Taj Mahal – Un “Monumento” Della Musica Nera. Parte II

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Seconda Parte.

Volendo, e potendo, a fatica e cercando con pazienza, si dovrebbe trovare ancora in giro il box The Complete Columbia Albums Collection – 16 CD – **** uscito nel 2013, raccoglie l’opera omnia del primo periodo, con in più due CD extra, The Hidden Treasures Of Taj Mahal, in studio e un formidabile Live At the Royal Albert Hall April 18 1970, ancora con Jesse Ed Davis alla chitarra, che quasi da soli varrebbero il prezzo, se già non ci fosse tutto il ben di Dio degli album ufficiali, cercatelo, ne vale la pena, in rete si trova ancora abbastanza facilmente, e anche il doppio si trova separatamente se avete già tutti gli altri CD.

1977-1997 Gli Anni Del Vorrei Fare Di Tutto, Ma Non Sempre Tutto Funziona.

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Anzi direi che non si salva molto di questo periodo, vediamo cosa.

Brothers_Soundtrack

Dei tre album usciti su Warner tra il 1977 e il 1978 nessuno è particolarmente memorabile, forse il migliore è la colonna sonora di Brothers ***. Più interessante, ma introvabile Live & Direct *** registrato e pubblicato nel 1979. Per il resto negli anni ‘80 ci sono svariati dischi di canzoni per bambini e Taj – Gramavision uscito nel 1987, bella la copertina di Robert Mapplethorpe, ma per il resto è notte fonda.

Dancing_the_Blues

Like Never Before – 1991 Private *** è meglio, segnali di vita, ma se consideriamo che la migliore canzone è una ripresa di Take A Giant Step non ci siamo ancora. Buono anche Dancing The Blues – 1993 Private *** se non altro perché nel disco appaiono Bob Glaub, Richie Hayward, Etta James, Bill Payne, Ian MacLagan, e ci sono belle versioni di That’s How Strong My Love Is, Mocking Bird, Sitting On Top Of The World, I’m Ready. Da segnalare Mumtaz Mahal – 1995 Water Lily Acustics *** il disco con i due musicisti indiani N. Ravirikan e V.M. Bhatt, collaboratori anche di Ry Cooder.

Phantom_Blues

E pure Phantom Blues – 1996 Rca Victor *** non è niente male, anche qui c’è una serie di ospiti impressionante: Bonnie Raitt, Eric Clapton, Mike Campbell, David Hidalgo, Jon Cleary, tanto per citarne solo alcuni, produce John Porter, che suona anche la chitarra e notevole anche An Evening Of Acoustic Music – 1994 Ruf Records ***1/2 registrato in Germania nel 1994, che dimostra che le sue qualità di performer sono intatte.

Señor_Blues

Il migliore di questo periodo è peraltro Senor Blues – 1997 **** che lo riporta ai fasti del passato, tanto che vince il premio come miglior disco di Blues Contemporaneo alla 40a edizione dei Grammy (una rarità, visto a chi li danno ai giorni nostri!). Niente ospiti ma una dream band con Tony Braunagel alla batteria, Jonny Lee Schell alla chitarra, Jon Cleary e Mick Weaver alle tastiere e i Texacali Horns come sezione fiati: ottima anche la scelta dei brani, tra cover e materiale scritto per l’occasione, tra cui Queen Bee dello stesso Taj e 21st Century Gypsy Singing Lover Man scritta con Jon Cleary, e tra le riprese Mr. Pitiful dell’amato Otis Redding, Think dei 5 Royales, Senor Blues di Horace Silver.

Mind Your Own Business di Hank Williams, complessivamente è di nuovo un piacere riascoltarlo tornato in grande spolvero, anche al dobro e all’armonica, per non dire della voce, più vissuta, ma sempre potente ed espressiva, sentire il brano di Otis, che grinta ragazzi!

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1998-2020

Hanapepe_Dream

Purtroppo è in parte un fuoco di paglia. Anche se i dischi di musica Hawaiiana, quelli con la Hula Blues Band sono affascinanti, Sacred Island – 1998 Private ***1/2 e Hanapepe Dream – 2003 Tone-Cool ***1/2 con una versione splendida di All Along The Watchtower. Per il sottoscritto eccellente anche il disco dal vivo Shoutin’ In Key – 2000 Private Music ***1/2, registrato nel 1998 con la Phantom Blues Band, in pratica la formazione del disco del 1997, con Danny Freeman aggiunto alla chitarra., ci sono ottime versioni di Honky Tonk, EZ Rider, Stranger In My Own Hometown di Percy Mayfield, Leaving Trunk, Corrina.

Tra il 2003 e il 2006, alla rinfusa, escono varie antologie tra le quali, nel 2003, quella della serie Martin Scorsese Presents The Blues***1/2, nel 2005 un altro disco dal vivo con la Phantom Blues Band In St. Lucia ***1/2, pubblicato anche in DVD, e nel 2004 un Taj Mahal Trio Live Catch ***1/2.

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Poi finalmente, per festeggiare 40 anni di carriera discografica, esce un disco nuovo di studio Maestro – 2008 Heads Up International**** altro disco di notevole caratura, con una quantità iperbolica di ospiti: i Los Lobos presenti in Never Let You Go e Tv Mama, Jack Johnson che duetta con TM in Further On Down The Road, Ben Harper in Dust Me Down, Angelique Kidjo in Zanzibar, Ziggy Marley in Black Man, Brown Man. In più c’è la presenza della Phantom Blues Band come gruppo di accompagnamento, Toumani Diabaté con il quale nel 1999 aveva realizzato un disco Kulanjan, che forse non abbiamo ricordato, e anche la figlia Deva Mahal, che era apparsa nei dischi di canzoni per bambini: ci sono anche Leo Nocentelli, Ivan Neville, Henry Butler, una corposa sezione fiati e il disco ha un suono splendido.

Nel 2009 partecipa come ospite attivo, in ben 9 brani, al disco American Horizon dei Los Cenzontles ***1/2. Poi Taj rallenta decisamente l’attività nella decade successiva: ma occorre citare almeno il delizioso album natalizio Talkin’ Christmas With The Blind Boys Of Alabama – 2014 Sony Masterworks ***1/2 dove le armonizzazioni si sprecano, un altro CD dal vivo, questa volta doppio, con la Hula Blues Band Live From Kauai – 2015 ***1/2 e diversi dischetti di materiale Live registrati nel 1966, 1974 e1978, sotto forma di broadcast radiofonici.

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Infine decide di unire le forza con Keb’ Mo’ per regalarci lo splendido TajMo – 2017 Concord **** che l’anno successivo vince nuovamente il Grammy per Best Contemporary Blues Album: tra le canzoni una inconsueta cover di Squeeze Box degli Who, Waiting On the World To Change di John Mayer e l’immancabile Diving Duck Blues di Sleepy John Estes, mentre tra gli ospiti ricordiamo Billy Branch all’armonica e Lizz Wright alla voce. Per la verità l’ultima apparizione è stata come ospite nell’ottimo disco della BB King Blues Band – The Soul Of The King – 2019 Ruf Records ***1/2 recensito dal sottoscritto su queste pagine.

Per una volta tanto abbiamo voluto dedicargli questa retrospettiva mentre questo grande e geniale artista è ancora vivo e vegeto: lunga vita quindi a Taj Mahal che il 17 maggio del 2022 compirà 80 anni, e che sia un auspicio. Stile musicale: file under Grande Musica!

Bruno Conti

Taj Mahal – Un “Monumento” Della Musica Nera. Parte I

NEWPORT, RI - JULY 1968: Blues musician Taj Mahal (Henry Saint Clair Fredericks) poses for a portrait in July, 1968 at the Newport Folk Festival in Newport, Rhode Island. (Photo by David Gahr/Getty Images)

NEWPORT, RI – JULY 1968: Blues musician Taj Mahal (Henry Saint Clair Fredericks) poses for a portrait in July, 1968 at the Newport Folk Festival in Newport, Rhode Island. (Photo by David Gahr/Getty Images)

Henry Saint Claire Fredericks Jr in arte Taj Mahal, è veramente uno dei tesori assoluti (come il monumento da cui prende il nome) del Blues e delle sue derivazioni: contemporaneamente filologo ed innovatore, cantante appassionato alla Otis Redding e polistrumentista in grado di spaziare soprattutto tra chitarra, piano, banjo, e armonica, ma ne suona molti altri, con uno stile che incorpora, oltre alle classiche 12 battute, anche soul, R&B, rock, reggae, gospel, jazz, country, world music, con una predilezione per quella caraibica, voi le pensate e lui le suona, spesso fuse insieme in un tutt’uno magmatico che ne fa un musicista quasi unico. Con una discografia formidabile che cercherò di sviscerare in questo articolo/monografia sulla sua opera omnia.

