Una Gradita Appendice Al Disco Dell’Estate. Jimmy Buffett – Songs You Don’t Know By Heart

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Jimmy Buffett – Songs You Don’t Know By Heart – Mailboat CD

Life On The Flip Side, ultimo album di Jimmy Buffett pubblicato lo scorso maggio, è a mio parere uno dei lavori migliori del 2020 ed in generale uno dei più belli del cantautore del Mississippi ma da una vita trapiantato in Florida https://discoclub.myblog.it/2020/06/10/signore-e-signori-il-disco-dellestate-2020-jimmy-buffett-life-on-the-flip-side/ . Ovviamente, come per la maggior parte dei dischi di Jimmy che vengono messi in commercio durante i mesi estivi, anche Life On The Flip Side è stato inciso lo scorso inverno quando ancora il Covid era una malattia che sembrava dover interessare più che altro la Cina (che invece è l’unico paese a non averne risentito economicamente, e non fatemi dire di più se no mi si accusa di complottismo): nel periodo seguente anche Buffett è stato coinvolto come tutti in una sorta di lockdown mondiale, e come molti suoi colleghi ha avuto parecchio tempo a disposizione per registrare altra musica.

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Nella fattispecie Jimmy ha lanciato un sondaggio online tra i suoi fans (i famosi “Parrotheads”) chiedendo loro quali canzoni tra le sue meno famose, i cosiddetti “deep cuts”, avrebbero volentieri ascoltato in un nuovo arrangiamento. Le risposte non hanno tardato ad arrivare, e Jimmy ha scelto i quindici brani che avevano ottenuto più preferenze e li ha eseguiti in una veste sonora decisamente più intima rispetto ai concerti con la Coral Reefer Band, facendosi accompagnare da pochissimi musicisti ed in formato acustico (soltanto il fidato Mac McAnally e Peter Mayer alle chitarre e mandolino ed Eric Darken alle percussioni, più il noto Matt Rollings alla fisarmonica in un pezzo), con la figlia Delaney che riprendeva il tutto per la messa in onda sul canale web del nostro Margaritaville TV. Ebbene, l’operazione ha avuto un grande successo di ascolti e di visualizzazioni anche su YouTube, cosa da convincere Buffett a pubblicare un disco nuovo con i brani suonati, album intitolato Songs You Don’t Know By Heart, cosa che inizialmente, visto l’immagine “vintage” di Jimmy in copertina ed il titolo del CD che riprendeva quello di un suo famoso greatest hits (Songs You Know By Heart), mi aveva fatto pensare ad un’antologia di pezzi meno noti.

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Il disco è molto gradevole e riuscito, e ci presenta un Buffett diverso, meno caraibico e più cantautore, con uno stile simile a quello di James Taylor che tra l’altro è da sempre una delle sue maggiori fonti d’ispirazione. Voci, chitarre acustiche, la batteria non sempre, qualche volta ukulele e mandolino: non c’è il muro del suono tipico della Coral Reefer Band e le ballate la fanno da padrone, ma il disco non è per nulla noioso o monotono. Dei quindici pezzi totali ben undici appartengono al periodo “classico” di Jimmy, cioè quello che va dal 1970 al 1983, mentre solo tre canzoni provengono dagli anni 90 ed una dall’attuale millennio: tutte però sono talmente poco famose che è come se fossero nuove, tranne forse Tin Cup Chalice che viene ancora ripresa abbastanza di frequente in concerto  https://discoclub.myblog.it/2020/06/10/signore-e-signori-il-disco-dellestate-2020-jimmy-buffett-life-on-the-flip-side/.

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E ci sono diversi brani molto belli, come la cristallina I Have Found Me A Home, pura e folkeggiante https://www.youtube.com/watch?v=M_05R70Ienc , la splendida Woman Goin’ Crazy On Caroline Street, scritta da Jimmy insieme a Steve Goodman https://www.youtube.com/watch?v=sM7xwMRr_8o , l’intensa The Captain And The Kid, Delaney Talks To Statues, deliziosa come tutte quelle dell’album dal quale proviene (cioè Fruitcakes, forse il più bello di sempre del nostro) https://www.youtube.com/watch?v=e8lSL9oN_fA , la divertente fin dal titolo Peanut Butter Conspiracy, il valzer country Something So Feminine About A Mandolin, le raffinate Love In The Library, Chanson Pour Les Petits Enfants e Cowboy In The Jungle, chiari esempi di songwriting di classe, la già citata Tin Cup Chalice, sicuramente tra le più belle, fino alla chiusura intima di Death Of An Unpopular Poet, solo Jimmy voce e chitarra. Il disco da avere di Jimmy Buffett del 2020 è senza dubbio Life On The Flip Side, ma ciò non vuol dire che Songs You Don’t Know By Heart vada ignorato.

Marco Verdi

Più Di 40 Anni Dopo Quello A L.A. Un Bel Fine Settimana A Londra. George Benson – Weekend in London

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George Benson – Weekend In London – Mascot/Provogue

42 anni fa usciva Weekend In L.A, un disco dal vivo di jazz, R&B e funky, registrato l’anno prima al Roxy Theatre di Los Angeles, album che vendette più di un milione di copie ed arrivò fino al 5° posto delle classifiche americane, grazie anche alla canzone trainante, una cover trascinante di On Broadway, dove George Benson, perché di lui stiamo parlando, andava alla grande anche di scat, senza dimenticarsi di accarezzare la sua chitarra elettrica, di cui era uno dei grandi virtuosi, sin da quando uscirono i primi album a metà anni ‘60, per Prestige, Columbia, Verve, A&M e poi dal 1971 per la CTI, dischi nei quali il suo stile si spostò man mano dal jazz iniziale ad uno stile che incorporava anche R&B, light funky e smooth jazz, fino ad arrivare nel 1976, dopo il passaggio alla Warner Bros, al successo clamoroso di Breezin’ e anche di In Flight. Poi negli anni successivi a Weekend In L.A. la sua musica si è sempre più commercializzata, perdendo parte dello spirito iniziale e aggiungendo anche molti elementi pop, arrivando pure a sfiorare la disco.

george-benson-Photo-DavidWolffPatrick-Redferns@1400x1050David Wolff – Patrick / Redferns

Ammetto che me lo ero perso per strada moltissimi anni fa, ma poi all’improvviso lo scorso anno, dopo il passaggio alla Mascot/Provogue (e sotto l’egida del produttore Kevin Shirley, famoso soprattutto per il suo lavoro con Joe Bonamassa), pubblica un album molto bello Walking To New Orleans, un omaggio alla musica di Chuck Berry e Fats Domino, suonato e cantato con grande passione e con risultati eccellenti https://discoclub.myblog.it/2019/05/04/il-classico-disco-che-non-ti-aspetti-veramente-una-bella-sorpresa-george-benson-walking-to-new-orleans/  Prima di quel disco Benson intraprende (non nell’era Covid, in rete si legge che Benson avrebbe suonato a Londra nel 2017) un tour mondiale che lo porta anche a Soho, al celebre Ronnie Scott’s Jazz Club (un piccolo locale con 250 posti, che però ha fatto la storia della musica), circa 45 anni dopo la sua ultima apparizione nel locale, creando una sorta di continuità con il vecchio Weekend in L.A., visto che anche il Roxy a Hollywood è una venue che contiene 500 persone scarse, e quindi era quasi inevitabile che il nuovo CD in uscita (al solito lo ascolto prima e quindi ho poche notizie) si chiamasse Weekend In London. Il suono purtroppo, almeno per me, torna a virare verso quello dei vecchi album, senza sbracare troppo, ma con molte concessioni verso le abitudini sonore del passato, con parecchio spazio per i vecchi successi (ma niente On Broadway che avrei ascoltato volentieri, ma magari l’ha suonata e non è stata inserita nel disco).

