Una Bella Festa Musicale All’Insegna Del Miglior Country-Rock Californiano. Richie Furay – 50th Anniversary Return To The Troubadour/Deliverin’ Again

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Richie Furay – 50th Anniversary Return To The Troubadour /Deliverin’ Again– DSDK 2CD o DVD

Quando si pensa al country-rock californiano in voga a cavallo tra gli anni 60 ed i 70, la mente va subito agli Eagles (anche se il loro esordio avverrà solo nel 1972) e poi ai Byrds (gli ultimi anni), ai Flying Burrito Brothers e per molti anche a CSN&Y, nonostante nel famoso supergruppo la componente country non fosse molto presente. In pochi invece si ricordano dei Poco (scusate il bisticcio di parole), gruppo formato nel 1968 per iniziativa degli ex Buffalo Springfield Richie Furay e Jim Messina (quest’ultimo era entrato negli Springfield un attimo prima del loro scioglimento) ed autori di alcuni ottimi album specie nel primo periodo fino al 1976 (ma vi parlerà prossimamente del gruppo in maniera più dettagliata Bruno, con una retrospettiva ad hoc). Oggi i Poco sono ancora in vita con una formazione completamente rimaneggiata (l’unico membro presente in tutte le varie lineup, Rusty Young, è passato a miglior vita da neanche un mese, ma comunque si era già ritirato da qualche anno), e quindi l’unico ex componente a tenere alto il vessillo del gruppo è rimasto proprio Furay, che ha appena pubblicato un bellissimo doppio CD dal vivo, 50th Anniversary Return To The Troubadour, che celebra la stagione d’oro della band da lui fondata, e della quale fino al 1973 è stato uno dei principali autori e voci soliste.

A dire il vero in questo live, che documenta una serata speciale al Troubadour di Los Angeles nel 2018, non è ben chiaro cosa venga festeggiato, in quanto i 50 anni del titolo partono in effetti dal ’68, con i nostri che all’inizio si facevano chiamare Pogo ed al Troubadour avevano tenuto i loro primi concerti, ma poi nel secondo CD viene riproposto canzone per canzone il live Deliverin’, uscito in effetti a gennaio del 1971 ma che col Troubadour non c’entra una mazza essendo stato registrato nel 1970 a Boston e New York. Facezie a parte, 50th Anniversary Live At The Troubadour è un album davvero bellissimo, in cui un Richie in ottima forma ci fa rivivere una stagione unica e irripetibile della nostra musica, con una prima parte di concerto, intitolata Still Deliverin’, che offre una panoramica del meglio della sua carriera, mentre nel secondo dischetto (Deliverin’ Again), come ho già detto troviamo l’omaggio al live del ’70. Furay è ancora in possesso di una voce bella e giovanile, e viene accompagnato da una band solidissima che vede sua figlia Jesse Furay Lynch alle armonie vocali, Scott Sellen alle chitarre e banjo, Jack Jeckot alle tastiere, armonica e chitarra, Aaron Sellen al basso, Alan Lemke alla batteria, Dave Pearlman alla steel guitar e dobro e, nella seconda parte, un ospite speciale a sorpresa che vedremo a breve.

Si parte col botto con il classico dei Buffalo Springfield On The Way Home, scritta da Neil Young ma cantata da Richie anche in origine, preceduta da una lunga intro strumentale in crescendo e col ritmo subito alto: grande melodia e refrain, chitarre in palla e coretti che profumano di California. Dal repertorio degli Springfield in questa prima parte Furay suona anche Go And Say Goodbye (di Stephen Stills, ma l’avevano incisa anche i Poco), gustoso country-rock con banjo e chitarre in gran spolvero ed un eccellente ritornello corale, e quattro pezzi dei Poco, a partire dalla splendida Let’s Dance Tonight (dall’album Crazy Eyes, l’ultimo con Richie), rock song di livello assoluto con un motivo solare ed irresistibile, eseguita in modo grintoso e con ottimi intrecci vocali tra padre e figlia (e Furay dimostra di avere ancora l’ugola di un trentenne). Due brani provengono dall’omonimo secondo album della band, la slow ballad Don’t Let It Pass By, distesa, rilassata e con un bell’assolo di armonica, ed una strepitosa rilettura di quasi nove minuti della sontuosa rock ballad Anyway Bye Bye, piena di stop and go, cambi di ritmo, melodia superba, chitarra di Sellen in tiro ed anche un intermezzo pianistico quasi jazzato.

Stranamente Furay sceglie anche una canzone recente dei Poco, e che quindi non gli appartiene: Hard Country proviene dall’ultimo studio album del gruppo All Fired Up (2013), ed è una incantevole ed ariosa country ballad splendidamente eseguita e lasciata alla voce squillante di Jesse, una piccola ed inattesa gemma. Infine Richie propone quattro pezzi dal suo repertorio solista (purtroppo nessuno dal bellissimo The Heartbeat Of Love del 2006), che reggono molto bene il paragone con i pezzi classici, e di cui tre provengono dal suo lavoro più recente Hand In Hand, 2015: la pulsante e coinvolgente We Were The Dreamers, dedicata proprio ai suoi anni nei Poco e con un’altra melodia da applausi, la limpida e toccante ballata Wind Of Change, altri sei minuti di grande musica tra organo, chitarre ed armonie vocali da brivido, e l’incalzante Someday, puro country-rock che dimostra la sicura influenza che il nostro ha avuto sugli Eagles; per finire con il travolgente bluegrass elettrico Wake Up My Soul (una delle bonus track di studio inserite nel disco dal vivo Alive del 2016), ennesimo pezzo delizioso sotto ogni punto di vista, con il banjo ancora sugli scudi.