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Nativo di Harlem, Manhattan, New York City, New York, per citare le esatte coordinate del luogo di partenza, Taj Mahal è poi cresciuto a Springfield, Massachusetts (non quella dei Simpsons, che è in Ohio o in Oregon, a seconda di come si sveglia il suo creatore), con babbo afro-caraibico, arrangiatore jazz e mamma componente di un coro gospel locale, quindi la musica certo non mancava in famiglia, subito in grado di distinguere tra la musica popolare e quella più raffinata che girava in casa, dove il jazz imperava, tanto che pare che Ella Fitzgerald avesse definito il padre “The Genius”. Padre che purtroppo morì ad inizio anni ‘50, quando Henry Jr., nato nel 1942 in piena guerra, aveva solo 11 anni: in un incidente sul posto di lavoro, perché la pagnotta, salvo rare eccezioni, non si guadagnava solo con la musica, ma attraverso altre professioni, nel caso di babbo Fredericks Sr,, una impresa di costruzioni. Dopo poco la mamma di Taj Mahal si risposò con un altro uomo, che possedeva una chitarra, e tramite un vicino di casa, che era il nipote di Arthur “Big Boy” Crudup (spesso la realtà supera la fantasia), ottenne le prime lezioni con lo strumento, e per il momento sfogava i suoi istinti vocali in un gruppo doo-wop alle scuole superiori, combattuto con l’altra sua grande passione che era quella di farsi una fattoria, tanto che molti anni dopo ha partecipato ad alcune edizioni del Farm Aid.

Quando arriva alla Università del Massachusetts ha già scelto il suo nome d’arte, ispirato dal Mahatma Gandhi e dalle culture orientali. Nel 1964 arriva a Santa Monica in California e l’anno successivo forma i Rising Sons con un giovanissimo (17 anni) Ry Cooder alla chitarra, Jesse Lee Kincaid anche lui alla chitarra, Gary Marker al basso e il futuro Spirit Ed Cassidy alla batteria, anche se dal 1965 arriva e quindi suona nel disco Kevin Kelley. A questo punto direi di iniziare a “sfogliare” l’imponente discografia del nostro amico, che mi sono (ri)ascoltata con grande piacere per scrivere l’articolo, ricca di album e di innumerevoli collaborazioni.

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Rising Sons Featuring Taj Mahal and Ry Cooder – 1992 Columbia Legacy ****All’epoca, pur avendo la band registrato materiale sufficiente per pubblicare un intero album, venne pubblicato, nel 1966, solo un singolo con 2 brani Candy Man b/w “The Devil’s Got My Woman che rimase allora assolutamente sconosciuto, anche se molti critici e giornalisti, nonché frequentatori della scena musicale, dicono che per certi versi anticipò molto delle scelte musicali di gruppi di quegli anni, dai Byrds ai Moby Grape, passando per Buffalo Springfield, Grateful Dead e Allman Brothers. Tutte cose che scoprimmo solo in seguito quando venne pubblicato il CD negli anni ‘90, con ben 22 tracce: prodotto da Terry Melcher il disco ha un suono splendido ed anticipatore, per quanto “ruspante”, sentito ancora oggi, pochi brani originali, quattro, scritti da Kincaid, una sfilza di classici del blues, e due brani d’autore, come un oscuro Dylan Walkin’ Down The Line e una splendida Take A Giant Step, scritta da Goffin/King, che poi diverrà una delle signature songs di Taj Mahal.

Ma tutto il disco è eccellente: da una vorticosa Statesboro Blues cantata con voce roca e stentorea da Taj a If The River Was Whiskey con Ry che comincia ad andare di slide, passando per l’ondeggiante Candy Man cantata coralmente, l’intima 2:10 Train arrangiata da Cooder con Mahal all’armonica, la vibrante Let The Good Times Roll, una 44 Blues che anticipa di anni i Little Feat, la dylaniana 11th Street Ovrecrossing, una corale raffinata Corrina, Corrina e così via. A questo punto il nostro, forte del suo contratto con la Columbia, inizia a pubblicare una serie formidabile di dischi solisti.

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Il Periodo Migliore, The Columbia Years 1968-1976

I primi due/tre dischi poi sono dei (quasi) capolavori , non gli ho dato 5 stellette solo per decenza, visto che ultimamente si sparano a destra e a manca anche per dischi che non le meritano, mi sono limitato “solo” a 4 ½ per ciascuno.

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Taj Mahal – 1968 Columbia ****1/2 Il disco omonimo, registrato nel 1967 e pubblicato l’anno successivo, è veramente formidabile, un disco di blues (rock) poderoso, che anticipa il suono degli Allman, con la doppia chitarra di Ry Cooder, però relegato spesso alla ritmica e al mandolino, e da quella ugualmente “letale” di Jesse Ed Davis, James Thomas e Gary Gilmore si alternano al basso, Sanford Konikoff e Chuck Blackwell alla batteria, mentre all’occorrenza Taj Mahal si ingegna con profitto anche a slide ed armonica, oltre a cantare come un uomo posseduto dalle 12 battute. Produce David Rubinson, il socio di Bill Graham, che poi lavorerà con Santana, Moby Grape, Elvin Bishop, Chambers Brothers.

Otto brani per 33 minuti circa, però non un secondo sprecato: Leaving Trunk di Sleepy John Estes apre l’album alla grande, con Taj subito infervorato e impegnato anche all’armonica, Statesboro Blues è ancora più potente di quella dei Rising Sons e anticipa la versione degli Allman, con il Nativo Americano Jesse Ed Davis alla slide, che poi nella successiva Checking Up On My Baby non ha nulla da invidiare al Mike Bloomfield della Butterfield Blues Band, con Taj Mahal ottimo di nuovo all’armonica e come cantante all’epoca aveva pochi uguali. Notevoli anche Everybody’s Got To Change Sometime di nuovo di Estes e il brano originale di Mahal Ez Rider che ha anche forti connotazioni R&B, grazie al groove del basso di Thomas, mentre Davis è sempre fantastico alla chitarra.

Trascinante la versione di Dust My Brown, dove Jess Ed oltre che ad una ficcante slide è impegnato anche al piano, con Taj che risponde colpo su colpo alla voce e all’armonica, prima di andare a pescare una terza cover del mai troppo lodato Sleepy John Estes con la gagliarda Diving Duck Blues e chiudere con una sublime versione del traditional The Celebrated Walkin’ Blues dove Ryland Cooder al mandolino e Taj Mahal alla slide e all’armonica, in quasi nove minuti distillano pura magia sonora, con una interpretazione vocale sempre magistrale. Lo stesso anno esce il nuovo album: Cooder non c’è più, al piano si aggiunge Al Kooper, Rubinson è sempre il produttore, mentre Davis cura anche gli arrangiamenti dei fiati per un disco che in un paio di brani aggiunge anche forti elementi soul.

A mio parere personale è addirittura superiore o almeno pari al precedente, con una versione colossale di You Don’t Miss Your Water la ballata di William Bell dove il nostro rivaleggia con Otis Redding in quanto a feeling e pathos, musica dell’anima meravigliosa.

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Comunque tutto

The Natch’l Blues – 1968 Columbia ****1/2 è di nuovo un disco superbo, imperdibile come il precedente. Almeno questi due sarebbero da avere a tutti i costi. Sette canzoni scritte dal nostro amico, di cui un paio di tradizionali riarrangiati, e due brani soul: oltre alla ricordata You Don’t Miss Your Water, c’è anche una cover della scatenata A Lot Of Love di Homer Banks, altro pezzo che rivaleggia con i migliori di Otis Redding, una sferzata di pura energia.

Il resto è di nuovo Blues elettrico di superba fattura: Good Morning Miss Brown con Mahal alla National steel bodied guitar e Kooper al piano, 12 battute scandite alla perfezione, Corinna arrangiata insieme a Davis è una ballata blues squisita cantata sempre con quella voce unica e preziosa, mentre I Ain’t Gonna Let Nobody Steal My Jellyroll è un blues elettroacustico di eccellente fattura, seguito da Going Up To The Country, Paint My Mailbox Blue, intenso lentone elettrico con con ottimo assolo di Jesse Ed Davis.

Done Changed My Way Of Living è un lungo e vibrante Chicago Blues di nuovo eseguito in modo superlativo, e cantato anche meglio, con Mahal che si lancia anche in uno scat con la chitarra di Davis; She Caught The Katy And Left Me A Mule To Ride è uno dei brani più celebri scritti da Taj, lieve e deliziosa, con una andatura ondeggiante e maliziosa, costruita sull’armonica, mentre The Cuckoo è un intenso blues a doppia chitarra, con il basso di Gary Gilmore e la batteria di Earl Palmer, che sono la nuova sezione ritmica, in bella evidenza e con finale in crescendo. Detto dei due pezzi soul, nella edizione in CD del 2000 ci sono due bonus notevoli, come New Stranger Love, uno slow lancinante con eccellente lavoro della solista di Davis e ennesima grande interpretazione vocale, e la scattante Things Are Gonna Work Out Fine, uno scintillante strumentale con grande interplay tra armonica e chitarra. Nel 1968, il suo anno d’oro, partecipa anche al Rock And Roll Circus degli Stones,

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mentre l’anno successivo esce un altro dei suoi capolavori di inizio carriera, ovvero

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Giant Step/De Ole Folks at Home 2 LP Columbia 1969 ****1/2, un doppio, anche se poi in CD sarà singolo, visto che dura 70 minuti scarsi, ma nella versione Legacy del Box è in due CD, con un disco elettrico Giant Step, sempre prodotto da Rubinson, e l’altro acustico in solitaria, De Hole Folks At Home.

