Trent’anni (Anzi 31) E Non Sentirli! Black Crowes – Shake Your Money Maker Deluxe Edition

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Black Crowes – Shake Your Moneymaker 30Th Anniversary Edition – Ume/Universal 3 CD

La ristampa di Shake Your Money Maker dei Black Crowes esce in una quantità spropositata di versioni (CD singolo, doppio e triplo, soft pack e Super Deluxe Edition, LP e 4 LP): avrebbe dovuto essere pubblicata lo scorso anno (ma è arrivata la pandemia a rovinare il tour commemorativo dopo poche date) per festeggiare un album che nel febbraio del 1990 riportava in auge il caro vecchio rock, prima dell’avvento del grunge, e presentava una formazione che era innamorata del classic rock di Stones, Faces, Humble Pie, ma anche Beatles e Rich Robinson aveva citato tra le influenze pure i primi Aerosmith, senza dimenticare Otis Redding, di cui incisero, proprio su Shake Your Money Maker, Hard To Handle, e i Led Zeppelin, celebrati anni dopo in Live At the Greek, insieme a Jimmy Page. Nel nuovo tour della reunion, sospeso ed ora previsto per il 2021 (ma sarà possibile?), in effetti si riuniscono solo i fratelli Chris e Rich Robinson, gli altri, per quanto bravi (?) sono tutti nuovi: Isiah Mitchell chitarra (Earthless e Void), il bassista Tim Lefebvre (ex Tedeschi Trucks Band), il tastierista Joel Robinow e il batterista Raj Ojha, non mi sembrano proprio di prima fascia, specie dovendo riproporre il vecchio repertorio e non nuove canzoni (o forse sì?).

black crowes shake your money maker 1 cd

Tornando alla nuova ristampa vediamo i contenuti del triplo: il disco originale, prodotto da George Drakoulias, che li aveva scoperti in Georgia un paio di anni prima, quando si chiamavano ancora Mr. Crowe’s Garden e messi sotto contratto per la Def American di Rick Rubin (indicato in copertina come produttore esecutivo, ma solo dopo il successo del disco), che agli inizi era soprattutto una etichetta di Metal e Rap, lo conosciamo tutti. Dieci brani, più una breve traccia nascosta, dove accanto ai fratelli Robinson, che scrivono anche tutte le canzoni, ci sono l’ottimo secondo chitarrista Jeff Cease, scomparso abbastanza presto (ora è il chitarrista di Eric Church) , Steve Gorman alla batteria, sempre presente, Johnny Colt al basso nei primi quattro album, i migliori, e alle tastiere “l’ospite” Chuck Leavell, che fa un grande lavoro di raccordo. Ci sono almeno tre super classici, ma tutto il disco è un solido album da 4 stellette (in questa edizione espansa anche mezza di più), che venderà complessivamente oltre cinque milioni di copie, trasformando i Black Crowes in un gruppo di enorme successo, tanto che il Melody Maker li definì con una iperbole “il gruppo rock’n’roll più rock’n’roll del mondo”, magari esagerando un tantinello https://www.youtube.com/watch?v=YemrzS7X4e8 . Per i “ricchi” c’è anche una versione Super Deluxe, che però ha lo stesso contenuto di quella soft pack, salvo per i memorabilia.

black crowes shake your money maker 3 cd super deluxe

Si inizia a godere con Twice As Hard, subito riff come piovesse, poi arriva la voce potente di Chris, le chitarre iniziano a ruggire, modalità normale e slide, mentre macinano sano R&R, Jealous Again è anche meglio, pianino di Leavell pronto alla bisogna, voce di Robinson pimpante, come se Rod Stewart non avesse smesso di essere il frontman dei Faces da una vita, e fratello Rich si spara un “assolino” gustoso. Ma non scherzano anche i pezzi “minori” come Sister Luck, una ballatona mid-tempo stonesiana dalla melodia deliziosa, Could I’ve Been So Blind, un altro potente R&R senza tempo, come pure le volute rock’n’soul della delicata Seeing Things, che profumano di Sud, anche grazie alle armonie vocali di Laura Creamer e all’organo sontuoso di Leavell, come ribadisce la splendida cover di Hard To Handle di Mr. Pitiful in persona Otis Redding, dove rock e soul convergono ancora alla perfezione, come se lo avessero inventato loro, e quelle chitarre tirano veramente di brutto. Sarà anche tutto derivativo, ma un bel “e chi se ne frega” lo vogliamo dire: Thickn’ Thin va di boogie-rock scatenato come non ci fosse un futuro (ma un passato di qualche vecchio vinile dei Faces o degli Humble Pie sì), la band è solida è affiatata, la produzione di Drakoulias chiara e nitida, con tutti gli stumenti e le voci ben evidenziate.

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Poi arriva She Talks To Angels, un’altra piccola meraviglia, una ballata introdotta da una chitarra acustica, che poi diventerà a sua volta un classico del rock degli ultimi 30 anni, l’organo di Leavell che pennella, la ritmica perfetta e pressante nel creare un crescendo come insegnano sui Bignami della migliore musica, discreto ma coinvolgente. Struttin’ Blues non avrebbero potuto farla meglio neppure gli Humble Pie dei tempi d’oro, Steve Marriott all’epoca avrà approvato di sicuro, e anche oggi da lassù guarderà con benevolenza questi suoi “discendenti” che maltrattano le chitarre come riportano i comandamenti del R&R, che poi si ripetono anche nella conclusiva Stare It Cold, un’altra torbida e perversa dimostrazione, con uso slide, dell’assioma “it’s only rock’n’roll but we like it”, in coda la breve Mercy, Sweet Moan è solo un intramuscolo blues che chiude uno dei classici esordi della storia del rock, in seguito faranno anche meglio.

UNITED STATES - JANUARY 01: HOLLYWOOD Photo of BLACK CROWES, at the Sunset Marquis Hotel (Photo by Ian Dickson/Redferns)

UNITED STATES – JANUARY 01: HOLLYWOOD Photo of BLACK CROWES, at the Sunset Marquis Hotel (Photo by Ian Dickson/Redferns)

CD 2 Unreleased Songs & B-Sides Charming Mess è un altro omaggio ai Faces più infoiati, secondo qualcuno potrebbe essere Hot Legs di Rod Stewart con solo le parole cambiate, ma pianino malizioso e chitarre super riffate non mancano https://www.youtube.com/watch?v=OCnr8X3F6vE , poi si passa ad una bella cover di 30 Days In The Hole degli Humble Pie, ma più “impasticcata”, come si fossero gemellati con i Mott The Hoople e gli Stones, comunque sempre una goduria, sentire che chitarre e anche Don’t Wake Me “tira” di brutto, twin guitars come neanche i Lynyrd Skynyrd superati a destra a tutta velocità e Jealous Guy di John Lennon diventa molto bluesy, grazie a piano e organo, con quel cantante che sembra sempre il miglior Rod Stewart, quando non scherzava un c..zzo, ma che è capace di regalarci ballate avvolgenti come pochi altri hanno saputo fare, sentire per credere la deliziosa Waitin’ Guilty, che si anima subito tra slide malandrine e organi hammond comprati in qualche negozio vintage https://www.youtube.com/watch?v=SvL9IeKlOg8 . Niente male, per usare un eufemismo, anche la versione con fiati aggiunti di Hard To Handle, quasi più Stax degli originali di Steve Cropper e soci, quando si “divertivano” con Otis, mentre le due canzoni unplugged, Jealous Again, per sola voce, chitarre acustiche e battito di mani e She Talks To Angels,con piano alla Elton John “americano” e tamburello aggiunti all’acustica, sono solo incantevoli. Meno interessanti, ma comunque gradevoli i due brani dell’era Mr. Crowe’s Garden, con florilegi country-folk, quando non avevano forse ancora deciso se diventare i nuovi Stones/Faces, ma Rod Stewart, quello dei dischi solisti, era già un modello, versioni ruspanti, anche a livello tecnico di registrazione, di She Talks To Angels, e dalla aia di casa Robinson, una Front-Porch Sermon molto country campagnola (uhm, un ossimoro) con tanto di banjo aggiunto.

