Un Lavoro Fatto Con L’Amore Dei Fans. The Steel Wheels – Everyone A Song Vol. One

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The Steel Wheels – Everyone A Song Vol. One – Big Ring CD

Pur non essendo mai entrati nelle parti alte della classifica, gli Steel Wheels sono ormai uno dei più affermati gruppi roots americani essendo in giro da più di quindici anni. Originari delle Blue Ridge Mountains in Virginia, i nostri fanno parte dell’apprezzato movimento delle “string bands” che ha come capostipiti Old Crow Medicine Show, Avett Brothers e Trampled By Turtles, anche se il loro approccio non è del tutto tradizionale dal momento che amano inserire spesso e volentieri una strumentazione elettrica, per non dire rock. Nel 2020 il quintetto (Trent Wagler, voce, chitarra e banjo, Jay Lapp, mandolino e chitarra, Eric Brubaker, violino, Brian Dickel, basso e Kevin Garcia, batteria e tastiere) non aveva in programma un nuovo album, dal momento che Over The Trees era ancora abbastanza recente, ma la pandemia ed il lockdown hanno dato al gruppo una brillante idea: hanno infatti aperto una piattaforma online a disposizione dei fans, ognuno dei quali avrebbe postato la richiesta di una canzone da dedicare ad una persona amata o ad un parente o amico portato via dal virus, canzone che poi la band avrebbe dovuto appositamente scrivere ed incidere.

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L’iniziativa, decisamente originale e lodevole, ha avuto un bel successo, cosa che ha “costretto” i nostri a scrivere più canzoni del previsto e ad inciderle rispettando le regole del lockdown (quindi ognuno a casa sua, per poi mixare tutto alla fine): Everyone A Song Vol. One è dunque la prima testimonianza tangibile di questa bella iniziativa, un dischetto nel tipico stile degli Steel Wheels, ma con i testi personalizzati a seconda del destinatario, che è stato anche diligentemente indicato sul retro della confezione. Nove belle canzoni, spesso malinconiche visti i presupposti non certamente allegri, ma che in più di una occasione sono portatrici di un gradito raggio di sole. L’iniziale My Name Is Sharon è una rock ballad suonata con strumenti tradizionali (ma non mancano né la sezione ritmica né la chitarra elettrica), con un motivo corale di matrice folk lento e nostalgico ed il violino ad insinuarsi nelle pieghe del suono https://www.youtube.com/watch?v=Nv_SaDhCvJc . The Healer, tra folk e bluegrass, è guidata da banjo, mandolino e violino e conserva una certa malinconia di fondo, al contrario di Don’t Want To come Back Down che pur mantenendo un ritmo lento ha un background sonoro solare e leggermente reggae.

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The Man Who Holds Up The World è un pezzo godibile che fonde molto bene country, folk ed un pizzico di cajun (vedo l’influenza della Band), voci limpide e melodia diretta e piacevole https://www.youtube.com/watch?v=tNfx4dwz34s , Water And Sky è nuovamente uno slow ma stavolta lo script è di qualità superiore, una splendida via di mezzo tra una folk song alla Woody Guthrie ed il brano Evangeline appunto della Band, mentre Florida Girl (Work For It) è una rock ballad elettrificata con un suggestivo uso delle voci ed un accompagnamento decisamente “californiano” https://www.youtube.com/watch?v=9n0fNUWdPbw . Lucy è country-grass puro e limpido, con i nostri che dopo un inizio attendista si lanciano in una canzone dal ritmo acceso e coinvolgente, e precede le conclusive Genevieve, altra ballatona di grande spessore, struggente e bellissima https://www.youtube.com/watch?v=SdhDop9xy5Y , e l’acustica e profonda Family Is Power, contraddistinta dall’ennesimo motivo di ottimo livello. Un dischetto riuscito ed originale quindi, scaturito da una encomiabile iniziativa che ha permesso agli Steel Wheels di stare vicino ai propri fans nonostante il distanziamento obbligato.

Marco Verdi

Non Solo Blues Per La Talentuosa Ed Eclettica Cantante Canadese. Layla Zoe – Nowhere Left To Go

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Layla Zoe – Nowhere Left To Go – Layla Zoe Music

Verso la metà della scorsa decade, tra il 2016 e il 2017, Layla Zoe ha goduto di una improvvisa ed inaspettata popolarità, almeno tra gli appassionati, venendo nominata Best Vocalist Of The Year agli European Blues Award, pur essendo canadese e, aggiungo io, non proprio più una giovane promessa (all’epoca aveva superato già i 35 anni e facendo due calcoli, essendo nata a Victoria B.C, Canada sul finire degli anni ‘70, non è dato sapere la data esatta, ha superato oggi i 40): si diceva della fama in quegli anni, generata da due ottimi album usciti per la Ruf, uno in studio e un Live, oltre al collettivo Blues Caravan 2016, insieme a Tasha Taylor e a Ina Forsman, che considero la migliore del trio, ma anche Layla ha parecchie frecce al suo arco https://discoclub.myblog.it/2017/03/05/ancora-una-volta-lunione-fa-la-forza-ina-forsman-tasha-taylor-layla-zoe-blues-caravan-2016-blue-sisters-in-concert/ , sviluppate in una carriera di oltre 25 anni e 15 album pubblicati, incluso questo nuovo Nowhere Left To Go, che la vede tornare alla distribuzione in proprio, come nei primi anni, e quindi con reperibilità abbastanza scarsa.