Nel primo disco nuovamente il classico quartetto (senza Al Kooper) e con Chris Blackwell che torna alla batteria, dove la percentuale si rovescia, tre brani di Taj e sei cover, tra cui alcune fantastiche: dopo la deliziosa fischiettata di Ain’t Gwine Whistle Dixie Anymo’ troviamo la splendida Take A Giant Step una ballata scritta da Carole King entrata nel repertorio di TM e da sempre a lui legata, con un lavoro squisito di Jesse Ed Davis. Good Morning, School Girl è l’antesignana di quella che diventerà Good Morning, Little Schoolgirl di Sonny Boy Williamson, come si sa nel blues si prende e si dà, per l’occasione il nostro sfodera un approccio più suadente, mentre You’re Gonna Need Somebody On You Own di Blind Willie Johnson è potente e scattante, con la versione di Six Days On The Road che dimostra che Mahal e soci sapevano trattare alla grande anche gli inni del country, sempre mantenendo quel tocco soul alla Redding, una sorta di antenato del country got soul.

Bacon Fat attribuita a Robertson/Hudson è in effetti un brano del vecchio repertorio con gli Hawks pre-Band, ma era nota per l’interpretazione di André Williams, un blues and soul in souplesse con TM sempre sublime. E anche le due canzoni scritte da Taj sono bellissime: Give Your Woman What She Wants, un blues sanguigno dove sfodera di nuovo il suo timbro alla Otis e Farther Down On The Road una ballad mid-tempo che è puro Americana sound, prima che venisse inventato e rimarrà uno dei suoi cavalli di battaglia.

Devo dire che riascoltandolo ho aggiunto mezza stelletta al disco, veramente magnifico, e in più nel secondo disco De Ole Folks At Home TM tocca le corde del blues più puro e non adulterato, quello a cappella vissuto di Linin’ Track di Leadbelly, il Country Blues #1 (il titolo dice tutto), dove accarezza la sua national con bottleneck in questo superbo strumentale, l’arcana Wild Oax Moan, Light Rain Blues, per voce e blues, Candy Man del Rev. Gary Davis con la stessa formula sonora, una solenne Stagger Lee, un divertente strumentale solo per armonica Cajun Tune, dovrei citarle tutte: facciamo così, ve lo comprate e andate ad ascoltarlo.

Dopo una pausa di due anni torna con

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Happy Just To Be Like I Am 1971 Columbia **** Dopo tre capolavori non è che il nostro amico potesse continuare a sfornare dischi di quel livello per sempre, quindi si assesta su degli album “solo” molto belli. Ancora due prodotti da Rubinson, questo e il successivo Live, con Jesse Edwin Davis, solo in due brani in Happy…,

il traditional Oh Susanna con un flautino (detto fife) suonato dallo stesso Mahal, in un pezzo comunque ancora vibrante e groovy come nei tre dischi passati, con fiati a go-go, e ottima anche la blues-rock song trascinante che è Chevrolet.

Stealin’ potrebbe tranquillamente passare per un pezzo della Band (vista la presenza del loro produttore John Simon al piano) o dei Little Feat, con TM che rende funky anche il mandolino/banjo con il suo stile inimitabile. Eighteen Hammers è un blues solo con chitarra acustica e “campanacci”, geniale come al solito, la title track con basso tuba e fiati a pompare di brutto è un altro errebì esultante di quelli tosti suoi, che non fanno rimpiangere Redding,

Stealin’, c’è da dire, blues “funkato” con uso di mandolino solista, ancora Simon al piano e fiati a profusione anticipa lo stile del vecchio pard Ry Cooder, poi impiegato a fine anni ‘70. Anche Tomorrow May Not Be Your Day va euforicamente a tutta tuba e fife, e ci indica quale avrebbe potuto essere la futura svolta sonora di Otis se non ci avesse lasciato così prematuramente. West Indian Revelation con steel drums e le congas di Rocky Dijon, giro Stones, aggiunte, vira verso ritmi caraibici sempre visti attraverso la squisita sensibilità musicale del nostro, che canta sempre in modo orgoglioso delle sue radici, per poi rispolverare la sua National con bottleneck nel suggestivo e quasi misticheggiante strumentale Black Spirit Boogie. Lo stesso anno esce anche un disco dal vivo.

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The Real Thing – 1971 Columbia **** Live alla Carnegie Hall, si parte con Fishin’ Blues, solo Taj in solitaria, ma poi entra una band di dimensioni rispettabili, dieci uomini sul palco, con fiati a profusione che possono riproporre il suo repertorio in modo rigoglioso e superbo (anche con qualche chicca):

Ain’t Gwine Whistle Dixie Anymo’ che era una fischiettata di due minuti scarsi su Giant Step, diventa uno straordinario e complessi brano di nove minuti, dove tutti i musicisti si prendono i loro spazi, dalla sezione fiati, tutti anche alla tuba, a John Hall alla chitarra e John Simon al piano, con il nostro che imperversa da quel fantastico performer che era, segue il funky-blues Sweet Mama Janisse, le 12 battute classiche di Going Up To The Country, Paint My Mailbox Blue, e il pubblico approva ripetutamente. Nel finale arriva un dittico fantasmagorico con la sequenza John Ain’t It Hard, un blues dove TM ipnotizza i presenti ed una esuberante She Caught The Katy And Left Me A Mule To Ride, per chiudere con la tellurica e programmatica You Ain’t No Street Walker Mama,Honey But I Do Love the Way You Strut Your Stuff, che non dura neppure 19 minuti, e che sarà mai?

Fantastico, può bastare?

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Recycling the Blues & Other Related Stuff – 1972 Columbia ***1/2 è mezzo in studio e mezzo dal vivo, con il nostro da solo sul palco, ma uno in grado di suonare kalimba, banjo, steel-bodied guitar, contrabbasso non è mai da solo, e coglie l’occasione per proporre canzoni inconsuete, forse a parte Corinna. Anche nella parte in studio TM è da solo, se non ci fossero le scintillanti Pointer Sisters alle armonie vocali in versioni incredibili di Sweet Home Chicago e Texas Woman Blues.

Se tutti fossero in grado di “riciclare” in questo modo avremmo risolto il problema dei rifiuti nel mondo. Il ritmo delle uscite non rallenta ed esce subito anche

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Sounder – 1972 Columbia *** Prodotto da Teo Macero, quello di Miles Davis, si tratta di una colonna sonora, disco interessante ma interlocutorio, se ne può fare a meno.

Invece notevole il disco successivo

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Oooh So Good And Blues – 1973 Columbia ***1/2 ancora con la formula dell’one man band, rinforzato dalle leggiadre voci delle Pointer Sisters, che gorgheggiano da par loro in due brani originali Little Red Hen e Teacup’s Jazzy Blues Tune, con il titolo esplicativo e in una rilettura eccellente di Frankie And Albert dell’amato Mississippi John Hurt. Ottime anche Dust My Brown di Elmore James e Built For Comfort di Willie Dixon, dall’album in duo con Memphis Slim.

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Mo’ Roots – 1974 Columbia ***1/2 Ebbene sì, lo ammetto, e l’ho scritto varie volte, non sono un grande fan del reggae, con qualche piccola eccezione, e questo disco di TM rientra nella categoria, anche perché con la voce soave che si ritrova potrebbe cantare anche l’elenco telefonico (se esistesse ancora): comunque ottime Johnny Too Bad, la deliziosa Cajun Waltz dove si incontrano Louisiana e Giamaica, il tutto cantato in francese, con Carole Fredericks, la sorella di Taj e Claudia Lennear ad impreziosire il pezzo con le loro armonie, e anche la mossa Why Did You Have To Desert Me?, dove il nostro amico poliglotta canta anche in spagnolo.

A questo punto si ufficializza la svolta Afro-Caraibica, che non è quella che prediligo, lo ammetto, ed esce

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Music Keeps Me Together – 1975 Columbia *** il tastierista Earl Lindo del giro Bob Marley, Perry, Burning Spear è preminente, oltre a scrivere la title-track, lo stile è rilassato e piacevole, con incursioni nel jazz e funky, una strana versione reggae di Brown Eyed Handsome Man di Chuck Berry, le riprese di Further Down On The Road e la raffinata West Indian Revelation nella nuova veste sonora, le tre stellette sono di stima.

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Satisfied ‘N Tickled Too – 1976 Columbia *** E’ l’ultimo album ad uscire per la Columbia, anche questo, sempre a mio parere, non particolarmente memorabile. Salverei la title track, anche se Mississippi John Hurt fatto a tempo di reggae non mi fa impazzire, ma la canzone ha un suo fascino grazie all’uso della sua voce inconfondibile, anche New E-Z Rider Blues che sembra un brano di Marvin Gaye, funky il giusto e la lunga ballata soul Baby Love non sono male, anche se fin troppo leggerine, il delizioso scat di Ain’t Nobody’s Business è invece molto piacevole. Comunque si trova più funky che reggae nell’album.

Fine prima parte.