black crowes 1990

Quando a dicembre tornano trionfanti ad Atlanta dopo un tour micidiale (magari anche con qualche scazzottata tra i fratelli), come direbbe Abantuono sono diventati una “putenza”, ed ecco nel CD 3 un fantasmagorico concerto, 14 brani + introduzione, dove i Robinson e soci a questo punto hanno fatto una scelta, o forse no, tra Stones, Faces, Humble Pie, Led Zeppelin e Lynyrd Skynyrd, tutti rollati in uno. Ripeto, non saranno originali, ma cazzarola, averne di “imitatori” così. I Corvi Neri non prendono prigionieri: Cease, che sarà sostituito a breve da Marc Ford, è un fior di chitarrista ed insieme a Rich dà vita a delle sismiche sarabande rock, mentre le immancabili tastiere aggiungono quel tocco di raffinatezza che se non sei un power trio, fanno anche la differenza. Visto che nella versione tripla soft pack quasi te lo regalano, il concerto comunque sarebbe da avere anche come manufatto a sé stante: si parte con Thick’N’Thin con Jeff Cease, chiamato a gran voce da Chris, che comincia a darci dentro alla grande nel Black Crowes Rock And Roll Show, mentre Rich gli risponde da par suo nella “outtake” degli Stones che è You’re Wrong, energia misurata nel potenziometro rock pari a 10, quando arrivano Twice As Hard il pubblico è già sudato ed eccitato come una colonia di maiali, e loro reiterano con l’epitome di quel che si usa definire hard ballad, ma con chitarre a destra e manca, anche con bottleneck alla bisogna. Eccellenti anche Could’ve Been So Blind e Seeing Things (ma ce n’è qualcuna scarsa?) https://www.youtube.com/watch?v=JCHVptbP0OI , altre fabbriche di riff all’ingrosso, la seconda che dà un attimo di tregua al pubblico, grazie al lavoro “sudista” di organo e piano e ad una interpretazione quasi dolente di Chris Robinson, che rispolvera i suoi vecchi vinili di soul music per un veloce ripasso della materia, prima di gettare il pezzo da novanta di una superba She Talks To Angels con il pubblico in delirio https://www.youtube.com/watch?v=ziURlpcUIfA .

black crowes 1990 2

Prosegue la sezione meno assatanata del concerto con Sister Luck, uno dei loro brani stonesiani fino al midollo, in questa versione dal vivo molto ispirata e vicina alla perfezione, poi si innesta la quinta marcia per una poderosa Hard To Handle, che viene seguita dalla cover di Shake ‘em On Down di Fred McDowell che da blues del Delta diventa rock and roll da stadio con wah-wah e bottleneck a manetta, mentre Get Back dei Beatles viene proposta in una versione “brutta e cattiva” tiratissima, con accelerata nel finale e nella successiva e dura Struttin’ Blues si rende omaggio al sound dei Led Zeppelin di Page e Plant, con i fratelli nei rispettivi ruoli, in un anticipo del futuro Live At The Greek. Words You Throw Away, che era uscita come B-Side del singolo Hotel Illness diventa un tour de force di oltre tredici minuti dove la band esprime tutta la sua potenza devastante, ma anche all’interno del brano momenti di calma https://www.youtube.com/watch?v=lRCR27o5O7s , per il finale si torna in modalità Humble Pie per Stare It Cold con le due chitarre ad inseguirsi https://www.youtube.com/watch?v=LyScXLWdDUA  e poi tra Faces e derive sudiste per una sanguigna Jealous Again dove anche il piano fa sentire la sua presenza. Per una volta una ristampa dove i contenuti extra sono all’altezza del resto: ottimo ed abbondante.

Bruno Conti

IL Titolo Del Disco Dice Tutto! Tennessee Jet – The Country

tennesse jet

Tennessee Jet – The Country – Tennessee Jet/Thirty Tigers CD

Quando lo scorso anno ho recensito The Wanting https://discoclub.myblog.it/2019/12/01/una-doppia-razione-di-country-rock-come-si-deve-parte-seconda-cody-jinks-the-wanting/ , uno dei due album pubblicati praticamente in contemporanea da Cody Jinks, mi sono imbattuto in un nome, Tennessee Jet (co-autore e voce duettante nella title track), che non avevo mai sentito prima. Poche settimane fa ho poi visto che lo stesso personaggio aveva in uscita un album attorno al quale stavano piovendo critiche più che positive, The Country, e mi ci sono avvicinato pensando fosse il suo esordio: niente di più sbagliato, in quanto il titolare del CD (che in realtà si chiama TJ McFarland) ha già al suo attivo altri due lavori, il debutto omonimo uscito nel 2015 e Reata dell’anno dopo. Tennessee Jet (TJ da qui in poi) è un giovane countryman di Nashville con un aspetto che può ricordare un giovane Johnny Depp, ma la cosa più importante è che la sua musica è di quelle toste, elettriche e decisamente imparentate col rock.

TJ parte dalla lezione dei classici country singers del passato per poi dare alle sue canzoni un taglio moderno e vigoroso, suonato con grinta e cantato con la voce giusta, in alcuni casi rispettando la struttura tipica di un certo tipo di country ed in altri assumendo le sembianze come un vero e proprio rocker: la critica lo ha definito come un incrocio tra Dwight Yoakam ed i White Stripes, ma per la bontà delle composizioni inserite in questo disco (sue all’80%, più due cover di assoluta qualità) mi sento più di paragonarlo al primo dei due nomi, anche se comunque TJ è in possesso di uno stile suo. The Country è autoprodotto, e vede in session una solida band formata dai chitarristi Casey Diiorio e Eugene Edwards, gli steel guitarists Jamison Hollister e Jon Graboff (a lungo con Ryan Adams nei Cardinals) , il grande armonicista Mickey Raphael, i bassisti Scott Lee ed Eric Baines ed i batteristi Matt Pence e Mitch Marine, quest’ultimo per anni dietro i tamburi proprio con Yoakam. L’iniziale Stray Dogs è indicativa del sound del CD, una veloce country song elettrica dal motivo godibile e diretto (e con un riff che ricorda quello di I Want You di Bob Dylan), una parte strumentale guidata alla grande da steel e banjo ed un ritmo coinvolgente.

The Raven & The Dove, scritta con Jinks, è più attendista ma anche qui la melodia viene messa in primo piano, e vedo un’influenza texana tra Willie Nelson e Jerry Jeff Walker: il ritornello è splendido e la steel che ricama alle spalle del leader pure, mentre con Johnny siamo in pieno rockin’ mood, un pezzo duro, chitarristico e cadenzato che fa emergere lato più spigoloso del nostro (e qui qualche somiglianza con gli White Stripes in effetti c’è). Pancho & Lefty è il classico assoluto di Townes Van Zandt ed una delle canzoni più belle di sempre, e TJ intelligentemente non la stravolge ma la riprende in maniera fluida e distesa, lasciando scorrere la melodia immortale ed accompagnando il tutto in modo tradizionale, con la ciliegina della partecipazione vocale in duetto del già citato Cody Jinks oltre che di Elizabeth Cook e Paul Cauthen: Townes da lassù sorride soddisfatto.

