Un Ennesimo Disco Di Rock Tosto Dello Smilzo! Too Slim And The Taildraggers – The Remedy

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Too Slim And The Taildraggers – The Remedy – Vizztone Label Group

Negli ultimi tempo, più o meno regolarmente ogni due anni, Tim Langford e soci ci regalano una nuova prova a nome Too Slim And The Taildraggers: il menu è sempre a base di blues rock robusto con elementi roots, proposto nella classica formula triangolare. Il leader, voce e chitarra, nonché autore dei brani, il bassista Zach Kasik, nel cui studio Wild Feather Recording di Nashville è stato registrato l’album, e il batterista Jeff “Shakey” Fowlkes, con la produzione del CD gestita collettivamente, sono i protagonisti. Stessa formazione del precedente High Desert Heat e anche stessa formula e stile https://discoclub.myblog.it/2018/06/30/il-calore-del-deserto-non-smorza-il-poderoso-rock-blues-chitarristico-di-langford-e-soci-too-slim-the-taildraggers-high-desert-heat/ : Last Last Chance è un boogie and roll, tra Chuck Berry e ZZ Top, con la voce roca e vissuta di Langford a guidare la band in un brano che ricorda anche gli Stones primi anni 70, rock tirato ma eseguito con classe e senza esagerazioni.

In She’s Got The Remedy il suono si indurisce, la voce viene filtrata ed il risultato forse non soddisfa del tutto, troppo carico, anche se l’assolo di wah-wah del buon Tim è veramente gagliardo, Devil’s Hostage è un bel rock-blues della scuola Billy Gibbons, anche a livello vocale, tempo cadenzato e chitarra tagliente, per un ottimo esempio di southern rock vecchia scuola, e l’assolo è veramente notevole, fluido e ruggente. Reckless, robusto groove alla Bo Diddley (più Mona che Who Do You Love), una armonica (Jason Ricci?) a doppiare la chitarra, in un drive che ricorda stranamente anche i primi Jethro Tull, Kasik alla voce, vira decisamente verso il blues, sempre con un eccellente lavoro di Langford che rilascia un altro assolo di quelli tosti https://www.youtube.com/watch?v=XlbQziHCUco ; Keep The Party Talkin’ cambia armonicista, qui Sheldon Ziro, e il riff, siamo dalle parti dei Canned Heat di On The Road Again, ma non la grinta e il tiro della band, che nella parte centrale accelera e lancia il nostro verso un altro assolo poderoso https://www.youtube.com/watch?v=KYRODR3bO0M .

Too Slim non scherza neppure quando si arma di bottleneck come nella cover di Sunnyland Train di Elmore James, dove va di slide alla grande, mentre in Sure Shot, con banjo d’ordinanza e atmosfere sospese ed inquietanti, si vira verso un sound decisamente più rootsy, con finale chitarristico di grande appeal https://www.youtube.com/watch?v=P4oLOMBwODE . Platinum Junkie, di nuovo cantata da Kasik, ha un ritmo decisamente funky, ancora con l’armonica in bella evidenza a duettare con la solista di Langford, sempre in agguato, mentre in Snake Eyes ancora con il banjo aggiunto alle operazioni, si torna al rock desertico del precedente album, con la solista che questa volta lavora di fino in continui rimandi, Think About That, con armonica sempre presente, è nuovamente orientata verso un blues elettrico dove la chitarra di Slim regna sovrana, e la conclusiva Half A World Away è l’unica concessione verso una ballata, diciamo più un mid-tempo consistente, che conferma la varietà di temi impiegati nell’albumda Too Slim And The Taildraggers, al momento una delle migliori band in ambito rock-blues. Gli amanti del genere sono avvisati.

Bruno Conti

Semplicemente Il Loro Miglior Disco Dagli Anni Settanta In Poi! Outlaws – Dixie Highway

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 Outlaws – Dixie Highway – Steamhammer/SPVCD

Il nuovo millennio non si è rivelato molto ricco di novità discografiche per quanto riguarda i gruppi storici del filone southern rock, in parte anche per l’età avanzata dei loro componenti. Gli Allman si sono sciolti nel 2014 (e comunque il loro ultimo album con materiale nuovo risaliva al 2003), la Marshall Tucker Band si esibisce solo più dal vivo, i Lynyrd Skynyrd ogni tanto incidono ma sono ormai fermi dal 2012, gli Atlanta Rhythm Section sono spariti (e comunque non azzeccavano un disco dagli anni settanta), Charlie Daniels ha una bella età e poi è da tempo un artista country, mentre i Black Oak Arkansas hanno tentato il rientro lo scorso anno ma il loro Underdog Heroes era orrendo: gli unici ancora abbastanza attivi sono i Molly Hatchet, ma i loro lavori seppur non disprezzabili sfociano spesso in un hard rock di grana grossa.

