Musica Sopraffina Dal Profondo Sud! Damon Fowler – Alafia Moon

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Damon Fowler – Alafia Moon – Landslide Records

Se, come me, vi siete chiesti cosa cacchio sia questo Alafia, in effetti si tratta di un fiume, che scorre vicino alla città natia di Damon Fowler, nella contea di Hillsborough, Florida. Lo avevamo lasciato un paio di anni abbondanti fa, a fine 2018, all’uscita di The Whiskey Bayou Session, pubblicato dalla omonima etichetta di proprietà del collega Tab Benoit, che aveva anche prodotto il disco, che come al solito esplorava quei territori sonori a cavallo tra blues, rock, musica della Louisiana. swamp e sudista in genere, oltre ad uno stile da cantautore, in quanto Damon è anche un ottimo autore, oltre che sopraffino chitarrista, soprattutto in modalità slide, e anche un eccellente cantante, tanto che avevo inserito quell’album tra i miei preferiti dell’anno (ma tutta la sua produzione è eccellente). A un certo punto Fowler era stato contattato per entrare a fare la parte della band di Dickey Betts, ma poi i problemi di salute del musicista di West Palm Beach avevano fermato la sua attività concertistica: finita anche la sua collaborazione con Butch Trucks, dopo la morte, e in stand-by quella con i Southern Hospitality, la band che condivide con Victor Wainwright e JP Soars, il nostro amico ha firmato un contratto con la Landslide Records e si è messo al lavoro per un nuovo CD.

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Accompagnato dai fedeli compagni Chuck Riley, bassista dei Southern Hospitality e dal batterista della sua band Justin Headley, con un piccolo aiuto da T.C. Carr all’armonica, Mike Kach alle tastiere e Betty Fox alle armonie vocali, Fowler ha confezionato un ennesimo gioiellino. Undici brani, dieci firmati da Damon, uno in collaborazione con Jim Suhler, e la splendida cover di The Guitar di Guy Clark, resa in modo molto fedele: quindi gagliarda musica rock-blues, ma anche momenti più intimi e raccolti, altri divertenti e le divagazioni chitarristiche mai fini a sé stesse, rilasciate con una tecnica prodigiosa ma mai troppo “esagerate”, con uso di Fender, Slide e Lap Steel ed echi di Winter, Thorogood, Duane Allman, Ry Cooder e Lowell George. Prendiamo la iniziale potente Leave It Alone, suono scandito, chitarra ed armonica di Carr che si rispondono dai canali dello stereo, mentre la Fox supporta la voce rauca, espressiva e vissuta di Damon, e lui inizia a lavorare di bottleneck, creando questo insieme “paludoso” e southern https://www.youtube.com/watch?v=XKGLPEr32a8 ; I’ve Been Low accelera i tempi, la musica si fa più minacciosa, la slide e la solista imperversano e la ritmica attizza il nostro verso un rock-blues di grande energia https://www.youtube.com/watch?v=BFPtrya52rI , mentre nella title-track, una ballata mid-tempo fluida e scorrevole, l’organo Hammond B3 di Mike Kach (già nella band di Butch Trucks) aggiunge elementi deep soul e Fowler canta con voce calda e partecipe, prima di far “parlare” la sua chitarra ricca di feeling https://www.youtube.com/watch?v=ADne0Nn0zR4 . Nella delicata The Guitar, il brano di Clark e Verlon Thompson, Damon si rivela anche fine picker alla acustica e declama da consumato interprete di talkin’ country blues i versi di questo racconto incentrato intorno ad un banco di pegni per chitarre https://www.youtube.com/watch?v=YTAGnDiqGGo .

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Make The Best Of Your Time vira verso il funky, un suono che ricorda il Cooder più sanguigno o il Duane Allman più rilassato quando faceva il sidemen per i cantanti soul, impersonato per l’occasione da Fowler, spalleggiato dalla solita Fox, mentre la lap steel lavora di fino sullo sfondo con guizzi continui, forse il riff è anche troppo ripetuto, ma fossero questi i difetti datecene altri così https://www.youtube.com/watch?v=4WtZZAr2mYI. Hip To Your Trip è il pezzo firmato con Suhler, un brano di chiara impronta southern, lato Allman, ma anche grazie al timbro vocale usato per l’occasione da Damon qualche reminiscenza di Dr. John e del New Orleans sound https://www.youtube.com/watch?v=fGJw_bMBZV8 , con la successiva accelerata di Some Things Change che rocca e rolla alla grande, tra Little Feat, sbuffi di armonica, passate di organo, e sanguigni riti sudisti, con finale chitarristico devastante https://www.youtube.com/watch?v=6Rfx04bd4JU . Taxman ovviamente non è il pezzo di Harrison per i Beatles, ma è un bluesazzo di quelli duri e puri, con lap steel incazzosa come sapeva fare Lowell George con i Feat più ispirati (per citarli è un “Political Blues”), con il nostro che si sdoppia anche alla solista https://www.youtube.com/watch?v=27raprdtSTk , mentre in Wanda Fowler e Kach si dividono gli spazi in un ulteriore interscambio raffinato tra chitarra e organo, con Damon che si inventa un timbro grasso e corposo per la sua solista, quasi claptoniano https://www.youtube.com/watch?v=eDe1TJhDivs . The Umbrella fa parte di quei lunghi brani parlati inseriti nei suoi concerti nel segmento gig stories, quando il nostro amico intrattiene il pubblico (il brano non è dal vivo, i rumori di fondo sono fasulli, aggiunti in studio), aneddoto divertente, ma scusate la franchezza, a lungo andare rompe le balle, otto minuti che si potevano impiegare meglio https://www.youtube.com/watch?v=VlEcCQszrWQ , come nella breve, divertente e travolgente Kicked His Ass Out, boogie. swing e rock and roll a tutta velocità https://www.youtube.com/watch?v=ORPWcl1YbCE . Quindi alla fine, sia pure con questo piccolo intoppo, un disco “solo” quasi perfetto.