Off To War è una struggente ballata acustica con un malinconico violino alle spalle, che dimostra la versatilità del nostro e la sua disinvoltura nello scrivere brani di ogni tipo; con la trascinante Hands On You siamo ancora in pieno trip rock’n’roll, ritmo, chitarre elettriche e slide e feeling formato famiglia (con in più un refrain accattivante), a differenza di Someone To You che è una deliziosa e languida honky-tonk ballad di stampo classico ma suonata con piglio moderno (e qui vedo Yoakam). La delicata ed acustica The Country, altro slow di qualità sopraffina, precede la seconda cover del disco, una splendida, creativa e sorprendente rilettura in puro stile folk-bluegrass elettrificato di She Talks To Angels dei Black Crowes, ancora con ritmo acceso ed il suono guidato da violino, mandolino e dobro. Chiude l’intima e soffusa Sparklin’ Burnin’ Fuse, altra ballata caratterizzata da uno script impeccabile ed ancora dall’ottimo uso della steel. Al momento il disco country dell’anno, almeno per il sottoscritto, è ancora quello di Colter Wall, ma questo terzo lavoro del talentuoso Tennessee Jet potrebbe facilmente entrare tra i primi cinque-sei della categoria.

Marco Verdi

Il Primo Disco Ufficiale Di Studio: Ma Anche Il Precedente Non Era Per Niente Male. Magpie Salute – Heavy Water I

magpie salute heavy water I

Magpie Salute – Heavy Water I – Mascot Provogue EU/Eagle Rock USA

Questo a tutti gli effetti sarebbe il secondo disco ufficiale dei Magpie Salute, ma coloro che devono a tutti i costi complicare le cose lo hanno presentato come il primo vero album ufficiale di studio della band (registrato a Nashville nei Dark Horse Studios), perché il primo omonimo era altresì composto prevalentemente da cover, a parte la traccia iniziale, e con un paio di pezzi ripescati dal repertorio dei Black Crowes: e oltre a tutto era quasi totalmente registrato dal vivo in studio. A questa stregua non dovremmo contare, per fare un esempio, molti dei primi dischi di Beatles o Stones, perché rientravano in queste caratteristiche, pochi brani originali e molte cover, oppure tanti dischi classici del rock registrati in parte dal vivo e in parte in studio, bah! Comunque al di là di queste quisquilie quello che conta è se il disco sia bello oppure no? E lo è, come pure il precedente, peraltro. La “Gazza” ha assestato la propria formazione ad un sestetto classico, dopo la scomparsa del tastierista Eddie Harsch, avvenuta durante la registrazione del primo CD. A fianco di Rich Robinson, voce e chitarra, Marc Ford, chitarra e voce, ed il cantante John Hogg, che firmano complessivamente tutte le dodici canzoni, troviamo il nuovo tastierista Matt Slocum, comunque già presente nel primo album, e la sezione ritmica con Sven Pipien al basso, anche lui proveniente dai Crowes, e Joe Magistro alla batteria, più gli ospiti Byron House al contrabbasso e Dan Wistrom alla pedal steel, e quindi niente voci femminili di supporto questa volta.

Si diceva che i pezzi in totale sono dodici, niente brani lunghi per l’occasione, solo due superano i cinque minuti, ma nel complesso il lavoro continuo delle chitarre e delle tastiere è sempre presente, forse meno jam e più sostanza, anche se al sottoscritto il primo disco eponimo era piaciuto parecchio https://discoclub.myblog.it/2017/06/06/quasi-black-crowes-the-magpie-salute-the-magpie-salute/ , ma Heavy Water I (che fa presupporre un secondo capitolo già annunciato per il 2019) è un emblematico album di rock che mette in evidenza tutte le classiche influenze dei Magpie Salute, che erano poi pure quelle dei Black Crowes ( e Chris Robinson ha anche messo in piedi una band, As The Crow Flies, solo per suonare il repertorio del suo vecchio gruppo), quindi rock anni ’70 alla Faces, Stones, Humble Pie, ma anche Led Zeppelin, Free, un po’ di psichedelia, qualche tocco country e molto southern, anche piccoli rimandi ai Beatles, nell’insieme, come direbbero quelli che parlano bene, un disco derivativo, con i piedi ben piantati nel passato, e proprio per questo ci piace parecchio, essendo suonato e cantato con passione e classe dai degni prosecutori di questi suoni classici e senza tempo. Mary The Gipsy, con finto applauso iniziale, è il classico pezzo heavy rock a tutto riff, tipico della famiglia Robinson, firmato infatti dal solo Rich, chitarre che impazzano a destra e a manca e ritmi gagliardi https://www.youtube.com/watch?v=AsZE6WVQl00 , che poi si stemperano nella eccellente High Water, la title track, quasi sei minuti aperti da un delizioso intreccio di chitarre acustiche, per una idilliaca ballata elettroacustica co-firmata da Hogg, che la canta quasi in souplesse, mentre elettrica e slide, come pure le tastiere allargano lo spettro sonoro di un brano che rimanda comunque alle sonorità dei Crowes, molto bello e raffinato anche l’arrangiamento vocale.

Send Me An Omen è di nuovo virata decisamente british rock, con elementi Free, Faces, Zeppelin, grazie alla voce ricca e potente di Hogg e alle chitarre arrotate di Robinson e Ford, senza perdere comunque il gusto per la melodia. For The Wind, l’altro brano che supera, di poco, i cinque minuti, mescola i Led Zeppelin bucolici del terzo album, con chitarre acustiche e tastiere in evidenza nella parte iniziale, poi si fa decisamente più varia, con ripartenze più dure e psichedeliche alternate a momenti più quieti di stampo folk-rock, molto bello anche il lavoro delle due soliste nella parte centrale; Sister Moon è il primo brano che porta la firma di Marc Ford (sempre con Hogg), con tracce dei Beatles dell’ultimo periodo, ma anche dei cantautori classici anni ’70, un pizzico di Nash e uno di Paul Simon, belle melodie, quindi lidi sonori diversi rispetto al precedente album, mentre Color Blind abbraccia anche tematiche razziali nella storia (autobiografica) di un giovane, metà svedese e metà africano, in una Londra indifferente, ovviamente parliamo di Hogg, che canta questo brano con quel pizzico di malinconia e rassegnazione che potrebbe rimandare, almeno come costruzione sonora, non certo nella voce, agli Stones dei brani meno tendenti al riff’n’roll, Un po’ di sana slide guitar e un piano insinuante ci introducono a Take It All,  un blues-rock abbastanza muscolare e tirato, con elementi southern e la grinta poderosa della voce di Hogg https://www.youtube.com/watch?v=ZNbMxuUlAfg .

Walk On Water, di nuovo scritta da Ford come la precedente, con il tema dell’acqua che ritorna, è un’altra bella ballata mid-tempo dal tempo danzante, con intrecci di chitarre acustiche ed elettriche, e anche le voci che lavorano coralmente, con qualche vago rimando al Tom Petty dei dischi solisti anche grazie al jingle-jangle delle chitarre. Hand In Hand profuma di nuovo di British folk-rock, quello un po’ indolente, a tempo di ragtime, del compianto Ronnie Lane o del primo Albert Lee, del periodo Heads, Hands & Feet, tra chitarre acustiche e piano accarezzati; You Found Me è uno dei tre brani scritti in solitaria de Rich Robinson, una deliziosa country song, con tanto di pedal steel, suonata da Dan Winstrom, e anche Can You See porta la firma del solo Rich, una tersa rock-song di nuovo con elementi sudisti, nell’intreccio incisivo delle chitarre acustiche che poi si aprono per lasciare spazio a delle grintose chitarre elettriche che regalano nerbo ad un altro brano che evidenzia la più ampia ricerca sonora delle “Gazze”, impiegata in questo album. Che si chiude sulle cadenze scandite delle bluesata Open Up, dove il piano insinuante di Slocum spalleggia con grinta le chitarre sempre con leggeri spunti psych, in un’altra traccia dove il sound d’assieme è spesso più importante del lavoro dei singoli. Non un capolavoro, ma un disco decisamente solido e convincente, destinato agli amanti di un rock classico ma variegato.