Questa introduzione per dire che non è che io abbia sentito chissà quali vibrazioni quando ho saputo che gli Outlaws, band originaria di Tampa ed attiva dal 1975, erano in uscita con un nuovo disco, anche perché li ho sempre considerati un gruppo minore anche nel loro periodo di massima fama, con nessuno dei loro album nella Top Ten (l’esordio omonimo si fermò alla tredicesima posizione), qualche successo minore come singolo con There Goes Another Love Song e la cover di (Ghost) Riders In The Sky ed almeno un classico assoluto con Green Grass And High Tides, da sempre punto centrale dei loro concerti (e dal vivo sono ancora validissimi, basti ascoltare l’album del 2016 Legacy Live https://discoclub.myblog.it/2017/02/28/una-eredita-per-nulla-smarrita-molto-viva-outlaws-legacy-live/ ). Dixie Highway, questo il titolo del nuovo CD dei Fuorilegge (che arriva ad otto anni dal discreto It’s About Pride), mi ha però fatto ricredere sin dal primo ascolto lasciandomi addirittura a bocca aperta in più di un momento: i nostri non hanno mai perso l’abilità nel suonare, la loro musica si conferma perfetta per chi ama il rock-boogie chitarristico più ruspante, ma in Dixie Highway c’è anche una qualità compositiva che non credevo più possibile a questo punto della loro carriera, che unita a massicce dosi di feeling fanno sì che l’album si possa addirittura considerare il loro migliore dagli anni settanta in poi.

Non è un capolavoro assoluto, ma un disco ben scritto, cantato in maniera adeguata e suonato alla grande, e credo che i fan del gruppo e della musica southern in generale non possano chiedere di più. Gli unici due membri fondatori ancora nella band sono il chitarrista e cantante Henry Paul ed il drummer Monte Yoho, e completano il settetto gli altri chitarristi Steve Grisham e Dave Oliver, il bassista Randy Threet, il tastierista Dave Robbins e l’altro batterista Jaran Sorenson (c’è anche un quarto chitarrista ospite, Billy Crain, quindi è garantito un bel muro del suono). Southern Rock Will Never Die (ottimo titolo) fa partire il disco nel modo migliore, una rock song potente, solida e trascinante con un ritornello corale irresistibile (nel quale vengono elencate solo per nome alcune leggende scomparse come Steve Gaines, Ronnie Van Zant, Gregg e Duane Allman, Berry Oakley, Toy e Tommy Caldwell nonché The Flame, che era il soprannome dell’ex compagno di avventura Hughie Thomasson) ed una serie di assoli strepitosi: inizio eccellente. Heavenly Blues è una rock ballad vivace e solare, con un altro refrain perfetto ed una chitarra decisamente melodiosa, alla Dickey Betts, a differenza della title track che è puro rock’n’roll sotto steroidi, con le chitarre che guizzano da tute le parti ed un tono epico: tre canzoni e sono già pronto a mettere Dixie Highway tra i migliori album degli Outlaws.

La deliziosa Over Night From Athens è più sul versante country-rock, ma sempre in puro stile southern come era solita fare la Marshall Tucker Band, Endless Ride è una ballatona elettrica tesa come una lama e con una melodia decisamente evocativa e ricca di pathos, mentre Dark Horse Run inizia acustica e si sviluppa fluida e sinuosa, con il ritmo sempre sostenuto e l’ennesimo refrain corale che prende all’istante. Rattlesnake Road è un boogie roboante e diretto come un pugno nello stomaco, ancora con un gran lavoro delle chitarre e tanto sudore (ricorda gli ZZ Top quando sono in forma), Lonesome Boy From Dixie è puro southern rock anni settanta, con chitarre pulite e scintillanti ed un train sonoro coinvolgente. Lo strumentale allmaniano Showdown, puro guitar power, prelude al gran finale di Windy City’s Blue, rock song perfetta per gli spazi aperti e con una fantastica accelerazione elettrica circa a metà canzone, e di Macon Memories, brano più lento e nostalgico ma che non rinuncia alla grinta, finale ad hoc per un disco bellissimo e sorprendente che tiene ben alto il vessillo (invero un po’ sciupato) del southern rock.