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La Zoe è in possesso di una voce potente ed espressiva, diciamo dalle parti di Beth Hart e Dana Fuchs, due ragazze cresciute a pane e Janis Joplin, e anche Zoe si ispira parzialmente a quell’approccio, ma inserisce anche tematiche più hard, i Led Zeppelin e ovviamente Robert Plant sono due modelli, ma non manca l’amore per soul e R&B, qualche tocco gospel e tanto blues. Come autori e musicisti Layla si fa aiutare da alcuni altri talenti emergenti come Jackie Venson, una cantante e chitarrista texana di quelle toste, Alastair Greene, altro chitarrista e cantante californiano, il conterraneo Dimitri Lebel, tutti presenti nell’album, insieme ad altri musicisti canadesi e olandesi che hanno dato il loro contributo da remoto, causa pandemia, visto che il disco è stato realizzato durante il 2020 ed esce ad inizio 2021, uno dei primi, ma il risultato è comunque organico e caldo, come si evince dalla intensa Pray, scritta con la Venson, e dalle chiare influenze gospel, una vivida canzone pianistica dove si gusta la voce poderosa della Zoe, irrobustita da cori di supporto e un organo hammond old school https://www.youtube.com/watch?v=ErgsFlJysnY , mentre la title track, firmata sempre con la Venson vira verso il blues (rock) per un mid-tempo robusto e roccioso, con le chitarre che “riffano” di gusto e Layla che inizia a dare libero sfogo alle sue emozioni, prima di lasciare spazio ad un assolo grintoso  https://www.youtube.com/watch?v=s74hqwj3CqQ .

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Sometimes We Fight è una deep soul ballad, di nuovo con uso organo e un bel assolo di armonica https://www.youtube.com/watch?v=y0G2em_beIM , Don’t Wanna Help Anyone, scritta con Greene, che si dà da fare alla solista, illustra il lato più duro, tra Hendrix e Zeppelin, con chitarre a manetta https://www.youtube.com/watch?v=VB7WpWvBp_E , This Love Will Last con Lebel, rivela di nuovo influenze di musica nera, un R&B sempre intinto da elementi rock nella voce, che si fa più tenera ma assertiva nel barrelhouse blues pianistico di Susan, più jopliniano e di nuovo rock a manetta nella funky Little Boy, dove Layla lascia andare di nuovo la voce, che ritorna di nuoo più tenera e naturale, meno esagerata, nella deliziosa Might Need To Fly, che comunque si anima in un bel crescendo che culmina in un ruvido assolo di chitarra https://www.youtube.com/watch?v=CeKJO0IiDdM . Lies, dove la Zoe è accompagnata solo dal suono di un contrabbasso, si avventura in atmosfere più jazzy e raffinate https://www.youtube.com/watch?v=ddz9cP48yC8 , per chiudere con Dear Mom, una incantevole canzone dove chitarra acustica, mandolino e violino illustrano questo lato più roots della nostra amica, a suo agio anche in un ambito più raccolto https://www.youtube.com/watch?v=OONF5zIxPzw . Non solo blues quindi, per una cantante talentuosa ed eclettica.

Bruno Conti

Non Sono Astrologi Ma Sanno Maneggiare Benissimo Tutti Gli “Elementi” Del Rock. Sister Hazel – Elements

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Sister Hazel – Elements – 2 CD Croakin’ Poets Records

Li avevamo lasciati nel 2016 con il loro ultimo album di studio Lighter In The Dark, presentato come il disco della svolta country, ma in effetti a mio giudizio conteneva i soliti elementi della loro musica, ovvero classic rock, southern rock, roots music e naturalmente country, qualcuno li inserisce anche nell’alternative, ma loro dissentono. A proposito, proprio Elements è il titolo del  nuovo doppio album dei Sister Hazel,, disco che ha avuto una gestazione lunghissima: prima con la pubblicazione di quattro EP, ciascuno dedicato ad uno degli elementi fisici, ovvero Water, Wind, Fire e Earth, usciti tra il febbraio 2018 e il settembre 2019, poi a novembre il disco completo per il download, e in questo periodo infine è stato pubblicato il doppio CD. Una delle particolarità degli EP era che al termine di ogni mini c’era una porzione di circa 1 minuto della title-track Elements che ora costituisce il brano conclusivo della versione fisica. Tra le altre caratteristiche della band, il fatto che i Sister Hazel non hanno mai cambiato formazione, sono sempre gli stessi cinque musicisti che hanno iniziato la loro avventura nel lontano 1993: Ken Block, voce solista e chitarra acustica, Andrew Copeland, seconda voce solista e chitarra ritmica, Ryan Newellchitarra solista, oltre a banjo, dobro e mandolino, Jett Beres al basso, Mark Trojanowski alla batteria.

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Qualcuno ha definito il sound come passatista e già sentito, e ci potrebbe comunque stare: io stesso all’ascolto del primo brano Roll On Bye, ho controllato per vedere se inavvertitamente non avessi inserito nel lettore il primo album degli Eagles, o qualche disco perduto dei Poco, uno stile tra country e rock, una melodia ariosa che profuma di highways sterminate, di strade infinite che partono dagli anni ‘70 e arrivano fino a noi https://www.youtube.com/watch?v=T1RNsMlEZS8 , tra chitarre elettriche pungenti ma ricche di tocchi melodici, a tratti anche mainstream, oltre alle tastiere affidate all’ospite Dave Lagrande, con Copeland, che è l’autore principale, e Block che completa l’asse vocale del gruppo. L’album è godibile nel suo insieme, tutte le 25 canzoni, pur nelle loro differenze stilistiche, confluiscono nel sound globale della band, sia il tocco lievemente “acido” della sospesa First Time, con la slide ricorrente di Newell https://www.youtube.com/watch?v=BLZbyAephUI , oppure la bellissima ballata malinconica di un addio You Won’t See Me Again, che con i dovuti distinguo ricorda quelle di Don Henley, grazie ad una lap steel avvolgente  https://www.youtube.com/watch?v=fr4p27qFW78, oppure la galoppante Shelter, con fiati aggiunti, che ha tocchi errebì https://www.youtube.com/watch?v=zf0hO2-Ltdg , o il country-rock classico di I Stayed For The Girl, sempre con slide e cori in bella evidenza https://www.youtube.com/watch?v=epOSRQ8t9tE .