Bruno Conti

 

La “Fratellanza” Colpisce Ancora! Chris Robinson Brotherhood – Barefoot In The Head

chris robinson brotherhood barefoot in the head

Chris Robinson Brotherhood – Barefoot In The Head – Silver Arrow Records CD

Uno dei dischi migliori usciti di recente è sicuramente quello dei Magpie Salute http://discoclub.myblog.it/2017/06/06/quasi-black-crowes-the-magpie-salute-the-magpie-salute/ , l’esordio della nuova band di Rich Robinson, il fratello minore di Chris, chitarrista storico dei Black Crowes, uno dei gruppi che dagli anni ’90 ha raccolto con più vigore il testimone del rock “classico”, quello che passando per il sound “britannico” di Stones, Faces, Humble Pie, ma anche il sound sudista della loro nativa Georgia, le influenze della musica soul e R&B nera, si è poi arricchito con lo stile jam dei Grateful Dead, il country-rock “cosmico”, la musica della West Coast.e l’Americana Sound della Band e dei Little Feat, tanto per citare alcune delle influenze dei fratelli Robinson: ma ce ne sono mille altre, messe in evidenza sia nei dischi e nei concerti dei Crowes, quanto nelle band che sono venute dopo, non ultimi, come si diceva poc’anzi, i Magpie Salute. Come è noto i due fratelli hanno sempre avuto un rapporto che definire conflittuale vuol dire minimizzare le cose, pur senza arrivare ai limiti “fisici” dei fratelli Gallagher, si sono lasciati e ripresi più volte, l’ultima volta sembrerebbe in modo definitivo nel 2013, anche se già dall’anno precedente sia Rich Robinson che Chris Robinson con i suoi Brotherhood, avevano iniziato una carriera parallela, come vogliamo definirla, solista.

Visto che una reunion sembra improbabile, ma visti i precedenti mai dire mai, concentriamoci sui dischi del post Black Crowes: detto che, a mio parere, l’album dei Magpie Salute pare superiore a tutto ciò che è uscito finora dall’ingegno dei due fratelli, anche questo Barefoot In The Head è un disco eccellente, forse il migliore della band sino a questo momento, probabilmente insieme al primo Big Moon Ritual, che però era decisamente più orientato verso uno stile jam ed improvvisativo, comunque sempre presente nelle esibizioni live, come confermato dal recentissimo terzo capitolo della serie Betty’s Blends, uscito solo a maggio. Come è noto nei Brotherhood, oltre a Chris, suona anche Adam MacDougall dei vecchi Crowes, mentre il resto della band originale è confluito con Rich nei Magpie Salute; però nella formazione milita un altro eccellente musicista nella persona di Neal Casal, uno dei chitarristi (e cantautori, quando ha voglia e tempo, tra un impegno e l’altro, anche con gli Hard Working Americans) più validi della scena roots-rock americana. Non è il caso dei CRB, dove Chris Robinson è l’autore di tutti i brani, anche in questo Barefoot In The Mind (sarebbe “scalzo nella mente”, forse a voler indicare  una maggiore libertà nei temi musicali del nuovo album): il sound si è fatto decisamente più “californiano”, anche rilassato e con elementi country per certi versi, ma non mancano episodi dove il rock più grintoso è comunque protagonista.

Prendiamo, per esempio, l’iniziale Behold The Seer (che come tutte le canzoni del CD veleggia tra i quattro e i cinque minuti) che frulla un vivace groove funky-rock della sezione ritmica e del clavinet di MacDougall, con le chitarre choppate di Casal e Robinson, in un brano che richiama dei Little Feat più solari e rilassati, e dove la voce rauca di Chris si accoppia a coretti deliziosi, mentre anche una inconsueta armonica si divide gli spazi solisti con la chitarra di Neal in un clima corale gioioso. She Shares My Blanket è più languida e “campagnola”, molto westcoastiana, tra florilegi pianistici, di banjo e le chitarre quasi accarezzate, in un mood che non sarebbe dispiaciuto ai cultori del country-rock più classico ma anche ai CSNY o ai Grateful Dead più pastorali, comunque la si giri veramente bella e cantata in modo perfetto da un Robinson veramente ispirato che rimanda anche al Rod Stewart dei primi dischi solisti. Hark, The Herald Hermit Speaks (la fantasia per i titoli, di brani e album, non gli fa mai difetto), con un organetto molto sixties che doppia il piano, una chitarra lap steel che da languida man mano si fa più incalzante, come il resto del brano, dai tratti sonori più vibranti, soprattutto nella grintosa parte centrale e finale dove la chitarra si prende i suoi spazi.

Blonde Light Of Morning sta in quel territorio che si trova tra Laurel Canyon e il Canada intimista del migliior Neil Young, una andatura pigra e ciondolante, armonie avvolgenti che evocano i Beatles o i migliori CSNY già citati, e un inserto tagliente in modalità slide della chitarra di Casal. Lo dico o non lo dico? Lo dico: l’incipit di chitarre acustiche di Dog Eat Sun mi ha ricordato moltissimo quelli dei primi dischi degli America, che non erano per nulla disprezzabili, anzi, quel country easy listening deluxe e di gran classe che aveva attirato anche l’attenzione di George Martin, uno che di voci se ne intendeva; poi il brano si evolve in modo più complesso e quasi psych, ma mantenendo elementi acustici nel suo dipanarsi, con l’intervento di un vecchio synth analogico nel finale. Un piano blues barrelhouse ci introduce a una Gold Star Woman che mantiene questo spirito da 12 battute quasi classiche, ma è tra le canzoni meno riuscite e coinvolgenti del disco, a parte l’intermezzo strumentale quasi psichedelico nella parte centrale e finale che vira su lidi alla Grateful Dead e dal vivo potrebbe fare faville.

A proposito di GD, High Is Not The Top, ricorda quelli più acustici e country di American Beauty Workingman’s Dead, ma anche Dillards, Nitty Gritty e il lato più tradizionalista del country-rock, con l’armonica di Chris che svolge il ruolo che era del violino in quei dischi, e alla fine in fondo si respira l’aria californiana di Marin Country, dove è stato registrato questo Barefoot In the Head, mentre If You Had A Heart To Break potrebbe ricordare sia i Black Crowes più pastorali dell’ultimo periodo, ma anche (ogni tanto l’intercalare Veltroniano si insinua) il classico sound rootsy-Americana à la Band, della bellissima If You Had A Heart To Break, con i suoi quasi 6 minuti il brano più lungo del CD, ma neppure un secondo è sprecato, chitarre acustiche ed elettriche come piovesse, tastiere ovunque e Chris che la canta con una souplesse invidiabile, senza dimenticare le classiche variazioni di tempo, che ora rallenta ed ora accelera come nei migliori pezzi del songbook di Robinson. Glow si apre acustica sul suono del sarod dell’ospite Alam Khan, che sembra quasi un dobro e poi si apre lentamente in calde volute tra psych e folk o tra oriente ed occidente, serena e quasi austera nella sua inconsueta dolcezza, un altro degli episodi migliori del CD che si chiude con Good To Know uno dei pezzi più freakattoni e jam dell’album, lisergica e sognante, come le tastiere di MacDougall, qui protagoniste e le chitarre di Casal, per rinverdire ancora una volta i suoni  della vecchia California, spesso rievocati in questo album dei CRB.