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Si parte con Give Me The Night, dove l’artista di Pittsburgh può indulgere nei suoi classici ritmi levigati e ballabili, nobilitati da qualche accenno di scat e dal lavoro fluido della sua fedele Ibanez, perché questo signore a 78 anni suonati è ancora sia un ottimo cantante che un virtuoso della chitarra, aiutato da un gruppo numeroso dove gentili signorine lo aiutano, anche troppo, nelle armonie vocali, le ritmiche sono rotonde, fiati, tastiere a go-go e archi (presumo sintetici) molto presenti per un suono che Shirley cerca di contenere da derive troppo zuccherose, non sempre riuscendoci, ma tutto scorre in modo comunque piacevole e suonato molto bene https://www.youtube.com/watch?v=Eqmw8rM1LWg . Turn Your Love Around, Love X Love, You Eyes, ogni tanto ci sono dei soprassalti di qualità, come per I Hear You Knocking di Dave Bartholomew via Dave Edmunds, dove il suono si anima https://www.youtube.com/watch?v=1TAqaZEEgxs , o nella cover eccellente di The Ghetto di Donny Hathaway in cui si suona della ottima soul music https://www.youtube.com/watch?v=lGYdMvsnIuw , decisamente più “leccate” Nothing’s Gonna Change My Love For You e Feel Like Makin’ Love di Roberta Flack, anche se in entrambe ci sono assoli degni di nota.

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Meglio la cover di Don’t Let Me Be Lonely Tonight di James Taylor, raffinata e notturna, con il solito lavoro di fino della chitarra di George https://www.youtube.com/watch?v=qOOoEJ1m_qM , come pure Moody’s Mood, ispirata dal celebre jazzista James Moody, che sembra quasi un brano di Nat King Cole. Love Ballad e Never Give Up On A Good Thing illustrano il lato più disimpegnato e danzereccio di Benson, mentre la cover dello strumentale di Affirmation di José Feliciano rappresenta, in modalità fusion, la sua grande perizia alla chitarra, mentre Cruise Control dal suo disco GRP del 1998 Standing Together, mette in mostra di nuovo il suo inconfondibile scat voce-chitarra e la bravura della band. In complesso, come detto, un po’ leggerino, ma piacevole, ovviamente per chi ama il genere.

Bruno Conti

Signore E Signori: Il Disco Dell’Estate 2020! Jimmy Buffett – Life On The Flip Side

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Jimmy Buffett – Life On The Flip Side – Mailboat CD

Jimmy Buffett è un personaggio abbastanza unico nel panorama musicale americano: originario dell’Alabama (ma nato in Mississippi), cantautore di stampo classico dichiaratamente ispirato a James Taylor, ha sviluppato fin dai primi anni una passione per i suoni ed i ritmi delle isole caraibiche, creando un sound gioioso e solare in cui le steel drums hanno una parte determinante e perfezionando una lunga serie di album perfetti da ascoltare durante i mesi estivi, con canzoni dai testi spesso ironici ispirati al dolce far niente ed alla fuga dalla dura realtà quotidiana. Il suo songbook è ricco di classici del calibro di Margaritaville, Volcano, One Particular Harbour, Cheeseburger In Paradise, Fins, Come Monday, Changes In Latitudes, Changes In Attitudes e molti altri, ed anche le sue esibizioni dal vivo sono famose, con decine di migliaia di fans presenti ad ogni concerto (noti come “Parrotheads”): tutto ciò ha reso il nostro molto più popolare in America che dalle nostre parti, ed infatti in Europa (Parigi a parte) non viene praticamente mai. Negli ultimi anni Buffett ha parecchio diradato la sua produzione discografica, con un solo album pubblicato nella decade appena trascorsa (a parte il natalizio ‘Tis The SeaSon del 2016 https://discoclub.myblog.it/2016/11/30/caraibi-tradizione-due-modi-diversi-celebrare-il-natale-jimmy-buffett-tis-the-seasonloretta-lynn-white-christmas-blue/ ), l’ottimo Songs From St. Somewhere che era il seguito dell’altrettanto valido Buffet Hotel del 2009.

Life On The Flip Side segna quindi il più che gradito ritorno di Jimmy, e fin dalla confezione esterna (un elegante slipcase che contiene il CD in digipak ed un libretto di ben 62 pagine con foto, testi ed esaurienti note brano per brano) si capisce che il nostro ha fatto le cose in grande. Il layout mi ricorda parecchio quello di Fruitcakes, disco del 1994 che non a caso è per il sottoscritto il suo migliore in assoluto (insieme a Last Mango In Paris del 1985 e License To Chill del 2004), e la cosa di cui però mi compiaccio maggiormente è che, una volta ascoltato l’album, posso affermare di avere tra le mani uno dei lavori più belli di Buffett, e di certo il suo migliore dallo stesso License To Chill in poi. Jimmy è accompagnato come sempre dalla Coral Reefer Band, un formidabile ensemble di ben 12 tra musicisti e coristi (tra i quali spiccano i chitarristi e songwriters per conto proprio Mac McAnally e Will Kimbrough, il tastierista e direttore musicale Michael Utley, lo steel drummer Robert Greenidge e la fantastica sezione ritmica formata da Jim Mayer al basso, Roger Guth alla batteria ed Eric Darken alle percussioni), ma quello che rende Life On The Flip Side un gradino sopra altri lavori di Buffett è proprio l’eccellente qualità delle 14 canzoni, con il nostro responsabile da solo o con altri (soprattutto Kimbrough e McAnally) di un buon 80% del totale; come ulteriore ciliegina abbiamo il coinvolgimento di Lukas Nelson in un pezzo e, in ben tre canzoni, del noto cantautore irlandese Paul Brady, il quale mostra un’insolita vena gioiosa e “vacanziera”.

Inizio splendido proprio con uno dei brani che vede Brady collaborare sia alla scrittura che ai cori: Down At The Lah De Dah è un irresistibile pezzo country caraibico e solare tra i più belli e diretti mai pubblicati da Jimmy, una vera gioia per le orecchie con uno di quei motivi che non escono più dalla testa. Avvio strepitoso, sentire per credere. Who Gets To Live Like This vede la partecipazione di Nelson alla stesura del pezzo (ed ai cori), per una gradevole canzone di stampo reggae e con una linea melodica rilassata e godibile tipica di Jimmy (non manca l’assolo di steel drums); con The Devil I Know “sconfiniamo” in una ballroom texana, per un country’n’roll tutto ritmo e godimento sonoro, con il leader che mostra di divertirsi non poco (e noi con lui), mentre The Slow Lane è un’ariosa ballata con la slide che dona un sapore southern anche se l’elemento reggae non tarda a manifestarsi, un cocktail da gustare tutto d’un fiato. Cussin’ Island non cambia registro, siamo sempre in spiaggia con un margarita in mano ed una palma a farci ombra, Oceans Of Time (secondo brano di Brady, già noto nella versione del suo autore) è invece una splendida ballata lenta di stampo country, suono pieno e melodia avvolgente, tra le più belle del CD. La cadenzata Hey, That’s My Wave, caratterizzata da un ottimo refrain corale, fa tornare la voglia di prendere un volo per le Bahamas (la canzone è dedicata alla memoria di Dick Dale, e non manca un assolo chitarristico di stampo surf).

The World Is What You Make It è il terzo brano di Brady (risalente al 1995), con Paul stesso che duetta assieme a Jimmy e la Coral Reefer Band a fornire un background decisamente rock con le chitarre in primo piano, mentre la divertente Half Drunk ha un raffinato arrangiamento laidback dal sapore dixieland, un tipo di sound in cui il nostro si muove con classe ed eleganza. Mailbox Money è un country-rock elettrico e coinvolgente con un altro di quei ritornelli che non si staccano dalle orecchie, al contrario di Slack Tide che è una deliziosa ballad guidata dalla chitarra acustica e dal pianoforte, un brano che fa emergere il Buffett cantautore “serio”, non di certo inferiore a quello festaiolo. Il CD volge al termine, ma c’è ancora tempo per una doppia full immersion nei ritmi e colori delle isole del Mar dei Caraibi (la bellissima Live, Like It’s Your Last Day, vero riassunto in un titolo della filosofia di vita buffettiana, e la spassosa e trascinante 15 Cuban Minutes) e per il finale intimo e toccante di Book On The Shelf, intensa ballata nobilitata da una fisarmonica sullo sfondo nella quale il nostro dichiara di non avere ancora voglia di appendere la chitarra al chiodo. E questa è una gran bella notizia, perché soprattutto in questi momenti difficili c’è sempre più bisogno di dischi come Life On The Flip Side, in grado di farci trascorrere un’oretta di piacevole spensieratezza.