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E ancora la dolce More Than I Want To, o il R&R solare della deliziosa Come A Day, che ha i profumi della natia Florida, il classico groove rock di Small Town Living, con qualche rimando al conterraneo Tom Petty https://www.youtube.com/watch?v=cTip7CtIr50 , la “riffata” Whirlwind Girl sempre con l’ottimo lavoro della chitarra di Newell, mai troppo esuberante, la delicata elettroacustica In Two, con qualche zucchero di troppo anche nella presenza degli archi, You’ll Be Safe Here ricorda colleghi come Wild Feathers, Reckless Kelly, i primi Needtobreathe, grazie ad un ritornello contagioso, Midnight Again è di nuovo eaglesiana, periodo “pop” centrale, mentre Every Heartbreak posta in apertura del 2° CD è più corale, e con un suono più complesso (ricordiamo che nel disco appaiono un quindicina di musicisti aggiunti), On And On è più grintosa e chitarristica https://www.youtube.com/watch?v=r6h5jQNEX0Y , come pure la successiva Life And Love, di nuovo con la slide in evidenza, assai piacevole anche Fire, con un bel finale chitarristico in crescendo che ricorda i migliori Jayhawks https://www.youtube.com/watch?v=aCyaqPSaQ7w .

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She’s All You Need con un impianto sudista, l’incantevole Here With You, di nuovo con Newell in primo piano, l’elegiaca Raising A Rookie https://www.youtube.com/watch?v=3Vh-7LHhukw , la gagliarda e tirata I Don’t Do Well Alone. Non male la pettyana Slow Lightning o la ballata pianistica Memphis Rain, con rimandi a Marc Cohn e Bruce Hornsby  https://www.youtube.com/watch?v=n8Ta5U1vRZg , lo scandito rock’n’roll Good For You https://www.youtube.com/watch?v=JwcKRD7h8AQ  e in chiusura i due brani più lunghi, Follow The River, con una armonica che ricorda sia Young che Petty https://www.youtube.com/watch?v=1-arNHg9H9E  e la lunga title track, completamente ristrutturata https://www.youtube.com/watch?v=1-arNHg9H9E , divenuta una gloriosa southern song tra country e rock con bella jam finale inclusa.

Bruno Conti

Uno Strano Terzetto Allargato, Però Molto Efficace. Kacy & Clayton Marlon Williams – Plastic Bouquet

kacy & clayton + marlon williams

Kacy & Clayton Marlon Williams – Plastic Bouquet – New West Records

Kacy & Clayton, spesso pronunciati come una unica entità, sono in effetti una coppia di cugini canadesi, originari del Saskatchewan, che agiscono come duo sin dal 2011, all’inizio a livello indipendente, poi sono stati notati dalla New West che li ha messi sotto contratto, e anche da Jeff Tweedy , che ha prodotto i due album del 2017 e 2019, The Siren’s Song e Carrying On, entrambi premiati da ottimi riscontri della critica. Per completare, Kacy (Lee) Anderson è la vocalist ed autrice delle canzoni, mentre Clayton Linthicum è il chitarrista e strumentista tuttofare (che fa parte anche del giro degli ottimi Deep Dark Woods) che è il tessitore delle rarefatte ma raffinate costruzioni sonore del duo, che comunque ha anche una sezione ritmica fissa costituita da Mike Silverman alla batteria e Andy Beisel al basso, presente negli ultimi due album, mentre nel nuovo Plastic Bouquet si è aggiunto anche Dave Khan al violino.

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Ma la novità più importante, al di là della fine della collaborazione con Tweedy, è l’imprevisto arrivo di Marlon Williams, cantautore neozelandese autore di uno splendido omonimo album di debutto nel 2016 (ma già nel 2015 Down Under), poi non del tutto confermato con il pur eccellente successivo Make Way For Love del 2018, che qualcuno aveva trovato troppo ridondante: il “problema”, se così lo vogliamo chiamare, sta nelle voce, ora eterea ora possente di Marlon, che è stata paragonata di volta in volta a Nick Cave ed Elvis, Johnny Cash e Roy Orbison ( e pure l’epigono Chris Isaak) , creando grandi aspettative per questa sorta di crooner folk. L’unione delle forze del trio, in questo album registrato e concepito tra Canada, Nuova Zelanda e Nashville, magari non sempre funziona del tutto, ma confrontato con le uscite di molti nuovi “fenomeni” della canzone, spesso presentati come dei Messia, è comunque sempre un bel sentire: undici canzoni originali, a firma Anderson e Williams, che producono anche il disco, a cavallo tra languori folk-country-rock dai sapori canadesi di Kacy e Clayton e la vocalità esuberante di Marlon https://www.youtube.com/watch?v=BgHpTL5Gx3k .

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Quando i due mondi si intrecciano però scatta la magia: come nel primo singolo I Wonder Why , dove tra eteree slide e atmosfere sognanti i due gorgheggiano, come novelli Gram ed Emmylou https://www.youtube.com/watch?v=gp9s-2QjRWI , oppure come nel delizioso honky tonk con pedal steel d’ordinanza e violino in sottofondo di Old Fashioned Man, cantata da Kacy Lee con Williams che novello Elvis, canta il secondo verso https://www.youtube.com/watch?v=pAbxAVTnJ0A . I’m Gonna Break It è pura country music, di quella sublime, con i due che si alternano alla guida e poi armonizzano dolcemente, delicata anche la languida Last Burning Ember affidata alla Clayton, sempre con il supporto di Marlon, più in territori folk-roots, ma sempre con richiami a certo country cosmico. Light Of Love sembra uno di quei vecchi duetti alla Nancy Sinatra/Lee Hazlewood, con lui più celestiale Orbison o Buckley che austero Lee https://www.youtube.com/watch?v=cYjk3Bb2f00 , mentre Arahura, dal nome di uno sconosciuto (ma non a lui evidentemente) fiume della Nuova Zelanda, evidenzia la perfetta intesa tra la voce fragile ma assertiva e gorgheggiante di Kacy che si appoggia su quella maschia di Williams https://www.youtube.com/watch?v=UZZya84eusU   , e ottimo anche il simil bluegrass della ondeggiante title track, dove è sempre la voce femminile a guidare le danze.