Bruno Conti

Quasi Black Crowes! The Magpie Salute – The Magpie Salute

the magpie salute

The Magpie Salute – The Magpie Salute – Eagle Rock/Universal 09-06-2017

Da una costola dei “Corvi Neri” ora arrivano le “Gazze”, che peraltro in ornitologia risultano essere della stessa famiglia. E anche musicalmente parlando nei Magpie Salute di “vecchi” Black Crowes ce ne sono ben tre, oltre al tastierista Eddie Harsch, scomparso nel novembre del 2016, ma presente tra i membri fondatori della nuova band ed alle registrazioni dell’album, insieme ai due chitarristi Rich Robinson Marc Ford e al bassista Sven Pipien. In effetti, guardando la foto di copertina, che li riprende di spalle, la formazione del gruppo conta su ben dieci elementi (quasi come la Tedeschi Trucks Band, altro riferimento sonoro, ma senza i fiati): oltre ai nomi citati ci sono anche Matt Slocum alle tastiere, il vocalist di colore John Hogg e il batterista Joe Magistro, tutti provenienti dalla band di Rich Robinson, che aveva registrato l’ottimo Flux lo scorso anno http://discoclub.myblog.it/2016/07/04/era-meglio-se-i-fratelli-rimanevano-insieme-rich-robinson-flux/ . Anzi, da quella band arriva pure la voce femminile di Katrine Ottosen, che insieme a Adrien Reju e Charity White, fornisce il consistente supporto vocale della pattuglia femminile, e per non farsi mancare nulla c’è anche un terzo chitarrista, Nico Beraciartua. Il loro omonimo esordio è stato registrato lo scorso anno dal vivo agli Applehead Studios per la serie delle Woodstock Sessions, mentre il primo brano, un inedito, firmato da Hogg e Robinson, Omission, è stato registrato live in studio, mi pare senza la presenza del pubblico ed il suono è veramente potente, il classico rock alla Crowes, con elementi Led Zeppelin, grazie alla voce di Hogg, e molto southern rock assai robusto robusto, con chitarre e voci ovunque.

Ma è la parte delle “cover” che è il piatto forte del disco, a partire da una Comin’ Home di Delaney & Bonnie che non ha nulla da invidiare all’originale, il classico rock got soul a tutto chitarre, soliste e slide che imperversano, armonie vocali importanti, ritmica solida e le tastiere a “colorare” il sound di Sud, e il pubblico apprezza. A proposito di “casa” What Is Home? era su Before The Frost dei Black Crowes, un altro pezzo tipicamente sudista dove si apprezza il lavoro del piano e dell’organo di Hearsch (o Slocum?), mentre la parte vocale, con molti musicisti impegnati al canto, ha un appeal quasi Westcoastiano, tipo i pezzi più rock di CSNY, con le chitarre più sognanti, ma sempre in tiro ed eccellenti intrecci melodici, d’altronde Ford e Robinson non sono i primi due che passano per strada, e nella lunga parte strumentale lo dimostrano. Wiser Time, da Amorica, in una versione sontuosa, rincara la dose, forse mancano il nome e la voce solista, ma per il resto sono proprio i Black Crowes, e si sente, oltre nove minuti di grande musica a ribadire la classe di questa “nuova” formazione, dove comunque ha sempre molta importanza l’impasto vocale d’assieme, ma l’ugola di Hogg è notevole, però è la parte strumentale che si gode al massimo, con continui assoli e rilanci dei diversi chitarristi, con le tastiere che svolgono un eccellente lavoro di raccordo. Goin’ Down South, una splendida incursione nel jazz, dal repertorio del vibrafonista Bobby Hutcherson, prevede proprio la presenza di questo strumento che apre la lunga parte introduttiva, prima di trasformarsi in una bella jam strumentale, liquida e ricercata, quasi alla Grateful Dead, con le chitarre che conquistano lentamente il proscenio, mentre piano e vibrafono lavorano ancora di fino sullo sfondo, su un eccellente groove della sezione ritmica, mentre il brano sfuma…

E anche War Drums, la cover del pezzo dei War, ha una forte propensione ritmica, con un rotondo giro del basso di Pipien ad introdurre le danze, prima che il tempo latin jazz e precussivo del brano venga sviluppato attraverso gli oltre nove minuti di durata del pezzo, di nuovo con le chitarre in grande spolvero, attraverso una serie di assoli incrociati e triplicati che virano quasi verso il jazz-rock e la fusion e derive santaneggianti. Vista l’aria di Woodstock che si respira nelle sessions non poteva mancare un omaggio alla Band con una ripresa di Ain’t No More Cane, molto rispettosa dell’originale, con gli splendidi intrecci vocali della band di Levon Helm, Rick Danko, Richard Manuel Robbie Robertson (per non parlare di Garth Hudson, ma lui non cantava) rivisti attraverso l’ottica dei Magpie Salute, che in questo brano è molto vicina allo spirito della canzone originale, musica del Sud, registrata nel profondo Nord del continente statunitense, la vera musica “Americana”. E non mancano neppure gli omaggi al lato ispiratore “inglese” dei vecchi Crowes, prima i Pink Floyd, con una bella Fearless, ripresa da Meddle, e di cui viene accentuato lo spirito americano, senza dimenticare il lavoro della slide di Gilmour, qui a cura di Rich Robinson, che canta anche il brano, mentre il lato più “cialtrone” e rock dei “Corvi” è insito nella rivisitazione di Glad And Sorry dei grandi Faces, una sorta di  nostalgica rock ballad che ricordiamo su Ooh La La, nella interpretazione del suo autore, il compianto Ronnie Lane. Come sapete non amo molto il genere, ma la versione di Time Will Tell di Bob Marley & The Wailers, già su The Southern Harmony and Musical Companion dei Black Crowes, in questo Melting Pot di generi musicali ci sta perfettamente e chiude alla grande un ottimo album. Quindi salutiamo la gazza perché Rich Robinson (e la superstizione) ci dicono che non farlo porta male, ma la musica basta e avanza, anche se attendiamo altri capitoli. Esce venerdì 9 giugno anche questo.

Bruno Conti

Nella Saga Delle Bande Southern Rock Fratello E Sorella Mancavano Ancora All’Appello. Thomas Wynn And The Believers – Wade Waist Deep

thomas wynn and the believers wade waist deep

Thomas Wynn And The Believers – Wade Waist Deep – Mascot/Provogue Records

 Questi Thomas Wynn And The Believers sono un sestetto, vengono da Orlando, Florida, quindi in un certo senso doppiamo aspettarci radici sudiste nella loro musica: se poi aggiungiamo che il babbo del leader (e della sorella Olivia, altro importante elemento nella formazione) Tom Wynn, era stato il primo batterista dei Cowboy, storica formazione di southern-rock e county che incideva per la Capricorn, questo sospetto viene confermato. Ok, non è che il batterista fosse un elemento importante in quel gruppo, ma il fatto di essere stati cresciuti da un musicista che per anni aveva gravitato nel giro degli Allman Brothers e di tutti gruppi dell’etichetta di Macon, Georgia, ha avuto un influenza decisiva sugli anni formativi di questa nuova band. Che comunque ha avuto già diverse fasi, prima come Wynn Brothers Band, tra il 2005 ed il 2008, dove accanto a Thomas e al fratello Jordan, c’era pure il padre alla batteria. Finita la prima fase il gruppo si è sciolto, ma subito, nel 2009, e (ri)partita l’avventura come Thomas Wynn & The Believers, arriva la sorella Olivia, come seconda vocalist aggiunta, spesso cantante all’unisono nei brani della band, dove troviamo già anche l’armonicista Chris “Bell” Antemesaris, tuttora in formazione, e registrano un primo album, The Reason nel 2009, e poi Brothers And Sisters nel 2012, doppiamente esplicativo nel titolo, sia per le radici sudiste, sia per il fatto di essere veramente fratello e sorella.