Marco Verdi

Meno Country E Più Cantautrice, Ma Ugualmente Brava. Brandy Clark – Your Life Is A Record

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Brandy Clark – Your Life Is A Record – Warner Music CD

Terzo album per la brava Brandy Clark, songwriter dello stato di Washington che ha un lungo curriculum come autrice per conto terzi, con “clienti” che rispondono ai nomi di Reba McEntire, Kenny Rogers, Miranda Lambert, Darius Rucker, Sheryl Crow, Wade Bowen e molti altri. Nel 2013 Brandy ha pensato di esordire come solista con 12 Stories, le cui buone critiche l’hanno portata ad insistere e a pubblicare tre anni dopo l’ottimo Big Day In A Small Town, un album di country-rock puro e scintillante, che all’epoca recensendolo avevo definito uno dei migliori dischi al femminile del 2016 https://discoclub.myblog.it/2016/07/11/piu-brava-coloro-cui-scriveva-sorta-usato-sicuro-brandy-clark-big-day-small-town/ . Brandy ora torna con Your Life Is A Record, nel quale prosegue il sodalizio con il noto produttore Jay Joyce (Emmylou Harris, The Wallflowers, Patty Griffin e Zac Brown Band), ma decide di modificare leggermente la sua proposta.

Se infatti Big Day In A Small Town era un solido album di country elettrico di quelli che coinvolgono dalla prima all’ultima canzone, Your Life Is A Record è più indirizzato verso le ballate, più meditato e cantautorale, con un uso degli archi che dona spesso ai brani un sapore country-pop alla Glen Campbell ma con orchestrazioni usate con gusto e mai ridondanti. Un uso differente per esempio da quello fatto da Bruce Springsteen nel recente Western Stars, dove gli archi erano molto più protagonisti: Brandy poi ha uno stile molto diverso da quello del Boss, è più cantautrice e meno rocker, e anche se questo nuovo lavoro forse ad un primo ascolto può suonare meno immediato del precedente, a lungo andare si posiziona allo stesso livello. La quasi totalità degli strumenti è suonata dalla Clark stessa, da Joyce e dal chitarrista e bassista Jedd Hughes, con l’aggiunta di piccoli interventi di altri musicisti, tra i quali spicca certamente il grande Randy Newman al piano e voce in Bigger Boat: questo ci dà la misura della crescita di Brandy, dato che Newman non è certo famoso per comparire spesso sui dischi altrui.

L’album parte in maniera soffusa con I’ll Be The Sad Song (il cui testo contiene la frase che intitola il CD), una ballata intima e con una strumentazione essenziale aumentata da una spruzzata di archi, la bella voce di Brandy in primo piano ed un motivo che piace al primo ascolto: già da un brano come questo si comprende la crescita costante della Clark sia come autrice che come performer. Long Walk è più vivace, una saltellante e deliziosa canzone tra country e pop e con gli archi usati come in un film western (è qui che la nostra mi ricorda una versione moderna e femminile di Campbell); Love Is A Fire è un altro lento che non è né country né pop né folk, ma combina tutti questi stili ed aggiunge un leggero sapore vintage con classe e raffinatezza. Un mandolino introduce la bella Pawn Shop, brano attendista che cresce a poco a poco fino a diventare uno dei momenti più brillanti del CD, con un refrain diretto e piacevole; anche meglio Who You Thought I Was, puro country d’autore dalla squisita melodia e con un sound classico che rimanda ai seventies: è anche da pezzi come questo che si capisce il perché Brandy sia una delle autrici più richieste a Nashville https://www.youtube.com/watch?v=C_ZCk2QyXsw .

Apologies, lenta e toccante, precede la già citata Bigger Boat, il brano in cui Newman duetta con la titolare (ed il carisma di Randy è ancora intatto), un divertente honky-tonk quasi cabarettistico con i toni ironici tipici del grande songwriter californiano, che infatti si muove nel suo ambiente naturale. Bad Car è una ballata ad ampio respiro, limpida ed ariosa, a differenza della cadenzata Who Broke Whose Heart che è un godibile country-rock con tanto di fiati ed un mood coinvolgente; il CD termina con la slow Can We Be Strangers, un brano sofisticato ed elegante quasi alla James Taylor, e con la fluida e distesa The Past Is The Past, che chiude il disco nello stesso modo soffuso con cui si era aperto. Brandy Clark è indubbiamente brava, e disco dopo disco lo dimostra sempre di più.

Marco Verdi

 

 

Un Bel Disco Di Ispirazione Letteraria. David Starr – Beauty & Ruin

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David Starr – Beauty & Ruin – Cedaredge CD

Pur avendo esordito nel 2003 e vantando una discografia di quasi una decina di unità, il nome di David Starr è abbastanza sconosciuto presso il pubblico. Originario dell’Arkansas ma da anni spostatosi in Colorado, Starr è un cantautore classico, di quelli che si ispirano alla scuola californiana degli anni settanta (Jackson Browne, Dan Fogelberg, ecc.) costruendo le sue canzoni attorno alla voce ed alla chitarra, e rivestendo il tutto con pochi ma selezionati strumenti: una steel in sottofondo, talvolta un organo, una sezione ritmica mai invadente, in certi casi un violino. Per il suo nuovo lavoro Beauty & Ruin David ha scelto di farsi produrre da John Oates, che dopo i fasti del duo Hall & Oates si è reinventato come artista roots-oriented (ottimo il suo album Arkansas del 2018 https://discoclub.myblog.it/2018/02/13/chiamatelo-pure-mississippi-john-oates-john-oates-arkansas/ ), ed i due hanno selezionato una serie di autori noti e meno noti, tra i quali Jim Lauderdale, il duo formato da Doug e Telisha Williams (più conosciuti come Wild Ponies) ed Oates stesso, dando ad ognuno dei quali una copia del libro Of What Was, Nothing Is Left, opera del 1972 del noto autore Fred Starr (nonno di David), e chiedendo ad ognuno di loro di scrivere un testo ad esso ispirato al quale poi lui e John avrebbero aggiunto la musica.

Il risultato è appunto Beauty & Ruin, un album di ballate intense e profonde suonato da un manipolo di gente molto nota tra cui Glenn Worf, Dan Dugmore e Greg Morrow: musicisti che solitamente troviamo in dischi country, anche se qui il country è solo un tramite (e neanche sempre) per dare un suono ai brani di Starr, che come dicevo poc’anzi derivano direttamente dalla lezione dei cantautori classici dei seventies. Laura è una gentile ballata acustica, profonda ed intensa, con David che canta con voce limpida: un brano da vero songwriter, con strumentazione parca ma dosata al punto giusto e la steel di Dugmore che si staglia sullo sfondo https://www.youtube.com/watch?v=pvk2p81XXGk . Bella anche la title track, un pezzo tenue suonato in punta di dita che rimanda allo stile pacato di James Taylor, anche se qui l’accompagnamento è più “rootsy”; Rise Up Again è ariosa e tersa, un brano che sembra uscito proprio da qualche disco degli anni settanta, mentre Bury The Young ha un delicato sapore western ed è dotata di un motivo profondamente evocativo ed emozionante, una gran bella canzone. Il quinto brano si intitola proprio come il libro di nonno Fred, Of What Was, Nothing Is Left, ed è un pezzo attendista che si sviluppa con lentezza intorno alle chitarre, fino al refrain in cui il suono si fa più corposo: David si conferma un autore coi fiocchi, brani come questo non si scrivono per caso.

Cracks Of Time è soffusa e raffinata, con un arrangiamento che valorizza la melodia ed un bel gioco di percussioni, Road To Jubilee (il brano di Lauderdale) ha una strumentazione avvolgente con le chitarre e l’organo che creano un tutt’uno col motivo centrale https://www.youtube.com/watch?v=6RKBZKhFLRA , mentre con My Mother’s Shame torniamo alle atmosfere interiori, e non manca una certa tensione di fondo (non è un brano rock, ma è quello che si avvicina di più) https://www.youtube.com/watch?v=L_31JXbnNIw . Il CD prosegue senza sbavature: Fly By Night ha una bella chitarra che accompagna la melodia solare ed è uno dei brani più belli ed immediati, con un suono vagamente jingle-jangle; chiusura con Laurel Creek, deliziosa ballata dal sapore country, e con I Don’t Think I’ll Stay Here, canzone distesa ed orecchiabile che mette il sigillo ad un bel disco di cantautorato d’alta classe.