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Sarà pur sempre musica magari poco innovativa, ma quando è eseguita con passione come in questo album, non si può fare a meno di apprezzarla e fregarsene dei giudizi: interessante anche I’m Unfamiliar con un organetto vintage in evidenza, dove magari si sarebbe apprezzato maggiormente il timbro di Margo Timmins rispetto alla Anderson, ma non si può avere tutto https://www.youtube.com/watch?v=SCbDcNeT_tM . In chiusura Devil’s Daughter, che nonostante il titolo è più angelica che diabolica https://www.youtube.com/watch?v=Au43In2Yklw , un sommesso duetto sulle ali di due chitarre acustiche che conferma la validità di un disco che magari non entusiasma ma ti conquista lentamente.

Bruno Conti

Il “Supergruppo” Canadese Ci Regala Un Altro Disco Splendido! Blackie And The Rodeo Kings – King Of This Town

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Blackie And The Rodeo Kings – King Of This Town – Warner Canada

All’incirca ogni tre anni si ritrovano per pubblicare un nuovo album: questo King Of This Town è il loro nono disco (decimo, se contiamo anche Let’s Frolic Again, mentre il precedente, l’ottimo https://discoclub.myblog.it/2017/01/28/passano-gli-anni-e-dopo-le-regine-questa-volta-tocca-ai-re-ed-e-sempre-grande-musica-blackie-and-the-rodeo-kings-kings-and-kings/  risale a tre anni fa), in effetti l’avventura partì con quella che doveva essere una opera unica High or Hurtin’: The Songs of Willie P. Bennett, per omaggiare un loro illustre (ma quasi sconosciuto fuori dai confini canadesi) connazionale, però da allora Stephen Fearing, Colin Linden e Tom Wilson, in rigoroso ordine alfabetico, ci deliziano puntualmente con una serie di album che collettivamente sono superiori alla somma della parti dei partecipanti, che non sono insignificanti. Linden, giusto in questi giorni, ha visto Oklahoma, la sua produzione per Keb’ Mo’, vincere il Grammy nella categoria Americana https://discoclub.myblog.it/2019/07/15/sempre-della-serie-non-solo-blues-keb-mo-oklahoma/ , e lo scorso anno ha pubblicato pure il delizioso Amour, insieme a Luther Dickinson (per non parlare della produzione dell’ultimo disco del suo amico Bruce Cockburn Crowing Ignites), Tom Wilson, sempre nel 2019, ha pubblicato Mohawk l’ultima fatica della sua altra band, i Lee Harvey Osmond, nominato ai Juno Awards canadesi, e Stephen Fearing, proprio sul finire del 2019 ha rilasciato la sua nuova prova solista, l’eccellente The Unconquerable Past.

Ma quando sono insieme, pur mantenendo le loro diverse caratteristiche stilistiche, Linden tra Americana e blues, Wilson l’anima più rock e Fearing quella più folk, quando aggiungono alle loro influenze anche quelle favolose armonie vocali a due e tre parti, elementi country e cajun acadienne, e il consueto apporto di una serie di collaborati fantastici, riescono a trasfigurare il tutto. Questa volta troviamo le armonie vocali delle McCrary Sisters, le tastiere di Janice Powers, la moglie di Colin Linden, che si alterna a Kenneth Pearson, Thompson Wilson, il figlio di Tom, come la Powers co-autore di un paio di brani, uno insieme a Hawksley Workman, per non parlare della superba sezione ritmica formata da Gary Craig alla batteria e Johnny Dymond al basso, che pure loro contribuiscono alla scrittura delle canzoni, e infine il multistrumentista Jim Hoke, impegnato a sax, organo, armonica e fisarmonica. Il risultato finale è una goduria unica: dalla iniziale Hard Road, cantata con voce ”scura” da Wilson, tra rock atmosferico e sapori sudisti, grazie all’apporto del New Orleans soul delle sorelle McCrary, passando per la solare e corale Cold 100, cantata a voce spiegata da tutti e tre che l’hanno scritta collettivamente, con un drive da perfetta rock song da suonare a tutto volume sulle (auto)strade di tutto il mondo, con il dobro e la slide di Linden ad impreziosirla, mente le McCrary armonizzano come solo loro sanno fare.

Trust Yourself, il primo contributo di Fearing, con Hoke a al sax e all’organo, è un sinuoso folk-rock con tracce blues, che ricorda il miglior Cockburn, quando alza la sua quota elettrica, grazie agli interventi puntuali di Colin alla solista; World Gone Mad (scritta da Linden con l’ex Family e Band Jim Weider), con tutti e tre ancora impegnati a tratti in un cantato collettivo che rende irresistibile il brano, con le chitarre dell’autore che imperversano di nuovo alla grande in un brano superbo, mentre Baby I’m Your Devil, scritta dai due Wilson, babbo e figlio con Workman, screziata dalle armonie vocali di Rachael Davis, l’armonica di Hoke e l’acidissima chitarra di Linden che contribuiscono alle atmosfere dark e sospese della canzone. North Star, l’altro brano firmato dal trio è una stupenda ballata cantata dal vocione di Wilson, con il supporto degli altri due, dedicata alla ricerca della donna con la Stella del Nord nei suoi occhi (il Canada), romantica ed evocativa  https://www.youtube.com/watch?v=Yd_TWpsb8Ww , King Of This Town di Linden è un perfetto esempio di antemico roots-rock, vogliamo chiamarlo Americana, con le sue chitarre a dispensare piccole meraviglie, sostenute da un florilegio di tastiere.

La malinconica, quasi triste, visto l’argomento trattato, Walking On Our Graves, è una bellissima canzone, tra Dylan e la Band, cantata con grande trasporto da un ispirato Stephen Fearing, un ennesimo gioiellino, impreziosito da un assolo di Linden calcolato con il goniometro https://www.youtube.com/watch?v=4AEeaXx0vJc , seguito da un tuffo a New Orleans per la travolgente Kick My Heart Around , scritta da Linden che la canta, con il contributo della famiglia Wilson, tra sbuffi di armonica e fisarmonica ed una allegria quasi palpabile https://www.youtube.com/watch?v=v77GJ1YytYY . Medicine Hat della premiata ditta Linden/Wilson, tra country-rock cosmico e un divertente e mosso groove di vintage R&R si ascolta con grande piacere, prima di farci congedare dai BARK con la soffusa ed elegiaca ballata Grace, cantata in solitaria da un pensoso Fearing che, anche sulle ali della struggente armonica di Hoke, conferma la sua anima più riflessiva e gentile. Come al solito un album affascinante e consistente, da ricordare per ie liste dei migliori di fine anno, l’unico neo è che non si trova con facilità alle nostre latitudini.

