Una Piacevolissima Passeggiata Lungo Le Coste Della California. Nick Waterhouse – Promenade Blue

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Nick Waterhouse – Promenade Blue – Innovative Leisure CD

Nick Waterhouse è un singer-songwriter californiano di Santa Ana attivo più o meno dal 2010, al quale però mi sono avvicinato solo nel 2019 grazie al suo quarto album, l’omonimo Nick Waterhouse, un piacevole e riuscito dischetto che mescolava sonorità vintage passando dal soul al rockabilly al pop al rhythm’n’blues con grande disinvoltura. Promenade Blue, il suo nuovissimo lavoro, è ancora meglio: Nick è uno di quei musicisti idealmente fermi ancora agli anni 60, e le sue canzoni riflettono in toto tale influenza. Cantante valido ed espressivo ed autore di vaglia, Waterhouse in Promenade Blue accentua ulteriormente il discorso intrapreso con il suo penultimo album, proponendo undici deliziose canzoni in bilico tra blue-eyed soul, errebi e pop con un pizzico di rock’n’roll ed una spruzzata di jazz e swing, un tipo di musica che a modo suo risulta californiana al 100%. Anzi, io mi immagino di ascoltare il disco su una terrazza che si affaccia sul mare della California del sud al tramonto, con in mano un bel cocktail variopinto (in mancanza di ciò, lavorate di fantasia come ho fatto io).

Registrato a Memphis e co-prodotto da Nick insieme a Paul Butler (dietro la consolle nei lavori di Michael Kiwanuka), Promenade Blue vede sfilare una lunga schiera di musicisti proprio come si usava fare nei sixties (tutti nomi peraltro abbastanza sconosciuti), con sezione ritmica, chitarre, piano, organo, marimba e la presenza sia di una sezione fiati che una di archi. Una sorta di muro del suono di ispirazione spectoriana, come nell’iniziale Place Names, incantevole pop song dove tutto profuma di anni 60, dalla melodia romantica alle backing vocalist femminili fino al sapiente uso degli archi. La saltellante The Spanish Look sembra, non scherzo, una outtake dei Coasters appena riscoperta, un piccolo gioiello tra errebi e doo-wop con un tocco jazzato che rimanda alla stagione d’oro dei vocal groups; Vincentine è puro soul, con Nick che mostra di avere una duttilità vocale non indifferente e la band lo segue che è una meraviglia, con i fiati a comandare il suono. Con Medicine siamo dalle parti di Ben E. King, un pezzo con il basso in primo piano, una chitarrina con riverbero d’ordinanza, cori maschili e sax come ciliegina: davvero, se non sapessi cosa sto ascoltando penserei di avere per le mani qualche vecchio padellone targato Motown o Atlantic.

Very Blue cambia registro, in quanto è una maestosa pop song alla Roy Orbison, con lo stesso tipo di pathos delle incisioni di “The Big O” anche se l’estensione vocale è ovviamente diversa, mentre con Silver Bracelet torniamo in territori black con un’altra perfetta soul song dalla melodia d’altri tempi che vede sassofono e piano sugli scudi. Proméne Bleu è l’unico strumentale del CD, un raffinatissimo pezzo lounge-jazz da nightclub con la chitarra elettrica protagonista ed il sax che arriva per chiudere la canzone; con Fugitive Lover e Minor Time si torna dalle parti dei gruppi vocali di colore con un brano coinvolgente dalla ritmica accesa nel primo caso ed una sorta di gospel cadenzato nel secondo, con la presenza quasi esclusiva di voci e percussione. Finale con la pimpante B. Santa Ana, 1986 (il pezzo più “moderno”, quasi un rock’n’roll con organo alla Doors) e con la gustosa To Tell, in cui il nostro manifesta di avere anche Dion & The Belmonts tra le sue influenze.

Marco Verdi

Meno Male Che Il Country E’ Un’Altra Roba! The Reklaws – Sophomore Slump

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The Reklaws – Sophomore Slump – Universal Canada CD

I Reklaws sono un duo vocale formato dai fratelli Stuart e Jenna Walker (Reklaw è Walker letto al contrario), che ancora prima di pubblicare il secondo disco hanno già acquisito una certa popolarità in patria. Canadesi dell’Ontario, i due hanno esordito nel 2019 con Freshman Year, un album inciso a Nashville con musicisti locali e pubblicato dal distaccamento canadese della Universal: personalmente ho sempre qualche sospetto quando un gruppo o un solista “saltano” la gavetta e si mettono nelle mani di una major cominciando a vendere bene fin da subito, e purtroppo l’ascolto di Sophomore Slump, secondo lavoro dei fratelli Walker, ha confermato le mie paure. Siamo infatti di fronte ad un album che è country solo nelle intenzioni (e forse neppure in quelle), dal momento che le dodici canzoni contenute sono l’espressione del peggior pop usa e getta made in Nashville, una musica radiofonica con i suoni calibrati al millimetro, melodie un po’ fasulle e zero feeling.

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Prodotto come il precedente da Todd Clark, Sophomore Slump ha tutte le carte in regola per superare il successo del suo predecessore, ma il suo pubblico di riferimento non sono gli appassionati che ascoltano veramente la musica, bensì tutti quelli dal palato non troppo fine che si limitano ad un download distratto e per i quali il massimo della musica sono i talent show. Canzoni come l’iniziale Not Gonna Not, un pezzo elettrico dal refrain orecchiabile dove però tutto è studiato a tavolino https://www.youtube.com/watch?v=Qh_qwavQfyU , il pop senza sostanza di Got Me Missing, che non lascia nulla una volta terminato l’ascolto, o You Problem, brano qualunque che affonda in un marasma di suoni elettronici da mani nei capelli (country? Ma per favore…) https://www.youtube.com/watch?v=R94K3W13Jb4 .

