Questa Volta Solo Una “Mezza Fregatura”, Forse! Lynyrd Skynyrd – Live At Knebworth ‘76

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Lynyrd Skynyrd – Live At Knebworth ‘76 – Eagle Rock/Universal – CD+DVD – CD+Blu-Ray – 2LP+DVD

Questa uscita rientra nella categoria “fregature” di cui ultimamente vi stiamo parlando sul Blog sia Marco che il sottoscritto: per l’occasione ho aggiunto anche “mezza” e attenuato con un forse. Adesso vi spiego perché. Stiamo parlando del famoso concerto tenuto dai Lynyrd Skynyrd il 21 agosto 1976 in quel di Knebworth, ridente località non lontana da Londra (quando è estate e non piove e quindi ci sono tonnellate di “palta” in cui sprofondare, lo dico con cognizione di causa perché mi è capitato). Però quello del concerto fu un giorno in cui anche in Inghilterra c’erano temperature estive per il consistente pubblico presente (stimato tra le 150 e le 200.000 persone, per un Festival a cui partecipavano anche gli Utopia di Todd Rundgren, i 10cc e gli headliners erano i Rolling Stones): come testimoniano le immagini del film che presentano molta gente poco vestita, meno che sul palco, dove l’unico seminudo, in braghette bianche, era il batterista Artimus Pyle, e alcuni degli altri Skynyrd avevano anche maniche lunghe, giubbetti e indumenti che forse indicavano che l’english weather traditore era sempre dietro l’angolo.

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Ma lasciando perdere le questioni meteorologiche e concentrandoci su Live At Knebworth ‘76 torniamo alla questione fregatura, che parte da lontano: infatti già nel lontano 1996, prima dell’avvento del DVD, esce un Freebird The Movie, sia in VHS che in CD, poi negli anni a seguire pubblicato anche in DVD e CD+DVD, sempre incentrato sul concerto di Knebworth, presente in versione (quasi) integrale ma dal quale curiosamente mancava proprio Freebird la canzone del titolo, sostituita da una versione, peraltro quasi altrettanto bella, registrata a Oakland in California nell’estate del 1977, che trovate facilmente su YouTube.

Come bonus vennero aggiunti anche due brani da Asbury Park del 1977 e un pezzo in studio. In più, nella versione video che durava (anzi dura, perché si trova ancora, anche a prezzi piuttosto bassi) 3 ore e 18 minuti e comprendeva anche un altro film “The Concert Tour”. Tornando al fattore fregatura, come vedete ad inizio post esistono varie versioni del disco, oppure per usare una terminologia che ora viene utilizzata spesso, del combo: ma solo in quella CD+Blu-Ray, nella parte video si trova il film-documentario del 2018 If I leave Here Tomorrow: A Film About Lynyrd Skynyrd, che narra in modo approfondito le vicende della band e, udite udite, è anche sottotitolato in italiano, ma nel DVD non c’è, il perché è un mistero.

Se vi “accontentate” del resto però il contenuto è superbo: i sette + le Honkettes sono in forma strepitosa, in un anno, il 1976, che vide anche la pubblicazione di Gimme Back My Bullets e del doppio dal vivo One More From The Road, registrato in tre concerti tenuti al Fox Theater di Atlanta proprio a luglio di quell’anno, circa un mese prima della data inglese. Quando nel tardo pomeriggio del 21 agosto 1976 Ronnie Van Zant, Gary Rossington, Allen Collins, Steve Gaines, Leon Wilkeson, Artimus Pyle, Billy Powell e le Honkettes salgono sul palco si capisce subito che sarà una occasione speciale: Wilkeson indossa un copricapo da Bobby inglese,che non lascerà per tutto il concerto, mentre gli altri Lynyrd sono vestiti da tipici musicisti“Sudisti”, rappresentanti in Terra D’Albione di quel southern rock, di cui, insieme agli Allman Brothers, furono i massimi rappresentanti. Undici brani, circa un’ora e dieci minuti di musica fantastica, qualità audio e video eccellente, qualità della performance da 5 stellette: si parte con l’omaggio alla loro casa discografica, Workin’ For MCA, una versione roboante a tutto riff, con urlo belluino di Ronnie in apertura, poi le chitarre iniziano a mulinare, Van Zant fischietta di tanto in tanto e Rossington, Collins e Gaines, strapazzano le soliste, da lì in avanti non ce n’è per nessuno, penso che le conosciate tutti ma ve le cito comunque. In sequenza il boogie I Ain’t The One, una ruggente e galoppante Saturday Night Special, con il solito muro di chitarre, Searchin’, l’unica tratta dal recente Gimme Back My Bullets, Whiskey Rock-A-Roller scritta da Van Zant insieme al vecchio chitarrista Ed King e al pianista Billy Powell, che inizia a farsi sentire.

E ancora Travellin’ Man una tipica southern song scritta per One More For The Road con le ragazze a sostenere Ronnie, Gimme Three Steps uno dei travolgenti classici dal primo album con ritornello da cantare con il pubblico, Call Me The Breeze in teoria sarebbe (anzi lo è) di JJ Cale, ma tutti l’hanno sempre associata ai Lynyrd Skynyrd, specie in questa versione accelerata a tutto boogie con Powell che lascia correre le mani sulla tastiera del piano. Non manca T For Texas, detta anche Blue Yodel no 1, un vecchissimo classico country di Jimmie Rodgers che non manca di divertire e coinvolgere il pubblico in una versione vorticosa, prima di passare ai pezzi da 90, la risposta a Neil Young, ovvero Sweet Home Alabama, più che una canzone un rito collettivo con Jojo Billingsley, Leslie Hawkins e la compianta Cassie Gaines (che sarebbe scomparsa solo poco più di un anno dopo nell’incidente aereo dell’ottobre 1977 insieme al fratello Steve e a Ronnie Van Zant) che rispondono rima su rima al classico ritornello.

E a chiudere il tutto una versione monstre di oltre 13 minuti di Freebird, brano che secondo (quasi) tutti se batte con Stairway To Heaven come canzone ideale per concludere, e non solo, un concerto. Il pubblico è in delirio nel finale senza fine, noi pure, peccato per le piccole magagnette, ma comunque una “ristampa” tutto sommato da avere. Ragazzi (e ragazze, perché tra il pubblico ce ne erano moltissime) se suonavano!

Bruno Conti

Un Ripasso Della “Seconda Carriera” Della Storica Band Sudista. Lynyrd Skynyrd – Nothing Comes Easy 1991-2012

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Lynyrd Skynyrd – Nothing Comes Easy 1991-2012 – Hear No Evil/Cherry Red 5CD Box Set

I Lynyrd Skynyrd, tra i più leggendari gruppi southern rock ancora in attività, sono discograficamente fermi a Last Of A Dyin’ Breed del 2012 https://discoclub.myblog.it/2012/09/03/e-alla-fine-ne-rimase-uno-lynyrd-skynyrd-last-of-a-dyin-bree/ , anche se fra live e tributi non hanno mai smesso di dare alle stampe materiale a loro nome. In questi giorni il mercato vede l’uscita di ben due progetti riguardanti la band di Jacksonville: il 9 aprile verrà rilasciato in varie configurazioni Live At Knebworth ’76, una mezza fregatura dato che in gran parte era già stato pubblicato anni fa con un altro titolo (ma ve ne parlerà prossimamente ed in maniera più diffusa Bruno), mentre è già disponibile da qualche settimana Nothing Comes Easy 1991-2012, un box quintuplo in formato “clamshell” che si occupa di riepilogare parzialmente la carriera dei nostri a seguito della reunion avvenuta nel 1987, dieci anni dopo il tristemente noto incidente aereo che mise temporaneamente fine alla loro avventura. Il cofanetto ripropone quattro studio album pubblicati nel periodo indicato nel titolo oltre ad un raro EP, scelti peraltro senza un preciso criterio logico: infatti sono presenti i primi due dischi dalla reunion in poi e gli ultimi due, tralasciando quindi il periodo di mezzo formato dall’ottimo unplugged di studio Endangered Species, i discreti Twenty e Edge Of Forever ed il poco riuscito Vicious Cycle.