Marco Verdi

Grande Album Nuovo, Ma Con Canzoni “Vecchie”: La Recensione. James Taylor – American Standard

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James Taylor – American Standard – Fantasy/Concord/Universal

Ci stava lavorando da tempo e le prime notizie sull’uscita imminente avevano iniziato a circolare dalla fine della scorsa estate: come lascia intuire il titolo American Standard, l’album, pur essendo completamente nuovo, raccoglie una serie di canzoni “vecchie”, o se preferite classici della canzone americana, brani composti dagli anni trenta fino agli anni sessanta, pezzi che, come ha raccontato lo stesso James Taylor, facevano parte degli ascolti abituali della famiglia Taylor negli anni formativi di James. Appunto grandi standard della musica popolare più raffinata made in America, ma anche tracce estratte dagli album di alcune classiche commedie musicali, Guys and Dolls, Oklahoma!, My Fair Lady, Brigadoon, Peter Pan, Show Boat, South Pacific, il tutto prodotto con l’aiuto di David O’Donnell e del grande chitarrista John Pizzarelli, che insieme a James hanno costruito una serie di arrangiamenti basati intorno al suono della chitarre, e non del pianoforte, magari con forti componenti orchestrali, come è tipico di questo repertorio. Per intenderci, se mi passate il termine, il suono è stato “James Taylorizzato”, almeno da quanto si può arguire ascoltando le tracce sonore.

Insomma, pur essendo lo stile quello solito, raffinato e confidenziale, tipico del cantante di Boston, grazie all’aiuto della solita nutrita pattuglia di musicisti, il sound è comunque complesso e raffinato, infatti nel disco troviamo la sua band abituale, che poi lo accompagnerà anche nei tour che promuoveranno l’album, prima in Canada, insieme a Bonnie Raitt, e poi negli States con Jackson Browne: la lista dei collaboratori è lunga, il bassista Jimmy Johnson, il batterista Steve Gadd,il percussionista Luis Conte, alle tastiere Larry Goldings, ai fiati Lou Marini Walt Fowler e i vocalist di supporto Kate Markowitz, Caroline Taylor, Andrea Zonn, Dorian Holley e Arnold McCuller. In più, come ospiti, Jerry Douglas al dobro, Viktor Krauss al contrabbasso e Stuart Duncan al violino. Inoltre, con l’aiuto del grande giornalista Bill Flanagan (quello che ha fondato la rivista Musician e poi ha “inventato” VH1), che ha prodotto il progetto, James Taylor il 31 gennaio pubblicherà anche Break Shot, una sorta di autobiografia sonora che uscirà nel formato Audible, e con la voce narrante dello stesso musicista racconterà la storia della sua vita, soprattutto la prima parte della sua carriera, anche attraverso molti supporti audio.

Comunque, tornando all’album,  il 19° in studio della sua discografia, nel CD, oltre ai brani tratti dai musical, troviamo le sue versioni di God Bless The Child di Billie Holiday, un classico dello swing come My Blue Heaven, la stupenda ballata The Nearness Of You e quella che viene presentata come la prima cover in assoluto di un brano As Easy As Rolling Off A Log, che faceva parte di un cartone animato del 1938 Katnip Kollege, della serie Merrie Melodies.Questo è quello che avevo scritto per la presentazione dell’album, più di un mese fa, ma visto che posso sottoscrivere tutto ciò che ho detto (dato che avevo già ascoltato il dico), mi limito ad aggiungere una bella recensione track by track delle canzoni contenute in questo American Standard.

1. My Blue Heaven Scritta da Walter Donaldson-George A. Whiting , faceva parte del musical (o meglio una antenata, la revue, visto che le commedie musicali al cinema erano ancora mute) Ziegfeld Follies del 1927. Un brano intimo e romantico aperto dalla chitarra acustica arpeggiata di Taylor (protagonista comunque in tutto l’album insieme a quelle di Pizzarelli), porto con la solita voce partecipe, ma mai sopra le righe,, del buon James, in uno stile che nella parte iniziale potrebbe ricordare You’ve Got A Friend: anche se qui ci sono delle fioriture orchestrali, poi il tempo si anima, diventa swingato, con il violino di Stuart Duncan in evidenza.
2. Moon River Anche il celeberrimo brano di Henry Mancini e Johnny Mercer, che appariva nella colonna sonora di Colazione Da Tiffany, è una delle canzoni d’amore più famose della musica americana, seconda come popolarità nell’ambito degli standard della musica da film, forse solo a Over The Rainbow, conta oltre settecento diverse versioni: quella di Taylor, cantata splendidamente e in modo soave, gioca su un arrangiamento perfetto, le due acustiche, il contrabbasso di Krauss e un assolo della melodica di Goldings .
3. Teach Me Tonight
riporta come autori ,Gene De Paul-Sammy Cahn un’altra coppia classica dell’American Songbook, e pure questa suona come un brano tipico del nostro, anche se l’uso di percussioni e fiati, nello specifico Walt Fowler alla tromba, confermano quell’appeal jazzy che pervade tutto l’abum.
4. As Easy as Rolling off a Log
come riporto sopra, faceva parte di una colonna sonora di un cartone animato dove i protagonisti erano due gatti, sempre uno swing jazz basato sul suono delle chitarre di James e Pizzarelli e del clarinetto di Lou Marini, molto piacevole e spensierato.

5. Almost Like Being in Love della premiata ditta Frederick Loewe-Alan Jay Lerner faceva parte del musical Brigadoon, anche nella versione cinematografica. Forse qualcuno la ricorda nella colonna sonore de Il Giorno Della Marmotta cantata da Nat King Cole. Questa canzone, grazie anche all’avvolgente lavoro delle coriste e ad un assolo del sax di Marini, oltre al suadente approccio di James, ricorda certo blue eyed soul di gran classe, tentato già da Taylor più volte in passato. Sembra quasi un brano “acustico” degli Steely Dan.
6. Sit Down You’re Rockin’ the Boat
di Frank Loesser era nella commedia musicale Bulli E Pupe (quando posso vi ricordo i titoli italiani), tra i contemporanei l’aveva incisa anche Don Henley. Altro brano che parte piano con il dobro di Jerry Douglas in evidenza, poi si anima con improvvise e deliziose accelerazioni anche vocali, e continui cambi di tempo, sempre con Douglas grande protagonista.
7. The Nearness of You
è un altro standard senza tempo, scritto da Hoagy Carmichael-Ned Washington , una delle più belle canzoni in assoluto della musica pop(olare) americana, e questa versione felpata e sognante, con retrogusti latineggianti, rende assoluto merito a questa adorabile canzone d’amore, con Taylor che la canta magnificamente una volta di più.
8. You’ve Got To Be Carefully Taught
di Richard Rodgers-Oscar Hammerstein II era nel musical South Pacific del 1949, uno dei primi brani che affrontava temi razziali, sia pure in modo lieve e blando, una bella ballata con spazio per il violino di Duncan, il cello di Krauss e le tastiere di Goldings e il “solito” cantato appassionato del cantante di Boston.

9. God Bless The Child porta la firma di Billie Holiday-Arthur Herzog Jr, ed è uno dei capolavori assoluti di “Lady Day”. La rilettura fatta da Taylor con i suoi musicisti è inconsueta, basata sul trillante dobro di Jerry Douglas diventa quasi un brano country, per quanto squisito e di gran classe, con la voce di James che quasi cesella le note, bellissima versione.
10. Pennies From Heaven
Arthur Johnston-Johnny Burke, viene dall’America degli anni ‘30, quella del Post Depressione, ottimista e piena di fiducia e speranza nel futuro, giocata ancora una volta sull’interscambio delle due chitarre, una sezione ritmica sbarazzzina e il suono vintage dell’organo di Goldings, un ennesimo piccolo gioiellino di equilibri sonori tra il cantato e la parte strumentale.
11. My Heart Stood Still
scritta da altri due pesi massimi dell’ American Songbook come Richard Rodgers-Lorenz Hart viene anche questa dagli anni ‘20 del secolo scorso, altro brano romantico perfetto per lo stile del nostro che la “James Taylorizza” da par suo, sempre ben sostenuto dal violino di Duncan, canzone che non avrebbe sfigurato nei suoi album classici degli anni ‘70.