E veniamo alla seconda parte ed alla riproposizione di Deliverin’, che conteneva ben cinque canzoni inedite, una da Poco, quattro dall’esordio Pickin’ Up The Pieces e due dei Buffalo Springfield. Si inizia con un uno-due decisamente potente e rockeggiante formato da I Guess You Made It e C’mon, entrambe con il solito aroma country di base; a questo punto sale sul palco il già citato ospite, ovvero un applauditissimo Timothy B. Schmit, che dopo l’esordio del 1969 aveva sostituito nei Poco il bassista Randy Meisner (cosa che si ripeterà negli Eagles): il lungocrinito Tim impreziosisce con la sua voce angelica Hear That Music, da lui anche scritta, un altro country-rock assolutamente trascinante. E’ poi la volta della languida country ballad Kind Woman con la steel in grande evidenza, una delle più belle canzoni di Richie, scritta all’epoca degli Springfield per la sua futura moglie (con la quale è ancora insieme dopo 51 anni), seguita da tre pezzi suonati in medley esattamente come sul live del 1970: lo squisito country-grass Hard Luck e le note A Child’s Claim To Fame e Pickin’ Up The Pieces, due canzoni una più bella dell’altra. L’orecchiabile ed avvincente You Better Think Twice è un omaggio del nostro al suo autore Jim Messina, ed è seguita dal ruspante rockin’ country A Man Like Me; finale con un altro strepitoso medley di ben undici minuti che mette in fila Just In Case It Happens, Yes Indeed, lo strumentale Grand Junction e Consequently So Long, in un tripudio di ritmo, chitarre, steel e cori da pelle d’oca. Ma c’è spazio anche per un bis (ancora con Schmit sul palco a duettare con Richie), una fulgida versione della title track dell’album A Good Feelin’ To Know (1972, uno dei più belli dei Poco), che chiude definitivamente un concerto magnifico ed un live che sarà sicuramente tra i migliori dischi dal vivo del 2021.

Marco Verdi

Un Bell’Omaggio Ad Un Autentico “Cult Artist”. VV.AA. – The Years: A Musicfest Tribute To Cody Canada

The Years A Musicfest Tribute To Cody Canada

VV.AA. – The Years: A MusicFest Tribute To Cody Canada – Right Ave/Thirty Tigers CD

Ho ancora nelle orecchie i due splendidi tributi a Merle Haggard e Willie Nelson che già mi ritrovo per le mani un altro concerto dal vivo in omaggio ad un songwriter di derivazione country-rock. Ma se Merle e Willie sono due vere e proprie leggende, il texano Cody Canada (fondatore e leader dei Cross Canadian Ragweed e da qualche anno solista con i Departed come backing band) è un musicista ancora giovane e con molti anni davanti a sè. Accostato più volte ad inizio carriera al movimento Red Dirt, Canada è uno di quelli che sia a capo dei CCR (vi ricorda qualcosa questo acronimo?) sia con i Departed non ha mai sbagliato un disco, e la sua miscela di country e rock è sempre stata sostenuta da una indubbia abilità nel songwriting. In tutto questo non pensavo che Cody fosse stimato a tal punto dai suoi colleghi dal diventare il soggetto di un concerto-tributo: The Years è infatti la trasposizione in CD di uno show registrato tra il 7 e l’8 gennaio 2020 al MusicFest di Steamboat Springs, in Colorado, e nel corso di 18 canzoni per circa 75 minuti di musica offre un’ampia e valida retrospettiva sul songbook di Canada.

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Il disco risulta quindi molto godibile, con una serie di performance acustiche ed elettriche ed un elenco di partecipanti in alcuni casi abbastanza noti ed in altri meno (tutti provenienti da Texas, Oklahoma e dintorni, ma niente superstars), e con la ciliegina della presenza del festeggiato in tre episodi. Apre la serata Parker McCollum con l’arioso country-rock Constantly, subito ritmo spiegato e chitarre al vento https://www.youtube.com/watch?v=43SWB-M6CzE , seguito dalla boogie band texana Copper Chief che rocca alla grande con Bang My Head e viene raggiunta sul palco dallo stesso Canada per una dimostrazione di puro southern rock. La Read Southall Band prosegue all’insegna dell’elettricità con la potente Don’t Need You, tra punk e garage music, e gli ottimi Reckless Kelly si prendono il centro della scena con la ruspante Fightin’ For, coinvolgente rockin’ country chitarristico che ricorda il primo Steve Earle https://www.youtube.com/watch?v=REMSQFRwE5w ; la bella 17 è decisamente più country e Jamie Lin Wilson la canta molto bene, e pure Randy Rogers ci delizia con una This Time Around intensa nonostante la veste sonora spoglia, voce e chitarra. Casey Donahew porta un po’ di spirito folk eseguendo 42 Miles con il solo ausilio di due chitarre ed un violino,

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A differenza del bravissimo Wade Bowen che con l’elettrica ballad di stampo younghiano Sick And Tired ci offre uno dei momenti migliori dello show, mentre sia Mike McClure che Bruce Robison scelgono di presentarsi da soli, riuscendo comunque ad emozionare con le belle Carney Man e Breakdown https://www.youtube.com/watch?v=P4UWrMSNspY . Courtney Patton ha una buona voce e fornisce una valida rilettura di Alabama (anche lei in acustico), ed in “splendid isolation” sono pure William Clark Green con la tenue Johnny’s Song, Bri Bagwell con Run To Me e soprattutto l’ottimo Stoney LaRue che ospita ancora Cody per duettare in maniera decisamente intensa su Broken https://www.youtube.com/watch?v=jhdVkluU_nM , mentre Doug Moreland ci regala uno degli highlights con una splendida e struggente ripresa di On A Cloud, puro folk con elementi irlandesi. Finale ancora acustico con Jade Marie Patek alle prese con la bluesata Dead Man e BJ Barham degli American Aquarium con la toccante The Years, ai quali si aggiunge il bonus finale di Canada che chiude la serata coinvolgendo da par suo il pubblico con una sentita Boys From Oklahoma. Un bel tributo quindi, non certo ai livelli di quelli a Nelson e Haggard ma neppure da ignorare a priori.

Marco Verdi

Non Sono Astrologi Ma Sanno Maneggiare Benissimo Tutti Gli “Elementi” Del Rock. Sister Hazel – Elements

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Sister Hazel – Elements – 2 CD Croakin’ Poets Records

Li avevamo lasciati nel 2016 con il loro ultimo album di studio Lighter In The Dark, presentato come il disco della svolta country, ma in effetti a mio giudizio conteneva i soliti elementi della loro musica, ovvero classic rock, southern rock, roots music e naturalmente country, qualcuno li inserisce anche nell’alternative, ma loro dissentono. A proposito, proprio Elements è il titolo del  nuovo doppio album dei Sister Hazel,, disco che ha avuto una gestazione lunghissima: prima con la pubblicazione di quattro EP, ciascuno dedicato ad uno degli elementi fisici, ovvero Water, Wind, Fire e Earth, usciti tra il febbraio 2018 e il settembre 2019, poi a novembre il disco completo per il download, e in questo periodo infine è stato pubblicato il doppio CD. Una delle particolarità degli EP era che al termine di ogni mini c’era una porzione di circa 1 minuto della title-track Elements che ora costituisce il brano conclusivo della versione fisica. Tra le altre caratteristiche della band, il fatto che i Sister Hazel non hanno mai cambiato formazione, sono sempre gli stessi cinque musicisti che hanno iniziato la loro avventura nel lontano 1993: Ken Block, voce solista e chitarra acustica, Andrew Copeland, seconda voce solista e chitarra ritmica, Ryan Newellchitarra solista, oltre a banjo, dobro e mandolino, Jett Beres al basso, Mark Trojanowski alla batteria.