Bruno Conti

Uno Dei “Figli Di…” Migliori In Circolazione! AJ Croce – By Request

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AJ Croce – By Request – Compass Records

Nell’ampia categoria che include i “figli di” AJ Croce è sicuramente uno dei più validi ed interessanti (senza fare la lista della spesa, lo metterei più o meno a livello di Jeff Buckley, Jakob Dylan, Adam Cohen, i primi che mi vengono in mente): una vita ricca di tragedie, orfano a meno di due anni per la morte del padre Jim Croce, a quattro anni cieco completamente, anche se poi ha riacquistato parte della visione dell’occhio sinistro, a quindici anni l’incendio della casa in cui aveva sempre vissuto con la madre Ingrid, con la quale ha avuto un rapporto complesso e turbolento, nel 2018 la moglie Marlo, con lui da 24 anni, è morta di una rara malattia cardiaca, lasciandolo con due figli. Nonostante la pesante eredità del padre Jim ha saputo creare un suo approccio alla musica, non seguendo pedissequamente lo stile del babbo, ma ispirandosi al blues, al soul (punti di riferimento Ray Charles e Stevie Wonder), ma con elementi rock, a tratti country, e anche di pop raffinato, grazie all’uso costante del piano di cui AJ è una sorta di virtuoso, ma suona anche tastiere assortite e chitarre: ha realizzato una serie di 10 album, incluso questo By Request, più un disco di rarità dai primi anni di carrierahttps://discoclub.myblog.it/2017/08/20/di-padri-in-figli-aj-croce-just-like-medicine/.

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Dopo la morte della moglie Croce ha voluto rientrare, come suggerisce il titolo, con un disco di cover, realizzate con garbo, classe e ottimi risultati, un album veramente godibilissimo: aiutato da una piccola pattuglia di ottimi musicisti, tra i quali spiccano Gary Mallaber alla batteria, Jim Hoke a sax vari, armonica e pedal steel, David Barard al basso, Bill Harvey e Garrett Stoner alle chitarre, Scotty Huff alla tromba e Josh Scaff al trombone, più un terzetto di backing vocalist, in pratica la sua touring band e con la presenza di Robben Ford in un brano, AJ sceglie una serie di canzoni molte adatte al suo stile, in base alla formula “a gentile richiesta” che si applica nei concerti più intimi. E così ecco scorrere Nothing From Nothing, un vecchio brano di Billy Preston, con i fiati molto in evidenza, in questo classico e mosso R&B dove Croce si disbriga con classe al piano https://www.youtube.com/watch?v=dp2sd7IhGsg , la molto più nota Only Love Can Break Your Heart di Neil Young, una delle ballate più belle del canadese, resa molto fedelmente da AJ e soci che però aggiungono un retrogusto da blue eyed soul o country got soul, con la voce sottile di Croce che ricorda quelle dei Bee Gees degli inizi https://www.youtube.com/watch?v=SKy_PcSEyR0 ; scatenata la versione di Have You Seen My Baby di Randy Newman, un’altra delle maggiori influenze del nostro https://www.youtube.com/watch?v=K-Ec5Od0WsI , Nothing Can Change This Love è un oscuro ma delizioso brano di Sam Cooke, con elementi doo-wop, e il piano che viaggia sempre spedito https://www.youtube.com/watch?v=FmeCGbt7glE , Better Day è un country-blues-swing di Brownie McGhee, con Robben Ford alla slide che contrappunta in modo elegante il lavoro della band https://www.youtube.com/watch?v=nQuHTW7viVc . O-O-H Child è il vecchio brano soul dei Five Stairsteps che ultimamente pare tornato di moda, visto che appare anche nel recente disco Paul Stanley con i Soul Station https://discoclub.myblog.it/2021/03/20/ebbene-si-e-proprio-lui-si-e-dato-al-funky-soul-con-profitto-paul-stanleys-soul-station-now-and-then/ , versione adorabile e delicata. https://www.youtube.com/watch?v=56btlAqRZLY 

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A seguire una robusta rilettura di Stay With Me il classico R&R di Rod Stewart con i Faces, con AJ al piano elettrico e una ficcante slide, Harvey per l’occasione. a ricreare lo spirito ribaldo del brano originale, e non manca neppure il New Orleans soul di Brickyard Blues una canzone di Allen Toussaint, qui resa in una versione a metà strada tra Dr. John e i Little Feat, grazie all’uso del bottleneck del chitarrista Garrett Stoner che interagisce con il piano di Croce, ricreando il dualismo Lowell George/Bill Payne https://www.youtube.com/watch?v=mH-dKTFOfbU . Incantevole anche la versione di San Diego Serenade di Tom Waits, con un arrangiamento che ricorda lo stile dei brani “sudisti” della Band, con tanto di pedal steel sullo sfondo https://www.youtube.com/watch?v=CinzazO7Ti8 , e che dire di una versione barrelhouse blues di Sail On Sailor dei Beach Boys? Geniale e sorprendente! Tra i brani poco noti anche Can’t Nobody Love You di Solomon Burke: non potendo competere con la voce del “Bishop of Soul” AJ opta per un approccio gentile e minimale, con l’organo a guidare e con le coriste che danno il tocco in più, e per completare un disco di sostanza arriva infine Ain’t No Justice un esaltante funky-soul strumentale di Shorty Long targato Motown 1969.

Bruno Conti

Un “Nuovo” Bluesman Canadese, Raffinato E Potente Al Contempo. Steve Strongman – Tired Of Talkin’

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Steve Strongman – Tired Of Talkin’ – Steve Strongman/Ontario Creates

In Canada esistono riserve quasi inesauste di musicisti eccellenti che attendono solo di essere “scoperti” da una platea più ampia rispetto a quella interna dello stato dell’Acero: non vi faccio elenchi ma quasi ogni mese sbucano dal nulla nomi di cui spesso non sospettavamo neppure l’esistenza. L’ultimo della lista potrebbe essere questo Steve Strongman, del quale Tired Of Talkin’ risulta già essere stato pubblicato nel 2019, ma solo a livello autogestito, e ora con una distribuzione più capillare tramite Stony Plain, risulta più facilmente reperibile, e quindi, visto che merita, sia pure in ritardo, parliamone… Non siamo di fronte ad un esordiente, Strongman è in attività dagli anni ‘90 e a livello discografico dal 2007, in effetti il nuovo CD è il settimo che pubblica, ha vinto svariati premi a livello nazionale, ed è stato candidato anche ai Juno Awards, i Grammy canadesi. Forse non ho detto che si tratta di un (ottimo) praticante del blues, di stampo rock, notevole chitarrista e anche in possesso di una bella voce, impegnato pure a dobro ed armonica.