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Questo non è un disco di quelli che si raddrizza man mano che si prosegue, anzi può solo peggiorare, e ciò viene confermato da I’m Down, che poteva essere una buona ballata se si fosse limitata al binomio voce-piano ma poi purtroppo arrivano i soliti suoni plastificati ed il tutto perde di intensità https://www.youtube.com/watch?v=7dotWBb4ZPQ , da So Crazy It Just Might Work, dalla melodia qualunque, e da Your Side Of A Broken Heart, che non sa di niente (ed è meglio stendere un velo pietoso sull’arrangiamento). Gli ultimi quattro brani (Where I’m From, Beer Can, Godspeed e la ridicola Karma, che sembra la sigla di un cartone animato) non aumentano di certo il livello già traballante del disco, e neppure ci riesce la versione acustica di Where I’m From inserita alla fine come bonus, dal momento che non è solo un problema di sonorità ma anche di scrittura. In poche parole, un CD da evitare.

Marco Verdi

Il Texano Stavolta Ha Fatto Fiasco! Granger Smith – Country Things

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Granger Smith – Country Things – Wheelhouse/BMG CD

E’ già da qualche anno che seguo il cammino di Granger Smith, countryman texano di Dallas autore dall’inizio del nuovo millennio di una manciata di discreti album: niente di particolarmente innovativo, ma una musica di buona qualità caratterizzata da una valida scrittura e da un approccio sufficientemente elettrico, con in più una giusta dose di umorismo che lo ha portato a crearsi un alter ego, tale Earl Dibbles Jr., che è un po’ la parodia del cowboy “redneck” reazionario. Da qualche anno Smith ha iniziato anche ad assaporare un certo successo (i suoi ultimi due lavori sono entrati nella Top Three country), e questo lo ha portato a prendere la via di Nashville, non solo fisicamente ma anche come suono https://discoclub.myblog.it/2018/02/06/country-texano-buona-musica-non-sempre-granger-smith-when-the-good-guys-win/ .

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Country Things è il suo nuovo album, un lavoro lungo e, almeno sulla carta, ambizioso, ben diciotto canzoni per quasi un’ora di durata, con uno stuolo interminabile di sessionmen al suo servizio e ben sette produttori diversi. Un’operazione in grande stile quindi, peccato che però il risultato finale si allontani abbastanza dal vero country che piace a noi, e si posizioni in quella fascia di mercato rivolta all’americano medio che si accontenta di un pop annacquato che di country ha molto poco. Il suono è moderno e fin troppo ricercato quando non eccessivamente prodotto, ed anche i testi sono piuttosto stereotipati (famiglia, buoni sentimenti, Dio, il baseball, allegre bevute di birra ed un Messico da cartolina in Mexico): non siamo ai livelli delle schifezze di uno come Keith Urban solo perché qualche canzone piacevole c’è, ma siamo comunque di fronte al classico disco che, una volta ultimato l’ascolto, non ti lascia nulla.

photo jeremy cowart

photo jeremy cowart

La title track è una country song pura ed abbastanza riuscita, bella voce e ritmo spedito https://www.youtube.com/watch?v=PamhiCVQeJE , Where I Get It From e Buy The Boy A Baseball sono orecchiabili e ben strutturate, ma brani come Hate You Like A Love You, I Kill Spiders, That’s What Love Looks Like e 6 String Stories https://www.youtube.com/watch?v=q2bSu04fszQ  sono decisamente pop, ed anche il finto southern Chevys, Hemis, Yotas & Fords non è il massimo https://www.youtube.com/watch?v=4X1EqzwZqqo . Perfino i cinque brani a nome Earl Dibbles Jr., che solitamente sono i più diretti e “texani”, qui sono altalenanti: se la robusta Country & Ya Know It ha dalla sua un refrain contagioso https://www.youtube.com/watch?v=qafB86EEfj0 , Workaholic è proprio brutta https://www.youtube.com/watch?v=9124xd6Rw1o  e la dura Diesel è tagliata con l’accetta. Peccato: fino ad oggi il nome di Granger Smith era sinonimo di musica country equilibrata e piacevole, ma in Country Things c’è davvero poco da salvare.

Marco Verdi

Un Altro Bel Disco Targato “Auerbach Productions”, Forse Fin Troppo Falsetto. Aaron Frazer – Introducing…

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Aaron Frazer – Introducing… – Dead Oceans/Easy Eye Sound CD

Negli ultimi tempi Dan Auerbach è molto più impegnato come produttore che in qualità di leader dei Black Keys, anche se l’ultimo Let’s Rock del 2019 è uno dei lavori migliori del duo di Akron. Personaggio con un fiuto sopraffino per il talento, Auerbach negli ultimi anni ha patrocinato ottimi album di giovani artisti all’esordio (Dee White, Yola), riesumato oscuri musicisti del passato (Robert Finley, Leo “Bud” Welch, Jimmy “Duck” Holmes) e, lo scorso anno, ha prima assistito Marcus King nel bel debutto da solista El Dorado e poi ha rilanciato la carriera del noto countryman John Anderson con il bellissimo Years. Il 2021 è appena iniziato e già uno degli album più piacevoli tra i pochi usciti vede il nome di Auerbach nella casella del produttore: si tratta di Introducing…, primo disco di Aaron Frazer, musicista originario di Brooklyn ma cresciuto a Baltimore che Dan ha conosciuto come membro di Durand Jones & The Indications, di cui Aaron è il batterista ed una delle voci nonché uno dei principali compositori.