Marco Verdi

Buon Hard Rock “Sudista” Dall’Inghilterra Per Il Solista Dei Supersonic Blues Machine. Kris Barras Band – Light It Up

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Kris Barras Band – Light It Up – Mascot/Provogue             

Kris Barras, da Toquay, contea del Devon, nel Sud dell’Inghilterra, è un personaggio dal passato avventuroso: combattuto (è il caso di dirlo) tra due passioni, quella per la musica, trasmessagli dal padre, e coltivata anche nella discoteca di famiglia, e quella per le arti marziali, di cui è stato campione sui ring di Tailandia e Las Vegas, nei combattimenti a mani nude. Poi ha saggiamente deciso di dedicarsi alla musica, pubblicando un mini ed un album a livello indipendente, prima di firmare per la Mascot/Provogue nel 2017 come Kris Barras Band, ed approdare, tramite gli auspici di Billy F. Gibbons, nella nuova formazione della Supersonic Blues Machine in sostituzione di Lance Lopez, per l’ultimo album dal vivo https://discoclub.myblog.it/2019/08/01/grande-rock-blues-tra-california-e-texas-per-un-trio-italo-anglo-americano-supersonic-blues-machine-road-chronicles-live/ , in cui Gibbons appare come guest in alcune canzoni. Barras ora pubblica questo Light It Up, secondo album per la Mascot e quarto in assoluto, accompagnato da Elliot Blackler al basso e da Will Beavis alla batteria, nonché da Josiah J. Manning, che oltre a produrre il disco suona anche le tastiere, ed è coautore con Kris di un paio di brani.

Devo dire che ero abbastanza prevenuto verso il super tatuato musicista inglese, che invece in questo album si conferma discreto cantante, con la classica voce da hard rocker, e buon chitarrista, mettendo a frutto gli amori del passato per Deep Purple, Stones, ma anche una propensione per il southern rock degli ZZ Top. La musica “sudista” (vista anche  la collocazione geografica nel Regno Unito) e qualche tocco country-blues nell’iniziale “riffata” What You Get che ha pure qualche rimando a Bonamassa, e magari al gospel-rock è decisamente piacevole, con la slide e l’organo ben miscelati e un assolo che tanto mi ha ricordato il vecchio Alvin Lee. Broken Teeth (con un testo e un tiolo che rimandano ai suoi trascorsi di lottatore) è un ottimo esempio di rock sudista cantato a voce spiegata (con le backing vocalist impegnatissime), ritmi serrati, l’organo di Manning in bella evidenza, come pure la slide di Barras, veramente un bel pezzo rock con ulteriore grande accelerazione nel finale; niente male anche Vegas Son, un altro eccellente esempio di rock americano, groove marcato, riff di organo e chitarra e un refrain insinuante e orecchiabile, su cui si innesta un buon lavoro della solista di Kris.

La title track Ignite (Light It Up,) nonostante il lavoro dell’organo in primo piano e un suono più duro e riffato è più scontata, benché l’assolo di Barras cerchi di dargli maggiore consistenza; ancora organo e chitarra slide in azione in 6 AM, ma il suono rimane vicino all’AOR con qualche tocco sudista che ricorda il rock delle band più dure tipo 38 Special o Point Blank. Rain è una bella ballata dall’andatura elegante, sempre con tocchi sudisti e un sound più gentile, ancorato come sempre dall’organo di Manning e completato da un lirico assolo della chitarra del leader; mentre Counterfeit People vira verso un rock anni ’80, un po’ Huey Lewis un po’ Bon Jovi, niente per cui stracciarsi le vesti, con Let The River Run che introdotta da un riff “swampy” poi si perde di nuovo con qualche coretto ruffiano di troppo, benché la solista lavori sempre di fino. Bullet è un altro buon esempio del southern rock venato di hard dei migliori brani della Kris Barras Bard https://www.youtube.com/watch?v=5kYNH2sAd2E , anche se al solito a tratti gli arrangiamenti sono fin troppo ridondanti, ma chitarra e organo se le “suonano” ripetutamente di gusto negli intermezzi strumentali, Wound Up, ancora con slide in evidenza, questa volta insieme al piano, non sarebbe male, ma quegli intermezzi vocali leggerini sono sempre piuttosto  prevedibili, What A Way To Go è sempre classico e piacevole hard rock ‘70’s style a tutto riff, e anche Not Fading è della stessa parrocchia, organo-chitarra e pedalare, mentre la conclusiva Pride Is Forever è viceversa una bella hard ballad, più consistente e meno scontata, con una bella melodia.