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Una pubblicazione quindi che interesserà più i neofiti o coloro che possiedono solo i lavori degli anni 70, visto che le strombazzate bonus tracks aggiunte ad ogni dischetto non sono né così rare né tantomeno imprescindibili. In generale il box offre comunque un buon ripasso della discografia recente del gruppo (ed il tutto è stato opportunamente rimasterizzato), con i primi due album ancora legati a doppio filo ai classici rock, blues e boogie tipicamente southern, ed il resto in cui il sound si sposta decisamente su territori hard e AOR. Il primo CD è dedicato a Lynyrd Skynyrd 1991 (indovinate in che anno è uscito), album pubblicato originariamente dalla Atlantic e prodotto dal grande Tom Dowd, con i membri della formazione “classica” Gary Rossington, Ed King, Billy Powell, Leon Wilkeson ed Artimus Pyle (che lascerà la band proprio in quell’anno sostituito da Kurt Custer), raggiunti dai nuovi Johnny Van Zant alla voce e Randall Hall alla chitarra, sostituti rispettivamente del fratello Ronnie Van Zant e di Steve Gaines, scomparsi nel già citato incidente aereo. Il disco è ancora oggi il migliore dal ’91 in poi, e può stare dignitosamente vicino ai lavori pubblicati dai nostri nei seventies, a partire dall’iniziale Smokestack Lightning, un trascinante boogie nel loro tipico stile con tutte le caratteristiche al posto giusto: voce grintosa, chitarre al vento, pianoforte infuocato e backing vocals femminili https://www.youtube.com/watch?v=rfRGWeZtUVk&list=OLAK5uy_m25iVuFxJgmtT0GFLElidVfR9G2Jv6oOk .

lynyrd skynyrd 1991

Gli altri highlights sono le potenti e rockeggianti Keeping The Faith, Southern Women, Good Thing (dalla strepitosa coda strumentale) e End Of The Road, tutte all’insegna del gran ritmo e chitarre goduriose, ben controbilanciate dalla limpida ballata elettroacustica Pure & Simple, il saltellante blues Money Man e Mama (Afraid To Say Goodbye), splendida soulful ballad di sette minuti; ci sono anche due pezzi dal suono un tantino “rotondo” (I’ve Seen Enough e It’s A Killer), ma sono entrambi perdonabili. Come unica e poco interessante bonus track abbiamo la versione “edit” di Keeping The Faith. Prodotto da un altro luminare del southern sound, Berry Beckett, The Last Rebel (1993, secondo CD del cofanetto) è ancora un buon disco anche se leggermente inferiore al suo predecessore, e comincia qua e là a spuntare qualche synth seppur usato con parsimonia. I punti di forza dell’album sono l’epica title track, forse la migliore ballata degli Skynyrd dalla reunion in avanti https://www.youtube.com/watch?v=rfRGWeZtUVk&list=OLAK5uy_m25iVuFxJgmtT0GFLElidVfR9G2Jv6oOk , il trascinante rock’n’roll Best Things In Life, sulla scia di classici come Down South Jukin’ e What’s Your Name, e la scintillante country ballad sudista Can’t Take That Away https://www.youtube.com/watch?v=fYA4XqP2Ih8 .

lynyrd skynyrd the last rebel

Non male neppure il sanguigno boogie con fiati Good Lovin’s Hard To Find, l’energica e possente One Thing, il godibile midtempo elettrico Outta Hell In My Dodge e la conclusiva Born To Run, con formidabile finale strumentale che vede il piano di Powell salire in cattedra. Anche qui con le tracce bonus non è che si siano sprecati, avendo aggiunto solo altre due edit versions (The Last Rebel e Born To Run), ed una bella rilettura acustica della title track che però è la stessa di Endangered Species. E veniamo al terzo dischetto, che ci fa fare un balzo in avanti di ben sedici anni e propone God & Guns: di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, la band ha sofferto altre perdite eccellenti (Powell, che però ha fatto in tempo a completare le sessions dell’album, e Wilkeson, mentre King ha lasciato il gruppo nel 1996 per problemi di salute) e quindi Rossington è rimasto l’unico membro originale, raggiunto però dall’ex Blackfoot Rickey Medlocke, che aveva brevemente fatto parte degli Skynyrd prima del loro esordio nel 1973, mentre gli altri componenti sono onesti mestieranti. Ma soprattutto i nostri hanno indurito all’inverosimile il suono alla stregua di un qualsiasi gruppo hard rock (con puntate verso l’AOR), ed il ricorso ad un produttore esperto in hard & heavy come Bob Marlette è significativo, così come la presenza tra gli ospiti di Rob Zombie https://www.youtube.com/watch?v=Vw_6eUgpo30&list=OLAK5uy_nHKof2QbYo33gN7YQ69kwUCAJK-zaQeM8 .

lynyrd skynyrd god and guns

Suono pesante quindi, come nella potentissima Still Unbroken, con uno di quei riffoni tagliati con l’accetta ed un assolo con steroidi a mille, o la roboante Simple Life, che però ha un ritornello decisamente radio friendly, la solida Little Thing Called You, southern rock per palati forti, l’autocelebrativa e durissima Skynyrd Nation e Comin’ Back For More, con Van Zant che sembra quasi Alice Cooper. Comunque grinta e feeling non mancano, i dischi brutti sono altri, anche se questi Lynyrd Skynyrd sono un’altra band non solo rispetto a quelli degli anni 70 ma anche paragonati ai primi due CD di questo box. Tracce del vecchio smalto ci sono ancora, come nella bella e limpida Southern Ways, che riprende volutamente il mood di Sweet Home Alabama, le ballatone Unwrite That Song, un po’ ruffiana ma dall’indubbio pathos, e That Ain’t My America, anche meglio nonostante il testo infarcito di stucchevole patriottismo, o la splendida Gifted Hands che è di gran lunga il pezzo migliore grazie anche ad un notevole finale chitarristico. Anche qui un misero bonus, Still Unbroken nella solita versione accorciata. Il quarto CD è ancora legato a God & Guns, in quanto si tratta dell’EP di sei pezzi incluso nelle prime copie del disco del 2009 (e qui di bonus tracks neanche l’ombra): tre outtakes di studio, delle quali l’unica degna di nota è il robusto country-blues Hobo Kinda Man, e tre brani dal vivo registrati nel 2007: la non eccelsa Red, White & Blue e le sempre formidabili Call Me The Breeze e Sweet Home Alabama.