12. Ol’ Man River altra canzone del 1927, scritta da Jerome Kern-Oscar Hammerstein II per Show Boat, e di cui si ricorda una versione epocale del baritono di colore Paul Robeson, uno dei grandi della canzone gospel, con Taylor che tenta anche alcune note basse notevoli in omaggio a quella versione, dalla melodia bellissima che James omaggia in modo perfetto con una interpretazione veramente magnifica.
13. (It’s Only) a Paper Moon
scritta da Harold Arlen-Yip Harburg-Billy Rose, lo stesso team di autori che scrisse Over The Rainbow, vira nuovamente verso le sonorità tipiche del nostro, pensate a Don’t Let Be Me Lonely Tonight, You’ve Got A Friend, You Can Close Your Eyes, potremmo andare avanti per ore, aggiungete una patina elegante e jazzy, e voilà i giochi sono fatti.
14. The Surrey With The Fringe on Top
ancora di Richard Rodgers-Oscar Hammerstein II era nel musical Oklahoma, carezzevole e leggiadra, solo la voce di Taylor e le chitarre di James e Pizzarelli, con la squisita voce aggiunta nel finale della brava Caroline Taylor, che incidentalmente è la terza e ultima moglie del nostro amico.

Altra ottima prova dopo l’eccellente https://discoclub.myblog.it/2015/07/09/la-classe-acqua-james-taylor-before-this-world/. Della serie, sempre una garanzia!

Bruno Conti

 

Novità Prossime Venture 2020 3. James Taylor – American Standard: Album Nuovo, Ma Canzoni “Vecchie”, Esce Sempre Il 28 Febbraio

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James Taylor – American Standard – Fantasy/Concord/Universal – 28-02-2020

Ci stava lavorando da tempo e le prime notizie sull’uscita imminente avevano iniziato a circolare dalla fine della scorsa estate:come lascia intuire il titolo American Standard, l’album, pur essendo completamente nuovo, raccoglie una serie di canzoni “vecchie”, o se preferite classici della canzone americana, brani composti dagli anni trenta fino agli anni sessanta, pezzi che, come ha raccontato lo stesso James Taylor, facevano parte degli ascolti abituali della famiglia Taylor negli anni formativi di James. Appunto grandi standard della musica popolare più raffinata made in America, ma anche tracce estratte dagli album di alcune classiche commedie musicali, Guys and Dolls, Oklahoma!, My Fair Lady, Brigadoon, Peter Pan, Show Boat, South Pacific, il tutto prodotto con l’aiuto di David O’Donnell e del grande chitarrista John Pizzarelli, che insieme a James hanno costruito una serie di arrangiamenti basati intorno al suono della chitarre, e non del pianoforte, magari con forti componenti orchestrali, come è tipico di questo repertorio. Per intenderci, se mi passate il termine, il suono è stato “James Taylorizzato”, almeno da quanto si può arguire ascoltando le prime tracce sonore che sono state caricate in rete. Sentite il primo singolo Teach Me Tonight per avere un’idea di quello che ci aspetta.

Insomma, pur essendo lo stile quello solito, raffinato e confidenziale, tipico del cantante di Boston, grazie all’aiuto della solita nutrita pattuglia di musicisti, il sound è comunque complesso e raffinato, infatti nel disco troviamo la sua band abituale, che poi lo accompagnerà anche nei tour che promuoveranno l’album, prima in Canada, insieme a Bonnie Raitt, e poi negli States con Jackson Browne: la lista dei collaboratori è lunga, il bassista Jimmy Johnson, il batterista Steve Gadd,il percussionista Luis Conte, alle tastiere Larry Goldings, ai fiati Lou Marini Walt Fowler e i vocalist di supporto Kate Markowitz, Caroline Taylor, Andrea Zonn, Dorian Holley e Arnold McCuller. In più, come ospiti, Jerry Douglas al dobro, Viktor Krauss al contrabbasso e Stuart Duncan al violino.

Inoltre, con l’aiuto del grande giornalista Bill Flanagan, quello che ha fondato la rivista Musician e poi ha “inventato” VH1, che ha prodotto il progetto, James Taylor il 31 gennaio pubblicherà anche Break Shot, una sorta di autobiografia sonora che uscirà nel formato Audible, e con la voce narrante dello stesso musicista racconterà la storia della sua vita, soprattutto la prima parte della sua carriera, anche attraverso molti supporti audio.

Comunque, tornando all’album,  il 19° in studio della sua discografia, nel CD, oltre ai brani tratti dai musical, troviamo le sue versioni di God Bless The Child di Billie Holiday, un classico dello swing come My Blue Heaven, la stupenda ballata The Nearness Of You e quella che viene presentata come la prima cover in assoluto di un brano As Easy As Rolling Off A Log, che faceva parte di un cartone animato del 1938 Katnip Kollege, della serie Merrie Melodies. Al solito ecco la lista completi dei contenuti dell’album, anche con gli autori dei singoli brani, che uscirà il prossimo 28 febbraio.

  1. My Blue Heaven (Walter Donaldson-George A. Whiting)
  2. Moon River (Henry Mancini-Johnny Mercer)
  3. Teach Me Tonight (Gene De Paul-Sammy Cahn)
  4. As Easy As Rolling Off A Log (M.K. Jerome-Jack Scholl)
  5. Almost Like Being In Love (Frederick Loewe-Alan Jay Lerner)
  6. Sit Down, You’re Rockin’ The Boat (Frank Loesser)
  7. The Nearness Of You (Hoagy Carmichael-Ned Washington)
  8. You’ve Got To Be Carefully Taught (Richard Rodgers-Oscar Hammerstein II)
  9. God Bless The Child (Billie Holiday-Arthur Herzog Jr.)
  10. Pennies From Heaven (Arthur Johnston-Johnny Burke)
  11. My Heart Stood Still (Richard Rodgers-Lorenz Hart)
  12. Ol’ Man River (Jerome Kern-Oscar Hammerstein II)
  13. It’s Only A Paper Moon (Harold Arlen-Yip Hardburg-Billy Rose)
  14. The Surrey With The Fringe On Top (Richard Rodgers-Oscar Hammerstein II)

Dopo l’uscita ovviamente recensione completa del disco, che arriva a ben cinque anni di distanza dal precedente Beyond This World, che nel 2015 era stato il primo album di James Taylor a raggiungere il primo posto delle classifiche americane.

Bruno Conti

Carole King, The Queen Of Classic Pop: Una Breve Cronistoria, Seconda Parte.

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Seconda Parte.

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Music – 1971 Ode/Epic – ***1/2

E per la serie l’ispirazione inarrestabile non finisce mica qui, a dicembre dello stesso 1971 ecco già pronto un altro album Music, sempre prodotto da Lou Adler, con il consueto nucleo di musicisti dei dischi precedenti, a cui si aggiungono Bobbye Hall alle percussioni e un nutrito gruppo di fiatisti. Non è un altro capolavoro, e come potrebbe essere, ma ancora un ottimo album. Proprio nell’iniziale Brother, Brother si apprezzano le percussioni di Mrs. Hall che danno quasi un’impronta soul alla Marvin Gaye al sound, con il sax in bella evidenza, It’s Going To Take Some Time, uno dei tre brani scritti con la Stern, ha la allure delle migliori canzoni di Carole, anche se la qualità non raggiunge le vette celestiali del precedente album, pur se una certa serenità di fondo traspare anche nella musica.

Deliziose anche Sweet Seasons e la ripresa della dolcissima Some Kind Of Wonderful, un brano targato Goffin/King che fu un successo proprio per Marvin Gaye. Larkey lavora sempre di fino al basso e il suono complessivo del LP ricorda da vicino quello che anche Laura Nyro stava sviluppando in quegli anni, per esempio nella raffinatissima Surely e nella pianistica title-track Music, graziata anche da uno splendido assolo del sax di Curtis Amy, mentre Song Of Long Ago è una sorta di duetto con la King e James Taylor che vocalizzano insieme nello stile West Coast tipico di Carole che rimane una costante di molte canzoni.