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Il CD è stato registrato tra il Canada e Nashville, dove Steve, oltre al suo gruppo, si è avvalso dell’operato di musicisti di gran pregio come Pat Sansone  (giro Wilco)alle tastiere, il bravissimo Audley Freed (già dei Black Crowes) alle chitarre aggiunte e James Haggarty al basso; la sua band è formata da Dave King alla batteria (e coautore con Strongman di quasi tutte le canzoni), Colin Lapsley al basso e Jessie O’Brien al piano, presenti nei sei brani registrati a Hamilton, Ontario, in un paio di brani alle backing vocals ci sono Ella e Scarlett Strongman, presumo parenti. Il nostro amico non appartiene alla categoria dei chitarristi che privilegiano lunghi assoli e improvvisazioni, ma preferisce uno stile più ruspante, sanguigno, anche se è un ottimo manico: come risulta subito dalla gagliarda title track, pianino titillante, ritmica robusta e vari brevi assoli dello stesso Steve, anche in modalità slide, il tutto con richiami stonesiani, poteva capitarci di peggio https://www.youtube.com/watch?v=sC-eO0f_0lo Paid My Dues è un bel boogie-blues, tosto e tirato, con uso armonica e un bel groove e la chitarra che fila sempre liscia come l’olio https://www.youtube.com/watch?v=caDUz0_LJOk ; Still Crazy About You illustra anche il suo lato più romantico, una bella ballatona mid-tempo di impianto sudista, con Strongman anche al dobro e lap steel, che dona un tocco di pigro country https://www.youtube.com/watch?v=E17ATSwDgU0 , mentre Just Ain’t Right uno dei brani registrati in Tennessee, e firmato coralmente, è un ottimo esempio di funky-rock à la Little Feat, ovviamente con impiego di slide “cattiva” e un bel organo corposo di rinforzo https://www.youtube.com/watch?v=CWUrmCNRzxU .

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Can’t Have It Hall è un boogie blues vorticoso con il nostro anche all’armonica, mentre la solista tira alla grande, breve ma intenso https://www.youtube.com/watch?v=dYOIUuCWp_s , con Tell Me It Like It Is che è un bluesone di quelli duri e puri, sempre con la solista goduriosa di Steve in bella evidenza in un conciso assolo da sballo e piano d’ordinanza di supporto https://www.youtube.com/watch?v=7J4hl96yJNQ . Livin’ The Dream, sempre da Nashville, viceversa è un bel rock’n’roll a tutto riff, dove non si può fare a meno di andare a tempo con il piedino, mentre la band aizza Strongman che rilascia un altro serie di soli con bottleneck e solista raddoppiate, il tutto da manuale. That Kind Of Fight è una bella ballata avvolgente che ci presenta di nuovo il suo lato più intimo e melodico, con assolo di acustica, ma è un attimo https://www.youtube.com/watch?v=pbwMQp9jSuY , Hard Place And A Rock, come da titolo, è una botta di energia, con la band che rocca e rolla come se non ci fosse un futuro, niente lungaggini ma grinta da vendere e chitarre arrotate. Highway Man è blues puro, intimo e non adulterato, solo voce e una acustica in modalità slide https://www.youtube.com/watch?v=u_YUmxaYtJg , ottimo anche Bring You Down un rock mid-tempo, sempre con fantastico lavoro della chitarra che lavora di fino, a chiudere troviamo l’unica cover dell’album, una deliziosa rilettura di Let’s Stay Together di Al Green che essuda soul music di gran classe, anche nello squisito guitar solo  . Per usare un acronimo alla Asterix UDQB, uno di quelli bravi!

Bruno Conti

Saranno Anche Fuori Di Testa, Ma Quando Suonano Sono Serissimi! The Texas Gentlemen – Floor It!!!!

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The Texas Gentlemen – Floor It!!!! – New West CD

Tornano a distanza di tre anni dal loro debutto TX Jelly i Texas Gentlemen https://discoclub.myblog.it/2017/11/27/un-bellesempio-di-follia-musicale-con-metodo-the-texas-gentlemen-tx-jelly/ , un quintetto di pazzi scatenati proveniente, mi sembra ovvio, dal Lone Star State, e composto dai due leader, il cantante e chitarrista Nik Lee ed il cantante e pianista Daniel Creamer, dall’altro chitarrista Ryan Ake e dalla sezione ritmica formata da Scott Edgar Lee Jr. al basso e Paul Grass alla batteria. Nonostante abbia parlato di esordio i cinque non sono certo di primo pelo, dal momento che stiamo parlando di un gruppo di sessionmen che si sono messi insieme quasi per gioco (hanno suonato anche con una leggenda vivente come Kris Kristofferson), ma da quando hanno iniziato ad incidere per conto proprio hanno dimostrato di fare sul serio. TX Jelly era un disco completamente fuori dagli schemi, in cui i nostri affrontavano qualsiasi genere musicale venisse loro in mente, dal rock al country al pop al blues al funky al folk e chi più ne ha più ne metta, il tutto proposto con un’attitudine scanzonata e divertita ed indubbiamente coinvolgente.

Musica creativa e non scontata quindi, e questo loro secondo album Floor It!!!! prosegue nello stesso modo, con una serie di canzoni in cui affiorano diversi stili anche all’interno dello stesso brano, e dove si nota rispetto al lavoro precedente una maggiore inclinazione verso la pop song di qualità, con uso anche di archi e fiati seppur senza esagerare. A volte essere troppo eclettici può essere considerato un difetto, ma quando come nel caso appunto dei Texas Gentlemen ci sono la bravura nello scrivere e nel suonare, la creatività e l’abbondanza di idee è certamente un vantaggio. I TG si divertono, e riversano questo loro divertimento sull’ascoltatore. Floor It!!!! dura più di un’ora e presenta una serie di brani medio-lunghi, ma grazie proprio al fatto che uno non sa mai cosa aspettarsi dalla canzone seguente il disco riesce a non annoiare. La breve Veal Cutlass, poco più di un minuto, è puro dixieland anni trenta, un pezzo un po’ spiazzante che confluisce nel vibrante strumentale Bare Maximum, un misto di rock’n’roll e funky che si pone nel mezzo tra Little Feat e Frank Zappa, con i fiati a rinforzare un suono già bello tosto; Ain’t Nothin’ New è una ballata ariosa e sognante, guidata dal piano e con un motivo lineare e godibile (e qui il paragone è coi Phish), bella e creativa.