lynyrd skynyrd last of a dying breed

Ed eccoci al quinto ed ultimo CD, il già citato Last Of A Dyin’ Breed del 2012, un disco con lo stesso approccio sonoro di God & Guns (e lo stesso produttore), ma nel complesso meno riuscito https://www.youtube.com/watch?v=ekOH20mxjP4&list=OLAK5uy_kPCkCe5wrWR5c1E_tAgDlWMlhDYrmncO4 . Alti e bassi, tra reminiscenze southern del bel tempo che fu e sonorità decisamente più tamarre: qualche buona canzone c’è, come l’iniziale title track, un bel boogie deciso, coinvolgente e tirato che è un piacere, la rock ballad One Day At A Time, dotata di un ritornello sufficientemente epico, la lenta Something To Live For, ballatona di livello più che buono e suonata nel modo giusto, e la fiera e potente Life’s Twisted. Il resto è hard rock di media qualità, con alcuni brani pessimi come Homegrown e Nothing Comes Easy, oltre a Ready To Fly che è uno slow abbastanza insapore. Qui le bonus tracks sono ben sei, vale a dire tutte quelle comprese nelle due edizioni deluxe dell’epoca (quella “normale” e quella esclusiva della rivista Classic Rock): quattro pezzi in studio, dei quali l’unico davvero incisivo è il rock-boogie Do It Up Right, con i suoi rimandi ai seventies, e due dal vivo, la non imperdibile Skynyrd Nation e la travolgente Gimme Three Steps, southern rock’n’roll allo stato puro. In conclusione, un boxettino che forse può valer la pena acquistare se non si conoscono i Lynyrd Skynyrd “post crash”, ma abbastanza inutile se si possiedono già i dischi in questione, anche per la deludente scelta di bonus tracks.

Marco Verdi

Il Secondo Disco Del 2020, Anche Meglio Del Precedente! Drive-By Truckers – The New Ok

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Drive-By Truckers – The New Ok – ATO Records

Tra l’uscita di American Band (il disco pubblicato nel periodo della campagna elettorale che avrebbe portato alla elezione di Trump) e quella di The Unraveling (dopo tre anni di The Donald e l’imminente arrivo del corona virus) erano passati quasi quattro anni, mentre in questo 2020 Patterson Hood e il suo socio Mike Cooley (oltre agli altri tre componenti dei Drive By-Truckers) hanno sentito il bisogno di pubblicare un nuovo album nello stesso anno, concepito durante il periodo di inattività concertistica causata dalla pandemia e l’impossibilità di incontrarsi tra Hood che vive a Portland, Oregon e Cooley a Birmingham, Alabama, ma registrato in gran parte a Memphis nelle stesse sessions del 2018 che hanno dato vita all’album precedente. L’album è stato rilasciato per il download ad inizio ottobre, e viene pubblicato in formato fisico il 18 dicembre: quindi era uscito in digitale in una sorta di interregno in cui non si sapeva ancora il risultato delle elezioni, come una chiamata alle armi pacifica (ma molto incazzosa) agli elettori, e la buona notizia per molti è che Trump ha perso, anche se al momento in cui scrivo non vuole mollare il cadreghino della Casa Bianca a Biden.

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A prescindere dai contenuti politici e sociali (che comunque negli ultimi album della band sudista sono molto presenti e che indicheremo brevemente nel corso della recensione) il disco conferma il periodo di ottima vena musicale del gruppo, in ogni caso sempre rimasta nella loro quasi venticinquennale carriera su livelli vicini alla eccellenza. Partiti come gruppo alternative rock, hanno poi aggiunto elementi country e sono arrivati a quel moderno southern rock del 21° secolo, ben esemplificato nel bellissimo Southern Rock Opera del 2001 e in molti altri CD usciti negli anni a seguire. Anche The New Ok, dal titolo alla fine profetico, benché al momento del suo concepimento aveva un accento più pessimista, si rivela un album di notevole fattura: la title track illustra subito lo spirito testuale della canzone di Hood “Goons with guns coming out to play/It’s a battle for the very soul of the USA/It’s the new OK,” la musica non è violenta, comunque ha un bel drive sostenuto, su cui si innestano le chitarre di Patterson e Mike e le tastiere di Jay Gonzalez, la melodia come al solito non manca nelle canzoni della band e il produttore storico David Barbe evidenzia al solito in maniera brillante il tipico spirito southern-roots del loro stile, che quando ci sono anche le canzoni come in questo disco, li inserisce nel novero delle migliori band rock americane https://www.youtube.com/watch?v=kR8ec75oPrA .

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Tough To Let Go, sempre di Hood, che scrive sette delle nove canzoni, aggiunge anche elementi soul (d’altronde con un babbo che lavorava ai Muscle Shoals non sorprende) in una sorta di heavy ballad, dove l’organo e i coretti e i fiati nel finale rendono il tutto più maestoso https://www.youtube.com/watch?v=Od6nzGj7yK4 ; The Unraveling prende lo spunto dal titolo dell’album precedente e inizia a picchiare di brutto, come loro sanno fare, voce filtrata, ritmi accelerati e quell’aria esuberante del rock americano più pimpante con chitarre sventaglianti a destra e a manca https://www.youtube.com/watch?v=PCyOcKvA9Oo . The Perilous Night era già uscita come singolo nel 2017, molto riffata e sempre con un testo che non si nasconde dietro perifrasi ( “Dumb, white and angry with their cup half-filled/Running over people down in Charlottesville/White House Fury, it’s the killing side he defends”), la canzone è stata re-incisa aggiungendo un pianino jazzy nel finale e nella parte centrale un assolo torcibudella di Hood https://www.youtube.com/watch?v=1jAuXReZlGg , mentre l’unico contributo di Cooley Sarah’s Flame ricorda l’intervento di Sarah Palin che per certi versi permise a Trump di vincere le elezioni precedenti, una placida ballata con uso di acustica e piano elettrico, che contrasta con il testo al vetriolo https://www.youtube.com/watch?v=p_7cOp2sTk8 , mentre Sea Island Lonely è un altro pezzo di impianto più vicino al soul, di nuovo con organo e fiati ad evidenziare lo spirito dei vecchi brani Stax o comunque un aura rock got soul che quando entrano i fiati ricorda certe canzoni di Otis Redding https://www.youtube.com/watch?v=Lf2ReDHrszg .

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La scandita The Distance forse è l’unico episodio minore del disco, molto attendista nella parte iniziale, su un groove marcato del basso e l’uso di un banjo, non decolla completamente, mentre Watching The Orange Clouds, che tratta dei disordini razziali e sociali dell’America attuale, visti dalla “sua” Portland, è un mid-tempo elettroacustico con un suggestivo assolo di slide. In chiusura una violentissima ed esuberante cover di The KKK Took My Baby Away dei Ramones (ebbene sì) https://www.youtube.com/watch?v=0l_tIcUDd38 che sigilla un altro ottimo album dei Drive-By Truckers.

