dei capolavori dei Waterboys, è una grande canzone e qui viene riproposta in maniera più classica, con organo, chitarre e sezione ritmica in evidenza (sulla voce di Tom non voglio ripetermi): sette minuti splendidi. Interpretare Dylan sta diventando per Jones una piacevole abitudine dato che Praise & Blame si apriva con What Good Am I? ed in Spirit In The Room c’era When The Deal Goes Down: qui troviamo la bella One More Cup Of Coffee, che ha un inizio quasi jazzato per l’uso solista del basso ma poi entrano gli altri strumenti ed il pezzo mantiene l’andatura western dell’originale con il nostro che vocalizza alla grande, a differenza del traditional Samson And Delilah (l’hanno fatta in tanti, ma la versione più celebre è quella dei Grateful Dead) che assume sonorità etniche, quasi tribali, con un andamento incalzante e coinvolgente.

Tom omaggia anche Tony Joe White con Ol’ Mother Earth, ballata cadenzata e notturna in cui i suoni moderni si adattano perfettamente al tessuto melodico di base, con Jones che ricorre ancora al talkin’ ma in maniera più riuscita che nel brano di Snider; finale con il tributo a due musicisti jazz poco noti come Bobby Cole e Terry Callier, rispettivamente con I’m Growing Old, proposta in una nuda e struggente rilettura per sola voce e piano (e qualche loop non invasivo), e la lunga Lazarus Man, più di nove minuti di pura psichedelia moderna con la voce del leader che un po’ declama ed un po’ canta con il consueto feeling, mentre una chitarra liquida alla Jerry Garcia ricama sullo sfondo. Quindi un altro bel disco per il “vero” Principe di Galles, che dimostra di cavarsela alla grande anche in mezzo a suoni che non sempre gli appartengono.

Marco Verdi

Un Tributo Splendido Anche Se Tardivo! Strange Angels: In Flight With Elmore James

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Strange Angels: In Flight With Elmore James – Sylvan Songs/AMPED CD

Trovo abbastanza scandaloso che non fosse mai uscito prima d’ora un tributo fatto con tutti i crismi alla figura del grande Elmore James, uno dei bluesmen più leggendari della storia, uno che ha suonato con Robert Johnson e Sonny Boy Williamson, e che ha praticamente inventato la tecnica slide nel suonare la chitarra, influenzando generazioni di musicisti a venire (tra i quali gente del calibro di Eric Clapton, Peter Green, Brian Jones, Duane Allman, Stevie Ray Vaughan, Johnny Winter e Sonny Landreth). Ci ha dovuto pensare la piccola Sylvan Songs (?) a riparare al torto, mettendo a punto questo splendido Strange Angels: In Flight With Elmore James, un omaggio fatto in grande stile, con una serie di ospiti di alto profilo, che si sono mossi tra l’altro a titolo gratuito, in quanto il ricavato delle vendite andrà a finanziare MusiCares e la Edible Schoolyard NYC, un progetto grazie al quale a giovani studenti viene insegnato a coltivare la terra ed a prendersi cura di giardini situati nei cortili delle scuole, avvicinandoli così al mondo della natura. Strange Angels, come ho già detto, è un album strepitoso, nel quale tutti i partecipanti si sono esibiti al meglio delle loro possibilità, fornendo diverse prestazioni da antologia, ben coadiuvati da una house band da sogno, formata da una serie di musicisti dal pedigree eccezionale.

Troviamo infatti in studio, tra i tanti (i partecipanti si alternano nei vari brani), G.E. Smith, storico chitarrista del Saturday Night Live ed in seguito nelle touring bands di Bob Dylan e Roger Waters, Doug Lancio, per anni nella band di John Hiatt e recentemente con Patty Griffin e Tom Jones, Viktor Krauss, fratello di Alison e membro della sua band, Rick Holmstrom, attuale bandleader di Mavis Staples, Rudy Copeland, pianista di Solomon Burke e Johnny “Guitar” Watson, John Leventhal, stimato musicista e produttore nonché marito di Rosanne Cash, Charlie Giordano, tastierista della E Street Band, Jay Bellerose, il batterista preferito da Joe Henry, Larry Taylor, ex bassista dei Canned Heat e più di recente con Tom Waits, e Marco Giovino, ex membro dei Band Of Joy di Robert Plant, nonché produttore del tributo. E non li ho neanche citati tutti. L’album parte con Can’t Stop Loving You, che inizia subito con una slide lancinante (Lancio, quindi lancio-nante…), un ritmo vivace e la gran voce di Elayna Boynton, una giovane e brava soul singer: pochi secondi e siamo subito “dentro” al disco (peccato che il brano duri poco più di due minuti) La grandissima Bettye LaVette (che ha in uscita un disco di covers di Bob Dylan, non vedo l’ora) aggredisce subito Person To Person con la sua vocalità strepitosa, una potenza seconda forse solo a Mavis Staples, ed il gruppo la segue con un suono “grasso” e coinvolgente. Rodney Crowell non è mai stato associato al blues, ma ha una classe che gli permette di adattarsi al meglio anche in questa veste: Shake Your Money Maker è uno dei classici assoluti di James, e Rodney ne fornisce un’interpretazione fresca e saltellante, quasi rockabilly, doppiato alla grande dalla slide di Lancio, che si conferma uno dei protagonisti del CD.