Anche Train To Avesta è un’ottima slow song pianistica tra roots e pop, come se i Jayhawks si fossero fatti produrre da Jeff Lynne; l’intro pianistico di Easy St. rimanda all’Elton John d’annata, ma il resto è puro pop alla McCartney con un leggero sapore vaudeville, fresco e decisamente gradevole: finora di Texas c’è davvero poco, ma non è che mi lamenti. Sir Paul resta a livello di influenza anche in Hard Rd., altro riuscito pezzo di puro pop guidato dal piano e con una orchestrazione alle spalle, a differenza dello strumentale Dark At The End Of The Tunnel, che nonostante si lasci ascoltare senza grandi problemi sembra più una backing track alla quale i nostri si sono dimenticati di aggiungere le parole che una canzone fatta e finita, anche se non mancano cambi di ritmo e di tema musicale. Meglio la cadenzata ballad Sing Me To Sleep, sempre col piano in evidenza ed un gradevole refrain, anche se sembra mixata in maniera un po’ rozza.

Last Call è pop-rock con orchestra, un genere molto poco texano ma proposto con un elevato gusto per la melodia ed un buon ritornello corale, mentre She Won’t è un delicato brano elettroacustico che mescola folk e pop in modo disinvolto. Il CD si chiude con i due pezzi più lunghi (inframezzati da Skyway Streetcar, solare ballata dal sapore californiano guidata ottimamente da piano e chitarre), ovvero i sette minuti di Charlie’s House, delicato slow al quale gli strumenti elettrici, i fiati e gli archi conferiscono potenza (e con un bel finale in crescendo), e gli otto della title track, che parte in maniera coinvolgente in stile rock-boogie sudista (ma con somiglianze anche con Marc Bolan & T-Rex) e poi aggiunge di tutto dal pop al gospel con una parte finale tra i Beatles ed una leggera psichedelia. Già TX Jelly era un album pieno di idee e di soluzioni accattivanti, ma con Floor It!!!! i Texas Gentlemen sono riusciti a proporre qualcosa di completamente diverso, e con la massima nonchalance.

Marco Verdi

Un Disco Che E’ Pura Sofferenza Messa In Musica. Nick Cave & The Bad Seeds – Ghosteen + Un Breve Saluto A Paul Barrere.

nick cave ghosteen

Nick Cave & The Bad Seeds – Ghosteen – Ghosteen/Awal 2CD – 2LP

Quando nel 2016 avevo recensito Skeleton Tree, l’allora nuovo album di Nick Cave ed i suoi Bad Seeds, era chiaro che avevo tra le mani il lavoro più drammatico e personale del cantautore australiano, un disco che era stato ispirato dalla tragica morte del figlio Arthur di 15 anni a causa di una caduta dalla scogliera di Ovingdean Gap vicino a Brighton https://discoclub.myblog.it/2016/09/30/rispetto-il-dolore-questuomo-nick-cave-and-the-bad-seeds-skeleton-tree/ . Un album che comprensibilmente rifletteva lo stato d’animo di un genitore distrutto dal dolore, formato da canzoni ancora più cupe del solito (Cave come saprete non è mai stato un tipo euforico e solare, e la morte ha sempre fatto parte delle tematiche trattate nei suoi brani) e contraddistinte da sonorità fredde e quasi di stampo ambient. Ma con questo nuovissimo doppio Ghosteen (uscito un po’ a sorpresa sulle piattaforme online circa un mese prima della versione “fisica”) Nick scava ancora più a fondo nel suo dolore, mettendosi a nudo come raramente un musicista ha fatto in passato:

Cave è indubbiamente portato per questo tipo di mood, ma un conto è ritagliarsi un ruolo di un certo tipo nell’ambito della canzone d’autore internazionale (recitando di fatto una parte), un altro è vivere in prima persona una tragedia terribile dalla quale è impossibile riprendersi fino in fondo. Ghosteen è quasi una seduta psicanalitica in cui Nick è il paziente e noi ascoltatori il dottore (anche se purtroppo non abbiamo nessun tipo di terapia da assegnargli), con una musica che spinge ancora di più sul pedale dell’elettronica, e la voce del nostro che si muove in mezzo a paesaggi sonori gelidi e molto poco accattivanti. Il risultato finale è un’opera di grande fascino pur essendo di non facile ascolto, con la voce del leader mai così fragile come in queste tracce: i Bad Seeds, poi, non sono mai stati così nelle retrovie, con Warren Ellis unico membro davvero impegnato tra synth, loops vari, flauto e violino, mentre gli altri (George Vjestica, chitarra, Jim Sclavunos, percussioni e vibrafono, Martyn Casey, basso e Thomas Wydler, batteria) sono presenti più che altro per onor di firma.

L’oscurità delle canzoni è in netta contrapposizione con la splendida copertina bucolica, una delle più belle tra quelle viste negli ultimi anni, e che potrebbe anche giustificare l’acquisto del doppio LP in luogo del CD, doppio anch’esso (un po’ inspiegabilmente, dato che la durata complessiva delle undici canzoni è di 68 minuti). L’elettronica domina fin dall’iniziale Spinning Song, introdotta da un raggelante tappeto di synth al quale si unisce quasi subito la voce rotta dal dolore di Cave, che più che cantare recita: il brano è volutamente una non-canzone, ma non posso comunque negare che il pathos è notevole: sul finale Nick inizia improvvisamente ad intonare una struggente preghiera con tanto di coro simil-ecclesiastico, da pelle d’oca. Bright Horses vede il nostro accompagnarsi al piano anche se il sintetizzatore non manca neppure qui, per una canzone toccante e splendida, ancora con la voce fragile che sembra sul punto di spezzarsi in più di un momento, e ad un certo punto entra anche una vera orchestra; ancora il piano introduce la cupa Waiting For You, con Cave che canta ancora con il cuore in mano intonando un ritornello splendido in cui invoca il ritorno del figlio, un momento di straordinaria commozione in grado di far capitolare anche l’animo più duro, mentre Night Raid è di nuovo un pezzo tutto costruito attorno alla voce grave di Nick e a pochi effetti sonori di fondo, un brano meno diretto del precedente ma intenso come pochi.

Sun Forest è gelida e tesa come una lama, con la voce che entra dopo più di due minuti di introduzione “sintetizzata” (ma il piano non manca), ancora con un’intonazione da preghiera, Galleon Ship vede nuovamente Cave cantare con alle spalle un tappeto elettronico ed un’atmosfera inquietante per uno dei pezzi più ostici del disco. Il primo CD si chiude con l’angosciosa Ghosteen Speaks, nella quale Nick quasi ci trasmette fisicamente la sua immane sofferenza (grazie anche ad un coro spettrale alle spalle), e con Leviathan, che per merito dell’uso di una tabla sembra quasi un canto tribale indiano, anche se l’atmosfera è sempre tetra. Il secondo dischetto è formato da sole tre canzoni, a partire dalla lunga title track (12 minuti), che ha un’introduzione strumentale potente e straniante al tempo stesso e con la voce di Cave che entra solo al quarto minuto aprendosi nel refrain in un raro momento di ampio respiro, quasi maestoso. La breve Fireflies è in realtà un brano recitato con un accompagnamento degno di un film horror, e precede la conclusiva Hollywood, che di minuti ne dura addirittura 14 ma senza cambiare il mood del disco, anzi forse accentuandone la componente drammatica.