Bruno Conti

Un Bel Mini Album Di Rock Sudista, Peccato Sia Solo Per Il Download. The Georgia Thunderbolts EP

the georgia thunderbolts

Georgia Thunderbolts – The Georgia Thunderbolts EP – Mascot Provogue download

I Georgia Thunderbolts vengono da Rome, Georgia, alle pendici dei monti Appalachi, il disco è stato registrato a Glasgow, nel Kentucky (se vi interessa, a scopo statistico, in Texas c’è anche la piccola cittadina di Milano, abitanti 428), e ovviamente fanno southern rock. In teoria hanno inciso un primo album autogestito intitolato Southern Rock From Rome, anche se nelle biografie ufficiali questo Georgia Thunderbolts omonimo viene presentato come disco di esordio. Oltre a tutto è un EP ed esce solo per il download, ma visto che è bello ce ne occupiamo lo stesso (per quanto contrari come principio al formato). Pare peraltro che il formato EP, Mini album, chiamatelo come volete, soprattutto in digitale, stia tornando in auge: Norah Jones ne ha rilasciati parecchi, anche Huey Lewis ha dato il suo contributo, e come avrete visto pure Neil Young a sorpresa ne ha pubblicato uno recente The Times, pure in formato fisico https://discoclub.myblog.it/2020/09/22/un-annuncio-atteso-da-anni-ed-un-piccolo-disco-per-ingannare-lattesa-neil-young-archives-vol-iithe-times/ .

Ma bando alle ciance e veniamo a questo dischetto (lo chiamiamo così lo stesso): i Georgia Thunderbolts sono una formazione canonica di rock sudista, un buon cantante T.J. Lyle, all’occorrenza anche a piano e armonica, come attittudine diretto discendente della schiatta Van Zant, Allman e soci, due chitarristi Riley Couzzourt e Logan Tolbert, in alternanza o all’unisono a solista e slide, una solida sezione ritmica con Zach Everett basso, armonie vocali e tastiere,e Bristol Perry batteria. Cinque brani in tutto, tre già apparsi nel citato CD autogestito, un suono a cavallo tra il classico southern di Lynyrd Skynyrd, Allman Brothers e Marshall Tucker e quello delle nuove leve capitanate da Whiskey Myers e Blackberry Smoke, robusto e chitarristico, ma anche in grado di regalare intarsi elettroacustici come nell’iniziale ballata mid-tempo Looking For An Old Friend, dove slide e chitarre acustiche rimandano al suono dei primi Skynyrd, con belle melodie ricercate, ottima anche So You Wanna Change The World, sempre con chitarre spiegate https://www.youtube.com/watch?v=LBuy4fJ8tCQ .

 Niente male anche il robusto blues-rock di una vigorosa Lend A Hand, a tutto riff e con continue sventagliate delle chitarre, come pure la raffinata Spirit Of A Workin’ Man con le soliste spesso impiegate all’unisono e Lyle che ci mette del suo con una interpretazione molto sentita, nello spirito dei vecchi tempi. In chiusura troviamo Set Me Free, l’unico brano che supera i sette minuti, parte da un riff ammiccante, e poi in un lento ma inesorabile crescendo, e qualche gigioneria vocale di Lyle, arriva alla immancabile coda strumentale https://www.youtube.com/watch?v=0w3p_Xyu6Vc . Niente per cui strapparsi le vesti, ma un buon biglietto da visita per una band che renderà felici gli appassionati del southern rock.

Bruno Conti

Proseguono Le Buone Tradizioni Di Famiglia! The Allman Betts Band – Bless Your Heart

allman betts band bless your heart

The Allman Betts Band – Bless Your Heart – BMG CD

Uno dei migliori album di debutto del 2019 era stato indubbiamente Down To The River della Allman Betts Band https://discoclub.myblog.it/2019/07/16/questi-cognomi-mi-dicono-qualcosa-the-allman-betts-band-down-to-the-river/ , gruppo di southern rock diretto discendente fin dal nome della mitica Allman Brothers Band, e formato da Devon Allman (figlio di Gregg) e Duane Betts (rampollo di Dickey Betts), nonché con la presenza di Berry Duane Oakley che è a sua volta figlio dello sfortunato bassista degli Allman Berry Oakley e che non ha mai conosciuto il padre, morto nel famoso incidente motociclistico quando il piccolo Berry Jr. era ancora nel grembo materno. A poco più di un anno di distanza la ABB pubblica il suo secondo lavoro intitolandolo Bless Your Heart, e proseguendo il suo cammino volto a tenere alto il vessillo del gruppo dei loro padri e del southern rock in generale.

Se Down To The River colpiva per il suono potente e per la bellezza delle canzoni, questo nuovo lavoro è ancora meglio: intanto ha una durata “importante” tipica dei classici album di questo genere (71 minuti), ma quello che più importa è che vede i nostri in ottima forma sia come compositori che come musicisti, con un suono forte, vigoroso e decisamente sanguigno, sempre più rivolto verso il rock ed un po’ meno verso il blues, con le voci e le chitarre dei due leader in grande evidenza ben coadiuvate dalla spettacolare slide di Johnny Stachela (uno dei protagonisti del sound del gruppo), e completate dal basso di Oakley, dalla doppia batteria di R. Scott Bryan e John Lum e dalle tastiere di John Ginty, anch’egli molto bravo. Prodotto ancora da Matt Ross-Spang, Bless Your Heart fa dunque compiere un altro passo avanti alla ABB, dando l’impressione a chi ascolta di trovarsi di fronte al lavoro di una band ancora più coesa ed affiatata: a conferma di questo, l’album è stato inciso in presa diretta e sovraincidendo solo qualche parte vocale, per di più in un luogo magico come i Muscle Shoals Sound Studios.

L’iniziale Pale Horse Rider è una suggestiva rock ballad che parte con una melodia evocativa per sola voce e chitarra (canta Devon, che nel corso del CD si alterna con Duane alle lead vocals), ma poi entra la band in maniera decisamente potente, forse anche troppo: la canzone è comunque più che buona ed i due leader fanno cantare le chitarre che è un piacere, con la sezione ritmica che pompa di brutto. Anche Carolina Song ha un intro bello tosto, ma l’uso dell’organo e la slide le danno un sapore maggiormente sudista, così come la melodia corale che è più figlia dei Lynyrd Skynyrd che della ABB “originale”. Ancora slide in evidenza doppiata dal sax di Art Edmaiston nella ritmata e sanguigna King Crawler, dal train sonoro irresistibile, puro rock’n’roll del sud che fa muovere piedi, testa e quant’altro; Ashes Of My Lovers è il brano che non ti aspetti, un’evocativa western song cinematografica alla Ennio Morricone, con un cammeo vocale della brava Shannon McNally che le dona quel quid in più: notevole. Ed eccoci al centerpiece del disco: Savannah’s Dream è un favoloso strumentale di ben dodici minuti in cui le soliste di Devon e Duane si sfidano a duello con assoli anche di Stachela alla slide e Ginty al piano, il tutto in un tripudio di suoni caldi e creativi tra rock, jazz, blues e psichedelia: il brano più simile in assoluto agli “altri” Allman.