Bruno Conti

Anticipazioni: Il Ritorno di Uno Dei Geni Della Musica Americana. Steve Cropper – Fire It Up. Esce Il 23 Aprile

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Steve Cropper – Fire It Up – Mascot Provogue 

Steve Cropper lo presenta come il suo secondo album solista dopo With A Little From My Friends, uscito nel 1969. Non è l’esatta realtà dei fatti, prima e dopo c’è stato moltissimo altro: prima ci sono stati i Mar-Keys, nati nel 1958 a Memphis, e che poi con la scissione di Steve e Donald “Duck” Dunn diventano Booker T. & The Mg’s, entrambi i gruppi fondamentali nella storia della soul music e della Stax in particolare. Steve Cropper ha scritto molto materiale strumentale, ma ha anche firmato alcune delle pagine indimenticabili del soul per Otis Redding, Wilson Pickett, Eddie Floyd, Sam & Dave e ha suonato in un numero colossale di dischi usciti con il marchio Stax/Volt. Dagli inizi ‘70 intensifica la sua attività di produttore anche al di fuori della Stax, con Jeff Beck, José Feliciano, John Prine (per citarne alcuni), oltre a suonare la chitarra in una miriade di dischi: poi nel 1978 inizia anche l’avventura con i Blues Brothers. In seguito pubblica tra ‘80 e ‘82 due album solisti che ricorda malvolentieri, mentre nel 1969 era uscito anche Jammed Together, una collaborazione con Pop Staples e Albert King, poi un lungo silenzio fino al 2008 quando viene pubblicato il primo di due album collaborativi con Felix Cavaliere dei Rascals, che ricordiamo, perché in quelle sessions vengono messe le basi per alcune idee e canzoni, accantonate ma salvate, per essere completate e riutilizzate, proprio per Fire It Up, insieme al produttore Jon Tiven, “vicino di casa” di Steve a Nashville, e con il quale è continuamente in contatto per interscambi di idee musicali.

Questa quindi è la genesi del nuovo album: non so dirvi molto altro, ci sono due chitarristi, un tastierista, e un cantante, che francamente non avevo mai sentito nominare prima, tale Roger C. Reale, peraltro in possesso di una bella voce, amico di Tiven ma anche di Steve. Il tutto perché ho scritto la recensione molto prima e l’album è in uscita per il 23 aprile. Però le canzoni le ho ascoltate e quindi vi illustro i contenuti, non senza prima ricordare che nel 2011 è uscito anche un disco All-Stars Dedicated, basato sulla musica dei 5 Royales https://discoclub.myblog.it/2011/08/04/il-migliore-del-colonnello-steve-cropper-dedicated/ , e nel 2017 la eccellente reunion e celebrazione della Blues Brothers Band The Last Shade Of Blue Before Black https://discoclub.myblog.it/2017/11/15/il-tempo-passa-per-tutti-ma-non-per-loro-the-original-blues-brothers-band-the-last-shade-of-blue-before-black/ . Il nuovo disco vede la presenza di un solo brano strumentale Bush Hog, che però è ricorrente. Parte 1 e 2, più in chiusura il pezzo completo, e ascoltandolo non si direbbe che che Cropper sia un brillante diversamente giovane che a ottobre compirà 80 anni, il tocco di chitarra è sempre inconfondibile, un chitarrista ritmico creatore di riff, come lui ama definirsi, ma in grado di suonare anche da solista, tanto da essere considerato un maestro da gente come Brian May, Jeff Beck, Eric Clapton.

Sembra di ascoltare un pezzo dei Mar-Keys o di Booker T. & The Mg’s, le mani che volano sul manico della chitarra, un ritmo incalzante con fiati e organo di supporto, un timbro della solista limpido e geniale, ribadisco, uno degli inventori degli strumentali di marca R&B, ma anche con un rimando al riff di Soul Man, come nella grintosa e deliziosa title track, dove si autocita, mentre Reale canta con voce vissuta, e fiati, organo e una armonica imperversano sullo sfondo. E non manca una deep soul ballad in mid-tempo come One Good Turn, con assolo breve, ma limpido e cristallino, o il funky ribaldo e reiterato di I’m Not Havin’ It, con Reale sempre ottimo anche nei pezzi più mossi, vedi Out Of Love, cadenzata come richiede la materia e la solista di Cropper sempre in spolvero; la trascinante Far Away sta alla intersezione tra R&B e R&R e ci sono anche delle coriste che aizzano Reale, mentre la chitarra di Steve punteggia l’arrangiamento corale. Say Don’t You Know Me sembra uno di quei brani danzabili dell’epoca d’oro del R&B, ruvido ma dal ritmo irresistibile, mentre She’s So Fine sarebbe piaciuta moltissimo a Sam & Dave e Two Wrongs al grande Otis, Reale non è ovviamente a quei livelli, ma ci mette comunque impegno e grinta, come dimostra anche la successiva Hearbreak Street, e poi si riabilita nella conclusiva The Go-Getter Is Gone, scritta a due mani con Cropper, che viene spronato a pescare nel meglio del suo repertorio in questo robusto R&B dove maltratta anche la sua chitarra con libidine.

in fondo è pur sempre “The Colonel” della truppa, lui guida e gli altri lo seguono, in questo solido sforzo complessivo che lo mostra di nuovo vitale e all’altezza della sua fama.

Bruno Conti

Uno Dei “Figli Di…” Migliori In Circolazione! AJ Croce – By Request

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AJ Croce – By Request – Compass Records

Nell’ampia categoria che include i “figli di” AJ Croce è sicuramente uno dei più validi ed interessanti (senza fare la lista della spesa, lo metterei più o meno a livello di Jeff Buckley, Jakob Dylan, Adam Cohen, i primi che mi vengono in mente): una vita ricca di tragedie, orfano a meno di due anni per la morte del padre Jim Croce, a quattro anni cieco completamente, anche se poi ha riacquistato parte della visione dell’occhio sinistro, a quindici anni l’incendio della casa in cui aveva sempre vissuto con la madre Ingrid, con la quale ha avuto un rapporto complesso e turbolento, nel 2018 la moglie Marlo, con lui da 24 anni, è morta di una rara malattia cardiaca, lasciandolo con due figli. Nonostante la pesante eredità del padre Jim ha saputo creare un suo approccio alla musica, non seguendo pedissequamente lo stile del babbo, ma ispirandosi al blues, al soul (punti di riferimento Ray Charles e Stevie Wonder), ma con elementi rock, a tratti country, e anche di pop raffinato, grazie all’uso costante del piano di cui AJ è una sorta di virtuoso, ma suona anche tastiere assortite e chitarre: ha realizzato una serie di 10 album, incluso questo By Request, più un disco di rarità dai primi anni di carrierahttps://discoclub.myblog.it/2017/08/20/di-padri-in-figli-aj-croce-just-like-medicine/.

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Dopo la morte della moglie Croce ha voluto rientrare, come suggerisce il titolo, con un disco di cover, realizzate con garbo, classe e ottimi risultati, un album veramente godibilissimo: aiutato da una piccola pattuglia di ottimi musicisti, tra i quali spiccano Gary Mallaber alla batteria, Jim Hoke a sax vari, armonica e pedal steel, David Barard al basso, Bill Harvey e Garrett Stoner alle chitarre, Scotty Huff alla tromba e Josh Scaff al trombone, più un terzetto di backing vocalist, in pratica la sua touring band e con la presenza di Robben Ford in un brano, AJ sceglie una serie di canzoni molte adatte al suo stile, in base alla formula “a gentile richiesta” che si applica nei concerti più intimi. E così ecco scorrere Nothing From Nothing, un vecchio brano di Billy Preston, con i fiati molto in evidenza, in questo classico e mosso R&B dove Croce si disbriga con classe al piano https://www.youtube.com/watch?v=dp2sd7IhGsg , la molto più nota Only Love Can Break Your Heart di Neil Young, una delle ballate più belle del canadese, resa molto fedelmente da AJ e soci che però aggiungono un retrogusto da blue eyed soul o country got soul, con la voce sottile di Croce che ricorda quelle dei Bee Gees degli inizi https://www.youtube.com/watch?v=SKy_PcSEyR0 ; scatenata la versione di Have You Seen My Baby di Randy Newman, un’altra delle maggiori influenze del nostro https://www.youtube.com/watch?v=K-Ec5Od0WsI , Nothing Can Change This Love è un oscuro ma delizioso brano di Sam Cooke, con elementi doo-wop, e il piano che viaggia sempre spedito https://www.youtube.com/watch?v=FmeCGbt7glE , Better Day è un country-blues-swing di Brownie McGhee, con Robben Ford alla slide che contrappunta in modo elegante il lavoro della band https://www.youtube.com/watch?v=nQuHTW7viVc . O-O-H Child è il vecchio brano soul dei Five Stairsteps che ultimamente pare tornato di moda, visto che appare anche nel recente disco Paul Stanley con i Soul Station https://discoclub.myblog.it/2021/03/20/ebbene-si-e-proprio-lui-si-e-dato-al-funky-soul-con-profitto-paul-stanleys-soul-station-now-and-then/ , versione adorabile e delicata. https://www.youtube.com/watch?v=56btlAqRZLY 

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A seguire una robusta rilettura di Stay With Me il classico R&R di Rod Stewart con i Faces, con AJ al piano elettrico e una ficcante slide, Harvey per l’occasione. a ricreare lo spirito ribaldo del brano originale, e non manca neppure il New Orleans soul di Brickyard Blues una canzone di Allen Toussaint, qui resa in una versione a metà strada tra Dr. John e i Little Feat, grazie all’uso del bottleneck del chitarrista Garrett Stoner che interagisce con il piano di Croce, ricreando il dualismo Lowell George/Bill Payne https://www.youtube.com/watch?v=mH-dKTFOfbU . Incantevole anche la versione di San Diego Serenade di Tom Waits, con un arrangiamento che ricorda lo stile dei brani “sudisti” della Band, con tanto di pedal steel sullo sfondo https://www.youtube.com/watch?v=CinzazO7Ti8 , e che dire di una versione barrelhouse blues di Sail On Sailor dei Beach Boys? Geniale e sorprendente! Tra i brani poco noti anche Can’t Nobody Love You di Solomon Burke: non potendo competere con la voce del “Bishop of Soul” AJ opta per un approccio gentile e minimale, con l’organo a guidare e con le coriste che danno il tocco in più, e per completare un disco di sostanza arriva infine Ain’t No Justice un esaltante funky-soul strumentale di Shorty Long targato Motown 1969.