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Rhymes And Reasons – 1972 Ode/Epic ***1/2

Come il precedente anche Rhymes And Reasons arriva ai primissimi posti della classifica Usa: Music al 1° e questo al 2°, ma la qualità rimane sempre altissima. Alla batteria arriva Harvey Mason, David T. Walker si alterna a Kortchmar come chitarrista, Carole King oltre che al pianoforte è impegnata anche a clavinet, Wurlitzer e Fender Rhodes,  e i fiati e gli archi sono sempre presenti nella produzione di Adler. Per l’occasione c’è solo una canzone della coppia Goffin/King, ma ben quattro scritte con Toni Stern, le prime  del disco. Piacevole ma non memorabile per i suoi standard, però l’iniziale Come Down Easy, Peace In The Valley, l’orchestrata First Day In August, la ritmata Bitter With The Sweet e Been To Canaan, quasi alla Bacharach, confermano la classe innata.

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Fantasy – 1973 Epic/Ode – ***1/2

E’ una specie di concept album, anzi un song cycle, che viene portato in tour, pure in Europa, e lo ritroviamo nel bellissimo CD/DVD Live At Montreux 1973, di cui leggete la recensione in altra parte del Blog https://discoclub.myblog.it/2019/09/05/dal-passato-di-una-delle-piu-grandi-cantautrici-di-sempre-una-perla-sconosciuta-carole-king-live-at-montreux-1973/, un disco ancora una volta molto influenzato dalla black music, e dal funky leggero ma con tocchi jazz, visto che è accompagnata da una band “nera”, qualche titolo dei brani migliori lo trovate proprio nella recensione.

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Wrap Around Joy – 1974 Epic/Ode – ***

E’ l’ultimo disco in cui appare Larkey, neppure in tutti I brani, visto che nell’album suonano in metà di mille: comunque ancora un buon disco, in cui troviamo l’iniziale deliziosa Nightingale, un singolo di successo come Jazzman, e un paio di ballate Change in Mind, Change of Heart e We Are In All This Together, ma nell’insieme il disco, con la presenza delle figlie Louise e Sherry alle armonie vocali, è fin troppo lavorato e “zuccherino” in molti brani.

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Se volete crearvi la vostra discografia perfetta di Carole King aggiungete questo box a prezzo speciale con gli album del periodo Ode e aggiungete Tapestry e avrete tutto l’indispensabile della prima parte della carriera.

Vediamo Il Meglio ( E Il Peggio) del Resto.

Mentre invece per gli anni successivi il meglio del periodo seguente lo trovate in questo piccolo cofanetto qui sopra sempre a prezzo speciale.

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In effetti Thoroughbred (1976 -***) sarebbe l’ultimo album per la Ode, ancora con Adler alla produzione, e sulla carta, visti i musicisti presenti, a fianco di Kunkel e Kootch Kortchmar ci sono Waddy Wachtel, Lee Sklar, David Crosby, Graham Nash, James Taylor, JD Souther, Tom Scott, dovrebbe essere eccellente, ma a parte qualche brano, come l’iniziale So Many Ways, Daughter Of Light, il singolo Only Love Is Real, There’s Space Between Us, ogni tanto si sfiora l’easy listening, sia pure di gran classe. Nel 1977 firma con la Capitol, ma si sposa anche con Rick Evers, un tossico, ex homeless, che abusa anche fisicamente di lei, per quanto si dica che pure lei avesse il suo caratterino e rapporti difficili con gli altri ex e con gli “amici”. Dopo una serie di album deludenti giustamente decide di rivolgersi al meglio del suo repertorio passato e pubblica nel 1980 Pearls: Songs of Goffin and King  (Capitol 1980 – ***1/2) dove rivisita dieci canzoni del suo songbook, con l’aiuto del cantautore Mark Hallman, che produce l’album. Non male anche One To One – Atlantic -*** del 1982, sempre prodotto da Hallman, con i rientranti Kortchmar e Larkey, ma poi è notte fonda, City Streets suono orrido anni ’80, vede nel 1989 la presenza di Eric Clapton e Branford Marsalis, ma stenderei un velo pietoso.  Negli anni ’90 esce solo Colour Of Your Dreams, disco del 1993 con Slash alla solista, e ho detto tutto.

Negli anni 2000 ricordiamo il discreto disco natalizio del 2011 A Holiday Carole e soprattutto alcuni notevoli  dischi dal vivo, The Living Room Tour (2005 Hear Music  -***), l’ottimo Live At The Troubadour con James Taylor (2010 Concord ***1/2), registrato nel 2007 e l’eccellente Tapestry: Live In Hyde Park (Sony Legacy 2017 – ****) , registrato nel 2016 per festeggiare i 45 anni del suo disco più bello https://discoclub.myblog.it/2017/10/15/uno-dei-dischi-piu-belli-della-storia-della-musica-rock-anche-in-versione-dal-vivo-carole-king-tapestry-live-at-hyde-park/ .

Direi che questo è quanto.

Bruno Conti

Carole King, The Queen Of Classic Pop: Una Breve Cronistoria, Prima Parte.

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Carole Joan Klein, nasce a New York, anzi proprio a Manhattan, da una famiglia di origini ebree, il 9 febbraio del 1942: durante gli anni al Queens College (un nome, un destino) incontra Gerry Goffin, che nell’agosto del 1959 sposerà a Long Island in una cerimonia ebraica, in quanto Carole era già incinta della prima figlia Louise. Nel frattempo i due avevano iniziato a scrivere canzoni insieme, in serata, quando erano terminati gli impegni di lavoro, avendo entrambi abbandonato il college per intraprendere la vita coniugale. Ma la King era una predestinata, aveva già frequentato il mondo musicale, quando era alle scuole superiori uno dei suoi primi fidanzati dell’epoca era stato Neil Sedaka, che proprio nel 1959 ebbe un clamoroso successo con Oh, Carol, per il quale Goffin, sulla stessa melodia, scrisse una canzone di risposta (ai tempi usava) Oh Neil,  cantata dalla King, che però non fu un successo, come neppure il lato B scritto insieme, A Very Special Boy, il secondo singolo ad uscire. I due ci misero poco ad aggiustare l’intesa musicale e già nel 1960 scrissero insieme (lei la musica e lui i testi, questa la formula) Will You Still Love Me Tomorrow?, un mega successo per le Shirelles, il primo brano di un gruppo femminile nero ad arrivare al n°1 delle classifiche, con il risultato che entrambi lasciarono il loro lavoro giornaliero per dedicarsi a tempo pieno alla musica, diventando una delle coppie di maggior successo durante

Gli Anni Del Brill Building 1960-1968

I brani scritti in coppia come Goffin-King, tra il 1960 e il 1968, anno in cui si lasceranno e divorzieranno, furono una infinità, ma almeno una cinquantina entrarono nella top 100 (e per Carole KIng, da sola o in coppia, fino al 1999, furono addirittura 118! Per cui il titolo dell’articolo è più che giustificato). Vediamo alcuni dei titoli più celebri o significativi scegliendo anche tra quelli più belli, magari incisi in seguito anche dalla nostra amica: Some Kind Of Wonderful, sempre del 1960, per i Drifters, ma poi anche in una bellissima versione di Marvin Gaye fu incisa pure da Carole King, come sarà per Will You Still Love Me Tomorrow. Nel 1961 Chains per i Cookies, ma anche i Beatles nel 1963 e la sua versione nel 1980; The Loco-Motion per Little Eva, e nell’album Pearls,  appunto del 1980. Nel 1962 Up On The Roof ancora con per i Drifters, poi su Writer il debutto solista del 1970 e incisa anche dalla “rivale” Laura Nyro lo stesso anno. Nel 1963 Hey Girl per Freddie Scott, ma soprattutto One Fine Day per le Chiffons, entrambe riprese nel disco del 1980. Nel 1965 Goffin e King scrivono anche alcuni brani con Phil Spector e lo stesso anno la splendida Don’t Bring Me Down per gli Animals (la faceva anche Tom Petty). Goin’ Back del 1966 per Dusty Springfield, ma come dimenticare la versione dei Byrds, e la stessa Carole l’ha incisa due volte, la stupenda (You Make Me Feel Like) A Natural Woman, insuperata nella versione di Aretha Franklin, e poi apparsa su Tapestry

e infine nel 1968 I Wasn’t Born to Follow per i Byrds, che apparirà anche nel disco dei