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Qualcuno ha definito il sound come passatista e già sentito, e ci potrebbe comunque stare: io stesso all’ascolto del primo brano Roll On Bye, ho controllato per vedere se inavvertitamente non avessi inserito nel lettore il primo album degli Eagles, o qualche disco perduto dei Poco, uno stile tra country e rock, una melodia ariosa che profuma di highways sterminate, di strade infinite che partono dagli anni ‘70 e arrivano fino a noi https://www.youtube.com/watch?v=T1RNsMlEZS8 , tra chitarre elettriche pungenti ma ricche di tocchi melodici, a tratti anche mainstream, oltre alle tastiere affidate all’ospite Dave Lagrande, con Copeland, che è l’autore principale, e Block che completa l’asse vocale del gruppo. L’album è godibile nel suo insieme, tutte le 25 canzoni, pur nelle loro differenze stilistiche, confluiscono nel sound globale della band, sia il tocco lievemente “acido” della sospesa First Time, con la slide ricorrente di Newell https://www.youtube.com/watch?v=BLZbyAephUI , oppure la bellissima ballata malinconica di un addio You Won’t See Me Again, che con i dovuti distinguo ricorda quelle di Don Henley, grazie ad una lap steel avvolgente  https://www.youtube.com/watch?v=fr4p27qFW78, oppure la galoppante Shelter, con fiati aggiunti, che ha tocchi errebì https://www.youtube.com/watch?v=zf0hO2-Ltdg , o il country-rock classico di I Stayed For The Girl, sempre con slide e cori in bella evidenza https://www.youtube.com/watch?v=epOSRQ8t9tE .

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E ancora la dolce More Than I Want To, o il R&R solare della deliziosa Come A Day, che ha i profumi della natia Florida, il classico groove rock di Small Town Living, con qualche rimando al conterraneo Tom Petty https://www.youtube.com/watch?v=cTip7CtIr50 , la “riffata” Whirlwind Girl sempre con l’ottimo lavoro della chitarra di Newell, mai troppo esuberante, la delicata elettroacustica In Two, con qualche zucchero di troppo anche nella presenza degli archi, You’ll Be Safe Here ricorda colleghi come Wild Feathers, Reckless Kelly, i primi Needtobreathe, grazie ad un ritornello contagioso, Midnight Again è di nuovo eaglesiana, periodo “pop” centrale, mentre Every Heartbreak posta in apertura del 2° CD è più corale, e con un suono più complesso (ricordiamo che nel disco appaiono un quindicina di musicisti aggiunti), On And On è più grintosa e chitarristica https://www.youtube.com/watch?v=r6h5jQNEX0Y , come pure la successiva Life And Love, di nuovo con la slide in evidenza, assai piacevole anche Fire, con un bel finale chitarristico in crescendo che ricorda i migliori Jayhawks https://www.youtube.com/watch?v=aCyaqPSaQ7w .

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She’s All You Need con un impianto sudista, l’incantevole Here With You, di nuovo con Newell in primo piano, l’elegiaca Raising A Rookie https://www.youtube.com/watch?v=3Vh-7LHhukw , la gagliarda e tirata I Don’t Do Well Alone. Non male la pettyana Slow Lightning o la ballata pianistica Memphis Rain, con rimandi a Marc Cohn e Bruce Hornsby  https://www.youtube.com/watch?v=n8Ta5U1vRZg , lo scandito rock’n’roll Good For You https://www.youtube.com/watch?v=JwcKRD7h8AQ  e in chiusura i due brani più lunghi, Follow The River, con una armonica che ricorda sia Young che Petty https://www.youtube.com/watch?v=1-arNHg9H9E  e la lunga title track, completamente ristrutturata https://www.youtube.com/watch?v=1-arNHg9H9E , divenuta una gloriosa southern song tra country e rock con bella jam finale inclusa.

Bruno Conti

Un Album Molto Bello…E Facciamo Finta Che Sia Anche Nuovo! John Wort Hannam – Love Lives On

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John Wort Hannam – Love Lives On – Rebeltone CD

Se non avevate mai sentito nominare John Wort Hannam state tranquilli, non siete i soli. Quando ho avuto in mano questo Love Lives On da recensire ho provato ad indagare online, e ho scoperto che trattasi di un ex insegnante canadese (originario dell’Alberta, ma nato in UK)) che nel 2001 ha lasciato il suo lavoro per dedicarsi a tempo pieno alla sua vera passione: la musica. Una scelta rischiosa quella di mollare un lavoro sicuro per una professione oggi purtroppo effimera se non hai l’appoggio di una major, ma Hannam è andato dritto per la sua strada, facendo sacrifici ma riuscendo a pubblicare ben sette CD da allora ad oggi, uno dei quali ha addirittura vinto un Canadian Folk Music Award come album dell’anno. Hannam è quindi uno dei segreti meglio custoditi in Canada, ed i suoi dischi non sono facilissimi da reperire: addirittura il lavoro di cui mi occupo oggi, Love Lives On appunto, è datato 2015, e nel frattempo il nostro ha pubblicato nel 2018 Acres Of Elbow Room (finanziato con il crowdfunding, distribuito in proprio e candidato ai Juno Awards, i Grammy canadesi)), che a tutt’oggi è il suo ultimo album https://www.youtube.com/watch?v=Ff9E5ERa6NU .