Bruno Conti

Sempre Tra Blues E Soul, E La Voce Non Ha Bisogno Di “Controllo Dei Danni”! Curtis Salgado – Damage Control

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Curtis Salgado – Damage Control – Alligator Records/Ird

Già detto, ma repetita iuvant e quindi ricordiamolo di nuovo: Curtis Salgado è il “Blues Brother” originale, quello sul quale Belushi e Aykroyd hanno basato i loro due personaggi, ma condensati in uno, un eccellente armonicista e un formidabile cantante che il successo ha eluso, rimanendo un fantastico artista di culto, inanellando in una quarantina di anni abbondanti di carriera una serie di album di grande qualità, con alcune punte di eccellenza, Nonostante i molteplici problemi di salute (penso che il titolo del disco venga da lì)  che definire tali è quantomeno minimizzare (due tumori, un quadruplo bypass coronarico) ha continuato pervicacemente a sfornare nuova musica: l’ultimo CD era Rough Cut, un album principalmente acustico, in coppia con Alan Hager, pubblicato dalla Alligator (sempre garanzia di qualità) https://discoclub.myblog.it/2018/02/26/sempre-il-blues-brother-originale-anche-in-versione-piu-intima-curtis-salgado-alan-hager-rough-cut/ ,che dal 2012 lo ha messo sotto contratto. A due anni di distanza arriva ora questo Damage Control e ancora una volta Salgado centra l’obiettivo: forse, ma forse, la voce non è più così potente e devastante come qualche anno fa, ma ha acquistato una patina di vissuta maturità e francamente è ancora una delle migliori in assoluto in quell’ambito tra blues, soul e rock’n’roll dove Curtis ha pochi rivali.

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E come Dustin Hoffman (lui una volta) non sbaglia un colpo: il disco è stato registrato tra la California e il Tennessee, con la produzione dello stesso Salgado e con l’aiuto di una nutrita pattuglia di formidabili musicisti. Dodici canzoni nuove e una cover, per un album che ancora una volta farà godere come ricci gli appassionati di questa musica senza tempo: si parte subito bene con la “provocatoria” The Longer That I Live, una robusta apertura dove Curtis è accompagnato da Kid Andersen alla chitarra solista, Mike Finnigan all’organo, Jim Pugh al piano, con la sezione ritmica di Jerry Jemmott al basso e Kevin Hayes alla batteria, con Salgado che canta con il solito impeto e la classe del cantante soul che sono sempre insite in lui e incantano l’ascoltatore, oltre  a “testimoniare” https://www.youtube.com/watch?v=ikRzUBWoUIY . In What Did Me In Did Me Well, sfodera anche l’armonica e ci regala una blues ballad incantevole, sempre con quella voce ancora magnifica capace ci convogliare lo spirito delle 12 battute (e che assolo Kid Andersen), ma anche retrogusti gospel e soul, una meraviglia, specie quando si “incazza” nel finale. Nella ironica You’re Going To Miss My Sorry Ass arriva l’altra pattuglia di collaboratori, George Marinelli alla chitarra, Kevin McKendree ad un piano quasi barrelhouse, Johnny Lee Schell alla seconda voce, Mark Winchester al contrabbasso e Jack Bruno alla batteria, per un’altra eccellente canzone tra R&R e blues.

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Precious Time, con Marinelli alla slide ha un che di stonesiano (in effetti lo stesso Salgado ha parlato di un “Rock’n’roll Record”), e Wendy Moten alle armonie vocali attizza come si deve il buon Curtis https://www.youtube.com/watch?v=3uYEWzjW1g4 . La deliziosa e saltellante Count Of Three ci introduce alle delizie della doppia chitarra di Schell e Dave Gross, oltre alla batteria di Tony Braunagel, mentre il nostro amico guida la truppa con la solita verve, ma poi non può esimersi dal regalarci una di quelle sue superbe ballate accorate dove eccelle e Always Say I Love You, con organo gospel scivolante di Finnigan e il piano di Jackie Miclau, sono sicuro che avrebbe incontrato l’approvazione di Solomon Burke, un altro che aveva una big voice come Salgado, simile nel timbro, la Moten emoziona sullo sfondo. Per la lezione di storia di Hail Might Caesar, arriva una piccola sezione fiati e si va di errebì scandito con il nostro che un po’ gigioneggia, ma ci piace proprio per quello https://www.youtube.com/watch?v=gnQTttAgiL0 ; in I Don’t Do That No More siamo a metà strada tra Fabulous Thunderbirds e Blasters, e la band tira alla grande, con McKendree che va di boogie piano con passione e pure il nostro ci mette il solito impegno.

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Anche Oh For The Cry Eye è condotta con la la souplesse che solo i grandi hanno, un tocco di Dr. John o Allen Toussaint qui, un tocco sexy della Moten là, e Curtis che sovraintende al tutto https://www.youtube.com/watch?v=e37RK80kOFQ , prima di rituffarsi nel blues per una notturna e raffinata title-track, che cita anche coloriture jazzy e R&B https://www.youtube.com/watch?v=aU7Pd06DV-A , Truth Be Told, con Wayne Toups a fisa squeezebox e seconda voce, ci regala anche un bel tocco di allegro cajun che non guasta https://www.youtube.com/watch?v=fK5M9qBQm44 , e nella minacciosa e funky The Fix Is In, di nuovo con armonica d’ordinanza pronta alla bisogna, ci istruisce sulle virtù della buona musica blues, con Andersen, Finnigan e Pugh a spalleggiarlo in questa lezione sulle 12 battute https://www.youtube.com/watch?v=42jOLh5b7b8 , prima di congedarci con una travolgente e rauca versione della classica Slow Down di Larry Williams (la cantava anche Paul McCartney nei Beatles), che è puro R&R con fiati come raramente si ascolta ai giorni nostri https://www.youtube.com/watch?v=X8JJFixLwsQ . Curtis Salgado ha colpito di nuovo!

Bruno Conti

Una Sorprendente Dinamo Rock-Blues Nera. Skykar Rogers – Firebreather

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Skylar Rogers – Firebreather – Self-released CD/Download

Viene da Chicago, ma opera con la sua band, i Blue Diamonds, nell’area di St. Louis, dove è stato registrato questo Firebreather, che è il suo esordio, a parte un EP uscito nel 2019 Insecurities: stiamo parlando di Skylar Rogers, cantante nera che mescola orgogliosamente blues, soul, funky e molto rock, non per nulla tra le sue influenze cita Tina Turner, Etta James, Billy Joel, e Koko Taylor, tutte abbastanza comprensibili, a parte forse Billy Joel. Il disco consta di 10 tracce originali, niente cover, la band che la accompagna, un quintetto con due chitarre, basso, batteria e un tastierista, nomi poco conosciuti, ma comunque validi e tosti, anche se tutto ovviamente ruota intorno alla voce gagliarda e duttile della Rogers. Si parte subito forte con il rock-blues tirato di Hard Headed Woman, chitarra incisiva e ricorrente, organo scivolante, il resto della band ci dà dentro di gusto, il timbro vocale una via di mezzo tra Janis Joplin (o se preferite le sue epigone Beth Hart e Dana Fuchs, anche se non siamo per ora a quei livelli), Koko Taylor e la Tina Turner più rockeggiante https://www.youtube.com/watch?v=YtW5bE_Rmig , come ribadisce la robusta Back To Memphis, ancora potente e con la chitarra di Steven Hill sempre in bella evidenza https://www.youtube.com/watch?v=qPGItqPBkuc  .

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Work è più funky, anche se i ritmi rock sono sempre prevalenti, con l’organo che cerca di farsi largo, Like Father Like Daughter il singolo estratto dall’album è sempre molto riffata, addirittura con elementi southern nella struttura del brano e la solista che imperversa sempre https://www.youtube.com/watch?v=m7kj_qZ7cnU , ma la “ragazza” ha classe e quando i tempi rallentano come nella bellissima soul ballad Failure, le influenze di James e Taylor hanno modo di essere evidenziate e la vocalità si arricchisce di pathos, con l’organo che si spinge dalle parti di Memphis https://www.youtube.com/watch?v=bQeUxLGSsCc . Però il genere che si predilige nell’album è sempre abbastanza duretto, come ribadisce la tirata title track, sempre in odore di blues-rock, con chitarra quasi hard e organo ad inseguirsi, mentre basso e batteria pompano energicamente e Skykar canta con grande forza https://www.youtube.com/watch?v=NKMOc4glugs , con Movin’ On che viceversa ha retrogusti gospel su un tempo scandito, coretti e battiti di mano accattivanti per un call and response godurioso, mentre la melodia è affidata all’organo https://www.youtube.com/watch?v=encBYeZcv28 .