The City –  Now That Everything’s Been Said – 1968 Ode – ***1/2

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Un trio con il futuro secondo marito, il bassista Charles Larkey e con Danny Kortchmar alla chitarra, oltre naturalmente a Carole King alle tastiere e alla voce, e con “l’ospite” Jim Gordon alla batteria. Un disco che non ebbe successo, sia per la riluttanza della King ad andare in tour, sia perché l’album andò fuori catalogo velocemente a causa di un cambio di distribuzione. Ma comunque giustamente rivalutato quando è stato pubblicato in CD, prima nel 1999 e poi dalla Light In The Attic nel 2015: molti dei brani portano ancora la firma Goffin e King, ma al di là della bellissima I Wasn’t Born To Follow è tutto l’album nell’insieme che per certi versi anticipa l’avvento della musica Westcoastiana. Anche perché nel frattempo Carole, nel 1967, si era trasferita a Los Angeles, nella zona del Laurel Canyon, dove aveva incontrato i primi praticanti di quello stile, altri spiriti affini, e alcune canzoni  del disco furono incise dai Monkees (la deliziosa A Man Without A Dream cantata da “Kootch” Kortchmar) , Blood, Sweat & Tears (la bellissima Hi-De-Ho)-, American Spring (la mossa title track, puro Carole King sound) e il brano dei Byrds fu usato anche nella colonna sonora di Easy Rider.

Lei, che anche in seguito non è mai stata considera una grande cantante, usa comunque alla perfezione quella sua voce unica e particolare, che l’ha resa una delle più grandi cantautrici americane di tutti i tempi. Pezzi come Snow Queen, una bellissima pop ballad o un paio di duetti con Kortchmar mostrano già il suo stile perfettamente formato e fanno da prodromo alla imminente carriera solista, che come in molti altri casi raggiungerà le sue vette nei primi cinque o sei album, quelli usciti tra il 1970 e il 1974.

The  Ode Years 1970-1974

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Writer – 1970 Ode/Epic – ***1/2

Pubblicato nel maggio del 1970, Writer presenta 12 brani, ancora tutti a firma Goffin/King, a parte due canzoni con i testi di Toni Stern, e ci sono le nuove versioni ricordate poc’anzi di Goin’ Back e Up On The Roof. Il disco è prodotto da John Fishbach,  ingegnere e musicista, che suona anche il moog nell’album; Charles Larkey, marito di Carole e Danny Kortchmar, rimangono rispettivamente a basso e chitarra come nel disco dei The City.  James Taylor è presente alla chitarra acustica e alle armonie vocali, mentre Joel O’Brien alla batteria e Ralph Schuckett all’organo completano l’organico. Come per Now That Everything’s Been Said siamo di fronte ad un ottimo album, che precede di pochi mesi quello che sarà un capolavoro assoluto del “rock”.

Lo stile del disco, che poi rimarrà costante per la intera carriera della King, sta in quel giusto equilibrio tra soft rock e pop raffinato, come esplicato nella vibrante Spaceship Races, nella splendida ballata errebì No Easy Down, in un’altra piano ballad come Child Of Mine, nel country-rock delicato in puro stile West Coast di To Love o in What Have You Got To Lose dove le chitarre acustiche si inseguono e il gusto di Carole per le melodie e le intricate armonie vocali regna sovrano., ma niente male anche la jazzata Raspberry Jam e il gospel-rock di Sweet Sweetheart. Se poi non avesse sette/otto mesi  dopo pubblicato il suo capolavoro, sarebbe ricordato comunque come un ottimo album, quale è.

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Tapestry – 1971 Ode/Epic – *****

Registrato a gennaio agli A&M Studios di Hollywood, pubblicato a Febbraio, con la produzione di Lou Adler, l’uomo alle spalle della carriera dei Mamas And Papas, che chiama a raccolta la crema della musica californiana: sono della partita Joni Mitchell e di nuovo James Taylor, le coriste Merry Clayton e Julia Tillman, con Larkey, Schuckett, O’Brien e Kootch Kortchmar sempre al loro posto più bravi che mai, con l’aggiunta di Russ Kunkel alla batteria e di Curtis Amy, Terry King e Barry Socher ai fiati, oltre ad un quartetto di archi. Ci sarà un motivo se il disco ha vinto 4 Grammy l’anno successivo tra cui Album dell’Anno, ha venduto complessivamente 10 milioni di copie negli USA e 25 nel mondo? Si, perché è praticamente perfetto: una sequenza di brani magnifici, uno in fila all’altro, che sentiti ancora oggi a quasi 50 anni dall’uscita non hanno perduto un briciolo della loro magnificenza.

Una ispiratissima Carole King questa volta firma da sola (quindi parole e musica) quasi tutte le canzoni, con l’eccezione di Will You Love Me Tomorrow, il famoso pazzo scritto con il marito Gerry per le Shirelles, bellissima anche nella versione di Carole, e Smackwater Jack un’altra composizione Goffin/King che sarà il secondo singolo estratto dall’album, una sorta si shuffle uptempo, mosso e coinvolgente, con un grande lavoro del dancing bass di Larkey, grande musicista sottovalutato rispetto agli ottimi Schuckett e Kortchmar, e splendidi gli interscambi vocali con Merry Clayton. (You Make Me Feel Like) A Natural Woman scritta da Goffin e King insieme a Jerry Wexler per Aretha Franklin è una ballata pianistica talmente bella che non si poteva evitare di inserirla nel disco, la versione della Queen Of Soul è insuperabile, ma anche Carole King a livello emotivo e pianistico ci mette del suo e il risultato è superbo.

Saltando qui e là ci sono altre due canzoni scritte con Toni Stern: It’s Too Late che raggiunse il primo posto delle classifiche dei singoli nell’aprile 1971 è un’altra di quelle ballate dolenti in cui eccelle la nostra amica, un ritornello cantabile e un lavoro eccellente di tutta la band con l’interscambio delizioso tra la chitarre di Kortchmar e il sax di Curtis Amy, senza dimenticare il piano, l’altro brano firmato con la Stern è Where You Lead, sempre ricca di nuances tra soul e R&B con le avvolgenti armonie di Clayton e Tillman a decorare la voce partecipe della King, in grande spolvero. Rimangono le sette canzoni scritte in solitaria dalla King e sono una più bella dell’altra:

I Feel The Earth Move dà proprio l’impressione, con la sua andatura incalzante e quel pianoforte dal ritmo pressante, di un terremoto sonoro in arrivo, grande brano, e che dire di So Far Away, altra ballata sublime, con la chitarra acustica di James Taylor, e il flauto di Amy a sottolineare l’interpretazione superba della King, sia a livello vocale che per il lavoro del piano, senza dimenticare Kunkel alla batteria e Larkey al basso. Home Again è un’altra perla intima del songbook della cantante newyorchese, un altro brano splendido con il piano a cesellare le note, mentre acustica e ritmica pensano a colorare il suono, Beautiful è viceversa uno dei brani ottimisti e gioiosi, in questa alternanza di temi sonori e tempi musicali, comunque bellissima, seguita giustamente da una canzone più intima e raccolta come Way Over Yonder, con qualche retrogusto jazzato grazie al solito lavoro sofisticato delle “coriste” (anche se è riduttivo chiamarle così) e all’assolo di sax di Amy.

You’ve Got A Friend è uno degli inni universali dedicati all’amicizia più famosi di tutti i tempi, ha pure una bellissima melodia, con gli archi incombenti, il pianoforte accarezzato voluttuosamente, e le armonie vocali di Joni Mitchell e James Taylor, che pubblicherà la sua versione appena un paio di mesi dopo su Mud Slide Slim. Aggiungiamo la title track Tapestry un’altra sontuosa ballata pianistica che certifica le bellezza di questo album impeccabile. Che in CD è uscito in molte versioni: se trovate quella Legacy doppia uscita nel 2008 avete fatto tombola, nel secondo dischetto ci sono versioni dal vivo registrate tra il 1973 e il 1976 di tutti i brani di Tapestry meno uno. Imperdibile, non si può non avere!

Fine prima parte.