Un lavoro dunque complicato, ostico e per nulla immediato questo Ghosteen, ma di una sincerità e profondità da far venire i brividi.

Marco Verdi

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P.S: visto che siamo in clima funereo, volevo brevemente ricordare (con colpevole ritardo) la figura di Paul Barrere, deceduto lo scorso 26 Ottobre a causa di un cancro al fegato diagnosticatogli nel 2015. Chitarrista dalla tecnica sopraffina, Barrere ha legato il suo nome a doppio filo a quello dei leggendari Little Feat, gruppo del quale entrò a far parte nel 1972 affiancando l’unico chitarrista nonché leader della band Lowell George fino alla morte di quest’ultimo nel 1979 e conseguente scioglimento della band, e prendendone il posto nella line-up riformata nel 1988 per il comeback album Let It Roll fino ai giorni nostri, affiancato a sua volta da Fred Tackett (con il quale registrò anche un paio di album acustici in duo  ).

Barrere portò in dote nel gruppo le sue conoscenze in materia di musica rock, blues, cajun e funky ed era l’elemento giusto al momento giusto in quanto in grado di arricchire ulteriormente il suono del gruppo californiano. La sua bravura nella tecnica slide ne fece il naturale sostituto di George, che era un maestro del genere, anche se non riuscì mai ad avvicinarne le capacità come songwriter: i brani più noti scritti da Paul sono Skin It Back, Feats Don’t Fail Me Now, Time Loves A Hero e Down On The Farm.

Più che dignitosa comunque la sua carriera nell’ultima fase del gruppo, con alcuni lavori di ottima fattura (Representing The Mambo, Ain’t Had Enough Fun, Join The Band) che forse erano anche meglio di un paio di dischi dei Feat negli anni settanta come Time Loves A Hero e The Last Record Album. Di sicuro si è già ritrovato lassù a jammare come ai bei tempi proprio con i vecchi amici Lowell ed il batterista Richie Hayward.

Un “Fuorilegge” Dalla Florida, Tra Country E Southern. Rick Monroe – Smoke Out The Window

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Rick Monroe – Smoke Out The Window – Thermal Entertainment CD

Rick Monroe è un countryman proveniente dalla Florida, ed è in giro da ormai un ventennio, una lunga gavetta durante la quale è rimasto fieramente indipendente ed è perciò ancora relativamente sconosciuto. In questo lungo periodo Rick non è mai stato fermo un attimo, ha vissuto in almeno una decina di stati degli USA, e ha girato il mondo sia aprendo i concerti di artisti blasonati (tra cui Dwight Yoakam, Charlie Daniels e la Marshall Tucker Band) che suonando in proprio, e toccando anche latitudini molto distanti come i paesi dell’Est europeo ed Estremo Oriente. Dal punto di vista discografico i suoi album si possono contare sulle dita di una mano, e nell’ultimo lustro si è fatto vivo solo con un paio di EP: Smoke Out The Window è quindi a tutti gli effetti il suo secondo full-length della decade, e ci mostra un artista che fa del sano country elettrico, decisamente imparentato col rock, dove le chitarre hanno la preponderanza ed i suoni languidi e radiofonici sono assolutamente banditi.

Rick ha anche la buona abitudine di scrivere le canzoni in prima persona, cosa che nel dorato mondo di Nashville è ormai una rarità, facendo in modo di avere un songbook più legato ad esperienze personali; i suoni sono asciutti e diretti, chitarra, basso, batteria e talvolta piano ed organo, con le influenze sudiste del nostro che spiccano chiare, mentre in certi momenti sembra invece di avere a che fare con un country-rocker texano. I pochi, e bravi, musicisti rispondono ai nomi di Fred Boekhorst (chitarra), Sam Persons (basso), JD Shuff (batteria, ed è anche il produttore del disco) e le tastiere sono equamente divise tra Chris James e Lee Turner. Good As Gone fa iniziare il CD in maniera potente, una rock song robusta, molto più southern che country, ritmica pressante e chitarre al fulmicotone, con ampie tracce di Lynyrd Skynyrd. Cocaine Cold & Whiskey Shakes è ancora vigorosa, l’attacco ricorda un po’ Whiskey River di Willie Nelson, ma l’approccio è più quello di Waylon (insomma, sempre in ambito Outlaws siamo), Smoke Out The Window è un tantino statica e fin troppo attendista, ma Nothing To Do With You è una country ballad gradevole e solare, il classico pezzo che cattura fin dalle prime note.

I’ll Try è una bella canzone, un fluido slow pianistico con umori southern soul, dotato di un ottimo refrain corale, Truth In The Story, dal ritmo spezzettato, ci fa piombare di botto a New Orleans, in zona Little Feat, tra slide, piano guizzante e sonorità grasse, la cadenzata Stomp, ancora tra rock e country, è elettrica e vibrante, ma anche già sentita. Molto bella la lenta Rage On, che ci proietta idealmente nei mitici Fame Studios in Alabama, merito di un organo evocativo, un caldo sax ed un motivo vagamente gospel (forse il brano migliore del disco), mentre This Side Of The Dirt è puro rockin’ country, solido, chitarristico e grintoso; chiudono il CD l’intensa October, rock ballad dal suono pieno ed ancora ottime parti di chitarra, e con l’acquarello acustico di Tempt Me, finale con la spina staccata ma che comunque non difetta di feeling.

Dopo una carriera nell’ombra non sarà certo Smoke Out The Window a dare la fama a Rick Monroe, ma la speranza è che almeno venga notato da un numero sempre maggiore di amanti del vero country di qualità.