Tom Jones è tornato tra noi, in termini di qualità musicale, da diversi anni, e la sua rilettura di Done Somebody Wrong è poderosa e piena di feeling, con la sua formidabile voce al servizio di un suono sporco al punto giusto: qui Lancio non c’è, ma Holmstrom e Taylor (che oltre ad essere bassista suona anche la slide) coprono benissimo la sua assenza. Sapevo che Mean Mistreatin’ Mama sarebbe stato un highlight assoluto già quando ho letto che era stata affidata a Warren Haynes e Billy Gibbons, ma non pensavo ad un tale grado di splendore: sia Warren che Billy si cimentano alla slide (Haynes è anche voce solista), ed il duello finisce in parità, ma non con uno 0-0 con poche emozioni, ma bensì un 3-3 spettacolare, con pali, traverse ed occasioni salvate sulla linea; la goduria è completata da Mickey Raphael, la cui armonica abbandona il tono country che ha di solito con Willie Nelson e si avvicina allo stile di Charlie Musslewhite. Dust My Broom è forse il brano più celebre di James (ne ricordo una versione indimenticabile negli anni novanta fatta da Willy DeVille, con Fabio Treves all’armonica, al vecchio City Square di Milano), e qui è affidato a Deborah Bonham, sorella di John (e quindi zia di Jason): forse non ha la stessa potenza vocale di quella che aveva il fratello ai tamburi, ma è comunque davvero brava (e vogliamo parlare di come suona la band?); It Hurts Me Too è un altro superclassico, ed alla slide troviamo ancora l’immenso Warren Haynes, che però stavolta cede il microfono a Jamey Johnson, e la coppia funziona eccome, ed in più abbiamo una incredibile jam finale, che rende la canzone tra le più riuscite del disco.

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Le sorelle Allison Moorer e Shelby Lynne dopo il bel disco in duo dell’anno scorso ci hanno preso gusto http://discoclub.myblog.it/2017/08/12/un-ottimo-esordio-per-due-promettenti-ragazze-shelby-lynne-allison-moorer-not-dark-yet/ , anche se all’apparenza le loro voci non si adattano a brani blues di questa forza: infatti la loro Strange Angels è arrangiata in maniera più leggera, quasi jazzata, anche se l’esito finale è sì discreto, ma meno convincente del resto. La cura Taj Mahal ha fatto bene a Keb Mo’, che si destreggia splendidamente con Look On Yonder Wall, suonata in maniera elettroacustica, con l’aggiunta di una fisarmonica che dona più colore al suono, proprio come avrebbe fatto il vecchio Taj. Mollie Marriott, figlia di Steve (Small Faces e Humble Pie), non la conoscevo http://discoclub.myblog.it/2017/12/15/una-figlia-darte-un-po-tardiva-mollie-marriott-truth-is-a-wolf/ , ma è molto brava e con un timbro vocale vicino a quello di Bonnie Raitt (una che in questo disco ci sarebbe stata alla grande), e la sua My Bleeding Heart è decisamente godibile; Chuck E. Weiss è un fuori di testa, ma quando canta è serissimo, anche se la sua presenza in Hawaiian Boogie, in cui si limita a borbottare qualche “Oh Yeah!” e “Boogie!” ed a grattare sulla washboard, è impalpabile, ma il pezzo è comunque trascinante. Addi McDaniel è una attrice ed anche cantante, e la sua Dark And Dreary è una vera sorpresa, un folk-blues-jazz molto raffinato, con tanto di violino, fisa e banjo: grande classe. Chiude l’album lo strumentale Bobby’s Rock, con la house band protagonista, per l’occasione autoribattezzatasi Elmore’s Latest Broomdusters Broomdusters era il nome dato alla backing band di James), un rock-blues solido e vibrante, con Lancio e Holmstrom sugli scudi. Un tributo dunque imperdibile, che sicuramente figurerà tra i dischi blues dell’anno.