Anche la ruspante Airboats & Cocaine è molto bella, rock song trascinante con le chitarre in gran spolvero (ma qui il vero protagonista è Stachela); la robusta Southern Rain ha un motivo orecchiabile, una struttura soul-rock di tutto rispetto ed una ritmica insinuante, mentre Rivers Run è un country-rock terso e limpido, una signora canzone che Betts ha scritto sullo stile di certe cose di papà Dickey come Blue Sky o Seven Turns. Ottima anche Magnolia Road (il disco cresce man mano che prosegue), una vigorosa ma fruibile canzone di puro southern, splendida nei suoi interplay tra chitarre, slide e pianoforte e con in più un refrain di quelli vincenti. Should We Ever Part è forse già sentita per quanto riguarda lo script ma è suonata anche questa in modo spettacolare, e precede gli otto minuti della ballatona The Doctor’ Daughter (sottotitolo: Ambarabacicicocò…no scherzo), che stranamente ha qualcosa dei Pink Floyd classici dei seventies, oltre ad un bellissimo assolo acustico finale di Duane. Il CD si chiude con la scintillante Much Obliged, altro country-rock cadenzato ed accattivante, e con la pianistica Congratulations, rock ballad ricca di umori soul, che chiude benissimo un album da consigliare a chiunque ami il southern rock di qualità, e che conferma che la Allman Betts Band ha tutto il diritto di ereditare l’acronimo dal leggendario gruppo dei genitori. E, come prossima mossa, non mi dispiacerebbe un bel disco dal vivo.

Marco Verdi

The Devil Went (Back) To Heaven: Ci Ha Lasciato Anche Charlie Daniels. Ed Un Augurio A Ringo Starr.

charlie daniels

In una fase di profonda crisi sociale (parlo degli USA), che però sta portando alcune persone su posizioni deliranti come il considerare razzista chiunque rivendichi le sue radici sudiste o far cambiare il nome a gruppi di seconda o terza fascia, vorrei celebrare la figura di Charlie Daniels, storico musicista scomparso ieri all’età di 83 per un ictus emorragico, un personaggio che in vita non aveva mai nascosto il suo orgoglio di “southern man”, né le sue tendenze conservatrici (posizioni che non escludono assolutamente il fatto di essere contro ogni tipo di razzismo, anche se molti soloni e buonisti un tanto al chilo pensano che ciò sia impossibile), e non aveva paura di usare la parola “Dixie” nelle sue canzoni.

Nato Charles Edward Daniels a Wilmington in North Carolina, il nostro è stato negli anni settanta con la sua Charlie Daniels Band uno dei massimi esponenti del movimento southern rock, anche se rispetto a gruppi come Allman Brothers Band e Lynyrd Skynyrd la componente country era molto più marcata, grazie al fatto che Charlie era un provetto violinista che talvolta operava anche per conto terzi (per esempio era diventato nei seventies uno presenza quasi fissa negli album della Marshall Tucker Band).

Man mano che passavano gli anni la sua musica (sia da solo che con la CDB, ma non ci sono mai state grandi differenze nel suono in un caso rispetto all’altro) era diventata sempre più country, ma lo spirito graffiante del rock’n’roll non lo aveva mai abbandonato, e ciò si notava specialmente nelle potenti esibizioni dal vivo. Attivo dagli anni sessanta, Daniels comincia principalmente come sessionman a Nashville (inizialmente come bassista, solo in seguito si sposta alla chitarra e come ho già detto al violino), suonando anche con Bob Dylan (negli album Nashville Skyline, Self Portrait e New Morning) e Leonard Cohen. Il suo esordio discografico omonimo avviene nel 1970, ma è con il quinto album Fire On The Mountain del 1974 che Charlie pubblica uno dei lavori cardine del southern rock di quel periodo, un lavoro splendido che contiene tre dei suoi brani più popolari: Caballo Diablo, Long Haired Country Boy e The South’s Gonna Do It.

Da lì in poi il suono diventa sempre più country (e le vendite iniziano ad aumentare), con dischi comunque di ottimo valore come Saddle Tramp, High Lonesome e soprattutto il pluripremiato Million Mile Reflections del 1979 che contiene la celebre The Devil Went Down To Georgia, unico singolo di Daniels a raggiungere il primo posto in classifica. Se gli album sono più country che rock, le esibizioni live pongono maggiormente l’accento su potenza ed elettricità, con il nostro che dà il via dalla metà dei seventies alle Volunteer Jam, una sorta di appuntamento annuale in cui i migliori gruppi del sud (e non solo) si trovano sullo stesso palco per lanciarsi appunto in jam infuocate, un rendez-vous che però negli anni verrà parecchio diradato. Negli anni ottanta Daniels continua a pubblicare album di buona qualità trovando anche ottimi riscontri di vendite (specialmente con Windows del 1982 e Simple Man del 1989), mentre dai novanta inizia a perdere qualche colpo con lavori che denotano un certo patriottismo da baci Perugina come lo stucchevole America, I Believe In You ma anche con buone cose come Renegade del 1991 (che contiene una bellissima versione country-rock di Layla di Eric Clapton) e By The Light Of The Moon, notevole e coinvolgente collezione di cowboy songs.

Nei duemila Charlie ribadisce la sua fede repubbicana (ma nei settanta aveva appoggiato la candidatura di Jimmy Carter) difendendo la politica estera di Geroge W. Bush e registrando addirittura un album dal vivo in Iraq davanti alle truppe americane; non mancano però le zampate, come il bel disco di duetti Deuces del 2007 e, negli ultimi anni, un eccellente tributo alle canzoni di Dylan (Off The Grid, 2014), bissato nel 2016 da un altro ottimo disco di canzoni western, questa volta dal suono più acustico (Night Hawk). Due anni fa è uscito il bellissimo tributo dal vivo a Charlie in occasione della pubblicazione della ventesima Volunteer Jam, un notevole doppio CD con ospiti del calibro di Blackberry Smoke, Lynyrd Skynyrd, Devon Allman con Duane Betts, Billy Gibbons oltre naturalmente al padrone di casa.

Riposa in pace, vecchio Charlie, ed insegna agli angeli come si suona il violino.

Marco Verdi

ringo starr 80

P.S: vorrei controbilanciare una brutta notizia con una lieta, facendo gli auguri a Ringo Starr per il suoi 80 anni, portati peraltro splendidamente. Non sto certo qui a spiegarvi di chi sto parlando (tutti sanno chi è ed in che gruppo ha militato), ma vorrei celebrarlo con due canzoni: la prima adattissima per via del titolo anche se non è lui a cantare (ma a suonare la batteria sì!), mentre la seconda è uno dei suoi classici assoluti e forse la mia preferita del suo repertorio solista, un brano il cui testo rivela che Ringo aveva capito fin da subito che il suo percorso artistico post-Beatles non sarebbe stata una passeggiata.

Bravo, Ma Basta? Kip Moore – Wild World

kip moore wild world

Kip Moore – Wild World – MCA Nashvile/Spinefarm Records/UMG

Kip Moore viene da Tifton, Georgia, ma da anni vive a Nashville, dove è diventato un campione di certo country “alternativo”, influenzato da heartland rock, southern e anche molto mainstream o Arena rock come viene chiamato (Bon Jovi, Kid Rock e simili) , visto che il suono ogni tanto vira diciamo sul commerciale. Wild World è il suo quarto album, ma ha pubblicato anche una decina tra singoli ed EP, con il precedente Slowheart ha coniugato successo di vendite, entrando nella Top 10 delle classifiche, e critiche più che lusinghiere, almeno negli Usa. Anche esteriormente fonde l’aspetto del countryman con il rocker urbano da giacca di pelle, fascetta, cappellino, un po’ da Springsteen o Mellencamp de “noantri”, con canzoni che oscillano tra l’impegno sociale e politico e le odi all’amore romantico e alle vicende della vita quotidiana, complessivamente il risultato è piacevole e ben bilanciato: il disco è co-prodotto con David Garcia, Luke Dick e Blair Daly, che suonano anche un po’ di tutto nell’album e firmano con Kip alcuni brani, insieme ad almeno una dozzina di altri co-autori, tutti del lato più disimpegnato del country della capitale del Tennessee (tra Contemporary Christian e gente come Carrie Underwood e Florida Georgia Line), non disprezzabile però a tratti influenzato dall’industria discografica locale.