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Siccome però fino a ieri John era per me un totale sconosciuto, faccio finta che Love Lives On sia nuovo, e devo dire con mia gradita sorpresa che mi sono trovato di fronte ad un artista vero, un songwriter dalla penna sopraffina e decisamente bravo anche come performer. La scuola è quella classica canadese, un songwriting puro e classico di matrice folk, ma il nostro è anche capace di gradite incursioni nel country e nel rock, grazie anche ad una serie di sessionmen (non li nomino, tanto sono altre carneadi) di ottimo livello che cuciono intorno alla voce di John un ricco accompagnamento a base di chitarre acustiche ed elettriche, mandolino, dobro, steel guitar, violino, organo, pianoforte e fiati (oltre ovviamente alla sezione ritmica), un suono coinvolgente ben prodotto da Leeroy Stagger, che è anch’egli un cantautore canadese però maggiormente conosciuto rispetto a Hannam.

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L’album parte bene con Roll Roll Roll, una deliziosa folk song elettrificata con implicazioni tradizionali nella melodia, pochi strumenti, un tamburello a tenere il ritmo ed il violino a doppiare la voce del leader. La mossa Over The Moon è più elettrica, e possiede una melodia limpida che contrasta piacevolmente con una slide che macina riffs sullo sfondo (ed il refrain è di quelli vincenti), Labrador è una ballata fluida basata su voce, chitarra e poco altro, con una bella armonia vocale femminile ed un feeling non comune, a differenza della title track che è un godurioso country-rock chitarristico dalla melodia tersa e decisamente orecchiabile, un brano che ci fa capire che John è un cantautore completo e versatile https://www.youtube.com/watch?v=QgXkH5cn6Fc . Chasing The Song ha il passo lento ma un motivo di base profondo che si sviluppa su più livelli fino all’ingresso spettacolare ed inatteso di una sezione fiati che fa tanto The Band, mentre l’intensa Man Of God è puro folk cantautorale che, vista la terra d’origine del suo autore, paga il giusto tributo all’influenza di Bruce Cockburn, un songwriter del quale ci si dimentica sistematicamente quando si indicano i grandi del pentagramma.

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Gonna See My Love, tesa ed affilata, sta a metà tra folk e blues ed è dotata di un background sonoro che la rende una della più accattivanti del CD, ed ancora più bella è Write Me Back In, una country ballad elettroacustica dalla linea melodica splendida ed un sound molto californiano. Il disco si avvia al termine in deciso crescendo: Heart For Sale è vintage honky-tonk, un brano acustico ma dal ritmo coinvolgente e con un delizioso assolo pianistico da saloon, Molly & Me è un’altra bellissima ballata con organo e fiati che le danno un sapore sudista (e qui l’influenza del leggendario ex gruppo di Robbie Robertson è abbastanza evidente), e la conclusiva Good Nite Nova Scotia è un folk tune puro e cristallino. Quindi un dischetto bello ed inatteso questo Love Lives On, anche se non nuovissimo…ma d’altronde non abbiamo sempre detto che la buona musica è senza tempo?

Marco Verdi

Anche Loro Nella Categoria “A Volte Ritornano”. Firefall – Comet

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Firefall – Comet – Sunset Boulevard

In questo ultimo periodo si sta assistendo al ritorno di alcune band storiche che non pubblicavano dischi nuovi da parecchi lustri: in particolare, in ambito country-rock, abbiamo assistito al ritorno dei Dillards, ed ora arriva il nuovo album dei Firefall, che anche loro non rilasciavano un vero nuovo CD da circa 25 anni. A differenza di altre reunion questa volta la qualità dei lavori è soddisfacente, se non ottima, almeno per i Dillards. I Firefall in particolare nascono da una costola dei Flying Burrito Brothers, la seconda formazione, quella guidata da Rick Roberts, che insieme a Chris Hillman, Bernie Leadon e Skeaky Pete Kleinow aveva registrato lo splendido terzo album omonimo dei FBB. Roberts che poi nel 1972 e 1973 aveva pubblicato due superbi album Windmills e She Is A Song, tra i migliori in assoluto della epopea West Coast, con una lista di ospiti eccezionali. Poi a fine 1973 Rick incontra Jock Bartley, uno dei componenti dei Fallen Angels, la band di Gram Parsons, Mark Andes (Spirit e JoJo Gunne), oltre a Larry Burnett e Michael Clarke batterista del giro Byrds/Burrito.

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Nel 1976 fu pubblicato il debutto omonimo e sempre negli anni ‘70 altri due album, che ottennero un clamoroso successo di vendita nelle classifiche americane. Buoni dischi, dove però il country-rock della band veniva spesso annacquato da forti dosi di pop e soft-rock, anche se la classe di Roberts e le armonie vocali e l’abilità strumentale del gruppo di tanto in tanto venivano a galla, e poi dagli anni ‘80 seguì un lento ed inesorabile declino. Per cui non avevo grandi speranze per questo nuovo Comet, anche alla luce del mancato coinvolgimento di Roberts, e in effetti, pur non essendo di fronte ad un capolavoro, il risultato finale a tratti è molto gradevole, quando il country-rock classico prende il sopravvento. Della formazione originale ci sono Bartley e Andes, oltre al tastierista e sassofonista David Muse, il nuovo entrato Gary Jones alla chitarra e voce, e molti ospiti, tra cui spiccano Timothy B. Schmit, John Jorgenson e John McFee.

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Il primo brano Way Back When avrebbe potuto essere anche il titolo dell’album, un brano di Bartley dalla struttura folk-rock grazie al jingle-jangle byrdsyano, una nostalgica lista di gruppi e musicisti dei tempi d’oro, la chitarra solista guizzante di Jorgenson a sottolineare le belle armonie vocali del gruppo https://www.youtube.com/watch?v=m_WfrgogTXM , valida anche A Real Fine Day di Robbin Thompson, un altro solare esempio del raffinato country-rock di impianto pop, ma ricco di chitarre, della band https://www.youtube.com/watch?v=r5aTMyL6aWM , e pure Hardest Chain, scritta dal batterista Sandy Ficca sprizza questo spirito ottimista del sound, con il flauto di Muse in alternanza alle chitarre, che complessivamente ricorda quello di Loggins & Messina o dei Doobie Brothers https://www.youtube.com/watch?v=8E5y2R20l74 . Tra i brani migliori del CD sicuramente una ripresa della ecologica, allora come oggi, Nature’s Way degli Spirit, cantata da Andes e Timothy Schmitt, con John McFee, proprio dei Doobies, che aggiunge un ulteriore tappeto di chitarre alla deliziosa melodia https://www.youtube.com/watch?v=TBumVS9E8b8 .