Marco Verdi

Quest’Uomo E’ Sempre Una Potenza! Tom Jones – Live On Soundstage With Alison Krauss

tom jones live on soundstage

Tom Jones – Live On Soundstage w/Alison Krauss – BMG Rights Management CD+DVD

Tra i musicisti, come vogliamo chiamarli, “diversamente giovani”, Tom Jones è sicuramente uno di quelli che negli ultimi anni di carriera ha avuto una metamorfosi qualitativa (soprattutto a livello musicale, la voce è sempre stata strepitosa) veramente notevole: non è l’unico, pensiamo a Johnny Cash o a Neil Diamond, per parlare di due casi evidenti, ma ce ne sono stati altri magari meno conosciuti, come pure, in quantità maggiore, moltissimi che con l’andare del tempo sono invece decisamente peggiorati, ma questo vale anche per i giovani, purtroppo. Il cantante gallese ha avuto diverse fasi nella sua lunghissima carriera: prima il classico cantante pop, nell’Inghilterra degli anni ’60, uno dei rivali in classifica dei Beatles e degli Stones, con una serie di canzoni di successo famosissime, da Delilah a It’s Not Unusual, passando per il tema di Thunderball e Green Grass Of Home, poi c’è stata la fase dei concerti a Las Vegas (che comunque è durata fino al 2011), un lungo declino, soprattutto a livello discografico, e il ritorno, con un paio di “tormentoni” come Kiss e Sex Bomb che lo hanno fatto conoscere anche alle ultime generazioni. Il primo periodo quello del pop singer mainstream, per quanto fatto di canzoni appunto pop, spesso ha raggiunto livelli più che dignitosi, toccando anche il repertorio di Bacharach & David, classici della country music, il tutto sempre nobilitato dalla sua voce calda e potente.

Poi, improvvisamente, alla soglia dei 70 anni, nel 2010, ha deciso di dare una svolta radicale alla sua carriera, pubblicando il primo di una trilogia di album fantastici, aperta da un album come Praise And Blame, prodotto da Ethan Johns, e suonato (e cantato) da una serie di musicisti strepitosi, da Booker T Jones a Benmont Tench, Gillian Welch e David Rawlings, Dave Bronze, Bj Cole e Henry Spinetti, tra i grandi musicisti inglesi degli anni ’60/70; un disco dove gli elementi blues e gospel si fondevano con una certa roots music di qualità, con pezzi anche di Dylan e Billy Joe Shaver. I due dischi successivi, Spirit In The Room, ancora prodotto da Johns, e incentrato soprattutto sul repertorio dei grandi cantautori, e Long Lost Suitcase, un mix dei due precedenti con brani tradizionali e blues, alternati a canzoni dei Los Lobos, degli Stones e di Willie Nelson, hanno cementato questa rinascita. Per completare questo filotto di grandi album ora esce Tom Jones Live On Soundstage, registrato nel Granger Studio di Chicago dove si registra il celebre programma della PBS Soundstage: e lo fa presentandosi con una band da sogno, con Doug Lancio (il chitarrista di John Hiatt e mille altri), Marco Giovino alla batteria e direttore musicale, Tom West, a piano, organo e fisarmonica, Neal Pawley, trombone e chitarre aggiunte, e Viktor Krauss al basso, che si è portato anche la sorella Alison Krauss, voce duettante e violino in tre brani; molto meglio del precedente Live di Jones dove a duettare c’era l’anglo-australiano John Farnham.