Bruno Conti

Un Disco Storico Di Ray Charles Rivisitato Con Garbo E Classe. Band Of Heathens – A Message From The People Revisited

band of heathens a message from the people revisited

The Band Of Heathens – A Message From The People Revisited – BOH Records

Una premessa prima di tutto: se chiamano Ray Charles “The Genius”, un motivo evidentemente ci sarà. Lo testimonia una carriera strepitosa che lo ha consacrato come una delle più grandi voci della musica del ‘900, non solo di quella nera,  con uno stile in bilico tra R&B (di cui è stato uno degli inventori), jazz, soul, con iniezioni di gospel e country (i due Modern Sounds In Country Music sono dei capolavori), una voce tra le più espressive e coinvolgenti mai ascoltate, una abilità al pianoforte mostruosa e moltissimi altri pregi che sarebbe molto lungo elencare. Questo A Message From The People, un disco uscito nel 1972 (e ristampato dalla Concord nel 2009, ma al momento nuovamente fuori produzione)  era interessante soprattutto per l’idea che gli stava dietro, e a cui Charles stava lavorando da parecchio tempo, ovvero un disco in cui attraverso una serie di canzoni scelte con cura il grande musicista nero voleva tracciare un ritratto, anche impietoso, di una nazione in uno dei suoi momenti più bui, ancora divisa dai conflitti razziali tra bianchi e neri, la guerra del Vietnam, e i primi scricchiolii nella popolarità di Richard Nixon, poi giunto al tracollo con lo scandalo Watergate.

Un album in cui Ray Charles voleva instillare una serie di buoni sentimenti: la fratellanza universale, l’amore per la Patria, la tolleranza, l’aiuto verso i poveri e i bisognosi, tutte tematiche che suonano ancora e nuovamente vere anche ai giorni nostri. Forse a livello musicale e come album nel suo insieme, risentito oggi (ma anche allora), il disco non suona forse così memorabile, un buon disco con gli arrangiamenti curati anche da Quincy Jones, pur se con alcune vette e con la voce inarrivabile del nostro. Ma visto che dobbiamo parlare della nuova versione registrata dai Band Of Heathens concentriamoci su questa: registrato in quattro giorni nel dicembre del 2017, in uno studio di Austin, la loro rivisitazione ovviamente risente dello stile del quintetto texano, tra rock, blues, country got soul, funky,  musica roots dal Sud degli Stati Uniti https://discoclub.myblog.it/2017/03/03/un-cocktail-di-suoni-americana-the-band-of-heathens-duende/ , ma rinvigorita da una serie di canzoni in ogni caso interessanti per diversi motivi e con il gruppo che tocca vertici di creatività raramente raggiunti in passato e quindi prospera anche a livello sonoro in questo tuffo nel songbook di Ray Charles. Le due canzoni che aprono e chiudono il CD sono due traditionals di Pubblico Dominio della canzone popolare americana: Lift Every Voice And Sing era un gospel-soul di straordinaria intensità nella versione di Ray Charles, e anche se Ed Jurdi non può competere a livello vocale, la versione dei Band Of Heathens ha comunque una propria dignità, qualche falsetto ai limiti, ma una rivisitazione intima ed acustica, tra folk e radici, molto coinvolgente https://www.youtube.com/watch?v=K8Tl3tqztfA .

Seems Like I Gotta Do Wrong pare un brano uscito da un disco di Jim Croce o dei praticanti del blue eyed soul più solare degli anni ’70, morbida e soffice, ma di gran classe, con un assolo di chitarra in punta di dita, un pezzo che Charles aveva pescato nel repertorio dei Whispers. Heaven Help Us All è più bluesy e sinuosa, con un ottimo uso dell’organo e un ritornello avvolgente, in origine una canzone del ’70 di Stevie Wonder, la versione dei BOH mantiene lo spirito leggermente gospel dell’originale di Wonder e della rilettura di Ray Charles; There’ll Be No Peace Without All Men As One è una ballata accorata, che fu uno due singoli estratti dal LP dell’epoca, bella versione senza strafare troppo quella dei texani. L’altro lato del 45 era Hey Mister, un pezzo decisamente più funky, con organo e chitarrina sugli scudi, molto gradevole, anche se il synth…, mentre la cover del brano di Melanie Look What The’ve Done To My Song, Ma è un mid-tempo delizioso, dove lo spirito roots e sudista della band esce in pieno, con l’intreccio costante tra le voci di Jurdi e Quist, anche se la citazione in francese del testo e il coretto finale son fin troppo sdolcinati https://www.youtube.com/watch?v=lgDUTNFwdlU .

Decisamente migliore la rilettura del classico di Dion, Abraham, Martin And John, grande canzone aperta dal florilegio pianistico di Trevor Nealon, e che poi si apre in un afflato quasi dylaniano che contrasta con lo spirito gospel della versione originale, ma lo rende uno dei brani più riusciti del CD https://www.youtube.com/watch?v=4wEdQqJFll8 ; come pure Take Me Home, Country Roads di John Denver è assolutamente incantevole nel suo spirito country-gospel, un ambito dove il quintetto texano dà il meglio di sé. Forse l’unico pezzo in cui il rock prende il sopravvento è una versione gagliarda e intensa di Every Saturday Night, tra chitarre ruvide, ritmi induriti e organo scivolante, prima di congedarci con quello che è considerato una sorta di inno americano di riserva, ovvero America The Beautiful, un gospel intriso di soul che se nella versione di Ray Charles era superbo, anche nella rivisitazione dei Band Of Heathens non sfigura affatto e conclude degnamente un album che certamente non è un capolavoro ma un meritorio omaggio ad un piccolo classico dimenticato degli anni ’70.