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Younger, una ballata con piano ed acustiche in primo piano, soffre di un eccesso di zuccheri e mielosità, che era un difetto anche dei vecchi Firefall https://www.youtube.com/watch?v=muQSJf2mJuo , e pure il pop-rock della leggerina There She Is diciamo che non è memorabile https://www.youtube.com/watch?v=_bo0WvnIULs , meglio, ma non di molto Ghost Town, anche se porta la firma di Tony Joe White, di nuovo troppa melassa https://www.youtube.com/watch?v=DjchxlP1ZMo . Il “nuovo” Gary Jones contribuisce con Never Be The Same, che lui stesso canta, un filo melodrammatica, per essere generosi, mentre nel finale anche Before I Met You di nuovo scritta e cantata da Bartley, al di là di qualche tocco della elettrica è sempre troppo “carica”, lasciando alla conclusiva grintosa e tirata A New Mexico, risposta al vecchio brano di Rick Roberts il compito rialzare il tono del disco https://www.youtube.com/watch?v=RvBTnH8H9kU : al solito, tra luci e ombre, come ai vecchi tempi, alcuni brani eccellenti, altri molto meno.

Bruno Conti

Dopo Un Grande Album In Studio, Ecco Un Ottimo Live. Margo Price – Perfectly Imperfect At The Ryman

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Margo Price – Perfectly Imperfect At The Ryman – Loma Vista/Universal CD

That’s How Rumors Get Started, ultimo album di Margo Price, è stato per il sottoscritto uno dei dischi del 2020 https://discoclub.myblog.it/2020/07/11/nuovi-e-splendidi-album-al-femminile-parte-1-margo-price-thats-how-rumors-get-started/ . Un album profondo e coinvolgente con una serie di canzoni splendide da parte di un’artista matura che è andata oltre i suoi esordi country e si è presentata come una singer-songwriter a 360 gradi, proponendo un sound di stampo californiano vicino a certe cose dei Fleetwood Mac e di Tom Petty. L’album, che doveva uscire agli inizi di maggio, è stato però posticipato a luglio a causa della pandemia, ma per consolare i fans Margo ha pubblicato più o meno nello stesso periodo sulla piattaforma Bandcamp (e quindi solo in formato download) un disco dal vivo inedito intitolato Perfectly Imperfect At The Ryman, registrato nel maggio 2018 presso la mitica location del titolo, vero tempio della musica country a Nashville.

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Ora Margo ha deciso di far uscire l’album anche in CD, e devo dire che l’idea è davvero gradita in quanto ci troviamo tra le mani un ottimo live di puro country-rock elettrico, eseguito dalla Price con piglio da vera rocker, cantato benissimo e suonato da una band coi fiocchi formata dal marito Jeremy Ivey alle chitarre (insieme a Jamie Davis), Micah Hulscher alle tastiere, Luke Schneider alla steel e dobro e con la sezione ritmica formata dal bassista Kevin Black e dal batterista Dillon Napier, oltre ad un nutrito gruppo di backing vocalist e tre ospiti d’eccezione che vedremo a breve. Chiaramente essendo un concerto di più di due anni fa non ci sono le canzoni di That’s How Rumors Get Started, ma una selezione del meglio dei primi due album di Margo ed un paio di cover azzeccate. L’iniziale A Little Pain è una ballata a tempo di valzer ma suonata con molto vigore: la Price possiede una gran voce ed il brano ha un delizioso sapore anni 60, compreso l’assolo chitarristico in stile twang.

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Weekender è una bella canzone dalla tipica melodia country (ricorda parecchio Dolly Parton), ma con un arrangiamento funk-rock che crea un contrasto interessante (e che voce). Il tutto precede la squisita Wild Women, vivace e coinvolgente country-rock con Emmylou Harris che raggiunge Margo per un duetto tutto da godere https://www.youtube.com/watch?v=DetT8QUvp1w . La Price saluta Emmylou ed invita sul palco l’amico Sturgill Simpson (che tra l’altro ha prodotto il suo ultimo disco) per una rilettura tutta ritmo e chitarre del classico di Rodney Crowell I Ain’t Living Long Like This https://www.youtube.com/watch?v=iw1MOT4W6sc , controbilanciato subito dalla tenue e gentile Revelations, mentre Worthless Gold di country non ha praticamente nulla essendo una rock song elettrica e riffata, che dimostra la versatilità di Margo ed anche la sua grinta.

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Il trascinante honky-tonk medley intitolato Hurtin’ (On The Bottle), in cui compare anche un accenno a Whiskey River di Willie Nelson, fa da apripista per una versione inizialmente rallentata e sinuosa dell’evergreen dei Creedence Proud Mary, quasi come se l’autore invece di Fogerty fosse Tony Joe White https://www.youtube.com/watch?v=IYhYhzjugFU , ma poi arriva una decisa accelerata ed il pezzo assume la veste di un travolgente gospel-rock grazie anche al botta e risposta con il Gale Mayes Nashville Friends Choir. Chiusura con All American Made, slow di quasi otto minuti molto intensi per voce, piano e armonica  https://www.youtube.com/watch?v=E9-ORYUNqhw, l’energico rockin’ country Honey, We Can’t Afford To Look This Cheap, in cui Margo duetta con un acclamatissimo Jack White (co-autore del pezzo) https://www.youtube.com/watch?v=ngyvtmMA_6Q , e con la delicata ballata acustica World’s Greatest Loser. Scusate il bisticcio di parole, ma questo Perfectly Imperfect At The Ryman è un live molto “vivo”, ed un altro bel disco per la bravissima Margo Price.

Marco Verdi

Tra Country-Rock E Psichedelia, Un Brillante E Creativo Tuffo Nel Passato! Rose City Band – Summerlong

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Rose City Band – Summerlong – Thrill Jockey

Rinviato nella sua versione fisica per le note problematiche legate al Covid, ma disponibile da qualche tempo nella versione download, ecco Summerlong il nuovo album, il secondo in meno di un anno, per la Rose City Band. Se il nome non vi dice nulla si tratta del side project, del progetto parallelo se preferite, di Ripley Johnson, leader dei Wooden Shjips, con cinque album all’attivo, una delle band contemporanee più importanti nell’ambito neo psichedelico della Bay Area, anche se magari più orientati a tratti verso un suono sperimentale che fonde per certi versi Grateful Dead, Doors e soci, a Velvet Underground, Kraut Rock e gruppi più sperimentali: Johnson ha anche un’altra band, il Moon Duo, che a sua volta ha già pubblicato ben sette lavori, quindi sicuramente non è un personaggio poco prolifico o soggetto a blocchi creativi.