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In particolare Auerbach è rimasto colpito dal timbro particolare di Frazer, un falsetto decisamente melodico e soulful, una voce che Dan ha dichiarato di non aver mai sentito prima in un batterista: i due, dopo essersi conosciuti, hanno cominciato a scrivere insieme una serie di brani che poi sono andati ad incidere negli Easy Eye Sound Studios di Nashville (di proprietà di Auerbach), con la solita serie di musicisti dal nobile pedigree come Bobby Wood, Mike Rojas, Russ Pahl, Pat McLaughlin, il percussionista di Nashville Sam Bacco, mentre Frazer si è occupato della batteria e, soprattutto, della voce solista. Introducing…è quindi un bel disco di puro blue-eyed soul con elementi errebi e funky, dal suono moderno ma con gli arrangiamenti vintage che tanto piacciono ad Auerbach, e che possiamo trovare anche nei dischi di Yola, Marcus King nonché nel secondo solo album dello stesso Dan, Waiting On A Song. Ma se il leader dei Black Keys ha i suoi meriti, il vero protagonista è proprio Frazer, con la sua voce melliflua e vellutata ma anche con la sua abilità come compositore: la stampa internazionale lo ha paragonato a Curtis Mayfield, ma Aaron ha una personalità sua ed uno stile d’altri tempi che lo colloca idealmente nel passato della nostra musica (anche fisicamente, dato che sembra uscito dagli anni cinquanta).

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Si parte con la raffinatissima You Don’t Wanna Be My Baby, elegante pop song in cui la voce quasi femminile del leader funge da strumento aggiunto: il suono è forte e centrale con un arrangiamento deliziosamente anni 70, grazie anche all’uso particolare degli archi https://www.youtube.com/watch?v=SIvJ1xv9Mx8 . La cadenzata If I Got It (Your Love Brought It) è puro errebi, con il pianoforte in evidenza ed una melodia diretta completata da un refrain vincente, più una sezione fiati a colorare il tutto https://www.youtube.com/watch?v=6MdYYOtgwM8 ; Can’t Leave It Alone è un bel funkettone dal suono decisamente potente ammorbidito dalla voce gentile di Frazer, con un breve ma incisivo assolo chitarristico di Auerbach, mentre Bad News è ancora al 100% una funky song che sembra presa da un LP uscito 50 anni fa in piena “Blaxploitation Era” https://www.youtube.com/watch?v=G8OCGoDmnAI . Have Mercy è una ballatona estremamente raffinata al limite della zuccherosità, ma comunque al di sopra del livello di guardia (anche perché Auerbach è un dosatore di suoni formidabile), con il falsetto di Aaron doppiato da un coro in sottofondo https://www.youtube.com/watch?v=E1sJfi8ltek .

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Done Lyin’ è un blue-eyed soul fiatistico dall’arrangiamento piuttosto “rotondo” perfetto per una serata romantica, Lover Girl è pop-errebi di gran classe che ricorda un po’ i Simply Red ma con sonorità più classiche https://www.youtube.com/watch?v=Wo5G-CAs918 . Con la ritmata Ride With Me il CD prende una direzione quasi “disco” con il basso che pompa come se non ci fosse un domani, ma il sapore vintage la rende comunque piacevole, a differenza di Girl On The Phone che è una gustosissima ballad ancora col piano in prima fila ed un notevole muro del suono alle spalle. Love Is è soffusa, intrigante e possiede una delle migliori linee melodiche dell’album, ed è seguita dalle conclusive Over You, frenetica, danzereccia e dal ritornello coinvolgente https://www.youtube.com/watch?v=YBi4P0aZnsg , e Leanin’ On Everlasting Love, bellissimo lentone anni sessanta che paga un chiaro tributo al grande Sam Cooke, a parte il timbro vocale. Siccome non si vive di solo rock, Introducing…Aaron Frazer può essere il disco adatto da ascoltare quando vi viene voglia di musica ricercata ed elegante.

Marco Verdi

Visti I Risultati, Il Silenzio Poteva Anche Continuare! Thad Cockrell – In Case You Feel The Same

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Thad Cockrell – In Case You Feel The Same – ATO CD

Non so quanti di voi si ricordino di Thad Cockrell, singer-songwriter di genere country-rock/Americana attivo all’inizio del nuovo millennio, autore di tre apprezzati album (due dei quali pubblicati dalla Yep Roc e prodotti dal noto Chris Stamey, leader dei dB’s) tra il 2001 ed il 2009, più un disco di duetti nel 2005 con Caitlin Cary, ex cantante e violinista dei Whiskeytown. Cockrell era in silenzio come solista appunto dal 2009, anche se nella decade appena trascorsa ha realizzato un paio di lavori come membro dei Leagues, una band di rock alternativo che ha avuto un buon successo a livello indipendente con il primo album e molto meno con il secondo. A undici anni da To Be Loved Cockrell torna quindi a fare il solista pubblicando In Case You Feel The Same, una collezione di dieci nuove canzoni uscita per la ATO Records (la stessa che si occupa della serie live di Jerry Garcia) e che vede alla produzione Tony Berg il quale suona anche gran parte degli strumenti, mentre come ospiti speciali abbiamo Blake Mills (abituale parner artistico di Fiona Apple e presente anche sull’ultimo Dylan) e soprattutto la cantante e leader degli Alabama Shakes, Brittany Howard, alla seconda voce in Higher.

Purtroppo però non bastano un paio di ospiti di vaglia ed un buon produttore per fare un bel disco: il problema di In Case You Feel The Same è che ci mostra un autore forse un po’ arrugginito dalla lunga inattività (e, va detto, Cockrell non ha mai fatto parte di quel gruppo di musicisti da acquistare a scatola chiusa), con l’aggravante della ricerca ossessiva di un suono moderno ma parecchio spersonalizzato e molto poco “roots”, con abbondante uso di synth e ritmi programmati che non sono certo ciò che serve a migliorare una serie di canzoni che già in partenza sono caratterizzate da una vena compositiva piuttosto flebile. Se siete tra quelli che avevate gradito i precedenti album di Cockrell potreste quindi avere qualche sorpresa negativa da questa sua nuova proposta, dato che qui c’è ben poco sia di rock che di radici. Il disco non parte neanche male, dal momento che la title track è una ballata intensa per solo voce, piano, basso e batteria dallo sviluppo sofferto e toccante, un brano che sembra mettere il CD sui binari giusti fin da subito; la già citata Higher ha un suono inizialmente trattenuto, poi entra la sezione ritmica con una frustata ed il nostro divide il microfono con la Howard sia nelle strofe quasi in modalita “low-fi” che nel refrain potente: in ogni caso non siamo certo di fronte ad una grande canzone.