Marco Verdi

Tornano I “Maghi” Della Slide. Delta Moon – Babylon Is Falling

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Delta Moon – Babylon Is Falling – Jumping Jack Records/Landslide Records

Decimo album di studio per I Delta Moon,  Il duo di Atlanta, Georgia, composto da Tom Gray, che è la voce solista e impegnato alla lap steel in modalità slide, e Mark Johnson, pure lui alla slide: in effetti vengono uno da Washington, DC e l’altro dall’Ohio, ma hanno eletto il Sud degli States come loro patria elettiva, e con l’aiuto del solido (in tutti i sensi) bassista haitiano Franher Joseph, che è con loro dal 2007, hanno costruito una eccellente reputazione come band che sa coniugare blues, rock, musica delle radici e un pizzico di swamp, in modo impeccabile. I batteristi, che spesso sono anche i produttori dei dischi, ruotano a ritmo continuo: in questo Babylon Is Falling ne troviamo tre diversi, Marlon Patton è quello principale, mentre in alcuni brani suonano pure Vic Stafford e Adam Goodhue. Il risultato è un album piacevolissimo, dove il materiale originale si alterna ad alcune cover scelte con estremo buon gusto ed eseguite con la classe e la finezza che li contraddistingue da sempre.

Per chi non li conoscesse, i Delta Moon hanno un suono meno dirompente di quanto ci si potrebbe attendere da un gruppo a doppia trazione slide, una rarità, ma anche uno dei loro punti di forza https://discoclub.myblog.it/2017/05/12/due-slide-sono-sempre-meglio-di-una-nuova-puntata-delta-moon-cabbagetown/ :Tom Gray non è un cantante formidabile, ma supportato spesso e voelntieri dalle armonie vocali di Johnson e di Fraher, nelle note basse, è in grado di rendere comunque il loro approccio alla materia blues e dintorni molto brillante e vario, come dimostra subito un brano uscito dalla propria penna come Long Way To Go. Un bottleneck minaccioso che si libra sul suono bluesato  e cadenzato dell’insieme, speziato dal suono della paludi della Louisiana, altra fonte di ispirazione del sound sudista della band, mentre anche l’altra slide di Johnson inizia ad interagire con quella di Gray, che benché il nome lap steel potrebbe far pensare venga suonata sul grembo, in effetti è tenuta a tracolla e “trattata” con una barretta d’acciaio.

Conclusi i tecnicismi torniamo ai contenuti del disco: la title track Babylon Is Falling è un brano tradizionale arrangiato come un galoppante soul-blues-gospel che sta a metà strada tra il Cooder elettrico e i gruppi soul neri, con il consueto sfavillante lavoro delle chitarre, mentre One More Heartache è un vecchio brano Motown firmato da Smokey Robinson  per un album del 1966 di Marvin Gaye, sempre rivisitato con quel sound che tanto rimanda ancora al miglior Ry Cooder. Might Take A Lifetime è il primo contributo come autore di Mark Johnson, ma la voce solista è sempre quella roca e vissuta di Gray, con il suono che qui vira decisamente al rock, pensate ai Little Feat o magari ai primi Dire Straits, tanto per avere una idea; Skinny Woman va a pescare nel repertorio di R.L. Burnside per un tuffo nel blues delle colline, vibrante ed elettrico come i nostri amici sanno essere, grazie a quelle chitarre che volano con leggiadria sul solido tappeto ritmico. Louisiana Rain è un sentito omaggio al Tom Petty più vicino al suono roots, una squisita southern ballad che la band interpreta in modo divino, con l’armonica di Gray che si aggiunge al suono quasi malinconico e delicato delle chitarre accarezzate con somma maestria dai due virtuosi.

Liitle Pink Pistol, nuovamente di Gray, è un rock-blues più grintoso, sempre con le chitarre che si rispondono con  superbo gusto dai canali dello stereo e una spruzzata di organo per rendere il suono più corposo. Nobody’s Fault But Mine è il famoso traditional attribuito a Blind Willie Johnson, altra canzone che brilla nella solida interpretazione del gruppo, con un piano elettrico aggiunto alle due slide tangenziali https://www.youtube.com/watch?v=Bbbvw_Ru5w8 , e sempre in ambito blues eccellente anche il trattamento riservato ad un Howlin’ Wolf d’annata nella inquietante Somebody In My Home, sempre in un intreccio di chitarre ed armonica. Per chiudere mancano una corale e divertente One Mountain At A Time, sempre incalzante e tagliente, e la bellissima e sognante Christmas Time In New Orleans, altro pezzo firmato da Johnson https://www.youtube.com/watch?v=5ZJgSaEjNYU , ennesimo fulgido esempio del loro saper coniugare blues e radici in modo sapido e personale.

Bruno Conti   

Tra Chitarre E Rock’n’Roll, Un Disco A Tratti Irresistibile! The National Reserve – Motel La Grange

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The National Reserve – Motel La Grange – Ramseur CD

Se dovessi partecipare ad un ipotetico gioco nel quale si associano luoghi a generi musicali, parlando di Brooklyn tenderei sicuramente a pensare a rap o hip-hop. Eppure anche nel noto quartiere di New York ci sono le eccezioni, e ad una di esse appartengono certamente The National Reserve, un quintetto di giovani musicisti che, sia nell’aspetto fisico che nel tipo di proposta sonora, sembrano in tutto e per tutto una rock band del Sud. Guidati dal cantante, chitarrista ed autore principale Sean Walsh (gli altri membri sono Jon Ladeau alle chitarre, Matthew Stoulil al basso, Steve Okonski alle tastiere e Brian Geltner alla batteria), i NR hanno una bella gavetta alle spalle, essendosi formati nel 2009 ed avendo maturato una lunga esperienza on the road in tutti questi anni, nei quali hanno dato alle stampe appena un paio di EP ed un album, Homesick, autodistribuito ed impossibile da trovare. Motel La Grange si può dunque considerare a tutti gli effetti il vero debutto per Walsh e compagni, e devo dire che il suo ascolto è stato per me una piacevolissima sorpresa, in quanto mi sono trovato davanti ad un gran bel dischetto di puro rock’n’roll senza fronzoli, come si usava fare negli anni settanta, una miscela decisamente accattivante di rock, country e southern music, con tante chitarre, ritmo spesso elevato ed un songwriting di ottimo livello. Non sembra neanche un lavoro di un gruppo praticamente al debutto, e questo è merito sicuramente degli anni passati sui palchi di mezza America: i NR hanno pazientemente aspettato il loro momento, e con questo Motel La Grange si può dire che finalmente l’attesa è finita.