Che dire, buono nell’insieme, ma con alti e bassi.

Bruno Conti

Uno E Trino, Un Bluesman Elettrico Completo E Strepitoso. Toronzo Cannon And The Chicago Way – The Preacher, The Politician Or The Pimp

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Toronzo Cannon And The Chicago Way – The Preacher, The Politician Or The Pimp – Alligator Records/Ird

Nel suo nuovo disco, il secondo per la Alligator, e il quinto in totale, Toronzo Cannon è effigiato sulla copertina in versione una e trina, appunto il Predicatore, il Politico e il Pappone: il fatto di essere nella vita anche guidatore di bus per la CTA (Chicago Transit Authority) gli permette, da osservatore privilegiato, di sviluppare anche temi sociali, toccare quindi i problemi di Chicago, le difficoltà nel viverci, sperimentate in prima persona nello svolgimento della sua attività lavorativa. Ma Cannon è anche uno dei maggiori talenti emersi dalla Windy City, in una carriera che ha preso velocità solo nell’ultima decade, dopo i classici dieci anni di gavetta, passati suonando per altri e nei piccoli locali della città, pubblicando due eccellenti album per la Delmark e poi l’ottimo The Chicago Way, candidato ai Blues Music Awards del 2017 come Album Dell’Anno.

Come nel precedente disco Cannon si fa aiutare in fase di produzione dal boss dell’etichetta Bruce Iglauer, e il risultato è uno dei migliori CD di blues elettrico di una annata che è stata molta buona per i praticanti delle 12 battute: Toronzo si districa abilmente in tutti gli stilemi del blues, partendo da un approccio diretto, quasi ruvido, direi addirittura “muscolare”, con un suono che più che dei padri nobili del genere, Waters o i tre King, è figlio di musicisti più vicini anche al rock, come Buddy Guy, Albert Collins, Luther Allison, ma non disdegna sfumature e tonalità più raffinate alla Robert Cray, con elementi soul, R&B e gospel inseriti nell’insieme, in virtù anche di una voce duttile e dalla bella timbrica, in grado di passare da cavalcate selvagge a momenti più intimi e raccolti, senza dimenticare, anche se lui dice “It’s not about the solos”, che  la chitarra è comunque uno degli elementi fondamentali della sua musica. Prendiamo l’iniziale Get Together Or Get Apart, sembra di ascoltare musicisti rock-blues bianchi, tipo Tinsley Ellis, Principato, Robillard oppure il miglior Joe Louis Walker, con un drive incalzante fornito dalla sezione ritmica di Marvin Little al basso e  Melvin “Pooky Styx” Carlisle, alla batteria, e un supporto notevole dell’organo (e in altri brani del piano) di Roosevelt Purifoy, uno dei veterani tra i tastieristi locali, e ovviamente i numeri superbi della Fender di Cannon, che è una vera forza della natura.

La title track ci rimanda alle atmosfere dei dischi blaxploitation, Isaac Hayes, Curtis Mayfield, con wah-wah e percussioni sullo sfondo, ma anche le linee liquide della solista di Toronzo che la ancorano al blues, The Chicago Way, era il titolo del disco precedente, ma il brano non c’era, eccolo fresco fresco per una vorticosa cavalcata nel boogie southern degli ZZ Top, un sound vicino ai primi album del trio texano, con Cannon che non sfigura in confronto al miglior Billy F. Gibbons e la band che tira alla grande. Tre brani, tre approcci diversi, anche Insurance mescola nuovamente le carte, aggiungete un Billy Branch all’armonica, Iglauer nella parte del Dottore, Purifoy che passa al piano, per un tuffo nel puro Chicago Blues più rigoroso, poi arriva Stop Me When I’m Lying, sezione fiati guidata da Joe Clark e veniamo catapultati in un R&B sanguigno da rock’n’soul revue, cantato sempre alla grande da Cannon con Purifoy che titilla il suo piano con libidine e Cannon più “misurato” alla solista. She Loved Me (Again) è il classico slow blues lancinante, con il nostro che esplora il manico della sua chitarra con classe e ferocia, mentre The Silence Of My Friends è una bellissima ballata tra deep soul e gospel, cantata con voce spiegata da Toronzo, che ricorda il miglior Robert Cray, mentre la solista punteggia il dipanarsi della melodia, e The First 24 ci trasporta sulle rive del Delta del Mississippi, per un blues acustico e rigoroso con uso di slide.