Swingin’ è anche peggio, ed il suono è eccessivamente moderno al limite del fastidioso, una pop song insulsa che di Americana non ha nulla, meno male che Susie From The West Coast risolleva un po’ le cose: non siamo in presenza di un capolavoro, ma comunque di un pezzo dalla struttura melodica sensata e lineare ed un accompagnamento più adeguato pur rimandendo nel solco della modernità. L’inizio di Slow And Steady promette bene, con il suo bel riff chitarristico alla Sweet Jane, ed anche la canzone in sé non è male, una rock song potente e diretta nonostante la presenza di un synth che però non fa danni: alla fine risulterà il brano migliore. Love Moves In è pop sofisticato e raffinato, formalmente ineccepibile ma privo di mordente (sembra il Bryan Ferry degli anni ottanta), in Fill My Cup rispunta la chitarra elettrica e c’è anche un ritornello corale piacevole, ma All I Want è puro techno-pop, il livello è quello degli Orchestral Manoeuvres In The Dark (e non è un complimento). Il CD termina con Next Thing You Know, una ballata melliflua che sa di poco e che presenta altre sonorità abbastanza orripilanti, e con una ripresa maggiormente strumentata della title track, che si conferma uno dei pochi momenti positivi di un album che definire deludente è il minimo.

Marco Verdi

Cambia Il Genere, Ma Non La Voce, Sempre Calda E Vellutata. Rumer – Nashville Tears

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Rumer – Nashville Tears – Cooking Vinyl

Doveva uscire il 1° maggio, poi come altri molti dischi in questi tempi di coronavirus, è stato posticipato ad agosto. Si tratta del primo album dopo una lunga pausa per la cantante anglo-pachistana, e come lascia intuire il titolo un disco di country, tutto composto di canzoni scritte da Hugh Prestwood, un autore non notissimo al grande pubblico, ma assai apprezzato da colleghi e colleghe che spesso e volentieri hanno interpretato i suoi brani, molte volte entrati nelle classifiche di categoria e qualche volta anche successi nelle charts nazionali USA, come per esempio Hard Times For Lovers, una hit per Judy Collins nel 1979. Per il resto Rumer e il marito Rob Shirakbari (a lungo arrangiatore e collaboratore di Burt Bacharach) hanno privilegiato canzoni meno note del suo songbook, comunque sempre con interpreti di prestigio: Alison Krauss, Randy Travis, Barbara Madrell, Shenandoah, Trisha Yearwood.

Sarah Joyce, con il suo nome d’arte di Rumer, come certo saprete se leggete il blog regolarmente, è molto amata sia dal sottoscritto https://discoclub.myblog.it/2010/11/13/perfect-pop-rumer-seasons-of-my-soul/ , quanto dall’amico Marco Verdi https://discoclub.myblog.it/2012/06/27/confermo-e-proprio-brava-rumer-boys-don-t-cry/ , grazie alla sua voce calda e vellutata, dal timbro e dalla emissione che sfiora la perfezione, epigona di quella schiatta di interpreti che discende da Karen Carpenter e Dusty Springfield, passando anche da cantautrici come Carole King e Laura Nyro, e con la benedizione del suo mentore Burt Bacharach, uno che ha sempre avuto una passione per le grandi voci femminili, e al quale proprio Rumer aveva dedicato il suo ultimo album, uscito nel 2016, This Girl’s In Love (A Bacharach & David Songbook), il primo ad essere pubblicato dopo essersi trasferita per vivere con il marito negli States tra Arkansas e Georgia, dove ha anche avuto un aborto e diradato la sua attività musicale, per problemi di salute legati a disturbi bipolari a seguito dello stress legato alla sua carriera.

Per il rientro Sarah ha deciso, dovo vari tentennamenti, di pubblicare un album di country, folgorata dal repertorio di Hugh Prestwood, proposto da Fred Mollin, produttore e musicista canadese, ma vecchia volpe della scena locale di Nashville, uno che ha lavorato a lungo con Jimmy Webb, America, Kris Kristofferson, quindi non il primo pirla che passa per la strada, che ha prodotto questo Nashville Tears. A ben guardare rimane molto del pop orchestrale e raffinato che da sempre caratterizza la proposta di Rumer, con continui florilegi orchestrali che spesso fanno da prologo alle canzoni, che però poi si svolgono con un deciso piglio country, tra acustiche, pedal steel, dobro e violini che sono gli elementi principali del sound. Mollin ha radunato una eccellente pattuglia di musicisti locali, tra cui spiccano Pat Buchanan alla chitarra elettrica, Bryan Sutton a basso, banjo e mandolino, Stuart Duncan al violino, l’ottimo Mike Johnson alla pedal steel, e Kerry Marx e Scotty Sanders, che si alternano a dobro e pedal steel, strumento molto impiegato nel disco. La voce della nostra amica, come si diceva, è rimasta splendida, magari aggiungendo una patina di maturità, visto che da poco ha compiuto 41 anni.