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Thankful è una blues ballad pianistica, sempre con le linee fluide e sinuose della solista a fare da contrappunto alla energica interpretazione della Rogers che poi lascia il proscenio a un drammatico e vibrante assolo della chitarra, atmosfera che si ripete nello slow blues Drowning, altro brano che ruota attorno al dualismo tra la voce accorata di Skylar e la parte strumentale con chitarra e organo sempre sugli scudi https://www.youtube.com/watch?v=m7kj_qZ7cnU . E per concludere non manca anche un tuffo nel rock and soul di marca Motown di Insecuties, molto piacevole e disimpegnato, che comunque conferma il talento di questa nuova promessa che potrebbe diventare un ancora maggior concentrato di potenza in futuro, magari affidata ad un produttore di pregio in grado di orientarla più verso le sonorità più raffinate espresse in Failure. Per ora da tenere d’occhio, anche se, manco a dirlo, la versione in CD dell’album è costosa e di difficile reperibilità.

Bruno Conti

Trent’anni (Anzi 31) E Non Sentirli! Black Crowes – Shake Your Money Maker Deluxe Edition

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Black Crowes – Shake Your Moneymaker 30Th Anniversary Edition – Ume/Universal 3 CD

La ristampa di Shake Your Money Maker dei Black Crowes esce in una quantità spropositata di versioni (CD singolo, doppio e triplo, soft pack e Super Deluxe Edition, LP e 4 LP): avrebbe dovuto essere pubblicata lo scorso anno (ma è arrivata la pandemia a rovinare il tour commemorativo dopo poche date) per festeggiare un album che nel febbraio del 1990 riportava in auge il caro vecchio rock, prima dell’avvento del grunge, e presentava una formazione che era innamorata del classic rock di Stones, Faces, Humble Pie, ma anche Beatles e Rich Robinson aveva citato tra le influenze pure i primi Aerosmith, senza dimenticare Otis Redding, di cui incisero, proprio su Shake Your Money Maker, Hard To Handle, e i Led Zeppelin, celebrati anni dopo in Live At the Greek, insieme a Jimmy Page. Nel nuovo tour della reunion, sospeso ed ora previsto per il 2021 (ma sarà possibile?), in effetti si riuniscono solo i fratelli Chris e Rich Robinson, gli altri, per quanto bravi (?) sono tutti nuovi: Isiah Mitchell chitarra (Earthless e Void), il bassista Tim Lefebvre (ex Tedeschi Trucks Band), il tastierista Joel Robinow e il batterista Raj Ojha, non mi sembrano proprio di prima fascia, specie dovendo riproporre il vecchio repertorio e non nuove canzoni (o forse sì?).

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Tornando alla nuova ristampa vediamo i contenuti del triplo: il disco originale, prodotto da George Drakoulias, che li aveva scoperti in Georgia un paio di anni prima, quando si chiamavano ancora Mr. Crowe’s Garden e messi sotto contratto per la Def American di Rick Rubin (indicato in copertina come produttore esecutivo, ma solo dopo il successo del disco), che agli inizi era soprattutto una etichetta di Metal e Rap, lo conosciamo tutti. Dieci brani, più una breve traccia nascosta, dove accanto ai fratelli Robinson, che scrivono anche tutte le canzoni, ci sono l’ottimo secondo chitarrista Jeff Cease, scomparso abbastanza presto (ora è il chitarrista di Eric Church) , Steve Gorman alla batteria, sempre presente, Johnny Colt al basso nei primi quattro album, i migliori, e alle tastiere “l’ospite” Chuck Leavell, che fa un grande lavoro di raccordo. Ci sono almeno tre super classici, ma tutto il disco è un solido album da 4 stellette (in questa edizione espansa anche mezza di più), che venderà complessivamente oltre cinque milioni di copie, trasformando i Black Crowes in un gruppo di enorme successo, tanto che il Melody Maker li definì con una iperbole “il gruppo rock’n’roll più rock’n’roll del mondo”, magari esagerando un tantinello https://www.youtube.com/watch?v=YemrzS7X4e8 . Per i “ricchi” c’è anche una versione Super Deluxe, che però ha lo stesso contenuto di quella soft pack, salvo per i memorabilia.

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Si inizia a godere con Twice As Hard, subito riff come piovesse, poi arriva la voce potente di Chris, le chitarre iniziano a ruggire, modalità normale e slide, mentre macinano sano R&R, Jealous Again è anche meglio, pianino di Leavell pronto alla bisogna, voce di Robinson pimpante, come se Rod Stewart non avesse smesso di essere il frontman dei Faces da una vita, e fratello Rich si spara un “assolino” gustoso. Ma non scherzano anche i pezzi “minori” come Sister Luck, una ballatona mid-tempo stonesiana dalla melodia deliziosa, Could I’ve Been So Blind, un altro potente R&R senza tempo, come pure le volute rock’n’soul della delicata Seeing Things, che profumano di Sud, anche grazie alle armonie vocali di Laura Creamer e all’organo sontuoso di Leavell, come ribadisce la splendida cover di Hard To Handle di Mr. Pitiful in persona Otis Redding, dove rock e soul convergono ancora alla perfezione, come se lo avessero inventato loro, e quelle chitarre tirano veramente di brutto. Sarà anche tutto derivativo, ma un bel “e chi se ne frega” lo vogliamo dire: Thickn’ Thin va di boogie-rock scatenato come non ci fosse un futuro (ma un passato di qualche vecchio vinile dei Faces o degli Humble Pie sì), la band è solida è affiatata, la produzione di Drakoulias chiara e nitida, con tutti gli stumenti e le voci ben evidenziate.

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Poi arriva She Talks To Angels, un’altra piccola meraviglia, una ballata introdotta da una chitarra acustica, che poi diventerà a sua volta un classico del rock degli ultimi 30 anni, l’organo di Leavell che pennella, la ritmica perfetta e pressante nel creare un crescendo come insegnano sui Bignami della migliore musica, discreto ma coinvolgente. Struttin’ Blues non avrebbero potuto farla meglio neppure gli Humble Pie dei tempi d’oro, Steve Marriott all’epoca avrà approvato di sicuro, e anche oggi da lassù guarderà con benevolenza questi suoi “discendenti” che maltrattano le chitarre come riportano i comandamenti del R&R, che poi si ripetono anche nella conclusiva Stare It Cold, un’altra torbida e perversa dimostrazione, con uso slide, dell’assioma “it’s only rock’n’roll but we like it”, in coda la breve Mercy, Sweet Moan è solo un intramuscolo blues che chiude uno dei classici esordi della storia del rock, in seguito faranno anche meglio.

UNITED STATES - JANUARY 01: HOLLYWOOD Photo of BLACK CROWES, at the Sunset Marquis Hotel (Photo by Ian Dickson/Redferns)

UNITED STATES – JANUARY 01: HOLLYWOOD Photo of BLACK CROWES, at the Sunset Marquis Hotel (Photo by Ian Dickson/Redferns)

CD 2 Unreleased Songs & B-Sides Charming Mess è un altro omaggio ai Faces più infoiati, secondo qualcuno potrebbe essere Hot Legs di Rod Stewart con solo le parole cambiate, ma pianino malizioso e chitarre super riffate non mancano https://www.youtube.com/watch?v=OCnr8X3F6vE , poi si passa ad una bella cover di 30 Days In The Hole degli Humble Pie, ma più “impasticcata”, come si fossero gemellati con i Mott The Hoople e gli Stones, comunque sempre una goduria, sentire che chitarre e anche Don’t Wake Me “tira” di brutto, twin guitars come neanche i Lynyrd Skynyrd superati a destra a tutta velocità e Jealous Guy di John Lennon diventa molto bluesy, grazie a piano e organo, con quel cantante che sembra sempre il miglior Rod Stewart, quando non scherzava un c..zzo, ma che è capace di regalarci ballate avvolgenti come pochi altri hanno saputo fare, sentire per credere la deliziosa Waitin’ Guilty, che si anima subito tra slide malandrine e organi hammond comprati in qualche negozio vintage https://www.youtube.com/watch?v=SvL9IeKlOg8 . Niente male, per usare un eufemismo, anche la versione con fiati aggiunti di Hard To Handle, quasi più Stax degli originali di Steve Cropper e soci, quando si “divertivano” con Otis, mentre le due canzoni unplugged, Jealous Again, per sola voce, chitarre acustiche e battito di mani e She Talks To Angels,con piano alla Elton John “americano” e tamburello aggiunti all’acustica, sono solo incantevoli. Meno interessanti, ma comunque gradevoli i due brani dell’era Mr. Crowe’s Garden, con florilegi country-folk, quando non avevano forse ancora deciso se diventare i nuovi Stones/Faces, ma Rod Stewart, quello dei dischi solisti, era già un modello, versioni ruspanti, anche a livello tecnico di registrazione, di She Talks To Angels, e dalla aia di casa Robinson, una Front-Porch Sermon molto country campagnola (uhm, un ossimoro) con tanto di banjo aggiunto.