Bruno Conti

Non E’ Solo Fortunata, E’ Proprio Brava! Carter Sampson – Lucky

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Carter Sampson – Lucky – Continental Song City/CRS

Come faceva giustamente notare l’amico Marco Verdi recensendo il precedente album Wilder  https://discoclub.myblog.it/2016/06/11/dallaspetto-fisico-lo-si-direbbe-la-musica-country-pure-bella-carter-sampson-wilder-side/ (e nel frattempo è uscito anche Queen Of Oklahoma & Other Songs, una compilation di canzoni dagli introvabili primi album ed EP), Carter Sampson non ha certamente il phisyque du role della classica cantante country: occhialini e taglio di capelli che le conferiscono l’allure di una cantautrice intellettuale e raffinata, e fin qui potremmo esserci perché due o tre brani che viaggiano su queste coordinate li troviamo in questo Lucky. Per il resto, anche se viene dall’Oklahoma, come ha orgogliosamente ribadito nella canzone che dà il titolo alla raccolta ricordata poc’anzi, il suo suono, comunque con elementi “roots” ed Americana, rimanda più a quello classico di Nashville, anche se dal lato giusto della città, quello abitato da Emmylou Harris e Dolly Parton, ma anche Patsy Cline e il lontano parente Roy Orbison sono stati accostati alla genuina Okie.

Che anche in questo album usa una pattuglia di musicisti provenienti dal suo stato: non riporto i nomi di tutti, ma il co-produttore dell’album, con la stessa Sampson, Jason Scott, opera proprio in Oklahoma, insieme ad altri talenti locali come Kyle Reid, John Calvin Abney, Lauren Barth, Jesse Aycock e Jared Tyler, tutti anche cantautori in proprio (e alcuni di loro li trovate pure nel disco di Levi Parham), e non escluderei la presenza del polistrumentista Travis Linville che aveva prodotto il precedente disco, e tutti costoro dovrebbero coprire la presenza cospicua di chitarre, acustiche, elettriche, ma anche dobro, mandolino, pedal steel che punteggiano questo Lucky, che se privilegia per l’occasione l’uso della canzone uptempo, forse eccelle ancor di più nelle ballate, dove la voce di Carter Sampson assume dei timbri vocali che al sottoscritto tanto hanno ricordato Norah Jones, un’altra che ha sempre frequentato la musica country. Chiunque si voglia ricordare, poi la Sampson ha comunque una propria personalità che la rende una delle migliori portabandiera delle nuove generazioni del fuori Nashville. Il disco, come si diceva, privilegia i tempi mossi ma è appunto nelle ballate che si gusta ancor di più la deliziosa voce della nostra amica: la bellissima Hello Darlin’, scritta da Zac Copeland, dove si canta di malinconie d’amore, da sempre uno dei temi più usati nella migliore country music, una ballata che scivola voluttuosa su una magnifica ed avvolgente pedal steel, con tocchi di mandolino e piano, delicate chitarre acustiche e la voce sognante ed evocativa di Carter che tanto rimanda alla più languida e trasognata Norah Jones, un piccolo gioiellino.

E anche la cover conclusiva della classica Queen Of The Silver Dollar di Shel Silverstein, che ricordiamo in una bellissima versione di Emmylou Harris su Pieces Of The Sky, è una vera leccornia di sapori e languori country, tra pedal steel e piano la voce quasi galleggia sulle onde della musica. Ma anche quando i ritmi sono più serrati, ad esempio nel trittico iniziale, tutto a firma Carter Sampson, non si può fare a meno di apprezzarne il talento e la voce, sempre espressiva e incalzante, come nella title track che viaggia sulle ali di chitarre elettriche e dobro, con un corposo contrabbasso in evidenza, o su Anything Else che dopo una partenza attendista si assesta su un mid-tempo invitante, o sul train time  della incantevole Peaches, scritta con Scott. Ten Penny Nail, di nuovo firmata con Jason, è più bluesy ed intricata, mentre All I Got è una sorta di country got soul da cantautrice classica e Tulsa, scritta da Kalyn Fay, una specie di gloria locale, è un’altra splendida ballata mid-tempo di puro stampo country, con un’armonica e l’organo che fanno capolino nella ricca strumentazione. Di fattura squisita pure Wild Ride, di nuovo con la voce in splendida evidenza e notevole anche Rattlesnake Kate dove il dobro tratteggia con puntualità una ennesima canzone dove si apprezzano i talenti vocali e compositivi della bravissima Carter Sampson. Se passa di nuovo dalle nostre parti nelle lande italiche non mancate all’appuntamento, nel frattempo gustiamoci questo ottimo album.

Bruno Conti

Ottima Musica: Sempre Della Serie Non Solo Blues! Ian Siegal – All The Rage

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Ian Siegal – All The Rage – Nugene Records

Ian Siegal e Jimbo Mathus sono una coppia bene assortita: dopo il Live acustico del 2016 Wayward Sons https://discoclub.myblog.it/2016/05/04/coppia-bene-assortita-ian-siegal-jimbo-mathus-wayward-sons/  che seguiva un altro disco dal vivo, elettrico, del 2015, entrambi registrati in Olanda, questa volta torna in studio per proporre un album tutto composto da nuovi brani, sempre registrato nei Paesi Bassi, ad Amsterdam, visto che la sua band è composta da musicisti locali, Dusty Ciggaar (chitarre), Danny Van’t Hoff (basso), e Rafael Schwiddessen (batteria), mentre Mathus questa volta si “limita” a produrre, suona qualche strumento qui e là, e firma due brani con Siegal. Il titolo dell’album è ambivalente, in quanto in inglese All The Rage vuole dire sia “di gran moda” come pure “tutta la rabbia”, che è quella che sta infiammando il mondo dall’elezione di Trump  e dall’avvento di tutti i partiti di destra e populisti che si sono insediati in molti paesi europei, oltre alle tensioni che strisciano nel Medio e Lontano Oriente e ovunque sul pianeta.