In quell’album arriva anche la nuova sezione ritmica, Dave Wagner, basso e Ryan Miranda, batteria, mentre per completare l’attuale formazione arriva pure, nel 2014, il tastierista Bill Fey. Nel frattempo la band si è creata la reputazione di miglior band di Orlando e zone limitrofe, e vengono notati dalla Mascot che decide di metterli sotto contratto per registrare il loro esordio con l’etichetta, questo Wade Waist Deep. Tra le fonti di ispirazione e le influenze vengono citati anche i Black Crowes, la Band, i Creedence, i Pink Floyd, come al solito praticamente chiunque suoni: ma anche la musica soul, e il gospel, grazie all’educazione religiosa ricevuta in gioventù, oltre a parecchio sano hard rock seventies di buona fattura. Nel nuovo album la prima cosa che salta all’orecchio, ripeto, è questo uso inconsueto delle voci dei due fratelli, spesso utilizzate all’unisono, con un effetto molto gradevole e anche spiazzante. In effetti a tratti sembra quasi di sentire due voci femminili, visto che  Thomas utilizza spesso i suoi registri più alti: prendete l’iniziale Man Out Of Time, un solido groove ritmico, su cui galleggiano le due voci, chitarre e tastiere grintose, un sound che potrebbe rimandare al prog anni ’70, ma anche ai primi album delle Heart, e quindi per proprietà transitiva ai Led Zeppelin; il produttore Vance Powell (White Stripes, Jack White, Chris Stapleton), accentua gli elementi hard, con la chitarra di Wynn che inizia a farsi sentire. Ma nel secondo brano, la title track Wade Waist Deep le radici sudiste prendono il sopravvento, piano elettrico e organo, tocchi di chitarre acustiche, un cantato pieno di soul del bravo Thomas, eccellenti armonie vocali, per una ballata che rimanda alla citata Band o ai Black Crowes più rootsy.

Anche Heartbreak Alley rimane su queste coordinate sonore, un suono elettroacustico, una bella melodia, un sound avvolgente con retrogusti gospel e country, il cantato intenso della coppia e un testo che gronda buoni sentimenti, mentre il sound della band rimane compatto e gagliardo; My Eyes Won’t Be Open svolta ancora di più verso il soul, un’altra bella ballata, che parte sulla voce dei due Wynn, che entrano lentamente sui rintocchi dell’elettrica e delle tastiere, e poi in un crescendo di notevole efficacia catturano l’attenzione dell’ascoltatore, sempre con la tonalità quasi unica del leader che spesso vira quasi su un falsetto appena accennato, mentre la band costruisce arrangiamenti di notevole qualità. Thin Love ricorda nell’andatura qualche elemento dei CCR, ma le voci sono più sognanti e meno travolgenti, con strati di chitarre e tastiere sempre molto vicine ad un sound assai raffinato. I Don’t Regret è un’altra notevole deep soul ballad dove si apprezza la voce espressiva di Wynn (e della sorella), ma anche la potenza d’insieme dei Believers, con un organo gospel e la chitarra che inizia a ruggire, ottimo rock got soul. You Can’t Hurt Me alza la quota rock-blues, doppie chitarre assatanate, ritmica incattivita e le voci che si impennano e, non ce lo eravamo dimenticato, Chris Bell che per la prima volta soffia con vigore nella sua armonica.

Mountain Fog parte acustica e sognante, tipo Led Zeppelin IV, Plant e Sandy Denny, poi alza l’asticella del sound verso derive decisamente più hard, ma di ottima fattura, con le elettriche che iniziano a farsi sentire. Altro momento blues-rock con la gagliarda Burn As One, di nuovo con l’armonica di Bell a dividersi il proscenio con la chitarra di Wynn, e qui più che i Black Crowes mi hanno ricordato band recenti come i Blues Pills. Di nuovo partenza pastorale per una Feel The Good che poi prende un groove incalzante e disvela una volta di più le radici gospel-soul-rock della band, con un travolgente call and response vocale tra i due fratelli, mentre Chris Bell è di nuovo presente all’armonica. Potente anche il rock “robusto” di We Could All Die Screaming dove la band mette in luce il lato più muscolare della propria musica, con le chitarre in overdrive. E pure la violentissima e chitarristica Turn In Into Gold, è un’altra scarica di adrenalinico rock-blues, oltre sette di minuti di poderoso rock che scalda gli animi e ci consegna una “nuova” ottima band da gustare: se vi piacciono SIMO, JJ Grey & Mofro, quel mondo insomma. Esce il 19 maggio.

Bruno Conti

E Questi Sono Giovanotti Veri, Molto Promettenti! Chase Walker Band – Not Quite Legal

chase walker band not quite legal

Chase Walker Band – Not Quite Legal – Revved Up Records

Già lo dichiarano fin dal titolo (e guardando la foto di copertina qualche dubbio sorge subito): ma quanti anni avranno? Chase Walker, California del Nord, data di nascita 16 agosto 1998, chitarrista, cantante ed autore, Randon Davitt, basso e voce e Matt Fyke, batteria, faticano davvero ad arrivare alla maggiore età. Ma sono già al secondo album, il primo Unleashed era uscito nel 2014: nel frattempo il nostro amico ha partecipato anche a The Voice, versione americana. Per fortuna sembra che negli ultimi anni molti baldi giovanotti (mai abbastanza comunque, contro una massa di “fenomeni da baraccone” che appaiono nei cosiddetti talent show) abbiano deciso di tornare al rock, e alla buona musica in generale. Certo sarebbe importante se oltre a gente che la suona, ci fossero anche molti altri giovani che la ascoltano, ma su queste pagine, anche nella nostra funzione di “diversamente giovani” cerchiamo di spargere la buona novella. Proprio di recente vi parlavo della Austin Young Band http://discoclub.myblog.it/2016/11/02/altro-talento-azione-giovane-nome-fatto-austin-young-band-not-so-simple/ , in Inghilterra, anzi Irlanda, sono sbucati gli Strypes, gente che campa a pane Yardbirds, Stones. Dr. Feelgood per gli ultimi, o Albert King, Hubert Sumlin, ma anche Bonamassa e Stevie Ray Vaughan per Austin Young.

Chase Walker e soci si rifanno moltissimo a gente come i Black Crowes, o tornando nel passato i grandi Humble Pie di Steve Marriott, senza dimenticare il nume tutelare di tutti i chitarristi, tale Jimi Hendrix da Seattle, di cui la Chase Walker Band propone una inconsueta versione di Red House. Il brano è un blues lento, lancinante, ispirato dalle 12 battute più classiche, rivisto nell’ottica unica del grande Jimi. Il terzetto di Chase Walker rivisita il brano con un arrangiamento diverso: l’incipit si avvale di una resonator acustica dal corpo d’acciaio (quella che appare nella copertina) e il battito di un piede, quindi proprio blues primigenio che ci permette di apprezzare una voce matura ben oltre i propri anni, poi entra la forza elettrica del brano, anche se la voce filtrata e distorta forse non rende la carica dirompente della canzone, ma l’idea di accelerare il tempo e trasformarlo in un power rock-blues duro e tirato, è vincente, il nostro amico è un chitarrista dal tocco ruvido ma ricco di feeling, innervato da anni di ascolti di rock classico. Già l’apertura di Done Loving You, con l’organo di Drake Murkihaid Shining ad irrobustire ulteriormente il sound sudista che esce dagli ampli, ricorda moltissimo i Black Crowes degli inizi (che non so se già a questa età erano così bravi, forse sì), e non è un brutto punto di partenza. Alcuni brani, quattro, sono prodotti da Gino Matteo, il chitarrista della Sugaray Rayford Blues Band, e l’uso massiccio di armonie vocali spesso è vincente. Il rock grintoso e ad alta densità i riff, ci riporta al sound degli Humble Pie citati all’inizio, Chase Walker ha una voce potente e con la giusta dose di negritudine, e un brano come la rocciosa The Walk sta a testimoniarlo, la chitarra urla e strepita in risposta alla voce e l’atmosfera è quella giusta,  magari sentita mille volte! Pazienza ce ne faremo una ragione.