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Quando a dicembre tornano trionfanti ad Atlanta dopo un tour micidiale (magari anche con qualche scazzottata tra i fratelli), come direbbe Abantuono sono diventati una “putenza”, ed ecco nel CD 3 un fantasmagorico concerto, 14 brani + introduzione, dove i Robinson e soci a questo punto hanno fatto una scelta, o forse no, tra Stones, Faces, Humble Pie, Led Zeppelin e Lynyrd Skynyrd, tutti rollati in uno. Ripeto, non saranno originali, ma cazzarola, averne di “imitatori” così. I Corvi Neri non prendono prigionieri: Cease, che sarà sostituito a breve da Marc Ford, è un fior di chitarrista ed insieme a Rich dà vita a delle sismiche sarabande rock, mentre le immancabili tastiere aggiungono quel tocco di raffinatezza che se non sei un power trio, fanno anche la differenza. Visto che nella versione tripla soft pack quasi te lo regalano, il concerto comunque sarebbe da avere anche come manufatto a sé stante: si parte con Thick’N’Thin con Jeff Cease, chiamato a gran voce da Chris, che comincia a darci dentro alla grande nel Black Crowes Rock And Roll Show, mentre Rich gli risponde da par suo nella “outtake” degli Stones che è You’re Wrong, energia misurata nel potenziometro rock pari a 10, quando arrivano Twice As Hard il pubblico è già sudato ed eccitato come una colonia di maiali, e loro reiterano con l’epitome di quel che si usa definire hard ballad, ma con chitarre a destra e manca, anche con bottleneck alla bisogna. Eccellenti anche Could’ve Been So Blind e Seeing Things (ma ce n’è qualcuna scarsa?) https://www.youtube.com/watch?v=JCHVptbP0OI , altre fabbriche di riff all’ingrosso, la seconda che dà un attimo di tregua al pubblico, grazie al lavoro “sudista” di organo e piano e ad una interpretazione quasi dolente di Chris Robinson, che rispolvera i suoi vecchi vinili di soul music per un veloce ripasso della materia, prima di gettare il pezzo da novanta di una superba She Talks To Angels con il pubblico in delirio https://www.youtube.com/watch?v=ziURlpcUIfA .

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Prosegue la sezione meno assatanata del concerto con Sister Luck, uno dei loro brani stonesiani fino al midollo, in questa versione dal vivo molto ispirata e vicina alla perfezione, poi si innesta la quinta marcia per una poderosa Hard To Handle, che viene seguita dalla cover di Shake ‘em On Down di Fred McDowell che da blues del Delta diventa rock and roll da stadio con wah-wah e bottleneck a manetta, mentre Get Back dei Beatles viene proposta in una versione “brutta e cattiva” tiratissima, con accelerata nel finale e nella successiva e dura Struttin’ Blues si rende omaggio al sound dei Led Zeppelin di Page e Plant, con i fratelli nei rispettivi ruoli, in un anticipo del futuro Live At The Greek. Words You Throw Away, che era uscita come B-Side del singolo Hotel Illness diventa un tour de force di oltre tredici minuti dove la band esprime tutta la sua potenza devastante, ma anche all’interno del brano momenti di calma https://www.youtube.com/watch?v=lRCR27o5O7s , per il finale si torna in modalità Humble Pie per Stare It Cold con le due chitarre ad inseguirsi https://www.youtube.com/watch?v=LyScXLWdDUA  e poi tra Faces e derive sudiste per una sanguigna Jealous Again dove anche il piano fa sentire la sua presenza. Per una volta una ristampa dove i contenuti extra sono all’altezza del resto: ottimo ed abbondante.

Bruno Conti

Dal Sud Degli Stati Uniti Ancora Ottima Musica Da Un Artista Di Culto. Randall Bramblett – Pine Needle Fire

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Randall Bramblett – Pine Needle Fire – New West

Ogni tanto leggendo Wikipedia si apprendono notizie “interessanti”: per esempio che il nostro amico Randall Bramblett ha una carriera che ha attraversato tre decadi, ma considerando che è in attività dai primi anni 70, direi che sono sette decadi, in più si apprende che il suo genere musicale sta tra folk (?!?), pop/rock, acoustic, adult alternative, mentre leggendo sul suo sito, in quanto si presume che almeno lui sappia che tipo di musica faccia, leggiamo di Americana, Blues, Funk, R&B/Soul e Rock (magari southern, visto che è stato in passato un componente dei Sea Level). Dato a Cesare quel che è di Cesare, e a Randall quel che è di Bramblett, ancora una volta il musicista di Jesup, Georgia, ci regala un altro bel disco, dopo Juke Joint At The End Of The World del 2017 https://discoclub.myblog.it/2017/09/05/un-sudista-anomalo-randall-bramblett-juke-joint-at-the-edge-of-the-world/, ecco l’ottavo CD per la New West negli anni 2000.

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Tastierista e cantante, oltre che sassofonista, Bramblett ha una bella voce, rauca e vissuta e si scrive le proprie canzoni, 12 in questo caso, facendosi aiutare dagli stessi musicisti del precedente CD: Nick Johnson alla chitarra elettrica, Michael C. Steele al basso, Seth Hendershot alla batteria e Gerry Hansen alle percussioni, in più come ospite alla chitarra David Causey, con lui sin dai tempi dei Sea Level, Tommy Talton dei Cowboy, che suona la vecchia Gibson SG di Duane Allman in modalità slide nel brano I’ve Got Faith In You, una piccola sezioni fiati e nella title track gli archi, oltre a Betsy Franck alle armonie vocali. Some Poor Soul, chitarra trattata, basso “grasso”, piano elettrico e fiati in evidenza, percussioni e batteria in spolvero, nonché le armonie vocali corpose dei componenti la band e della Franck, ricorda il suono del suo vecchio amico Stevie Winwood https://www.youtube.com/watch?v=WYwbosqIfH0 , con il quale ha collaborato in passato; Rocket To Nowhere, loop di batteria e synth non fastidiosi in apertura, poi diventa un altro funky-jazz-southern rock che ricorda i vecchi Sea Level, con sax e tromba, oltre alle tastiere di Randall, a menare le danze https://www.youtube.com/watch?v=Ops3SUa7fh0 .

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La lunga e soave title track ha delle sonorità sognanti e futuribili, con il Fender Rhodes di Bramblett e chitarre backwards e synth atmosferici a punteggiare la melodia di questa ballata, che nel corso del brano si anima e vede nel finale anche l’ingresso degli archi https://www.youtube.com/watch?v=6OinUsBKNQY . In Lazy (And I Know It), sempre su queste coordinate sonore, ritmi più serrati, Randall va anche di falsetto, sostenuto dalla brava Betsy Franck, Even The Sunlight con un bel drive della batteria, è più mossa e con doppia chitarra, e qualche rimando al suono degli Steely Dan, contemporanei dei Sea Level, grazie agli arrangiamenti intricati e a un acido assolo della chitarra solista https://www.youtube.com/watch?v=NvYtLk0UMKM , I’ve Got Faith In You è il brano nel quale Talton suona la chitarra di Duane, un sincero esempio del vecchio southern rock dei 70’s, con un testo presentato come una risposta a Forever Young di Dylan, molto suggestiva grazie all’insinuante lavoro della slide di Talton e alla seconda voce della Franck https://www.youtube.com/watch?v=huPU4TTrWMw .

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Another Shining Moment, con Causey aggiunto che va di slide, quasi alla George Harrison. è un pezzo dai retrogusti sudisti, di nuovo con falsetti gospel sullo sfondo e una calda interpretazione vocale di Bramblett e e Co https://www.youtube.com/watch?v=u_gwhzem9x4 ., molto piacevole anche la funky Manningtown che spinge sul groove, con chitarrine insinuanti anche wah-wah e piano elettrico e organo a dettare i tempi https://www.youtube.com/watch?v=DLzzyPqZUyU , insieme ai fiati, Built To Last decisamente più sul versante rock corale dimostra una volta di più la versatilità e la classe di questo musicista, ancora con Causey in aiuto con la sua solista insinuante, prima di tornare al funky/R&B con la mossa e fiatistica Don’t Get Me Started sempre vicina agli stilemi di Donald Fagen. In chiusura prima Never Be Another Day che coniuga rootsy rock e deep soul in modo brillante, grazie ancora alla Franck https://www.youtube.com/watch?v=nbMsbyuiwF0 , e l’ultimo brano con la presenza di Causey My Lucky Day insiste con questa riuscita miscela di generi che è la carta vincente di questo ennesimo ottimo album di Randall Bramblett. In attesa di nuovi dischi di Winwood e Fagen “accontentiamoci”.