That’s What I Love About ‘Cha, è un gagliardo duetto con l’ospite Nora Jean, tra R&R alla Chuck Berry e blues sanguigno e vibrante. Ottimo anche lo shuffle pianistico , la jazzata No Ordinary Woman, firmata come tutti gli altri brani da Cannon, notevole pure la pungente e scandita Let Me Lay My Love On You, prima del gran finale con I’m Not Scared, dove Toronzo al wah-wah e Joanna Connor alla slide confezionano un brano in puro stile hendrixiano, con chitarre feroci e di impatto devastante e la parte vocale affidata alla bravissima Lynne Jordan,  con il supporto di Cedric Chaney e Maria Luz Carball, non è da meno. Grande disco, se la batte con quello di Nick Moss come miglior disco blues elettrico dell’anno https://discoclub.myblog.it/2019/08/20/un-trio-di-delizie-blues-alligator-per-lestate-3-nick-moss-band-lucky-guy/  .

Bruno Conti

Grande Rock-Blues Tra California e Texas Per Un Trio Italo-Anglo-Americano! Supersonic Blues Machine – Road Chronicles: Live!

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Supersonic Blues Machine – Road Chronicles: Live! – Provogue/Mascot CD

Primo album dal vivo per i Supersonic Blues Machine, power trio formatosi nel 2015 a Los Angeles ma solo per un terzo americano (il ben noto e poderoso batterista Kenny Aronoff, il miglior rock drummer sulla terra insieme a Max Weinberg), in quanto gli altri due membri sono l’italianissimo bassista Fabrizio Grossi ed il chitarrista e cantante inglese Kris Barras (che ha sostituito nel Gennaio del 2018 il texano Lance Lopez). I due dischi di studio dei SBM, West Of Flushing, South Of Frisco e Californisoul https://discoclub.myblog.it/2017/11/28/anche-loro-sulle-strade-della-california-rock-supersonic-blues-machine-californisoul/ , non avevano mancato di attirare l’attenzione della critica internazionale e dei fans della musica rock-blues più sanguigna, grazie anche alla serie impressionante di ospiti che vi partecipavano (Billy Gibbons, Walter Trout, Warren Haynes, Eric Gales, Robben Ford, Chris Duarte e Steve Lukather) da loro conosciuti, oltre che per le molteplici collaborazioni di Aronoff, grazie all’amicizia di Grossi con Gibbons, che ha aiutato l’italiano ad entrare nel giro che conta.

Ora i nostri pubblicano questo Road Chronicles: Live!, resoconto dell’ultimo concerto del tour europeo dello scorso anno, tenutosi il 20 Luglio a Brugnera, in provincia di Pordenone (la hometown di Grossi). Ci troviamo di fronte ad un disco dal vivo di grande valore, che testimonia la bravura dei tre sul palco (la formazione è completata da Serge Simic alla seconda chitarra, Alex Alessandroni alle tastiere e dal supporto vocale di Andrea Grossi, moglie di Fabrizio, e Francis Benitez): rock-blues di notevole potenza, con le chitarre sempre a manetta ed una sezione ritmica schiacciasassi (e d’altronde Aronoff non lo scopriamo oggi), il tutto condito dalla voce arrochita di Barras, una via di mezzo tra Haynes e Mellencamp. Già così il disco sarebbe da consigliare, anche perché oltre alla potenza ci sono anche le canzoni che non sono affatto male, ma la ciliegina sulla torta è la presenza proprio di Gibbons nei sei pezzi finali, e senza nulla togliere a Grossi e compagni da lì in poi la temperatura sale di brutto. Dopo una breva introduzione registrata parte I Am Done Missing You, che inizia con il tipico drumming travolgente di Aronoff e poi vede entrare la chitarra di Barras ed il resto della band per un solido rock-blues di matrice sudista, con cori femminili che donano un retrogusto soul. I Ain’t Fallin’ Again è una rock song potente e granitica che dimostra la solidità dei nostri, con influenze che vanno dai Cream a Jimi Hendrix, mentre Remedy è una ballatona sempre decisamente elettrica con chitarre in tiro, una melodia fluida e distesa ed un ritornello corale ancora molto southern (facendo le debite proporzioni, siamo dalle parti della Tedeschi Trucks Band).