Moore ha comunque una bella voce, profonda, risonante ed espressiva, appunto tra il nuovo country e il rock di buona fattura, prendiamo il brano di apertura, Janie Blue, dopo un incipit a base di chitarre acustiche arpeggiate, Kip rilascia una interpretazione onesta e sentita di questa intensa ballata, sottolineata da una sezione ritmica discreta ma presente; quando i ritmi si alzano e il suono si fa più muscolare come in Southpaw, si vira verso un country-southern più riffato e radiofonico non esecrabile per quanto non memorabile.

Fire And Flame è piacevole ma si comincia ad andare verso un sound con batterie martellanti e melodie orecchiabili, tipo gli ultimi U2 per intenderci, mentre la title track Wild World è un altro discreto mid-tempo , tra chitarre elettriche e tastiere non invasive; Red White Blue Jean American Dream sta tra il country targato Nashville e derive tipo lo Springsteen o il Mellencamp più innocui https://www.youtube.com/watch?v=-n__Pn4_tqE . Anche She’s Mine ricorda il Coguaro dei primi anni ‘80, quello che non aveva ancora deciso se voleva essere un epigono di Springtsteen, Dylan, degli Stones e Woody Guthrie o un rocker da FM, sia pure il tutto trasportato ai giorni nostri; Hey Old Lover dimostra una volta di più che il nostro amico sa scrivere canzoni con il cosiddetto “gancio”, ma poi le declina in un modo a tratti un po’ banalotto https://www.youtube.com/watch?v=ip3JjHNOe28  e anche Grow On You è della categoria che se la ascolti su qualche decapottabile lanciata sulle highways americane fa un figurone, con chitarre spiegate a tutto riff, ma alla fine non convince del tutto, per quanto si ascolti con piacere https://www.youtube.com/watch?v=LXaQfQb-65Y .

Quando il suono si fa più intimista, tipo in More Than Enough, si va dalle parti del Boss di Tunnel Of Love, e anche l’introspettiva, ma ben arrangiata, tra chitarre elettriche ed acustiche ridondanti, Sweet Virginia ha un suo fascino e conferma che a Kip Moore il talento di scrivere belle canzoni non manca. South, fin dal titolo ricorda il tardo southern rock degli anni ‘80, quello di 38 Special, Atlanta Rhythm Section e compagni, belle chitarre, grinta, ben cantato, ma forse non rimane molto, però se lo scopo, rispettabile, è di vendere e farsi sentire alla radio, direi missione conclusa, e pure la ruffiana Crazy For You Tonight è della stessa parrocchia, intendiamoci se confrontato con quello che circola oggi nel mainstream rock siamo di fronte ad un mezzo capolavoro, anche se forse mi aspettavo di più.

La conclusiva Payin’ Hard è l’eccezione che conferma la regola, come per l’iniziale Janie Blue si tratta di un brano più intimo e raccolto che illustra il lato migliore e più onesto della musica di Kip Moore.

Bruno Conti

Le Origini Degli Allman Brothers. Allman Joys, Duane & Gregg Allman, Hour Glass 1 & 2

allman joys

Allman Joys – Early Allman/ Duane & Gregg Allman – Duane & Gregg/ Hour Glass – Hourglass / Hour Glass – Power Of Love – Allman Brothers Band Recording Company/Umg Recordings

Il 2020, per i soliti motivi che mi sfuggono, è stato eletto per festeggiare il 50° Anniversario della Allman Brothers Band (anche se il primo album era uscito nel 1969), con l’uscita del bellissimo box Trouble No More: 50 Anniversary Collection https://discoclub.myblog.it/2020/03/12/il-tipico-cofanetto-da-isola-deserta-the-allman-brothers-band-trouble-no-more/ . Per capitalizzare la situazione anche l’etichetta personale del gruppo, su licenza della Universal Music Enterprise, ha deciso di pubblicare i quattro album delle varie band ed agglomerati che avevano portato poi alla realizzazione del primo The Allman Brothers Band, ed infatti i dischi riportano nel retro come data di pubblicazione 2019, benché per le note vicende poi siano usciti a tarda primavera del 2020. E’ la prima volta che i quattro album riportati sopra escono ufficialmente in CD, anche se i due degli Hour Glass erano stati inseriti in un twofer omonimo distribuito dalla inglese BGO nel 2000 ed erano usciti in precedenza per la Liberty nel 1992: le nuove edizioni riprendono pari pari i vecchi LP dell’epoca, da qualche parte viene riportato digitally remastered, ma né il sito di vendita ufficiale della ABB, e soprattutto neppure sui CD viene confermato questo dato.

Non costano poco, soprattutto per noi europei, considerando che sono edizioni USA e che i compact durano ognuno sui 30 minuti o poco più, e d’altronde quella era la durata dei dischi all’epoca, anche se poi alcuni vennero pubblicati in effetti tra il 1972 e il 1973, dopo la morte di Duane Allman: trattasi quindi di materiale destinato a quel mondo che sta tra il fan sfegatato e il “completista” compulsivo, per quanto non siano per nulla disprezzabili i contenuti, benché diciamo non indispensabili, ma vediamo cosa troviamo nei dischi, seguendo magari l’ordine cronologico delle registrazioni. Allman Joys – Early Allman fu registrato nell’agosto del 1966 ai famosi Bradley’s Barn di Nashville, in parte sotto la produzione del grande John D. Loudermilk (quello di Indian Reservation e Tobacco Road per intenderci), Gregg e Duane avevano chiamato la loro prima band The Escorts, poi cambiato in Allman Joys, con loro c’erano degli illustri sconosciuti (anche non illustri) che rispondevano ai nomi di Bob Keller e Bill Connell, oltre ad una pattuglia di sessionmen, Duane non aveva ancora iniziato il suo lavoro di musicista for hire, e Gregg, non ancora ventenne, aveva ancora una voce poco riconoscibile ma comunque potente e grintosa, tanto che il disco venne pubblicato dalla Mercury solo nel 1973.