Bruno Conti

Un Altro Bel Disco Targato “Auerbach Productions”, Forse Fin Troppo Falsetto. Aaron Frazer – Introducing…

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Aaron Frazer – Introducing… – Dead Oceans/Easy Eye Sound CD

Negli ultimi tempi Dan Auerbach è molto più impegnato come produttore che in qualità di leader dei Black Keys, anche se l’ultimo Let’s Rock del 2019 è uno dei lavori migliori del duo di Akron. Personaggio con un fiuto sopraffino per il talento, Auerbach negli ultimi anni ha patrocinato ottimi album di giovani artisti all’esordio (Dee White, Yola), riesumato oscuri musicisti del passato (Robert Finley, Leo “Bud” Welch, Jimmy “Duck” Holmes) e, lo scorso anno, ha prima assistito Marcus King nel bel debutto da solista El Dorado e poi ha rilanciato la carriera del noto countryman John Anderson con il bellissimo Years. Il 2021 è appena iniziato e già uno degli album più piacevoli tra i pochi usciti vede il nome di Auerbach nella casella del produttore: si tratta di Introducing…, primo disco di Aaron Frazer, musicista originario di Brooklyn ma cresciuto a Baltimore che Dan ha conosciuto come membro di Durand Jones & The Indications, di cui Aaron è il batterista ed una delle voci nonché uno dei principali compositori.

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In particolare Auerbach è rimasto colpito dal timbro particolare di Frazer, un falsetto decisamente melodico e soulful, una voce che Dan ha dichiarato di non aver mai sentito prima in un batterista: i due, dopo essersi conosciuti, hanno cominciato a scrivere insieme una serie di brani che poi sono andati ad incidere negli Easy Eye Sound Studios di Nashville (di proprietà di Auerbach), con la solita serie di musicisti dal nobile pedigree come Bobby Wood, Mike Rojas, Russ Pahl, Pat McLaughlin, il percussionista di Nashville Sam Bacco, mentre Frazer si è occupato della batteria e, soprattutto, della voce solista. Introducing…è quindi un bel disco di puro blue-eyed soul con elementi errebi e funky, dal suono moderno ma con gli arrangiamenti vintage che tanto piacciono ad Auerbach, e che possiamo trovare anche nei dischi di Yola, Marcus King nonché nel secondo solo album dello stesso Dan, Waiting On A Song. Ma se il leader dei Black Keys ha i suoi meriti, il vero protagonista è proprio Frazer, con la sua voce melliflua e vellutata ma anche con la sua abilità come compositore: la stampa internazionale lo ha paragonato a Curtis Mayfield, ma Aaron ha una personalità sua ed uno stile d’altri tempi che lo colloca idealmente nel passato della nostra musica (anche fisicamente, dato che sembra uscito dagli anni cinquanta).

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Si parte con la raffinatissima You Don’t Wanna Be My Baby, elegante pop song in cui la voce quasi femminile del leader funge da strumento aggiunto: il suono è forte e centrale con un arrangiamento deliziosamente anni 70, grazie anche all’uso particolare degli archi https://www.youtube.com/watch?v=SIvJ1xv9Mx8 . La cadenzata If I Got It (Your Love Brought It) è puro errebi, con il pianoforte in evidenza ed una melodia diretta completata da un refrain vincente, più una sezione fiati a colorare il tutto https://www.youtube.com/watch?v=6MdYYOtgwM8 ; Can’t Leave It Alone è un bel funkettone dal suono decisamente potente ammorbidito dalla voce gentile di Frazer, con un breve ma incisivo assolo chitarristico di Auerbach, mentre Bad News è ancora al 100% una funky song che sembra presa da un LP uscito 50 anni fa in piena “Blaxploitation Era” https://www.youtube.com/watch?v=G8OCGoDmnAI . Have Mercy è una ballatona estremamente raffinata al limite della zuccherosità, ma comunque al di sopra del livello di guardia (anche perché Auerbach è un dosatore di suoni formidabile), con il falsetto di Aaron doppiato da un coro in sottofondo https://www.youtube.com/watch?v=E1sJfi8ltek .

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Done Lyin’ è un blue-eyed soul fiatistico dall’arrangiamento piuttosto “rotondo” perfetto per una serata romantica, Lover Girl è pop-errebi di gran classe che ricorda un po’ i Simply Red ma con sonorità più classiche https://www.youtube.com/watch?v=Wo5G-CAs918 . Con la ritmata Ride With Me il CD prende una direzione quasi “disco” con il basso che pompa come se non ci fosse un domani, ma il sapore vintage la rende comunque piacevole, a differenza di Girl On The Phone che è una gustosissima ballad ancora col piano in prima fila ed un notevole muro del suono alle spalle. Love Is è soffusa, intrigante e possiede una delle migliori linee melodiche dell’album, ed è seguita dalle conclusive Over You, frenetica, danzereccia e dal ritornello coinvolgente https://www.youtube.com/watch?v=YBi4P0aZnsg , e Leanin’ On Everlasting Love, bellissimo lentone anni sessanta che paga un chiaro tributo al grande Sam Cooke, a parte il timbro vocale. Siccome non si vive di solo rock, Introducing…Aaron Frazer può essere il disco adatto da ascoltare quando vi viene voglia di musica ricercata ed elegante.

Marco Verdi

Non Solo Un Gregario, Ma Uno Dei Migliori Chitarristi Su Piazza. Kirk Fletcher – My Blues Pathway

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Kirk Fletcher – My Blues Pathway – Cleopatra Blues

Kirk Fletcher in ambito blues non è il primo pirla che passa per strada, al contrario si tratta di un esperto musicista cresciuto a pane e West Coast Blues nella natia California, poi ha suonato agli esordi nella Hollywood Fats Band, si è creato un nome suonando con Kim Wilson, che poi lo ha voluto nei Fabulous Thunderbirds, e anche con un altro grande armonicista come Charlie Musselwhite (e Fletcher è pure all’occorrenza armonicista, oltre che chitarrista di grande spessore https://www.youtube.com/watch?v=wnBx4CNSvbc ); nel suo secondo CD solista del 2003 Shades Of Blue come ospiti c’erano Janiva Magness, Finis Tasby e lo stesso Wilson, l’album del 2010 My Turn era prodotto da Michael Landau, e il nostro amico Kirk ha suonato anche nei Mannish Boys, ma per portare a casa la pagnotta pure nei dischi di Eros Ramazzotti (ebbene sì), e in seguito è stato per alcuni anni nella touring band di Joe Bonamassa, dove svolgeva le funzioni di secondo chitarrista, anche negli strepitosi Live a Red Rocks e Greek Theater.

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Ha pubblicato un disco dal vivo nel 2014 e un altro in studio nel 2018, entrambi auto prodotti e scarsamente reperibili, mentre questo My Blues Pathway esce per i miei amici della Cleopatra che per l’occasione, lo ammetto, hanno fatto un ottimo lavoro. Accompagnato da Travis Carlton al basso, Jeff Babko alle tastiere, e con Lemar Carter e David Kida che si alternano alla batteria, con il vecchio pard di Robert Cray Richard Cousins che firma due brani con lui, e Joe Sublett al sax e Mark Pender alla tromba, sezione fiati aggiunta. Nel disco troviamo dell’ottimo blues, anche “contemporaneo”, come nella iniziale melliflua Ain’t No Cure For The Downhearted, che ricorda molto il citato Robert Cray, con Fletcher che fa cantare la sua solista, e si dimostra, se mi passate la ripetizione, cantante più che adeguato, non al livello di Cray, ma con un bel timbro vocale https://www.youtube.com/watch?v=r80dOwqg7AA , come ribadisce nel funky-blues fiatistico con retrogusto soul di No Place To Go, scritta con Cousins, Love Is More Than A Word, l’altra firmata con Cousins, è una deep soul ballad tra Stax e Motown, con fiati e organo “scivolante”, e la solista che cesella un assolo finissimo https://www.youtube.com/watch?v=EqCPZewZix4 , sempre a proposito di Stax Struggle For Grace è un super blues con uso fiati alla Albert King, chitarra “friccicarella” e grande tecnica e feeling in mostra negli assoli, insomma siamo fronte ad uno di “quelli bravi” https://www.youtube.com/watch?v=ECQ6VKbByoA .

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I’d Rather Fight Than Switch è un shuffle del sassofonista A.C. Reed, classico Chicago Blues con la chitarra pungente di Fletcher sempre in bella evidenza, mentre i fiati decorano sullo sfondo https://www.youtube.com/watch?v=I_6Ox3548Dk , Heart So Heavy è uno slow di quelli duri e puri, di grande fascino ancora una volta, con la solista che viaggia con estrema confidenza tra i temi classici delle 12 battute https://www.youtube.com/watch?v=-vxW80vPgQA , ribaditi nella cover di Fatteming Frogs For Snakes, un brano di Sonny Boy Williamson dove l’armonica viene sostituita dalla chitarra come strumento guida, con risultati sorprendenti, prima di tornare con Place In This World alle atmosfere ricche di elementi funky-blues alla Cray, di nuovo con la fluida solista di Fletcher a disegnare linee di grande raffinatezza nel suo incedere e non manca neppure un classico brano strumentale old school come D Is For Denny, che ricorda certe cose alla Booker T & The Mg’s https://www.youtube.com/watch?v=xjF_OvGEak0 , mentre la chiusura è affidata al Delta Blues acustico di una vivida ed intensa Life Gave Me A Dirty Deal, con Charlie Musselwhite all’armonica e Josh Smith alla resonator guitar. Fletcher quindi si conferma, o si rivela per chi non lo conoscesse, bluesman di vaglia e uno dei migliori chitarristi su piazza, non solo un gregario. Consigliato.

Bruno Conti