Si parte con la gentile The Fate Of Fireflies, con i florilegi della sezione archi, poi entra subito la calda ed avvolgente vocalità di Rumer, ben supportata dal classico suono country seventies preparato da Mollin, con la steel subito in evidenza, ma anche il piano, seguita da un altra ballata come June It’s Gonna Happen, altro tipico esempio dello stile compositivo di Prestwood, che utilizza molte metafore relative alla natura, mentre pedal steel e dobro, oltre al piano di Gordon Mote, sono sempre in evidenza. Deliziosa anche Oklahoma Stray che sembra un brano del primo James Taylor, con una bella melodia e un arrangiamento intimo, Bristlecone Pine è leggermente più mossa, giusto un poco, potrebbe ricordare gli America, vecchi clienti di Mollin, sempre con la voce cristallina di Rumer a galleggiare sulla musica, come conferma la sua versione di Hard Times For Lovers, il brano di Judy Collins, dove rivaleggia con la grande cantante di Seattle, quanto a purezza di emissione vocale, con il dobro che sottolinea lo spirito più brioso di questa canzone. Eccellenti anche la malinconica Ghost In This House, un successo per i Shenandoah e la solenne The Song Remembers When, grande successo per Trisha Yearwood nel 1993.

E’ ovvio che stiamo parlando di un country old style, molto lavorato, lontano dall’alt-country e dall’Americana, tutto basato sulla voce superba di Rumer che porge queste canzoni con grande garbo e classe, in omaggio a quella “vecchia” Nashville citata nel titolo dell’abum, ma cionondimeno molto godibile, come conferma That’s That, altro brano estremamente raffinato di Prestwood che illustra i paesaggi e i panorami della natura americana “There’s a weeping willow on the outskirts of town/Where I took a pocket knife and carved out our names/In the morning I am gonna cut that tree down/Gonna build a fire and watch us go up in flames.”, mentre Buchanan rilascia uno splendido assolo di chitarra elettrica che incornicia il brano. Solenne e malinconica anche la pianistica Here You Are, mentre la squisita Learning How To Love si libra ancora una volta sulle corde vocali vellutate di questa cantante che rimane consigliata soprattutto a chi ama anche le interpreti lontane dal rock e comunque portatrici sane di un pop, magari demodé, affinato e senza tempo.

Bruno Conti

Saranno Anche Fuori Di Testa, Ma Quando Suonano Sono Serissimi! The Texas Gentlemen – Floor It!!!!

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The Texas Gentlemen – Floor It!!!! – New West CD

Tornano a distanza di tre anni dal loro debutto TX Jelly i Texas Gentlemen https://discoclub.myblog.it/2017/11/27/un-bellesempio-di-follia-musicale-con-metodo-the-texas-gentlemen-tx-jelly/ , un quintetto di pazzi scatenati proveniente, mi sembra ovvio, dal Lone Star State, e composto dai due leader, il cantante e chitarrista Nik Lee ed il cantante e pianista Daniel Creamer, dall’altro chitarrista Ryan Ake e dalla sezione ritmica formata da Scott Edgar Lee Jr. al basso e Paul Grass alla batteria. Nonostante abbia parlato di esordio i cinque non sono certo di primo pelo, dal momento che stiamo parlando di un gruppo di sessionmen che si sono messi insieme quasi per gioco (hanno suonato anche con una leggenda vivente come Kris Kristofferson), ma da quando hanno iniziato ad incidere per conto proprio hanno dimostrato di fare sul serio. TX Jelly era un disco completamente fuori dagli schemi, in cui i nostri affrontavano qualsiasi genere musicale venisse loro in mente, dal rock al country al pop al blues al funky al folk e chi più ne ha più ne metta, il tutto proposto con un’attitudine scanzonata e divertita ed indubbiamente coinvolgente.

Musica creativa e non scontata quindi, e questo loro secondo album Floor It!!!! prosegue nello stesso modo, con una serie di canzoni in cui affiorano diversi stili anche all’interno dello stesso brano, e dove si nota rispetto al lavoro precedente una maggiore inclinazione verso la pop song di qualità, con uso anche di archi e fiati seppur senza esagerare. A volte essere troppo eclettici può essere considerato un difetto, ma quando come nel caso appunto dei Texas Gentlemen ci sono la bravura nello scrivere e nel suonare, la creatività e l’abbondanza di idee è certamente un vantaggio. I TG si divertono, e riversano questo loro divertimento sull’ascoltatore. Floor It!!!! dura più di un’ora e presenta una serie di brani medio-lunghi, ma grazie proprio al fatto che uno non sa mai cosa aspettarsi dalla canzone seguente il disco riesce a non annoiare. La breve Veal Cutlass, poco più di un minuto, è puro dixieland anni trenta, un pezzo un po’ spiazzante che confluisce nel vibrante strumentale Bare Maximum, un misto di rock’n’roll e funky che si pone nel mezzo tra Little Feat e Frank Zappa, con i fiati a rinforzare un suono già bello tosto; Ain’t Nothin’ New è una ballata ariosa e sognante, guidata dal piano e con un motivo lineare e godibile (e qui il paragone è coi Phish), bella e creativa.

Anche Train To Avesta è un’ottima slow song pianistica tra roots e pop, come se i Jayhawks si fossero fatti produrre da Jeff Lynne; l’intro pianistico di Easy St. rimanda all’Elton John d’annata, ma il resto è puro pop alla McCartney con un leggero sapore vaudeville, fresco e decisamente gradevole: finora di Texas c’è davvero poco, ma non è che mi lamenti. Sir Paul resta a livello di influenza anche in Hard Rd., altro riuscito pezzo di puro pop guidato dal piano e con una orchestrazione alle spalle, a differenza dello strumentale Dark At The End Of The Tunnel, che nonostante si lasci ascoltare senza grandi problemi sembra più una backing track alla quale i nostri si sono dimenticati di aggiungere le parole che una canzone fatta e finita, anche se non mancano cambi di ritmo e di tema musicale. Meglio la cadenzata ballad Sing Me To Sleep, sempre col piano in evidenza ed un gradevole refrain, anche se sembra mixata in maniera un po’ rozza.