Stranamente ci sono già quattro canzoni che portano la firma Gregg Allman: neanche brutte, soprattutto l’iniziale Gotta Get Away, tra garage, rock e psych, con Duane Allman che inizia a fare sentire la sua solista, insomma non avrebbe sfigurato in qualche volume della serie Nuggets, Oh John, ha qualche rimando ad Animals e Them, con l’organo in evidenza, You’ll Learn Someday ricorda il pop raffinato e ricercato che imperava all’epoca come pure Bell Bottom Britches. Tra le cover c’è il country (quasi rock) di Roy Acuff Jr. Street Singer, una Ol’ Man River tra il (uhm) crooner e l’Elvis di inizio anni ‘60, Spoonful garage alla Seeds non è il massimo, anche se Duane cerca di metterci del suo, Loudermilk contribuisce con una poco incisiva Stalling For Time, e l’altro produttore John Hurley firma con Gregg altri tre brani come la più grintosa e bluesata, Doctor Fone Bone, ma anche tre canzoncine pop non memorabili.

hour glass

Nel 1967 i fratelli si trasferiscono a Los Angeles per registrare il primo omonimo Hour Glass: con loro ci sono già alcuni alfieri del southern rock a venire, Johnny Sandlin alla batteria, Paul Hornsby alle tastiere, Pete Carr al basso (futuro asso della chitarra nellai Muscle Shoals Rhythm Section), un solo brano di Gregg, nuovamente Gotta Get Away, che evidentemente piaceva, ma in una nuova veste ricca di soul, con fiati aggiunti e voce spiegata, in un suono che comincia ad essere più brillante e a tratti di chiaro stampo sudista, i primi tre brani sono dei solidi R&B abbastanza oscuri ma gradevoli e carnali, la cover di Cast Off All My Fears di Jackson Browne è un rock got soul galoppante con bel solo di Duane, mentre quella di I’ve Been Trying di Curtis Mayfield è una calda soul ballad.

Piacevoli anche le due cover della coppia Gerry Goffin/Carole King ma un po’ anonime, più mossa Heartbeat di Ed Cobb, con organo, fiati e coretti femminili, ma niente per cui strapparsi le vesti, anche l’assolo di chitarra è un po’ nascosto nel mixaggio, ma sulla cover soporifera di Silently di Del Shannon e sulla conclusiva parlata Bells, stenderei un velo pietoso.

hour glass power of love

L’anno successivo, a gennaio, sono di nuovo ai Liberty Sound Studios di LA, per un secondo album Hour Glass -Power Of Love, dove il repertorio pare scelto con più giudizio: la title track è una bella ballatona soul scritta da Dan Penn, organo e chitarra cercano di incidere anche se gli arrangiamenti sono ancora tipici dell’epoca, poi c’è un filotto di quattro brani scritti da Gregg Allman, dove si cominciano ad intravedere le potenzialità della sua voce, sempre sommersa da coretti come in Changing Of The Guard, o nella ballata To Things Before, ma gli arrangiamenti sono ancora molto più pop che rock, con piccole botte di energia come in I’m Not Afraid e I Can Stand Alone, con Duane che cerca di farsi sentire, mentre il suo futuro collega sessionman Eddie Hinton firma un paio di brani Down In Texas e Home For The Summer dove ci sono piccoli guizzi della futura classe.

Tra gli altri brani di Gregg non male I Still Want Your Love, mentre la cover di I’m Hanging Up My Heart For You di Solomon Burke, è un bel bluesazzo torrido e tosto. Ottime la versione strumentale e psichedelica di Norwegian Wood dei Beatles, con Duane Allman al sitar elettrico e la finale Now Is The Time, un bel rock sudista con la guizzante solista di fratello Duane che anticipa i futuri sviluppi, ma la band si scioglie.

duane & gregg

A settembre del 1968 i due fratelli si trovano con i 31st Of February di Butch Trucks per registrare dei demo che verranno pubblicati solo nel 1972 come Duane And Gregg per la Bold Records: registrato nel settembre 1968 con Steve Alaimo come produttore, questa è forse la più interessante delle 4 ristampe, il sound è decisamente più rock, sembra già di sentire la ABB, prima con una vibrante Morning Dew dove Duane comincia a farsi sentire alla grande e Gregg canta con impeto, c’è una prima versione della splendida Melissa, un blues come la melliflua Nodody Knows You When You’re Down And Out, molto Ray Charles; God Rest His Soul sembra un brano di Tim Buckley anche a livello vocale.

Down In Texas già nel disco degli Hour Glass, è scarna ma più compiuta delle precedente versione, niente male anche le due canzoni scritte da David Brown,futuro bassista dei Santana, I’ll Change For You e Back Down Home With You, due ballate in uno stile discorsivo ed intimo che Gregg avrebbe poi ripreso a fine carriera solista, Well I Know Too Well, scritta da Alaimo anticipa in modo embrionale lo stile southern che stava per arrivare. Insomma quello che dovrebbe essere il disco più “raffazzonato” del lotto è quello forse più interessante. Parte di questo materiale è uscito anche nei vari box pubblicati nel corso degli anni, ma se volete avere tutto..

Bruno Conti

Semplicemente Il Loro Miglior Disco Dagli Anni Settanta In Poi! Outlaws – Dixie Highway

outlaws dixie highway

 Outlaws – Dixie Highway – Steamhammer/SPVCD

Il nuovo millennio non si è rivelato molto ricco di novità discografiche per quanto riguarda i gruppi storici del filone southern rock, in parte anche per l’età avanzata dei loro componenti. Gli Allman si sono sciolti nel 2014 (e comunque il loro ultimo album con materiale nuovo risaliva al 2003), la Marshall Tucker Band si esibisce solo più dal vivo, i Lynyrd Skynyrd ogni tanto incidono ma sono ormai fermi dal 2012, gli Atlanta Rhythm Section sono spariti (e comunque non azzeccavano un disco dagli anni settanta), Charlie Daniels ha una bella età e poi è da tempo un artista country, mentre i Black Oak Arkansas hanno tentato il rientro lo scorso anno ma il loro Underdog Heroes era orrendo: gli unici ancora abbastanza attivi sono i Molly Hatchet, ma i loro lavori seppur non disprezzabili sfociano spesso in un hard rock di grana grossa.

Questa introduzione per dire che non è che io abbia sentito chissà quali vibrazioni quando ho saputo che gli Outlaws, band originaria di Tampa ed attiva dal 1975, erano in uscita con un nuovo disco, anche perché li ho sempre considerati un gruppo minore anche nel loro periodo di massima fama, con nessuno dei loro album nella Top Ten (l’esordio omonimo si fermò alla tredicesima posizione), qualche successo minore come singolo con There Goes Another Love Song e la cover di (Ghost) Riders In The Sky ed almeno un classico assoluto con Green Grass And High Tides, da sempre punto centrale dei loro concerti (e dal vivo sono ancora validissimi, basti ascoltare l’album del 2016 Legacy Live https://discoclub.myblog.it/2017/02/28/una-eredita-per-nulla-smarrita-molto-viva-outlaws-legacy-live/ ). Dixie Highway, questo il titolo del nuovo CD dei Fuorilegge (che arriva ad otto anni dal discreto It’s About Pride), mi ha però fatto ricredere sin dal primo ascolto lasciandomi addirittura a bocca aperta in più di un momento: i nostri non hanno mai perso l’abilità nel suonare, la loro musica si conferma perfetta per chi ama il rock-boogie chitarristico più ruspante, ma in Dixie Highway c’è anche una qualità compositiva che non credevo più possibile a questo punto della loro carriera, che unita a massicce dosi di feeling fanno sì che l’album si possa addirittura considerare il loro migliore dagli anni settanta in poi.