La Rose City Band si rivolge comunque quasi con devozione sempre al suono dei Grateful Dead, magari però quelli più languidi e con forti componenti country, folk e West Coast di Workingman’s Dead, come anche ai New Riders Of The Purple Sage e altri viaggiatori cosmici, con pedal steel guizzanti, mandolini e chitarre acustiche, nonché cori celestiali e deliziosi, come nella bellissima e malinconica, pur se mossa e brillante, iniziale Only Lonely, una piccola perla country-rock. Johnson suona tutti gli strumenti, a parte la batteria affidata a John Jeffrey, socio di Ripley anche nei Moon Duo. Empty Bottles rallenta i ritmi ma rimane sempre in questi territori dove i suoni del Laurel Canyon rimangono la stella polare di Johnson, con acustiche ed elettriche che si muovono felpate, quasi narcolettiche nel loro dipanarsi, a parte nel finale strumentale dove le elettriche anche in modalità wah-wah inscenano una breve e brillante jam.

Modalità improvvisativa che rimane anche nella successiva Real Long Gone, un altro brano spedito tra country e rock and roll, dove Johnson si sdoppia alle chitarre per un pezzo ancora assai godibile e che ricorda il country cosmico dei primi anni ‘70. Floating Out è una solenne ballata dove si apprezza anche il gusto per la melodia del buon Ripley, in grado di maneggiare perfettamente pure questa materia senza dimenticare le derive psych sempre presenti nei suoi album, mentre la breve Morning Light ricorda appunto i Dead di Workingman’s Dead o i New Riders, tra incroci sublimi di pedal steel e chitarre elettriche. Reno Shuflle viceversa è uno dei pezzi più vicini allo stile dei Wooden Shjips, dopo un inizio sempre in territori country, nella parte successiva si torna alle lunghe jam chitarristiche da sempre marchio di fabbrica della band, e anche Wee Hours mantiene questo spirito alla Grateful Dead con le chitarre libere di galleggiare in pieno trip psichedelico, tra profumi di patchouli, barbe e capelli lunghi, quelli di Ripley Johnson, che sembra veramente un figlio illegittimo di Jerry Garcia, anche sul lato artistico, parliamo di un brano veramente splendido, che senza soluzione di continuità poi si riversa nelle volute ancora più intricate dell’altrettanto intrigante Wildflowers.

Tanta “nostalgia” quindi tra i solchi virtuali di questo Summerlong, ma anche tanta buona musica. Esce domani 17 luglio.

Bruno Conti

Buono, Anche Se La “Nuova Svolta” Non Convince Del Tutto. Jayhawks – XOXO

jayhhawks XOXO

Jayhawks – XOXO – Sham/Thirty Tigers CD Deluxe

Prosegue il filotto di uscite dei Jayhawks diciamo Mark III: terzo album del post Marc Olson https://discoclub.myblog.it/2018/07/30/la-cura-ray-davies-ha-fatto-loro-molto-bene-the-jayhawks-back-roads-and-abandoned-motels/  e undicesimo disco di studio complessivo. Come annunciato, promesso e “minacciato”, Gary Louris per l’occasione di questo XOXO manda “Baci e abbracci” ai fans, e come ricorda lui stesso in alcune interviste, dove scherzando dice anche “XOXO è Elliott Smith, parte seconda!, visto che il compianto cantautore americano aveva pubblicato un CD intitolato XO. Non so molto dei dettagli del CD, visto che lo sto recensendo parecchio prima dell’uscita prevista intorno a metà luglio (e non ho fatto ritocchi al Post, in occasione dell’uscita avvenuta il 10 luglio), se non che oltre a Marc Perlman sono della partita anche Karen Grotberg e Tim O’Reagan che dovrebbero firmare l’album collettivamente con Louris, oltre ad essere anche spesso e volentieri le voci soliste del CD, in quanto lo stesso Gary in questo periodo è stato impegnato anche nella preparazione e stesura di un prossimo disco solo. Il nuovo album ha avuto una lunga fase di preparazione lo scorso anno, con Louris che andava e veniva dal North Carolina dove vive, per sessioni di scrittura e jam preparative, poi il disco è stato registrato a novembre del 2019 ai Pachyderm Studios di Cannon Falls e completato ai Flowers Studios sempre nel Minnesota.

Di solito il 90% del vecchio materiale era cantato dal nostro amico https://discoclub.myblog.it/2016/04/26/anche-senza-marc-olson-sempre-quasi-paging-mr-proust/  che questa volta lascia spazio ai suoi pard, devo dire con risultati, alterni, in quanto il nuovo CD è ondivago: se This Forgotten Town è puro e classico Jayhawks sound, con le loro inconfondibili armonie vocali corali e Louris e O’Reagan che si alternano come voce guida, pedal steel celestiali e grande assolo di chitarra, ben sostenuto dal piano e dall’organo dello Rotberg, la riffata Dogtown Days, scritta da O’Reagan alza subito la quota rock, contraddistinta da una spinta più power pop grazie alla solista riverberata di Louris, mentre Living On A Bubble, firmata dal solo Gary, ha il classico imprinting beatlesiano, con pianino saltellante della Grotberg e sonorità dei tardi Beatles, Abbey Road o giù di lì, con tutti i Jayhawks che la cantano.

Ruby conferma il talento di interprete ed autrice di Karen che sempre più si rivela pure ottima cantante, specie quando è alle prese con queste ballate struggenti, dove la sua voce viene anche filtrata a tratti. Homecoming ha sempre il tocco tipico della band, ma con un’aura di psichedelia gentile aggiunta e quel dono di saper incorporare il pop più raffinato nelle loro canzoni, con Louris, di nuovo autore unico, che aggiunge il solito assolo di chitarra, anche se forse il risultato finale è fin troppo lavorato.