Last Call è pop-rock con orchestra, un genere molto poco texano ma proposto con un elevato gusto per la melodia ed un buon ritornello corale, mentre She Won’t è un delicato brano elettroacustico che mescola folk e pop in modo disinvolto. Il CD si chiude con i due pezzi più lunghi (inframezzati da Skyway Streetcar, solare ballata dal sapore californiano guidata ottimamente da piano e chitarre), ovvero i sette minuti di Charlie’s House, delicato slow al quale gli strumenti elettrici, i fiati e gli archi conferiscono potenza (e con un bel finale in crescendo), e gli otto della title track, che parte in maniera coinvolgente in stile rock-boogie sudista (ma con somiglianze anche con Marc Bolan & T-Rex) e poi aggiunge di tutto dal pop al gospel con una parte finale tra i Beatles ed una leggera psichedelia. Già TX Jelly era un album pieno di idee e di soluzioni accattivanti, ma con Floor It!!!! i Texas Gentlemen sono riusciti a proporre qualcosa di completamente diverso, e con la massima nonchalance.

Marco Verdi

Una Trasferta Californiana Per Il Più Inglese Dei Cantautori. Paul Weller – On Sunset

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Paul Weller – On Sunset – Polydor/Universal CD

Paul Weller si può ormai considerare tranquillamente una vera e propria istituzione britannica, dal momento che ogni suo album solista uscito a partire dal suo debutto omonimo del 1992 è entrato dritto nella Top Ten UK, nella maggior parte dei casi oscillando tra la prima e la seconda posizione. Tutto ciò è dovuto sicuramente allla reputazione conquistata dal musicista inglese quando era a capo dei Jam prima e degli Style Council dopo, abbinata ad una indubbia capacità nel songwriting, anche se l’elemento determinante per farne un artista così popolare in terra d’Albione (e viceversa così poco considerato in America) sono i testi intrisi fino nel profondo di cultura, usi e costumi del Regno Unito, oltre al fatto di essere stato una delle figure centrali della rinscita del movimento Mod (da cui il suo soprannome, “The Modfather”). Pur con tutte le differenze del caso, vedo dei paralleli con il gruppo più British degli anni sessanta, ovvero i Kinks, anche perché sia Ray Davies che lo stesso Weller hanno sempre guardato musicalmente all’America.

Nel caso di Paul, i suoi generi di riferimento sono il soul ed il rhythm’n’blues, che mescolati con il suo indiscutibile gusto pop hanno forgiato il suono che è ormai il suo marchio di fabbrica e che gli ha permesso di creare album ormai considerati dei piccoli classici nel suo paese d’origine, come Stanley Road, Wild Wood, Illumination e 22 Dreams (anche se personalmente il Weller che preferisco lo trovo nel bellissimo disco di cover del 2004 Studio 150 e soprattutto nello splendido box quadruplo dedicato al meglio dei suoi concerti alla BBC).Il nuovo lavoro del cantante del Surrey, On Sunset, arriva a due anni da True Meanings, un lavoro che ci presentava un lato più intimo ed introspettivo dell’artista, mentre qui ritroviamo il Weller autore pop che ben conosciamo. On Sunset è fin dal titolo un omaggio del nostro alla California (fatto corroborato dalle foto interne al booklet del CD, che ritraggono Weller a bordo di una decappottabile sulle strade di Los Angeles), ed anche il suono è decisamente più arioso e strumentato che sul disco precedente, con una serie di brani di soul-pop raffinato che come al solito si rivelano un ascolto piacevole.

I suoni sono moderni ma tenuti abbastanza a bada, la produzione è decisamente professionale (ad opera dello stesso Weller con Jan Stan Kybert) e la band di supporto conta diversi elementi di valore come il chitarrista Steve Cradock (presenza fissa nei dischi di Paul), l’ex Style Council Mick Talbot all’organo, la sezione ritmica formata da Andy Crofts al basso e Ben Gordelier alla batteria ed una lunga serie di altri musicisti e voci di supporto, oltre all’uso qua e là dei fiati ed una piccola sezione d’archi. Paul apre il CD con Mirror Ball, una pop ballad sognante ed eterea dai suoni moderni ed un’atmosfera di fondo che sembra trarre ispirazione dalle vecchie pellicole hollywoodiane, un brano che scorre abbastanza facilmente pur non lasciando più di tanto il segno nonostante gli oltre sette minuti di durata. Decisamente meglio Baptiste, un pezzo più diretto dal buon sapore soul con un tappeto strumentale ricco ed un motivo piacevole guidato dall’organo e dalle chitarre; Old Father Tyme è un errebi ritmato dal sound pieno e rotondo, un cocktail riuscito e sufficientemente coinvolgente (non sono contro i suoni moderni quando sono usati con intelligenza), mentre Village è una pop song dalla melodia deliziosa ed un mood di fondo solare e californiano: puro Weller doc.

More è un po’ troppo levigata e da cocktail party per i miei gusti, molto meglio la title track, che inizia con il rumore delle onde ed un riff di chitarra acustica per poi proseguire con una buona linea melodica ed ancora un retrogusto soul, un brano semplice ma ben costruito. Con Equanimity torniamo di botto in Inghilterra per una squisita e saltellante pop song in pieno stile sixties con elementi vaudeville, e restiamo in UK anche con la seguente Walkin’, altra canzone orecchiabile guidata dal piano e da un solido motivo di matrice pop-errebi; la fin troppo radiofonica e commerciale Earth Beat (in duetto con la giovane popstar Col3trane) e la limpida ballata Rockets, tra le più belle del disco e con una splendida orchestrazione, chiudono il CD “normale”, dato che esiste anche un’edizione deluxe con cinque brani in più, cioè un mix orchestrale di On Sunset, una versione strumentale di Baptiste e tre inediti dalla qualità altalenante (l’elettronica ed orripilante 4th Dimension, il trascinante pop-rock Ploughman, con il suo organo molto anni sessanta, e la discreta slow ballad acustica I’ll Think Of Something).