Nel disco ci sono diversi altri musicisti che appaiono come ospiti, praticamente tutti degli illustri sconosciuti, ma la loro presenza fa sì che il suono delle dieci canzoni presenti sia ancora più corposo, profondo ed interessante, ed il risultato finale è uno degli album di puro rock più riusciti da me ascoltati ultimamente. L’inizio è molto promettente: No More è una rock song elettrica e potente, quasi viscerale, dal gran tiro chitarristico (ma c’è anche un organo che si insinua nelle pieghe del suono) ed un motivo molto diretto e piacevole. Ricorda, ma solo in parte, certe cavalcate di Neil Young con i Crazy Horse. Big Bright Light, sempre caratterizzata da un ritmo sostenuto, è più tersa e quasi country-oriented, ma il suono è ancora rock e la melodia immediata, e c’è anche una splendida steel a fungere da strumento solista; Found Me A Woman cambia registro, ed è un gustoso rock-blues con spruzzate di funky, un suono “grasso” ed uno stile a metà tra Little Feat e certa musica sudista, il tutto impreziosito da un coro femminile e da una mini sezione fiati (due sax ed un trombone), oltre ad apprezzabili interventi di piano, armonica e chitarra solista: grande musica.

La fluida e distesa Don’t Be Unkind è una deliziosa rock ballad che irrompe in territori cari a The Band, basti sentire il tipo di melodia e l’uso della fisarmonica (mentre la slide è suonata alla maniera di George Harrison), la solida Other Side Of Love, ancora cadenzata e dagli umori sudisti, ha il ritmo guidato dal piano ed un bell’intervento centrale di organo, mentre la vibrante Standing On The Corner è puro e semplice rock, con chitarre un po’ ovunque (e tutte dal suono ruspante) ed il solito motivo diretto e vincente. Splendida New Love, coinvolgente rock’n’roll dal sapore country ed il piano suonato come se fosse un organo farfisa: i ragazzi riescono a fare dell’ottimo rock, piacevole e suonato davvero bene, e brani come questo ne sono la conferma. Motel La Grange è un lentaccio in puro stile southern soul, dal suono classico basato su chitarre ed organo, ed il ricordo dei grandi gruppi dei seventies; il CD si chiude con la squisita I’ll Go Blind, una delle più riuscite ed orecchiabili, che reca tracce del miglior Doug Sahm, e con la lenta ed elettroacustica Roll On Babe, finale quasi crepuscolare ma di grande pathos, ed un suono che sembra uscito dai Fame Studios di Muscle Shoals. Un dischetto bello e sorprendente, per chi ama il vero rock’n’roll.

Marco Verdi

Non Posso Che Confermare: Gran Bel Disco! Levi Parham – It’s All Good

levi parham it's all good

*NDB Se vi risulta familiare non vi state sbagliando, ne abbiamo già parlato in anteprima, molto bene, all’incirca un mese fa https://discoclub.myblog.it/2018/06/03/lairone-delloklahoma-ha-spiccato-il-volo-con-un-grande-disco-levi-parham-its-all-good/ , ma visto che mi trovo tra le mani anche una seconda recensione, nel frattempo è uscita anche la versione americana, e il disco merita, ho deciso di pubblicare anche questa. Succede raramente, ma per questa volta facciamo una eccezione.

Levi Parham  – It’s All Good – Continental Song City/CRS CD/Horton Records

Levi Parham, musicista originario dell’Oklahoma, è sempre stato molto legato alla sua terra d’origine, fin dal suo esordio, l’autogestito (non di facile reperibilità. ma si trova) An Okie Opera. Il suo secondo lavoro, These American Blues (2016) è stato prodotto dal “late great” Jimmy LaFave, che era sì texano ma aveva vissuto per anni a Stillwater: ora Parham, nel suo nuovo album It’s All Good, ha deciso di giocare ancora più in casa, chiamando a raccolta musicisti solo della zona di Tulsa (ed infatti il CD è intitolato a Levi insieme ai Them Tulsa Boys And Girls), un gruppo di amici e conoscenti tra i quali spicca una nostra vecchia conoscenza, John Fullbright, ma anche altri musicisti titolari di discografie in proprio (Jesse e Dylan Aycock, il chitarrista Paul Benjaman, che è anche il band leader in questo disco). E It’s All Good è un gran bel disco di puro rock sudista, dieci canzoni lucide e coinvolgenti in cui il nostro mischia con grande abilità e feeling rock, blues, boogie ed un pizzico di funky e soul.

L’album è stato inciso a Sheffield, in Alabama, nei Portside Studios che altro non sono che gli ex Muscle Shoals Studios, un ambiente nel quale solo ad entrarci si respira grande musica. E di grande musica in questo CD non ne manca di certo: Parham è un vero uomo del sud, ha il ritmo nel sangue, ed in più è dotato di una voce mica male; le canzoni partono dalla lezione di gruppi storici come Little Feat, Allman Brothers Band, Delaney & Bonnie e Derek & The Dominos, nomi importanti certo, e di sicuro inarrivabili, ma Levi ha l’intelligenza e l’umiltà di andare per la sua strada, e mette a punto un disco di vero rock come si faceva negli anni settanta, con la slide spesso protagonista ma in genere con un suono piuttosto chitarristico, ben bilanciato da validi interventi di piano ed organo. Badass Bob è un brano elettrico e bluesato, dal ritmo strascicato e quasi pigro, con un mood decisamente annerito ed un intermezzo chitarristico notevole. Anche Borderline parte attendista, ma c’è una tensione elettrica che fa presagire un’esplosione imminente, che arriva dopo due minuti sotto forma di aumento di ritmo e ruspanti assoli di chitarra. Puro rock, suonato come Dio comanda. Turn Your Love Around è scura, lenta, quasi paludosa, tra rock e blues del Mississippi, eseguita con una padronanza degna di un veterano, e contrassegnata da acuti lancinanti a base di slide, mentre la vibrante My Finest Hour, dal ritmo spezzettato, è più solare pur mantenendosi saldamente in territori sudisti, con la voce “nera” del nostro che è quasi uno strumento aggiunto.

Boxmeer Blues è un rock’n’roll sanguigno e coinvolgente, che rammenta alcune cose dei Little Feat ma anche dei Subdudes: chitarre che dettano il ritmo ed ottimi interventi di organo e piano elettrico; la fluida Shade Me sembra il risultato del viaggio di un anno nel sud degli States da parte dei Beatles, specialmente Harrison e Lennon, mentre la trascinante Heavyweight è ancora influenzata dall’ex band di Lowell George sia nel suono, un rock-blues con elementi quasi funk, sia nell’uso sbarazzino della slide, ed anche la godibile Kiss Me In The Morning non si discosta molto da queste sonorità: slide sempre in primo piano, ottimo uso del pianoforte ed un motivo fresco e scorrevole, con un assolo di sax come ciliegina. Il CD termina con la title track, un gustosissimo boogie pianistico degno di Professor Longhair, e con la tenue All The Ways I Feel For You, finale stripped-down, voce e chitarra, ma cui non manca di certo l’intensità. Al terzo disco Levi Parham ha centrato il bersaglio: consigliato a chi ama il rock, quello vero, con implicazioni southern.