Meglio la più immediata Society Pages, anche se finora si sente la mancanza della componente più rootsy della band, a favore di un sound che ricorda certe sonorità alla Jeff Lynne, qui rappresentate dall’autore O’Reagan. Le chitarre acustiche e il piano di Illuminate rimangono comunque ancora in queste coordinate sonore di pop molto ricercato, ribadite nelle complesse volute sonore della corale Bitter Pill. La Grotberg canta anche in Across My Field, calda ballata pianistica che potrebbe ricordare lo stile di Aimee Mann, un’altra che sa coniugare pop raffinato e canzone d’autore. Little Victories, con un giro di basso trascinante e una chitarra grintosa, ben sostenuta dall’organo, è ancora cantata coralmente da tutta la band, formula ripresa anche in Down To The Farm, più vicina ad un folk pastorale ed acustico, rappresentato dall’autore Marc Perlman. Looking Up Your Number solo voce, presumo O’Reagan, e chitarre acustiche arpeggiate, chiude la versione standard dell’album su una nota gentile.

Nelle tre bonus della versione Deluxe Jewel Of The Trimbelle è una ulteriore ballata pianistica cantata dalla Grotberg, con abbellimenti vocali e strumentali del resto della band, Then You Walked Away di Louris ricorda certo prog elegante anni ‘70, Caravan o primi Genesis, piacevole ed affascinante e Hypocryte’s Lament, dell’accoppiata Louris/Perlman, ma cantata a due voci dalla Grotberg, anche al piano e da Gary, che per l’occasione suona l’armonica, è un ulteriore gioiellino acustico dell’album, che in effetti però si discosta fin troppo dal suono della band, buono complessivamente, ma non entusiasma, mi aspettavo di più.

A breve, nei prossimi giorni, per rimembrare il passato, articolo retrospettivo in due parti sulla carriera discografica dei Jayhawks, anche con breve spazio sulle carriere soliste di Olson e Louris.

Bruno Conti

Signore E Signori: Il Disco Dell’Estate 2020! Jimmy Buffett – Life On The Flip Side

jimmy buffett life on the flipside

Jimmy Buffett – Life On The Flip Side – Mailboat CD

Jimmy Buffett è un personaggio abbastanza unico nel panorama musicale americano: originario dell’Alabama (ma nato in Mississippi), cantautore di stampo classico dichiaratamente ispirato a James Taylor, ha sviluppato fin dai primi anni una passione per i suoni ed i ritmi delle isole caraibiche, creando un sound gioioso e solare in cui le steel drums hanno una parte determinante e perfezionando una lunga serie di album perfetti da ascoltare durante i mesi estivi, con canzoni dai testi spesso ironici ispirati al dolce far niente ed alla fuga dalla dura realtà quotidiana. Il suo songbook è ricco di classici del calibro di Margaritaville, Volcano, One Particular Harbour, Cheeseburger In Paradise, Fins, Come Monday, Changes In Latitudes, Changes In Attitudes e molti altri, ed anche le sue esibizioni dal vivo sono famose, con decine di migliaia di fans presenti ad ogni concerto (noti come “Parrotheads”): tutto ciò ha reso il nostro molto più popolare in America che dalle nostre parti, ed infatti in Europa (Parigi a parte) non viene praticamente mai. Negli ultimi anni Buffett ha parecchio diradato la sua produzione discografica, con un solo album pubblicato nella decade appena trascorsa (a parte il natalizio ‘Tis The SeaSon del 2016 https://discoclub.myblog.it/2016/11/30/caraibi-tradizione-due-modi-diversi-celebrare-il-natale-jimmy-buffett-tis-the-seasonloretta-lynn-white-christmas-blue/ ), l’ottimo Songs From St. Somewhere che era il seguito dell’altrettanto valido Buffet Hotel del 2009.

Life On The Flip Side segna quindi il più che gradito ritorno di Jimmy, e fin dalla confezione esterna (un elegante slipcase che contiene il CD in digipak ed un libretto di ben 62 pagine con foto, testi ed esaurienti note brano per brano) si capisce che il nostro ha fatto le cose in grande. Il layout mi ricorda parecchio quello di Fruitcakes, disco del 1994 che non a caso è per il sottoscritto il suo migliore in assoluto (insieme a Last Mango In Paris del 1985 e License To Chill del 2004), e la cosa di cui però mi compiaccio maggiormente è che, una volta ascoltato l’album, posso affermare di avere tra le mani uno dei lavori più belli di Buffett, e di certo il suo migliore dallo stesso License To Chill in poi. Jimmy è accompagnato come sempre dalla Coral Reefer Band, un formidabile ensemble di ben 12 tra musicisti e coristi (tra i quali spiccano i chitarristi e songwriters per conto proprio Mac McAnally e Will Kimbrough, il tastierista e direttore musicale Michael Utley, lo steel drummer Robert Greenidge e la fantastica sezione ritmica formata da Jim Mayer al basso, Roger Guth alla batteria ed Eric Darken alle percussioni), ma quello che rende Life On The Flip Side un gradino sopra altri lavori di Buffett è proprio l’eccellente qualità delle 14 canzoni, con il nostro responsabile da solo o con altri (soprattutto Kimbrough e McAnally) di un buon 80% del totale; come ulteriore ciliegina abbiamo il coinvolgimento di Lukas Nelson in un pezzo e, in ben tre canzoni, del noto cantautore irlandese Paul Brady, il quale mostra un’insolita vena gioiosa e “vacanziera”.

Inizio splendido proprio con uno dei brani che vede Brady collaborare sia alla scrittura che ai cori: Down At The Lah De Dah è un irresistibile pezzo country caraibico e solare tra i più belli e diretti mai pubblicati da Jimmy, una vera gioia per le orecchie con uno di quei motivi che non escono più dalla testa. Avvio strepitoso, sentire per credere. Who Gets To Live Like This vede la partecipazione di Nelson alla stesura del pezzo (ed ai cori), per una gradevole canzone di stampo reggae e con una linea melodica rilassata e godibile tipica di Jimmy (non manca l’assolo di steel drums); con The Devil I Know “sconfiniamo” in una ballroom texana, per un country’n’roll tutto ritmo e godimento sonoro, con il leader che mostra di divertirsi non poco (e noi con lui), mentre The Slow Lane è un’ariosa ballata con la slide che dona un sapore southern anche se l’elemento reggae non tarda a manifestarsi, un cocktail da gustare tutto d’un fiato. Cussin’ Island non cambia registro, siamo sempre in spiaggia con un margarita in mano ed una palma a farci ombra, Oceans Of Time (secondo brano di Brady, già noto nella versione del suo autore) è invece una splendida ballata lenta di stampo country, suono pieno e melodia avvolgente, tra le più belle del CD. La cadenzata Hey, That’s My Wave, caratterizzata da un ottimo refrain corale, fa tornare la voglia di prendere un volo per le Bahamas (la canzone è dedicata alla memoria di Dick Dale, e non manca un assolo chitarristico di stampo surf).