On Sunset è dunque un altro piacevole tassello nella carriera di Paul Weller, un disco che contribuirà a consolidare la sua enorme reputazione in patria e continuerà a renderlo invisibile oltreoceano nonostante l’ispirazione californiana.

Marco Verdi

Torna La Creatura Di Chrissie Hynde Con Il Miglior Disco Dagli Anni ’80! Pretenders – Hate For Sale

pretenders hate for sale

Pretenders – Hate For Sale – Bmg Rights Management

Il disco ha avuto una gestazione lunghissima, prima per essere preparato e registrato, e poi, per i noti problemi legati al virus, per essere pubblicato. Hate For Sale, questo nuovo album dei Pretenders, solo l’undicesimo in una carriera ultra quarantennale, non è prolifica la ragazza, avrebbe dovuto uscire in prima battuta il 1° Maggio, poi è stato posticipato al 17 luglio, quindi ho avuto parecchio tempo per ascoltarlo e gustarlo, e azzardo subito che secondo me è uno dei loro migliori in assoluto, a livello dei primi usciti ad inizio anni ‘80. Si usa sempre il pronome loro, ma stiamo parlando della creatura personale di Chrissie Hynde, da sempre depositaria del marchio della band. Tornando alla qualità, comunque i due dischi precedenti del gruppo, Alone del 2016 e Break Up The Concrete del 2008, erano entrambi piuttosto buoni, ma questo mi sembra abbia quel quid in più. Forse perché Martin Chambers, il batterista storico della band, torna in pianta stabile in formazione, o perché il chitarrista James Walbourne, già presente nel CD del 2008 e da molti anni nei concerti del gruppo, è stato promosso a co-autore di Chrissie in tutti i 10 brani, e quindi per la prima volta da molti anni la musicista di Akron ha trovato qualcuno che ha saputo stimolare al massimo il suo estro creativo.

Non ultimo giova al risultato finale anche la brillante produzione di Stephen Street, uno dei migliori in questo ambito in Inghilterra: e anche l’apporto dei nuovi arrivati, Carwyn Ellis alle tastiere e Nick Wilkinson al basso, ha fatto sì che in questa occasione, per quanto sia innegabile quanto appena detto, non ci sia stato l’effetto Chrissie Hynde più un gruppo di sessionmen scelti dal produttore, ma quello di una vera band., dove la punta di diamante è il chitarrista James Walbourne (leader degli ottimi Rails, dove milita anche la moglie Kami Thompson, e questo fa di lui il cognato di Richard Tnompson). Ovviamente non è un fattore trascurabile dell’insieme anche la qualità complessiva delle canzoni, in gran parte di livello medio molto alto nel solito ambito pop-rock di sempre: si parte subito sparatissimi con la title track Hate For Sale, un pezzo che rende omaggio al sound di una delle band punk più amate da Chrissie, ovvero i Damned, con un brano che è energia pura, nel quale la Hynde rispolvera l’amata armonica, e nel finale, vista la grinta impiegata, ci si aspetta quasi un “Fuck Off” come ai tempi di Precious, considerando che la canzone è dedicata, come spesso succede, ad una vecchia fiamma della nostra amica, e non a Donald Trump, come qualcuno ha ipotizzato, tra sventagliate di chitarra e batteria in overdrive.

The Buzz, con riferimenti alle droghe nel testo, in un pezzo che è puro pop in excelsis deo, alla pari con i migliori del passato, con quel gusto per la melodia inconfondibile e la voce che non ha perso un briciolo di freschezza, a dispetto dei 68 anni suonati, delizioso il lavoro jingle-jangle della chitarra di Walbourne, che poi insieme al resto della band si cimenta con il classico reggae-rock Lightning Man, dedicato a band inglesi del passato come gli Specials, al musicista e produttore Richard Swift, scomparso nel 2018, a Marc Bolan (“He was a wizard and he was a my friend, he was”), tutti rollati assieme come in un’unica grande e grassa “canna”, come ha dichiarato la stessa Christie. Turf Accountant Daddy, sulla vicenda di un allibratore, musicalmente sembra una canzone dell’epoca d’oro del pop britannico sixties, e al sottoscritto ricorda tantissimo il riff e il suono d’assieme di Shapes Of Things degli Yardbirds, una vera bomba, con un Walbourne infoiato come il Jeff Beck dei tempi d’oro e anche il suono delle tastiere è molto vintage https://www.youtube.com/watch?v=1ODPgzITbQk ; non manca una splendida ballata come You Can’t Hurt A Fool, cantata divinamente dalla Hynde e con una atmosfera sonora derivata dal soul e dal R&B d’antan.

I Didn’t Know When to Stop, con riferimenti alla pittura, un’altra delle passioni di Chrissie, il tutto coniugato in un altro brano a tutto riff come ai vecchi tempi, interscambi tra solista e armonica inclusi, Maybe Love Is in NYC, è un altro di quei deliziosi mid-tempo elettroacustici, da sempre marchio di fabbrica dei Pretenders, con grande assolo di Walbourne https://www.youtube.com/watch?v=dKzh_m_EM-Y . Junkie Walk, con richiami al doloroso passato, nonostante la chitarra distorta e i ritmi spezzati, è forse l’unico brano che non mi fa impazzire, forse, I Didn’t Want to be This Lonely viceversa è un brioso rockabilly stomp degno discendente dei classici brani della band, sempre con Walbourne in grande spolvero https://www.youtube.com/watch?v=x3OdzRdTJE8 , e a chiudere l’album, solo dieci brani, poco più di mezz’ora di musica in tutto, compatta e senza sprechi, arriva Crying In Public, una soffusa e malinconica ballata, basata sul pianoforte, suonato da Walbourne, con l’aggiunta degli archi del Duke Quartet, che torna in pista a 25 anni da isle Of View. Ottimo quindi, anche se non abbondante!