New State Of Mind, di nuovo prodotta da Matteo, ha un bel suono, ricco di tastiere, anche chitarre acustiche, ottime armonie vocali, una bella melodia, il tutto per una ballata mid-tempo di notevole valore. Pure I Warned You mantiene la stessa pattuglia di musicisti e conferma questo suono tra “roots” ed “Americana”, con i fratelli Robinson come punto di riferimento sonoro e una bella attitudine rock che non tralascia però le melodie. Niente male anche Cold Hearted, altro brano che mescola rock classico e un linguaggio crudo e senza peli sulla lingua nei testi, oltre ad un bel solo nella parte centrale, cosa ribadita nella esplicita Don’t F*** It Up, di nuovo con una bella melodia avvolgente e vincente, niente per cui strapparsi le vesti, ma che denota una buona frequentazione con una musicalità vicina ai “Corvi Neri”, e l’assolo non manca mai. 54- 46 è una cover che non mi sarei aspettato, un brano di Toots And The Maytals, tra reggae e rock, che sinceramente non mi fa impazzire; meglio la riffata Changed cantata dal bassista Randon Davitt, fin troppo basica, mentre It’ll Pass è l’ultimo brano prodotto da Matteo, di nuovo con acustiche e organo ad ampliare lo spettro sonoro verso un southern rock di buona fattura. E l’ultima cover Honey Jar è un pezzo di una formazione, i Wood Brothers, che mi piace moltissimo, anche se questa versione è un po’ irrisolta, e denota le idee a tratti non ancora definite del trio di Chase Walker; anche Living On Thin Ice è un buon pezzo rock, ma irrita l’uso ancora una volta della voce distorta e filtrata, visto che il nostro ha una bella voce e l’assolo di chitarra non risolve il tutto. La hidden track finale Yabba Dabba è una strumentale con voiceover della band, e si salva giusto per l’ottimo lavoro della solista. Insomma i ragazzi sono bravi, ma devono lavorare sulle proprie idee e migliorarsi.

Bruno Conti

Lunga Vita Agli Anni ’70! Rival Sons – Hollow Bones

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Rival Sons – Hollow Bones – Earache Records

Siete in crisi di astinenza per i Led Zeppelin da una quarantina di anni? Vivete a pane e hard-rock anni ’70? Non andate a cercare altrove, il quartetto californiano dei Rival Sons è la vostra panacea. Sono già al quinto album, il quarto prodotto da Dave Cobb (in un paio di brani coinvolto anche come autore), che regala come sempre brillantezza di suoni e ricchezza di particolari nei suoi lavori (anche se la produzione del disco degli Europe del 2015 ce la poteva risparmiare): la copertina, molto bella, questa volta è di Martin Wittfooth, artista canadese, ma residente a Brooklyn, specializzato in singoli ritratti di animali colti nella loro essenza, mentre nell’album del 2011 Pressure and Time avevano utilizzato Storm Thorgerson, quello delle copertine dei Pink Floyd. Il sound si ispira non solo ai Led Zeppelin,  comunque fonte primaria, ma anche ai Deep Purple,  con qualche tocco di Black Sabbath, tra i contemporanei ricordiamo i Cult, i Black Keys più duri, i Soundgarden, e sempre dal passato gli Humble Pie di Steve Marriott, di cui riprendono una cover di Black Coffee, un pezzo del 1972 di Ike & Tina Turner che era su Eat It, ma suonata come avrebbero fatto gli Zeppelin di Plant, ma anche viceversa (non dimentichiamo che You Need Loving degli Small Faces era un diretto antenato di Whole Lotta Love quanto You Need Love di Muddy Waters, ma diciamo che Page e Plant si “ispiravano” spesso ad altri, anche se il risultato finale poi era solo loro).

I Rival Sons arrivano qualche generazione dopo, ma la grinta e l’attitudine giusta ci sono, come dimostra il soul-blues “bastardizzato” del brano, che ci permette di gustare l’ottima voce di Jay Buchanan, cantante dai mezzi notevoli, e il solismo variegato di Scott Holiday, chitarrista di quelli “cattivi”. Come dite? Potrebbero ricordare anche i Black Crowes più duri? Certo, le coordinate sonore sono quelle. Se poi aggiungiamo che hanno pure un eccellente batterista di scuola Bonham come Michael Miley, non vi resta che andarvi a sentire la lunga e poderosa Hollow Bones Pt.2  https://www.youtube.com/watch?v=LtaGtmL5F7E (ma anche la parte 1 non scherza https://www.youtube.com/watch?v=93KFbeGzQAc ) o una Thundering Voices il cui riff assomiglia “leggermente” a Moby Dick, ma senza scomodare i “Corsi e ricorsi storici” di Giambattista Vico, c’è sempre qualcuno che prende e poi rilascia, con piccole modifiche, ma proprio piccole! Però il disco si ascolta volentieri, non è per nulla tamarro o esagerato, loro hanno stamina e grinta, non sono originali? Ce ne faremo una ragione, in fondo chi lo è? Per la serie le”citazioni” non finiscono mai (come pure gli esami) anche il blues elettrico di Fade Out ha più di un legame di parentela con la Beatlesiana I Want You, il lungo brano che chiudeva il primo lato di Abbey Road https://www.youtube.com/watch?v=vQ1uqK13WIA , pur se Buchanan canta come un “disperato” e l’assolo è degno del Page più ispirato e indiavolato. Insomma se la serie televisiva “Vinyl” vi ha ingrifato, qui troverete pane per i vostri denti, o se preferite, trippa per gatti. In conclusione c’è anche une delicata All That I Want, ballata acustica dal leggero crescendo finale che stempera il rock duro e puro di brani come Tied Up, Baby Boy e Pretty Face https://www.youtube.com/watch?v=0G0NUgabdMU . Lunga vita agli anni ’70!

Bruno Conti

Ogni Tanto Ritornano, Per Fortuna! Steepwater Band – Shake Your Faith

steepwater band shake your faith

Steepwater Band – Shake Your Faith – Diamond Day Records

Questo è un disco di rock classico, di quelli veramente belli, forse sentito mille volte, però fatto decisamente bene: si potrebbe dire “chitarre, chitarre, e ancora chitarre (e qualche tastiera, ma poche)”. La Steepwater Band nasce come trio in quel di Chicago sul finire degli anni ’90: agli inizi, per il primo EP Goin’ Back Home, uscito nel 1999, collaborano con il cantautore Michael Connolly (non quello dei libri noir di Harry Bosch), che entrato nella band vi rimarrà fino al 2004. Da allora, e fino al 2012, la band ha continuato come un trio, sotto la guida del cantante e chitarrista Jeff Massey, anche autore dei testi, pubblicando una serie di dischi, in studio e dal vivo, culminata con la pubblicazione dell’antologia Diamond Days, dal nome della loro etichetta. In effetti se i suddetti dischi si trovassero con facilità sarebbe anche un gran bella cosa, ma dobbiamo accontentarci e cercare con pazienza. Anche questo Shake Your Faith, datato 2015 sul libretto del CD, ma comunque uscito già da qualche mese, che presenta per la prima volta su disco la formazione a quattro, con il secondo chitarrista Eric Saylors, entrato nel gruppo nel 2012, che accentua ulteriormente il tiro della band basato da sempre sul suono delle chitarre. Black Crowes e Rolling Stones sono spesso stati citati tra le fondamenta del loro sound, ma anche il rock-blues, un pizzico di southern e psichedelia (evocata pure dalla copertina), accenni agli arcirivali degli Stones, i Beatles, in questo album aggiungerei anche Neil Young, con le sue tipiche cavalcate chitarristiche insieme ai Crazy Horse: sentitevi la traccia di apertura Shake Your Faith e ditemi se non vi ricorda i brani più gagliardi del canadese, quelli dove la sua chitarra e quella di Sampedro intavolano serrati scambi di riff e poi esplodono in lunghi assoli.