The World Is What You Make It è il terzo brano di Brady (risalente al 1995), con Paul stesso che duetta assieme a Jimmy e la Coral Reefer Band a fornire un background decisamente rock con le chitarre in primo piano, mentre la divertente Half Drunk ha un raffinato arrangiamento laidback dal sapore dixieland, un tipo di sound in cui il nostro si muove con classe ed eleganza. Mailbox Money è un country-rock elettrico e coinvolgente con un altro di quei ritornelli che non si staccano dalle orecchie, al contrario di Slack Tide che è una deliziosa ballad guidata dalla chitarra acustica e dal pianoforte, un brano che fa emergere il Buffett cantautore “serio”, non di certo inferiore a quello festaiolo. Il CD volge al termine, ma c’è ancora tempo per una doppia full immersion nei ritmi e colori delle isole del Mar dei Caraibi (la bellissima Live, Like It’s Your Last Day, vero riassunto in un titolo della filosofia di vita buffettiana, e la spassosa e trascinante 15 Cuban Minutes) e per il finale intimo e toccante di Book On The Shelf, intensa ballata nobilitata da una fisarmonica sullo sfondo nella quale il nostro dichiara di non avere ancora voglia di appendere la chitarra al chiodo. E questa è una gran bella notizia, perché soprattutto in questi momenti difficili c’è sempre più bisogno di dischi come Life On The Flip Side, in grado di farci trascorrere un’oretta di piacevole spensieratezza.

Marco Verdi

Tom Petty Avrebbe Approvato! Coffis Brothers – In The Cuts

coffis brothers in the cut

Coffis Brothers – In The Cuts – Blue Rose Music

Si pronuncia come “caffè” al plurale, ma si scrive Coffis Brothers, ovviamente sono fratelli, Jamie e Kellen, vengono dalle Santa Cruz Mountains, nord California, questo In The Cuts è il loro quarto album, incidono per la Blue Rose Music (da non confondere con la quasi omonima etichetta tedesca), la stessa che pubblica anche i dischi di https://discoclub.myblog.it/2020/05/25/altro-che-facile-compitino-portato-a-termine-questo-e-piuttosto-un-vero-atto-damore-steve-forbert-early-morning-rain/ , il CD non è di facile reperibilità, viene venduto direttamente da loro o sul sito della etichetta https://www.coffisbrothers.com/product-page/in-the-cuts e per chiosare direi che sono bravi, almeno a giudicare da quello che ho ascoltato. Sono stati prodotti da Tim Bluhm, storico leader dei Mother Hips e compagno di etichetta, niente di nuovo, ma ottimo roots rock con rimandi a Byrds, Tom Petty e Jayhawks e anche, in piccolo, ad altre band di fratelli, come gli Everly Brothers. Chitarre spiegate e belle armonie vocali sono le cose che si notano fin dal primo ascolto, ma pure l’uso dell’armonica e delle tastiere, affidate al cantante principale Jamie Coffis, mentre il fratello Kellen Coffis è uno dei due chitarristi, insieme all’ottimo Kyle Poppen, anche alla 12 corde, per quel jingle-jangle sound che ogni tanto affiora; completano la formazione Aidan Collins al basso e Sam Kellerman alla batteria. Sono stati scomodati anche gli Avett Brothers e il primo Neil Young, quindi direte voi, con tutti questi nomi che ballano, “sound derivativo”, ma se deriva bene in fondo che ce ne frega!

In ogni caso questo In The Cuts si apre con Beating Myself Up, riff stonesiano all’inizio, che poi si stempera in un potente brano rock classico, con chitarre e organo a ruotare intorno alle eccellenti armonie vocali dei due fratelli, la sezione ritmica in grande spolvero e continui rilanci della solista, mentre anche Makes No Difference, alla luce di quanto detto è decisamente pettyana, quello del primo periodo influenzato anche dal jingle jangle dei Byrds, con le chitarre riverberate a rincorrersi sui canali dello stereo, mentre tastiere ed armonica completano la coloritura sonora, In My Imagination è un mid-tempo piu gentile e rilassato, un omaggio anche testuale al sound ed alle atmosfere della California, con qualche richiamo nelle celestiali armonie vocali anche a Beatles e Beach Boys.Real Thing di nuovo con chiari riferimenti a Petty ed ai suoi Heartbreakers anche nelle inflessioni vocali (ma si è capito), è comunque più grintosa e tirata, sempre con chitarre e organo impegnati in continui fendenti reciproci, quota rock che si innalza vieppiù nel power pop travolgente e feroce di una potente Too Good To Let Go, dove la band tira di brutto e la solista rilascia un paio di sventagliate veramente “cattive” il giusto.

Take Me è un vivace pezzo country-rock, con una melodia incisiva che ricorda Jayhawks e Avett Brothers evocati poc’anzi, con i coretti caratteristici del gruppo comunque in bella evidenza, per poi tornare una volta di più in Other Side al sound del nostro amato biondo della Florida, sempre faro imprescindibile delle scelte stilistiche sonore del quintetto che peraltro armonizza costantemente come se non ci fosse un domani. Anche Do You Think About Me è sempre su queste coordinate sonore, tra power pop melodico e delicati influssi westcoastiani perfettamente inquadrati dalla produzione curatissima e ricca di dettagli di Bluhm, con tutti gli strumenti perfettamente delineati come pure l’uso squisito delle voci. Right Love ha un sound molto sixties, dolce e nostalgico, sempre con quei coretti immancabili e un assolo di chitarra assolutamente incantevole come la canzone, per poi scatenare la potenza di fuoco della band nell’incitazione didascalica di Play It Loud, che ci incita ad eseguire quanto richiesto a furor di chitarre.

We Will Meet Again faceva già parte del repertorio del gruppo prima dell’apparire del virus, ma forse vuole essere comunque una esortazione alla speranza in questa ballatona avvolgente, prima della chiusura affidata alla vivace Bye Bye Susie, una canzone che ai tempi avrebbe fatto parte delle cosidette “answers song”, con continue citazioni degli amati Everlys, e con un delizioso uso della slide da parte di Kyle Poppen. Vi dovete fidare, perché di video dei brani recenti non se ne trovano, oppure potete ascoltare le canzoni dell’album seguendo questo link https://www.coffisbrothers.com/music.

Bruno Conti