Bruno Conti

Ben Prima Di Wilburys Ed ELO (E Della Barba), Ecco I Primi Passi Di Jeff Lynne. The Idle Race – The Birthday Party Deluxe Edition

idle race birthday party

The Idle Race – The Birthday Party Deluxe Edition – Grapefruit/Cherry Red 2CD

Interessante e per chi scrive gradita ristampa di The Birthday Party, album d’esordio degli Idle Race, gruppo pop britannico proveniente da Birmingham che altro non è che la band nella quale Jeff Lynne mosse i primi passi musicali nel lontano 1967, prima di entrare nei Move e successivamente “trasformarli” nella Electric Light Orchestra, band che gli darà fama mondiale e che gli permetterà di far entrare il suo nome nel giro che conta consentendogli di diventare, a partire dalla seconda metà degli eighties, uno dei produttori più richiesti dalla crema del rock internazionale. Lynne non ha mai nascosto il suo grande amore per i Beatles (specialmente il lato McCartney), e questa influenza si manifesta in maniera chiara e lampante ascoltando queste incisioni, una bella serie di canzoni pop gradevoli e dirette, con coretti e melodie orecchiabili, un tocco di vaudeville e persino un pizzico di psichedelia (il suono “californiano” del Jeff produttore è qui ancora molto lontano, ma le radici del suo stile ci sono già).

Eppure gli Idle Race non sono al 100% una creatura di Lynne, in quanto si formarono nel 1966 sull’ossatura dei Nightriders (gruppo nel quale aveva militato anche Roy Wood, amico di gioventù di Jeff ed in seguito con lui sia nei Move che nella prima ELO): il nostro prese il posto di Johnny Mann, e con i “superstiti” Dave Pritchard alla chitarra ritmica, Greg Masters al basso e Roger Spencer alla batteria formò appunto gli Idle Race (in un primo momento il nome era Idyll Race), con i quali esordì nel 1967 con un paio di singoli e nel 1968 con l’album The Birthday Party, disco che non ebbe il minimo successo nonostante il buon livello delle canzoni, un po’ per la scarsa promozione da parte della Liberty, un po’ per la bizzarra scelta di non estrarne neppure un singolo, ma anche perché un certo tipo di pop all’acqua di rose (ed un po’ derivativo) arrivava forse leggermente fuori tempo massimo.

Risentito oggi l’album, pur nella sua brevità (meno di mezz’ora), è un divertente e gradevole esempio di puro pop beatlesiano, nel quale troviamo i germogli del talento di Lynne che scrive tutte le canzoni tranne una, pur con qualche ingenuità di fondo (tra l’altro l’ormai famosa frase “produced by Jeff Lynne” la troveremo dal loro secondo lavoro, in quanto qui alla consolle ci sono Eddie Offord e Gerald Chevin). I brani sono tutti estremamente godibili: la saltellante Skeleton And The Roundabout, una deliziosa ed orecchiabile pop song con uno stile a metà tra il vaudeville degli anni trenta ed i Fab Four, il pop barocco di The Birthday, già con alcuni elementi nel songwriting di Lynne che ritroveremo negli anni a seguire, la squisita I Like My Toys, un pezzo accattivante che avrebbe potuto essere un buon singolo. Ma anche gli altri pezzi, pur non avendo cambiato la storia del pop-rock, sono meritevoli di ascolto, come la solare Morning Sunshine, Follow Me Follow, dalla melodia fresca e con similitudini anche con i Bee Gees, o le ugualmente fresche e piacevoli Sitting In My Tree e On With The Show, le super-beatlesiane Lucky Man, Don’t Put Your Boys In The Army, Mrs. Ward e The Lady Who Said She Could Fly (tutte influenzate dal sound di Sgt. Pepper) e la ballata End Of The Road, con gli archi che in un certo senso anticipano il futuro suono della ELO; non male neanche Pie In The Sky, unico pezzo scritto e cantato da Pritchard.

Questa nuova edizione della Cherry Red non contiene inediti assoluti, ma è comunque interessante perché il primo CD include per la prima volta la versione mono dell’album, mentre nel secondo trova posto la controparte in stereo, il tutto impreziosito da dieci bonus tracks totali, nove nel primo dischetto (tutte in mono) ed una soltanto nel secondo, una versione alternata in stereo di Sitting In My Tree (dato che per motivi ignoti anche nell’edizione originale in stereo dell’album questa canzone era in mono) pubblicata originariamente nella ristampa del 1976. Il primo CD comprende invece sei brani usciti solo su 45 giri nel triennio 1967-68-69 (la pimpante The Lemon Tree, scritta da Roy Wood ed incisa anche dai Move, la bella e rockeggiante My Father’s Son di Pritchard, la bizzarra Imposters Of Life’s Magazine, l’orecchiabile b-side Knocking Nails Into My House, la vibrante Days Of The Broken Arrows, tra pop e rock’n’roll e tipica di Lynne, e la misticheggiante Worn Red Carpet, ancora di Pritchard) e tre takes alternate già pubblicate nell’antologia del 1996 Back To The Story (Lucky Man, Follow Me Follow e Days Of The Broken Arrows).

Lynne rimarrà nel gruppo anche per il seguente Idle Race (1969), dopodiché accetterà l’invito da parte di Wood di entrare nei Move (ed il seguito è noto), mentre il resto della band, con qualche cambio in formazione, pubblicherà ancora Time Is nel 1971 e poi, dato anche il perdurante insuccesso, diventerà il nucleo della Steve Gibbons Band.

Marco Verdi