Inutile dire che il concerto è bellissimo, da ascoltare, ma anche da vedere, meglio, nel DVD allegato, con Tom Jones che è sempre il consumato performer che tutti conosciamo, veterano di migliaia di concerti e che tiene subito in pugno il pubblico fin dall’apertura: affidata ad una intima ed intensa Tower Of Song di Leonard Cohen, con un bel arrangiamento che privilegia la chitarra acustica di Lancio e il piano elettrico di West, poi entra in modo discreto il resto della band quando il brano si apre sulla melodia della splendida canzone. I ritmi si alzano subito con il gospel tradizionale Run On, un brano che Jones racconta era uno dei preferiti di Elvis e i due la cantavano spesso in privato, senza averla mai incisa insieme, fatta a tempo di rock&blues alza subito la temperatura del concerto, grande versione e che voce; Strange Things di SisteRosetta Tharpe viene fatta tra R&R e blues, tra ritmo e divertimento, con il piano protagonista. Non mancano i vecchi classici di Tom, la prima ad apparire in scaletta è Delilah, in versione 2.0, con elementi rootsy e una fisarmonica malandrina, ma il pezzo rimane una sorta di valzer senza tempo con Lancio che inizia a scaldare la chitarra; Take My Love (I Want To Give It), viene da Long Lost Suitcase ed è un bel rock-blues poderoso di nuovo con Doug Lancio in evidenza, A questo punto, accolta da un grande applauso, sale sul palco Alison Krauss, e i due intonano una deliziosa Opportunity To Cry, un pezzo di Willie Nelson che è country puro, seguita da Raise A Ruckus un traditional dove la Krauss imbraccia anche il suo violino guizzante e si va di bluegrass a tutto tondo, con l’intermezzo dixieland del trombone.

Elvis Presley Blues, il brano della coppia Welch e Rawlings è l’occasione per ricordare un vecchio amico, un episodio dall’atmosfera malinconica e di grande fascino, solo la voce di Jones e la chitarra con riverbero di Lancio. Altro grande brano è Soul Of A Man, un vecchio blues di Blind Willie Johnson con un incisivo Lancio alla slide e pure If I Give My Soul di Billy Joe Shaver non scherza, una bellissima country ballad cantata con passione da Jones, che poi ribadisce la sua serata magica con una sanguigna rilettura di un John Lee Hooker d’annata con una Burning Hell da manuale, di nuovo con Lancio alla slide, sembrano quasi i Led Zeppelin; eccellente anche Don’t Knock, il pezzo degli Staples Singers, che è quasi R&R puro, con il call and response coinvolgente con il resto della band. A questo punto torna Alison Krauss per una folata country-rock-gospel in una  Didn’t It Rain con tocchi stonesiani, ma Tom non può esimersi anche dal cantare un altro dei suoi standard assoluti, con una versione di grande pregio di Green Green Grass Of Home che diventa una country ballad splendida, quasi commovente. ‘Til My Back Ain’t Got No Bone è soul purissimo dal repertorio di Eddie Floyd, molto bluesy e ancora con quella voce incredibile in azione, persino Kiss in questa veste sonora rootsy e rinnovata diventa un funky maligno e divertente (beh, quello lo era già, pero niente Sex Bomb per fortuna, anche se la canta sempre dal vivo). Ci avviamo alla conclusione ma c’è tempo ancora per una potentissima I Wish You Would che in quanto a grinta non ha nulla da invidiare alla versione degli Yardbirds, con Lancio che titillato da Jones strapazza la sua chitarra, e poi, naturalmente per gli altri cavalli da battaglia, Thunderball e It’s Not Unusual, sempre in modalità Deluxe per chitarra acustica, trombone e fisarmonica, per salutare infine il pubblico presente ad un concerto magnifico con una What Good Am I? di Bob Dylan che è la ciliegina sulla torta di una serata da ricordare e questo Live, tra i migliori di questa annata, ne è la documentazione fedele.

Bruno Conti

Comunque Lo Si Giri Un Gran Bel Disco! Samantha Fish – Chills & Fever

samantha fish chills & fever

Samantha Fish – Chills And Fever – Ruf Records

All’incirca ogni paio di anni la giovane chitarrista e cantante di Kansas City si presenta con un nuovo album e ogni volta cerca di stupire il proprio pubblico con proposte sempre fresche, varie ed accattivanti. Dopo i primi due album prodotti da Mike Zito (ma c’era stato anche un disco dal vivo autoprodotto Live Bait, che l’aveva fatta conoscere ai tipi della Ruf), inframezzati da un paio di album della serie Girls With Guitars, nel 2015 Samantha Fish si era trasferita in quel di Memphis, Tennesse (ma non solo, anche Louisiana e Mississippi) per registrare sotto la produzione di Luther Dickinson l’eccellente Wild Heart, un disco che univa lo stile più rock ed immediato dei primi due dischi, con le radici roots e blues del nuovo album, dove accanto alle notevoli doti di chitarrista metteva in mostra anche un costante miglioramento dal lato vocale, con influssi soul nel suo cantato http://discoclub.myblog.it/2015/06/10/giovani-talenti-si-affermano-samantha-fish-wild-heart/ .