Marco Verdi

L’Airone Dell’Oklahoma Ha spiccato Il Volo, Con Un Grande Disco. Levi Parham – It’s All Good

levi parham it's all good

Levi Parham – It’s All Good – Horton Records/Continental Record Services

Il 23 luglio dello scorso anno mi trovavo a Pusiano, la bella località in provincia di Como dove da diversi anni si svolge il Buscadero Day, imprescindibile appuntamento per tutti gli appassionati di ottima musica rock. Ingolosito dal ricco cast previsto in cartellone, dal bravo e simpatico Joe D’Urso fino alle stelle della serata Alejandro Escovedo e Willie Nile, poco dopo le diciotto e trenta mi trovavo seduto sull’erba a godermi il sole e la piacevole brezza proveniente dal lago, quando un quartetto è salito sul palco, guidato da un magro spilungone con occhiali da sole e berretto con visiera. Sono bastati pochi accordi del primo pezzo per farmi provare autentici brividi di piacere, ancora più intensi perché inattesi. Così è stato per tutta la durata dell’esibizione di Levi Parham, che allora, colpevolmente, non conoscevo, come del resto quasi tutti i presenti. I brani eseguiti provenivano per lo più dal suo CD del 2016, These American Blues, prodotto dal compianto Jimmy LaFave (che si può definire a pieno titolo suo mentore e scopritore), dopo le due prove ancora acerbe ed autoprodotte, l’esordio An Okie Opera del 2013 e l’Ep Avalon Drive dell’anno seguente. Un’esibizione eccellente, quella del giovane songwriter originario di McAlester, piccola cittadina dell’Oklahoma, che ha conquistato la platea grazie ad un melange irresistibile di folk, rock e blues, scandito dalla sua voce ricca di sfumature, dalle sferzate elettriche dell’ottimo chitarrista che lo accompagnava e da una solida sezione ritmica.

Appena un mese dopo, Parham, rientrato negli States, ha avuto la geniale idea di raccogliere un gruppo di musicisti tra i più dotati della zona di Tulsa (tra cui i fratelli Jesse e Dylan Aycock, Paul Benjaman e John Fullbright, autori di buoni dischi in proprio) e di recarsi con loro al Cypress Moon Studio di Muscle Shoals in Alabama, dove sono nati tanti dischi leggendari, come quelli di Aretha Franklin o dei Rolling Stones, solo per fare due nomi. L’esito di quelle sessions di registrazione è ora qui nelle nostre mani e supera ogni rosea previsione. It’s All Good, così si intitola, è un disco splendido, uno dei migliori usciti quest’anno (e lo sarà fino alla fine, ne sono certo) in quanto possiede un sound ed un livello di composizione capace di rinverdire i fasti di grandi album del passato che abbiamo consumato, come Dixie Chicken dei Little Feat o Layla di Derek & The Dominoes. Un suono che trasuda di umori southern in ogni nota, basato sulle chitarre, con l’uso della slide sempre in primo piano, ma impreziosito dal sapiente uso delle tastiere e dal sax. L’apertura è affidata a Badass Bob, già presentata dal vivo a Pusiano, che parte pigra e lenta come lo scorrere del Mississippi vicino al delta, animandosi gradualmente fino al bell’assolo centrale, mentre Levi passa con disinvoltura dai toni sommessi a quelli aggressivi, evocando il fantasma di Lowell George. La tensione aumenta in Borderline, drammatica storia di confine, in cui la fuga del protagonista nel finale del pezzo viene enfatizzata dal continuo ed esaltante sovrapporsi delle chitarre suonate da Dustin Pittsley e dai già citati Paul Benjaman e Jesse Aycock in un crescendo tipico delle southern rock bands. Il blues, torrido e viscerale, domina nella seguente Turn Your Love Around, lenta, sofferta e incendiata da un sontuoso assolo di slide  mentre Parham offre un’interpretazione vocale da brivido, sostenuto dalle due coriste, Lauren Barth e Lauren Farrah.

My Finest Hour è uno dei vertici assoluti dell’album, sembra il punto d’incontro tra Jackson Browne e Gregg Allman, partendo come una ballad di chiaro stampo californiano e  trasformandosi poi in una jam session dove ciascuno dei musicisti presenti offre il proprio contributo nel creare un seducente magma sonoro. Gli Stones di Exile On Main Street si candidano come maggior fonte d’ispirazione per la ruspante Boxmeer Blues, in cui Fullbright si mette in luce con un delizioso assolo di piano elettrico e hammond, prima di lasciare spazio alle chitarre. La suadente Shade Me è invece il più evidente tributo pagato da Parham & soci all’eterna e infinita eredità beatlesiana, melodia splendida e chitarre che citano George Harrison o il Clapton di Derek & The Dominos, se preferite. Heavyweight non è inedita, bensì il rifacimento di un brano tratto da An Okie Opera, il disco d’esordio di Levi. Questa nuova versione ne accentua la componente blues e la devozione del suo autore per i mitici Little Feat, sentire per credere l’uso della slide e del piano. Kiss Me In The Morning è l’ennesima riprova del talento di Parham, arricchita da un bell’intervento del sax di Michael Staub, come pure la successiva title.track,  che mantiene quelle indolenti cadenze blueseggianti che tanto abbiamo amato nei capolavori degli anni settanta della band di Lowell George. C’è spazio ancora per un ultimo brano, All The Ways I Feel For You, un’oasi acustica che non guasta dopo tanti riff elettrici, una intensa e delicata love song eseguita col giusto pathos in assoluta soitudine. Levi Parham con questo It’s All Good si conferma uno dei più validi cantautori dell’attuale scena americana, non è più una promessa ma un’esaltante realtà, ascoltare per credere!

Marco Frosi

 *NDB Il disco sta uscendo un po’ a macchia di leopardo in giro per il mondo: in Europa su CRS è già stato pubblicato il 25 maggio, in Inghilterra uscirà l’8 giugno e il 15 giugno negli USA su Horton Records, l’etichetta per cui hanno inciso album anche molti dei musicisti usati da Levi e che vale la pena di esplorare.