Bruno Conti

Il Periodo Migliore Di Un Cantautore “Doc”! James Taylor – The Warner Bros. Albums 1970-1976

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James Taylor – The Warner Bros. Albums 1970-1976 – Rhino/Warner 6CD – 6LP

Gli anni settanta sono stati senza dubbio la decade di maggior sviluppo per il cantautorato americano (e canadese), ed uno dei massimi esponenti del genere è stato indiscutibilmente James Taylor, musicista depositario di uno stile personalissimo ed immediatamente riconoscibile. Il songwriter di Boston ha sempre costruito i suoi dischi con la massima cura ed attenzione, pubblicandoli solo quando riteneva di avere le canzoni giuste e scegliendo sempre i migliori sessionmen in circolazione; James ha sempre preferito le ballate, create perlopiù intorno alla sua voce, la sua chitarra ed al massimo un pianoforte ed una sezione ritmica, ed il suo stile tranquillo, pacato, gentile ed estremamente raffinato è sempre stato il suo marchio di fabbrica, al punto che quando esce un suo disco nuovo il pubblico sa esattamente cosa aspettarsi. Di album brutti Taylor non ne ha mai fatti, ma è all’inizio degli anni settanta che ha sparato le sue cartucce migliori con una serie di dischi, sei, usciti per la Warner e gratificati da un ottimo successo sia di pubblico che di critica (ma il nostro aveva già un album all’attivo, il discreto James Taylor, registrato durante il suo “periodo londinese” e pubblicato dalla Apple).

Oggi il lustro trascorso con la Warner è interamente riassunto in questo bel boxettino intitolato appunto The Warner Bros. Albums 1970-1976, sei CD (o LP) presentati in un cofanetto “clamshell” e stampati nella loro veste grafica originale, con la rimasterizzazione avvenuta sotto la supervisione del noto produttore Peter Asher, dietro la consolle in tutti i primi quattro album di Taylor (compreso quello targato Apple); non ci sono bonus tracks, anche se io avrei inserito almeno i tre inediti del Greatest Hits del 1976, cioè il rifacimento dei due brani più noti dell’esordio Apple (Something In The Way She Moves e Carolina On My Mind) e la versione live di Steamroller. Il cofanetto comunque è imperdibile se non possedete già tutti i dischi contenuti al suo interno, e soprattutto se siete amanti del cantautorato degli anni settanta. Come dicevo prima, James ha sempre amato circondarsi di musicisti di nobile lignaggio, e solo a leggere i nomi di chi ha suonato con lui su questi dischi c’è da farsi venire l’acquolina in bocca: Danny Kortchmar, Waddy Wachtel, Jim Keltner, Al Perkins, David Grisman, Richard Greene, Rick Marotta, Russell Kunkel, John Hartford, Leland Sklar, i fratelli Randy e Michael Brecker, David Sanborn, Craig Doerge, John McLaughlin, David Spinozza, Hugh McCracken, Willie Weeks, Andy Newmark e Herb Pedersen, oltre ai produttori Russ Titelman e Lenny Waronker (e naturalmente il già citato Asher). Presenze fisse sui suoi dischi erano anche Carole King, grande amica sua, al piano e voce, e l’allora moglie Carly Simon sempre alla voce; in più, una serie di ospiti speciali che vedremo a breve nelle disamine disco per disco.

Sweet Baby James (1970): già subito uno degli album migliori di sempre del nostro, un lavoro che contiene la famosa Fire And Rain, splendida ballata che ancora oggi è un highlight nelle esibizioni dal vivo; molto popolare anche la trascinante Steamroller, un blues elettrico con fiati decisamente piacevole e ben fatto. Poi abbiamo la bellissima country song che dà il titolo all’album, un piccolo capolavoro di equilibrio e finezza, la raffinata Sunny Skies, leggermente jazzata, la folkeggiante Country Road e l’elaborata Suite For 20 G, esempio di songwriting già maturo. Senza dimenticare tre delicati acquarelli acustici come Lo And Behold, Oh Baby Don’t You Loose Your Lip On Me ed una breve ripresa del classico Oh, Susannah. Come ospiti, Chris Darrow e Randy Meisner, quest’ultimo all’epoca ancora nei Poco.

Mud Slide Slim And The Blue Horizon (1971): l’album più famoso di Taylor, grazie soprattutto alla straordinaria You’ve Got A Friend, scritta da Carole King e portata da James al numero uno in classifica, una delle più belle ballate dei seventies (con Joni Mitchell alle armonie vocali). Con un brano così la strada è in discesa, ma il disco è bello anche per la vibrante Love Has Brought Me Around, la bella Riding On A Railroad, dallo stile countreggiante, la fluida Hey Mister, That’s Me Up On The Jukebox, le note You Can Close Your Eyes (eseguita in perfetta solitudine) e Machine Gun Kelly (scritta da Kortchmar e dedicata ad uno dei più noti ospiti di Alcatraz), e la ritmata e coinvolgente Let Me Ride.

One Man Dog (1972): un disco particolare, una sorta di suite con 18 brani fusi insieme, alcuni dei quali appena accennati ed altri solo strumentali: l’ascolto è comunque gradevole ed appagante, con James che nonostante la struttura atipica non cambia il suo stile. C’è una hit minore, l’elegante Don’t Let Me Be Lonely Tonight, ed alcuni deliziosi bozzetti come One Man Parade, pop song di notevole finezza e dalla ritmica di stampo sudamericano, la rilassata e distesa Nobody But You, tipica del nostro, la bella Back On The Street Again, in cui si incontrano pop e folk, ed una squisita rilettura del traditional One Morning In May con Linda Ronstadt alla seconda voce.

Walking Man (1974): dopo un anno di pausa James ritorna senza Asher ai comandi, sostituito dal chitarrista David Spinozza: Walking Man per la prima volta manca di un hit single, e di conseguenza si rivela il disco meno di successo della decade per Taylor, anche se a livello compositivo si mantiene su buoni livelli. Da segnalare in particolare la piacevole e gentile title track, la vibrante Rock’n’Roll Is Music Now (che come nella seguente Let It All Fall Down vede la partecipazione ai cori di Paul e Linda McCartney), la corale e decisamente orecchiabile Ain’t No Song, una sorprendente cover di The Promised Land di Chuck Berry nella quale James ci dà una sua personale versione del rock’n’roll (quindi sempre con estrema eleganza), e la conclusiva Fading Away, malinconica ma molto bella.

Gorilla (1975): Taylor torna ad assaporare il successo con uno dei suoi album più famosi e più riusciti, merito senz’altro della solare Mexico e della deliziosa cover di How Sweet It Is (To Be Loved By You) di Marvin Gaye, canzoni che si difenderanno benissimo nelle classifiche dei singoli. E’ anche il disco con la maggior parte di ospiti di prestigio: Crosby & Nash alle voci nella stessa Mexico ed in Lighthouse, un brano splendido e melodicamente squisito che vede anche Randy Newman all’organo, e Lowell George alla slide in Angry Blues, un guizzante funkettone. Altri momenti salienti di un album comunque senza sbavature sono Music, classe pura, la toccante Wandering, un brano in cui a James basta davvero poco per emozionare, l’ironica title track con accompagnamento tra jazz e Hawaii e l’incantevole Sarah Maria.

In The Pocket (1976): altro album privo di brani di particolare successo, ma solido e brillante, che inizia con la nota Shower The People, splendida ballata dal suono tipicamente californiano, e prosegue con la pregevole A Junkie’s Lament, in cui la voce di Taylor è affiancata da quella angelica di Art Garfunkel. Altri highlights sono la mossa e pianistica Money Machine, l’immediata Everybody Has The Blues, melodicamente ineccepibile, l’intensa Captain Jim’s Drunken Dream e Don’t Be Sad ‘Cause Your Sun Is Down, con Stevie Wonder all’armonica (e co-autore del pezzo). Troviamo di nuovo Crosby & Nash alle voci (Nothing Like A Hundred Miles) e, in Family Man, anche Bonnie Raitt.

Dopo questi album Taylor passerà alla Columbia e continuerà a pubblicare album di pregevole fattura fino ai giorni nostri (i miei preferiti tra tutti sono JT, That’s Why I’m Here, Hourglass, New Moon Shine, October Road e l’ultimo Before This World, uscito però per la Concord), il tutto senza perdere mai il suo stile raffinato e confidenziale, né la capacità di scrivere canzoni semplici ma mai scontate.

A differenza dei capelli, che rimarranno ben presto un ricordo.

Marco Verdi