Visto che il blues è sempre stato un genere che ha toccato questi temi, politici e sociali, Ian Siegal li ha inseriti anche nelle sue canzoni, due firmate con la coppia  Isa Azier e Mischa den Haring, mantenendo quel suo particolare stile musicale che inserisce anche elementi di Americana, country e roots music, su una base comunque decisamente blues e dove la sua chitarra è sempre un elemento importante nell’economia dei brani. L’apertura è affidata a Eagle-Vulture, uno dei suoi tipici brani di stampo blues-rock, grintosi e tirati, con la sua voce vissuta e rauca che urla la sua rabbia su una ritmica mossa e complessa, mentre la chitarra comincia a tessere le sue trame vibranti anche nella modalità slide che è uno degli stili prediletti dal musicista di Portsmouth. Bella partenza, subito ribadita in Jacob’s Ladder, uno dei pezzi scritti con i musicisti olandesi, un blues del Delta, elettrico e vibrante e che ricorda le sue collaborazioni con i fratelli Dickinson e altri musicisti dell’area del Mississippi, ma anche qualche elemento Waitsiano; ottima pure The S*it Hit uno slow blues duro e puro, dove Siegal imperversa con la sua solista in modalità bottleneck e Mathus aggiunge un pianino insinuante alle procedure, mentre il nostro Ian canta con rabbia e cattiveria. Won’t Be Your Shotgun Rider è uno dei brani dove gli elementi  roots sono più evidenti, una bella ballata ariosa e distesa ,ingentilita dalla voce femminile di Merel Moelker, e che ricorda il  miglior country-rock anni ’70, con Siegal al dobro, seguita da Ain’t You Great che introduce anche elementi latini, messicani e un pizzico di desert rock nella musica, mentre il testo è amaro e quasi apocalittico.

My Flame è un country-blues, solo voce e chitarra acustica in fingerpicking nella parte iniziale, poi entrano il piano, la ritmica discreta, una lap steel e il brano assume l’andamento delle ballate romantiche del Tom Waits anni ’70, anche grazie alla voce grave di Siegal, molto bella; One-Eyed King, firmata di nuovo dal trio, è stata definita dal suo autore una sorta di “murder” ballad”, e ci sta, anche se poi l’esecuzione vira di nuovo verso il rock-blues intenso ed atmosferico dei brani migliori del nostro, con la sua chitarra twangy in azione.  If I Live è un altro blues scarno ed amaro, con un giro musicale quasi ciclico e ripetitivo, con organo, mandolino e altri strumenti suonati da Jimbo Mathus aggiunti al menu sonoro, e Sweet Souvenir è uno splendido gospel-soul-blues di grande fascino, con cori avvolgenti e una interpretazione che fa molto deep soul , Muscle Shoals style o da quelle parti, con un paio di inserti chitarristici da manuale, non a caso gli ultimi due brani sono quelli firmati con Mathus e risentono chiaramente delle radici musicali sudiste del musicista americano. Per concludere rimane Sailor Town, una canzone firmata con il cantautore Hook Herrera, un brano che profuma nuovamente di R&B, blues e musica nera in generale, ritmata e leggera, ma di eccellente qualità, come d’altronde tutto l’album, che conferma quindi  ancora una volta l’eccellenza della musica di Ian Siegal.

Bruno Conti

Una Vera Delizia Per Le Orecchie! Tim Grimm & The Family Band – A Stranger In This Time

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Tim Grimm & The Family Band – A Stranger In This Time – Appaloosa/IRD CD

Questo disco è uno dei miei preferiti tra quelli usciti lo scorso anno, e ha mancato l’ingresso nella mia personale Top Ten per un soffio; se dovessi però rifare la classifica oggi, o tra un mese, non è escluso che ci possa anche entrare, non per una perdita di valore di altri album da me citati in precedenza, ma perché sto parlando di uno di quei lavori che crescono inesorabilmente ascolto dopo ascolto. Tim Grimm nasce come attore, ma da diversi anni si è dedicato alla sua più grande passione, la musica folk-roots, diventandone un apprezzato esponente pur rimanendo indipendente e ben lontano dalle classifiche di vendita, l’esatto opposto della sua carriera attoriale, durante la quale aveva partecipato a veri e propri blockbuster hollywoodiani come Sotto Il Segno Del Pericolo, Codice Mercury e Fuoco Assassino, recitando (in ruoli di contorno, va detto) a fianco di superstar come Harrison Ford, Bruce Willis, Robert De Niro e Kurt Russell. Dal punto di vista musicale Tim è in pista dalla fine degli anni novanta, ed al suo attivo ha una serie di validi lavori di pura musica roots, tra folk e country, rivelando un altro lato della sua personalità artistica, quello di singer-songwriter, decisamente più interessante di quello recitativo: tra i suoi lavori passati, citerei senz’altro il buon The Turning Point e l’ottimo Thank You Tom Paxton, personale tributo ad uno dei suoi eroi musicali.

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https://www.youtube.com/watch?v=FdBbtiRZop0

Ma A Stranger In This Time è senza dubbio il suo disco più bello fino ad oggi, un lavoro splendido, puro, con una serie di canzoni una più bella dell’altra eseguite con una finezza ed un feeling non comune; l’album è intitolato a Tim ed alla Family Band, così chiamata perché è formata dalla moglie Jan Lucas (voce e armonica) e dai figli Connor e Jackson Grimm (alle chitarre il primo ed a banjo e mandolino il secondo), con interventi “esterni” da parte di Hannah Linn alla batteria e del bravissimo Diederik Van Wassenaer al violino (musicista che ci aveva già colpito nel bellissimo The Pilot And The Flying Machine di Ben Bedford). A Stranger In This Time è dunque un album da gustare nota dopo nota, una brillante conferma per un artista forse di basso profilo ma di grandi capacità: il disco esce per l’etichetta italiana Appaloosa, e come d’abitudine negli album pubblicati dalla label brianzola, i testi sono riportati anche nella nostra lingua. L’iniziale These Rollin’ Hills è già splendida, una chitarra arpeggiata subito doppiata dal banjo, con la voce calda del nostro che intona un motivo puro e cristallino di chiaro stampo folk, un avvio decisamente intenso. Notevole anche Gonna Be Great, dal ritmo più accentuato, e sarà per la melodia squisitamente decadente e “scazzata”, sarà per il controcanto femminile o per la voce ancora più bassa di Tim, ma a me questo brano ricorda non poco Leonard Cohen, anche se per la verità il refrain centrale somiglia moltissimo a Things Have Changed di Bob Dylan: comunque deliziosa.