Non è un capolavoro assoluto, ma un disco ben scritto, cantato in maniera adeguata e suonato alla grande, e credo che i fan del gruppo e della musica southern in generale non possano chiedere di più. Gli unici due membri fondatori ancora nella band sono il chitarrista e cantante Henry Paul ed il drummer Monte Yoho, e completano il settetto gli altri chitarristi Steve Grisham e Dave Oliver, il bassista Randy Threet, il tastierista Dave Robbins e l’altro batterista Jaran Sorenson (c’è anche un quarto chitarrista ospite, Billy Crain, quindi è garantito un bel muro del suono). Southern Rock Will Never Die (ottimo titolo) fa partire il disco nel modo migliore, una rock song potente, solida e trascinante con un ritornello corale irresistibile (nel quale vengono elencate solo per nome alcune leggende scomparse come Steve Gaines, Ronnie Van Zant, Gregg e Duane Allman, Berry Oakley, Toy e Tommy Caldwell nonché The Flame, che era il soprannome dell’ex compagno di avventura Hughie Thomasson) ed una serie di assoli strepitosi: inizio eccellente. Heavenly Blues è una rock ballad vivace e solare, con un altro refrain perfetto ed una chitarra decisamente melodiosa, alla Dickey Betts, a differenza della title track che è puro rock’n’roll sotto steroidi, con le chitarre che guizzano da tute le parti ed un tono epico: tre canzoni e sono già pronto a mettere Dixie Highway tra i migliori album degli Outlaws.

La deliziosa Over Night From Athens è più sul versante country-rock, ma sempre in puro stile southern come era solita fare la Marshall Tucker Band, Endless Ride è una ballatona elettrica tesa come una lama e con una melodia decisamente evocativa e ricca di pathos, mentre Dark Horse Run inizia acustica e si sviluppa fluida e sinuosa, con il ritmo sempre sostenuto e l’ennesimo refrain corale che prende all’istante. Rattlesnake Road è un boogie roboante e diretto come un pugno nello stomaco, ancora con un gran lavoro delle chitarre e tanto sudore (ricorda gli ZZ Top quando sono in forma), Lonesome Boy From Dixie è puro southern rock anni settanta, con chitarre pulite e scintillanti ed un train sonoro coinvolgente. Lo strumentale allmaniano Showdown, puro guitar power, prelude al gran finale di Windy City’s Blue, rock song perfetta per gli spazi aperti e con una fantastica accelerazione elettrica circa a metà canzone, e di Macon Memories, brano più lento e nostalgico ma che non rinuncia alla grinta, finale ad hoc per un disco bellissimo e sorprendente che tiene ben alto il vessillo (invero un po’ sciupato) del southern rock.

Marco Verdi

Un “Nuovo” Cantautore Dal Grande Spirito Umanitario. Paul Sage – Retreat

paul sage retreat

Paul Sage – Retreat – Paul Sage/CD Baby

Confesso che non avevo mai sentito parlare di Paul Sage, cantautore canadese non di primissimo pelo (a giudicare dall’aspetto fisico), e la scarsità di informazioni su internet non mi ha aiutato più di tanto. La cosa più importante che ho appreso, a parte appunto la sua terra d’origine, non è strettamente di carattere musicale, ma umanitario: Paul è infatti il fondatore insieme all’amico musicista David Rourke del progetto Hugs & Hope, un’associazione no profit che si prefigge come scopo l’alleviamento delle pene a persone di vario genere, età ed estrazione sociale, che hanno in comune gravi problemi di carattere mentale e psicologico (depressione, paura della solitudine, ecc.), attraverso terapie personalizzate all’interno delle quali il potere della musica ha un’importanza centrale. Un progetto complesso e meritorio quindi, con lo staff addetto alle terapie che è anche disposto a visitare i pazienti a domicilio pur di donare loro sollievo e speranza.

Non so se Retreat, album che Sage ha da poco pubblicato, faccia parte delle terapie (non è neanche chiaro se sia il suo lavoro d’esordio, ma penso di sì in quanto non ho trovato menzione di precedenti): quello che però è certo è che è un gran bel disco, decisamente coinvolgente ed anche sorprendente, in quanto mi aspettavo il tipico album da cantautore canadese classico ed invece mi sono trovato tra le mani una collezione di brani di puro rock’n’roll di matrice southern, con grande spazio lasciato alle chitarre (ben tre: Paul, Rourke e la solista di Dan Diggins), una sezione ritmica potente (Gary Mallory al basso e Paul DeRocco alla batteria) ed un coro femminile usato in più momenti, che dona al disco un sapore di rock classico alla Lynyrd Skynyrd. Non mancano le ballate, ma anche queste sono suonate con un approccio deciso e vigoroso, da rock band; Sage è anche in possesso di una bella voce forte ed arrochita che qualcuno ha paragonato a quella di Rod Stewart, anche se a mio parere la somiglianza più vicina è con Bob Seger.

Un valido esempio di com’è Retreat è l’opening track Humble Bumble, un brano decisamente trascinante che inizia per sola voce e chitarra acustica, ma dopo non molto entra la band in maniera prepotente e nel refrain si unisce il già citato coro, con la ciliegina di un ispirato assolo di Diggins. Waiting In The Wings è una splendida ballata, un brano elettrico e cadenzato dalla melodia di notevole impatto, ancora con un ottimo intervento della solista: per citare ancora gli Skynyrd, è da una vita che la band di Jacksonville non pubblica un brano di questa portata. Couldn’t Help It è introdotta da un riff assassino, ma il brano ha ancora una linea melodica notevole ed un bel ritornello corale, in pratica una rock song con i controcazzi (scusate se parlo francese, ma ci stava), con Paul che si sta dimostrando brano dopo brano un songwriter di valore. As You Wish è un bel lento elettroacustico dalla strumentazione comunque potente, un pezzo che sembra uscire dal songbook di una qualsiasi band dell’Alabama (e dintorni), così come Let Go, che in più è dotata di un delizioso motivo che in un mondo parallelo al nostro potrebbe aprire al nostro le porte della programmazione radiofonica, mentre Blind Faith è un gustoso e limpido country-rock che non lascia da parte lo spirito sudista, diciamo che siamo dalle parti di Zac Brown per dare un’idea.

Il CD non cala di tono neanche per un attimo: My Little Boy è un’altra ballata splendida, finora la più “segeriana” sia per il timbro vocale che per lo sviluppo musicale, un pezzo che parte piano e poi cresce gradualmente anche in pathos, con le chitarre ed una languida armonica a circondare la voce del leader, per quella che è probabilmente la canzone migliore dell’album. Anche Simplicity è un brano dal tempo lento, ma l’accompagnamento è rock e poi Paul è talmente bravo a differenziare lo script dei vari pezzi che la noia non affiora mai (anzi); OK Today inizia come una canzone da songwriter folk, poi all’improvviso entra in maniera dura la chitarra e quindi tutto si sposta ancora su territori southern https://www.youtube.com/watch?v=GftA-gqyVJw ; l’album termina con la solare Doo Doo Song, una rock’n’roll song diretta e coinvolgente https://www.youtube.com/watch?v=A40Q2C1PJNU , un momento di puro divertimento che ci porta alla tenue We’ll Be Around, la quale chiude il disco con un messaggio di speranza guidato da una melodia bellissima e toccante.

Retreat non è un CD facilissimo da trovare ma, credetemi, vale la pena darsi da fare per cercarlo.

*NDB Da quando ho “commissionato! all’amico Marco la recensione di questo album, il 31 marzo purtroppo CD Baby, che era l’unico distributore del dischetto fisico, ha momentanemente, si spera, chiuso il music store, per cui il “disco” al momento è disponibile solo per il download oppure su YouTube.

Marco Verdi