Grazie anche alla precisa produzione di Jim Wirt (non notissimo, ma dall’ottima mano, all’opera nel suo studio di Cleveland dove è stato registrato l’album) che aggiunge le tastiere e le sue armonie vocali al sound d’assieme e il disco suona fresco, vivace e vario, sempre rock ma con diverse sfumature di stile. Mama Got To Ramble, sembra quasi, come detto poc’anzi, un pezzo degli Stones o dei Black Crowes (due facce della stessa medaglia), un R&R saltellante dove il piano e le armonie vocali di Wirt aggiungono peso specifico ad un brano che poi decolla sulle ali della slide di Massey; Be As It May è un mid-tempo piacevole che accelera e rallenta a piacere, con qualche tratto beatlesiano, grazie alla slide di Massey che regala accenti quasi alla George Harrison, ma anche ai coretti e alla bella voce del leader. Break, sempre con slide in decisa evidenza, è un altro esempio dell’ottimo rock della Steepwater Band, che poi raggiunge uno dei suoi momenti migliori nella ballata Bring On The Love, con inserti prima vocali e poi psichedelici che ricordano di nuovo i Fab Four del periodo Magical Mystery Tour/Abbey Road, con la chitarra magica di Massey che si sdoppia,  prima in un inciso tra slide e wah-wah e poi in un finale acidissimo con la solista super “lavorata” tra pedali e vibrato. Jealous Of Your Way è di nuovo poderoso rock di chiara marca americana, con le chitarre ancora in grande spolvero e Jeff Massey, che è comunque spesso il solista in tutti i brani, con il suo timbro potente e deciso a marchiare il mood della canzone, mentre l’organo sinuoso di Wirt sullo sfondo aggiunge profondità al sound.

I Will Never Know, con la lap steel e il mandolino di Saylors in primo piano, vira verso territori vicini ad un country-rock molto “alternative” ma di grande impatto, prima di lasciare spazio ad un nuovo cambio di scena con una Walk Into Light dove i riff tirati delle due chitarre giustificano i paragoni con i Black Crowes, prima di esplodere in una bella serie di soli che sono la quintessenza del miglior Rock and Roll, e che ricordano il periodo in cui nella band di Atlanta militava ancora Marc Ford e i duetti con Rich Robinson si sprecavano. Come gli Steepwater confermano ancora nella successiva Gone Goodbye, prima di scatenare il loro muro di chitarre nella lunga Last Second Chance, che parte attendista e poi sviluppa un crescendo micidiale. A chiudere il tutto il funky-rock roccioso di Ain’t Got Love. Se non vi basta, oppore non trovate il disco fisico in circolazione, nella versione per il download ci sono due tracce aggiunte notevoli, la stonesiana Rhapsody In Red e il southern blues-rock di Silver Lining, eccellenti come il resto dell’album.

Bruno Conti

Un Fratello Tira L’Altro. Chris Robinson Brotherhood – Anyway You Love, We Know How You Feel

chris robinson brotherhood any way you love

Chris Robinson Brotherhood – Anyway You Love, We Know How You Feel – Silver Arrow

A poco più di un mese dall’uscita del disco del fratello Rich http://discoclub.myblog.it/2016/07/04/era-meglio-se-i-fratelli-rimanevano-insieme-rich-robinson-flux/, esce, sotto l’egida della fratellanza, o della confraternita, se preferite, il nuovo album di studio di Chris Robinson, Anyway You Love, We Know How You Feel, il quarto in compagnia del suo gruppo, che per questo CD presenta una nuova sezione ritmica, Tony Leone (vecchio collaboratore di Levon Helm, ma anche della figlia Amy negli Olabelle, di recente con Anders Osborne, pure lui provetto mandolinista oltre che batterista) e Ted Pecchio, bassista (con Susan Tedeschi Derek Trucks, Shemekia Copeland e di recente anche con Rich Robinson). Come vedete anche se i fratelli al momento non si frequentano, per certi versi si rincorrono, pur se questo nuovo disco di Chris segnala, in alcuni brani, una sorta di svolta più marcata in direzione di sonorità più funky, soul e roots, evidenziando meno il rock chitarristico e psichedelico dei dischi precedenti, che è comunque presente, Diciamo che sommando i due album solisti dei fratelli Robinson ci avviciniamo molto complessivamente al suono dei Black Crowes, ma se la incompatibilità di carattere, speriamo momentanea, non permette la reunion agognata, accontentiamoci perché entrambi hanno realizzato degli ottimi album.

In effetti  il precedente Phosphorescent Harvest non aveva avuto critiche unanimi favorevoli (anche se al sottoscritto era piaciuto), ma questo nuovo Anyway You Love, We Know How You Feel, per la prima volta prodotto in autonomia dal gruppo, evidenzia come al solito i punti di forza dei Brotherhood, ovvero le chitarre di Neal Casal e le tastiere di Adam MacDougall, oltre alla voce di Chris Robinson, sempre potente e duttile, impegnato anche ad armonica e alla seconda chitarra. Gli ospiti sono un paio, Barry Sless, alla pedal steel, proveniente dal giro Jefferson Starship, oltre che dai Great American Taxi e dalla band di Phil Lesh, nonché Meg Baird, cantautrice e voce solista del gruppo psych-folk Espers (in stand-by dal 2009) alle armonie vocali nell’ottimo brano Forever As The Moon, un ottimo pezzo che mi ha ricordato il suono della Tedeschi Trucks o delle vecchie revue soul-rock di inizio anni ’70, con la slide di Casal veramente efficace nell’aggiungere il consueto retrogusto stonesiano, mentre la voce di Chris stranamente in questa canzone mi ha ricordato il timbro di David Bowie o Elliott Murphy, se mai si fossero cimentati con questo stile. grande canzone, con pianoforte e interventi vocali sontuosi, un bel drive e un approccio roots simile alle ultime prove dei “Corvi”, bene come si diceva il piano di MacDougall e in chiusura piccoil interventi dell’armonica. Che è più utilizzata nell’iniziale Narcissus Soaking Wet, dove si veleggia verso un funky-rock molto seventies, tra clavinet, mouth harp, chitarra con wah-wah e una atmosfera vagamente vicina a certe cose del miglior Stevie Wonder del periodo d’oro (che però sono ormai quasi 40 anni che non fa un disco decente). Le tracce sono sempre tra i cinque e i sette minuti, ma oltre a curare la parte strumentale Chris Robinson si conferma come è sua tradizione ottimo autore di canzoni, perciò non solo grooves, ma pezzi composti da una melodia, un ritornello e quindi con tutti i crismi della buona musica.

Persino quando ritmi e approccio sonoro si avvicinano a quello più jam dei Grateful Dead (grande passione di Casal) o dei loro discepoli Phish, come nella lunga Ain’t It Hard But Fair, il pezzo ha comunque un suo appeal e una piacevolezza acuita anche dalla bravura dello stesso Casal e di MacDougall nel colorire il tutto con classe e misura. Give Us Back Our Eleven Days è una breve traccia strumentale di impronta vagamente “spaziale”, sempre con i Dead in mente, niente di memorabile, mentre la “campagnola” Some Gardens Green, tra chitarre acustiche, tastiere sognanti e un racconto più intimo, è una bella ballata dall’andatura caratterizzata da un leggero affascinante crescendo. Diverso il discorso per Leave My Guitar Alone, che mette in chiaro il contenuto fino dal titolo ed è il pezzo più vicino al classico sound dei Black Crowes, un boogie-rock tagliente dove Neal Casal è libero di dare libero sfogo alla sua chitarra tra riff e soli, ottimi anche il lavoro delle tastiere e il coretto vagamente divertito e beatlesiano. Tastiere di Adam MacDougall che hanno ancora libertà di improvvisare in piccole jam con la chitarra anche nella piacevole Oak Apple Day, di nuova vicina a certi brani di studio dei Grateful Dead. Conclude California Hymn, sulle ali di una sognante pedal steel, un classico suono West Coast (tipico di quei signori barbuti e capelloni che ci guardano dalla copertina del CD) come di più non si potrebbe fare, con tracce country e gospel, oltre all’immancabile roots rock di marca Robinson, ottima conclusione di un album più che positivo. Se fosse il risultato di una partita tra i fratelli Rich e Chris, direi 1-1 palla al centro, un pareggio movimentato e di buona fattura, per entrambi.

Bruno Conti 

P.s Mi scuso ma nel weekend ci sono stati problemi tecnici nel Blog, ed essendo agosto non è stato possibile risolverli. Sperando che non ripetano riprendiamo con nuovi Post.