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https://www.youtube.com/watch?v=gpDc5Yc6xTc

Ottima anche So Strong, un western tune davvero intenso e con una melodia emozionante nobilitata da un languido violino ed un approccio da consumati pickers da parte dei membri della band; Thirteen Years è un talkin’ da perfetto storyteller, nel quale Grimm compensa la (voluta) assenza di un motivo vero e proprio con una interpretazione da brividi, quasi fosse un novello Ramblin’ Jack Elliott. Black Snake è più elettrica, bluesata ed annerita, mi ricorda immediatamente certe cose di Ray Wylie Hubbard, con quell’atmosfera limacciosa che ha dei punti di contatto anche con Tony Joe White; Finding Home è ancora pura, delicata ed interiore, impreziosita dalla seconda voce di Jan, mentre è bellissima anche Hard Road, uno squisito country-folk dal tempo vivace e ritornello vincente, ed uno splendido accompagnamento guidato da banjo ed armonica, una delle più belle del CD. The Hungry Grass è un altro delizioso bozzetto acustico, semplice ma intensissimo, Darlin’ Cory è l’unico brano tradizionale del disco, ed è eseguito in maniera rigorosa, una sorta di folk-bluegrass appalachiano vibrante ed evocativo. Chiudono il CD la cadenzata Over The Waves, altro pezzo originale ma dal sapore di una ballata d’altri tempi (ed un qualcosa di irlandese nella melodia) e la tenue Over The Hill And Dale, che addirittura mi rammenta il Cat Stevens più bucolico. Se lo scorso anno vi siete persi questo A Stranger In This Time (*NDB. Come se lo era perso il Blog!), siete ancora ampiamente in tempo ad accaparrarvelo: di sicuro non ve ne pentirete.

Marco Verdi

L’Album Migliore Di Una Piccola Grande Band! Turnpike Troubadours – A Long Way From Your Heart

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Turnpike Troubadours – A Long Way From Your Heart – Bossier City/Thirty Tigers CD

I Turnpike Troubadours sono la prova vivente che è possibile raggiungere il successo anche senza l’aiuto di una major e facendo ottima musica senza scendere a compromessi. Infatti il sestetto dell’Oklahoma (ai cinque storici Evan Felker, voce solista e chitarra, RC Edwards, basso, Ryan Engleman, chitarra, Kyle Nix, violino e Gabe Pearson, batteria, si è aggiunto anche lo steel guitarist Hank Early) ha esordito dieci anni esatti orsono con il già interessante Bossier City, che ha dato anche il nome alla loro etichetta personale, e disco dopo disco hanno aumentato la loro popolarità in maniera esponenziale, grazie anche alle esibizioni dal vivo: l’omonimo The Turnpike Troubadours di due anni fa ha venduto molto bene, e questo senza che i ragazzi avessero dovuto cambiare il loro suono http://discoclub.myblog.it/2015/11/08/si-che-americana-the-turnpike-troubadours/ . A Long Way From Your Heart, il loro nuovo lavoro, ha tutte le carte in regola per fare ancora meglio, in quanto è un bellissimo album di vera Americana, roots music nel vero senso del termine, con country e folk che si fondono mirabilmente con un anima rock: violino, banjo e chitarre elettriche che vanno a braccetto, una sezione ritmica sempre in tiro ed un gusto melodico non comune. I TT non somigliano ad un gruppo in particolare, sono ispirati sia dalle leggende della country music come Johnny Cash, Waylon Jennings e Merle Haggard come pure da rockers come Tom Petty, John Mellencamp e Steve Earle.

Ma in definitiva non ricordano nessuno di questi in particolare, avendo uno stile proprio ed una spiccata personalità. Ho scritto la recensione con un advance CD, e quindi non so dirvi se oltre a Felker e soci partecipino altri musicisti, ma so che la produzione è nelle capaci mani di Ryan Hewitt, già in passato collaboratore di Avett Brothers, Brandi Carlile e Lumineers. L’avvio è ottimo, con la scintillante The Housefire, un folk-rock splendido tra country ed Irlanda, elettrico quanto basta e con una melodia eccellente che vi farà venire voglia di riascoltarla subito. La corale Something To Hold On To è un rockin’ country vibrante e godibile, con qualche elemento southern nel suono ruspante delle chitarre, un altro refrain immediato ed uno strepitoso finale jammato; The Winding Stair Mountain Blues è un velocissimo bluegrass, sempre con una marcata dose di rock, un cocktail irresistibile ancora con un leggero sapore Irish, come se i Pogues avessero passato un anno in Oklahoma.

Anche Unrung è molto valida, una ballata country-rock che ha lo spirito del primo Steve Earle, la saltellante A Tornado Warning è guidata da chitarra, violino e steel, che creano un intreccio strumentale affascinante, ben sostenuto da un’altra melodia di prim’ordine. Pay No Rent, scritta da Felker insieme a John Fullbright, è una ballata decisamente intensa, ma nello stesso tempo diretta e di nuovo con una bella ricchezza strumentale, la trascinante The Hard Way è un rockin’ country limpido e terso, l’ennesima perla di un disco che non ha una sola canzone sottotono; l’elettroacustica Old Time Feeling (Like Before) sta giusto a metà tra folk e country, mentre Pipe Bomb Dream è contraddistinta da un ritmo sostenuto, un motivo delizioso ed un bel chitarrone twang: in poche parole, una goduria. Il CD si chiude con la bellissima Okalhoma Stars, altro country-folk cristallino e melodicamente evocativo, e con Sunday Morning Paper, che inizia come un puro folk con voce e fingerpicking, poi entra il resto del gruppo trasformando il pezzo in uno squisito honky-tonk elettrico.

Di gruppi come i Turnpike Troubadours ce ne sono (purtroppo) sempre meno, ragione in più per non farsi sfuggire questo A Long Way From Your Heart.

Marco Verdi