Passano altri due anni e per questo nuovo Chills And Fever la troviamo in quel di Detroit, Michigan, sede ai tempi della gloriosa Tamla Motown, ma anche di una florida scena rock, e poi, in tempi più recenti, di una nuova ondata di talenti in ambito garage-rock e neo-soul: con la produzione di Bobby Harlow, vecchio sodale di Jack White agli inizi della loro carriera a Detroit, nei Go,  impegnato anche con altre band del circuito alternativo locale, tra cui i Detroit Cobras, gruppo etichettato come “Garage Rock Revival, e che, anche se non pubblicano nuovi album da una decina di anni, sono tuttora in attività, come testimonia la loro presenza nel nuovo disco della Fish: ben quattro di loro, Joe Mazzola alla chitarra ritmica, Steve Nawara al basso, Kenny Tudrick alla batteria e Bob Mervak, al piano elettrico e organo, innervati da un paio di fiati ingaggiati in quel di New Orleans, Mark Levron alla tromba e Travis Blotsky al sax. Lei si è infilata in un corpetto sexy, un paio di pantaloni leopardati e armata della sua chitarra elettrica ci regala un ennesimo disco di valore, dove tutti gli elementi citati ci sono, ma il risultato è un album dove il suono si nutre di soul, R&R, qualche deriva garage e punk, ma solo nell’attitudine, visto che il CD ha un sound molto raffinato e ricco di elementi vintage, attraverso una nutrita serie di cover che pescano nel passato, con la voce della brava Samantha sempre più autorevole e ricca di mille nuances.

L’apertura è affidata ad una scintillante He Did It, un vecchio brano delle Ronettes che era anche nel repertorio dei Detroit Cobras, con i vorticosi interventi della chitarra, un ritmo incalzante, i fiati sincopati, la voce pimpante della Fish, veramente splendida, e un’aria di festa e good time music che mettono subito l’ascoltatore in una gioiosa condizione d’animo. La title track, anche se forse non provoca “brividi e febbre”, è una vera delizia nu-soul, più che alla versione di Tom Jones di inizio anni ’60,  si ispira allo stile sexy e felpato della Amy Winehouse del periodo in cui era accompagnata dai Daptones, con piano elettrico e fiati che affiancano la voce felina della brava Samantha, che inchioda anche un breve e misurato solo della sua solista in modalità wah-wah; e pure Hello Stranger, con un organo alla Timmy Thomas, ed uno splendido e raffinatissimo arrangiamento soul, rimanda all’originale di Barbara Lewis, un’altra musicista nativa di quell’area, con la voce della nostra amica sempre accattivante e un intervento della solista di gran classe. It’s Your Voodoo Working, è stata una hit minore per tale Charles Sheffield, cantante R&B misconosciuto della Louisiana, una ulteriore piccola perla di questo Chills And Fever, musica che fa muovere mani e piedi, senza dimenticare il lavoro sempre di fino della chitarra.

Hurt’s All Gone, scritta da Jerry Ragovoy, la faceva Irma Thomas, ed è uno splendido midtempo di stampo soul, con fiati e chitarra sempre incisivi, mentre ignoro di chi fosse You Can’t Go, ma è un altro vorticoso errebi dove tutto fila a meraviglia, soprattutto la chitarra di Samantha. Either Way I Lose era nel repertorio di Nina Simone, e questa versione cerca di mantenere, riuscendoci, lo stile raffinato della grande cantante nera, Never Gonna Cry è un’altra oscura rarità di tale Ronnie Dove (?!?), una malinconica love ballad di stampo sixties, che fa il paio con Little Baby, un brano che ha il ritmo e la stamina della famosa Shout degli Isley Brothers, incalzante e irresistibile, con il lavoro della solista sempre perfetto. Che altro aggiungere? Crow Jane è il vecchio pezzo di Skip James, con la Fish alla cigar box guitar, per l’unica concessione al blues puro, ma anche le restanti Nearer To You, You’ll Never Change, la lunga Somebody’s Always Trying, con un assolo di chitarra micidiale, e la cover del vecchio successo di Lulu I’ll Come Running Over, quasi alla Blues Brothers, sono altri ottimi esempi di soul e R&B suonati e cantati con piglio e convinzione, Non si sa se apprezzare di più il lavoro della voce, della chitarra o la produzione di Harlow. Comunque lo si giri un gran bel disco.

Bruno Conti