Can’t Take It No More è uno slow blues con organo e chitarra solista in grande spolvero e solito refrain corale: la SBS ha dei numeri e sembra americana al 100%, e non solo per un terzo; Watchagonnado è un funk-rock decisamente annerito e coinvolgente, con un  refrain perfetto per il singalong, uno dei pezzi più convincenti della serata, e precede la possente Elevate, un rockaccio diretto come un macigno dai toni quasi hard, ma sempre con elementi blues nel dna (chi ha detto Gov’t Mule?). Chitarre taglienti anche in Bad Boys, ancora tra rock e funky, mentre la lunga Let It Be (i Beatles non c’entrano) è nuovamente un ficcante blues con robuste iniezioni di rock, ed ottime parti chitarristiche stavolta ispirate da un maestro come Stevie Ray Vaughan. Ed ecco iniziare il concerto nel concerto, con Billy Gibbons che sale sul palco ed entusiasma subito il pubblico con una tonante versione della leggendaria La Grange, seguita dalla travolgente Broken Heart, una rock’n’roll song dal riff assassino che ricorda gli ZZ Top più diretti (e chi se no?), ed una vorticosa rilettura del classico di Elmore James Dust My Broom, strepitosa e coinvolgente https://www.youtube.com/watch?v=KhalRIkRoFE : tre canzoni e Billy si è già preso la scena. Il barbuto axeman resta on stage anche per i tre pezzi finali, la roboante Running Whiskey, con Aronoff che picchia come un ossesso, una tostissima interpretazione dell’evergreen di Muddy Waters Got My Mojo Working, con la band che va come un treno (ed un grande assolo di piano), ed il saltellante rock-blues Going Down, degna conclusione di una serata musicalmente torrida.

I loro due album di studio erano più che buoni, ma è sul palco che i Supersonic Blues Machine danno il loro meglio: garantisce Billy F. Gibbons.

Marco Verdi

Niente Di Nuovo All’Orizzonte, Ma Suonato Con La Solita Classe. Robin Trower – Coming Closer To The Day

robin trower coming closer to the day

Robin Trower – Coming Closer To The Day – Mascot/Provogue

Torna Robin Trower, il grande chitarrista inglese, uno dei migliori rappresentanti di quello stile a cavallo tra rock e blues che da sempre è il suo marchio di fabbrica: per il disco n°23 di studio della sua lunga carriera, più una decina di live, un decina di compilations e cinque album con l’amico scomparso Jack Bruce (d’altronde Trower ha compiuto 74 anni in questi giorni e i suoi inizi, prima con i Paramounts e poi con i Procol Harum, risalgono a circa la metà anni ’60), Robin ha deciso di accasarsi con una nuova etichetta, la Mascot/Provogue, che ormai sta cercando di rastrellare in giro per il mondo il meglio di quanto prodotto in ambito rock/blues. Non che questo significhi sostanziali cambiamenti di stile nel suo approccio, la formula è quella solita del power trio (anche se Trower in questo nuovo Coming Closer To The Day, come aveva fatto nel precedente Time And Emotion https://discoclub.myblog.it/2017/05/29/passa-il-tempo-ma-le-emozioni-rimangono-anche-senza-i-vecchi-amici-robin-trower-time-and-emotion/ , suona anche le parti di basso, lasciando al batterista Chris Taggart la parte ritmica principale), liquido e sognante, con le influenze hendrixiane sempre ben presenti, e il lavoro pregevole della immancabile Fender Stratocaster che è il suo fiore all’occhiello da sempre.

Registrato lo scorso anno allo Studio 91 di Newbury, con l’aiuto dell’ingegnere del suono Sam Winfield, il disco presenta dodici nuove composizioni di Trower che riflettono filosoficamente sull’inesorabile scorrere del tempo, perché come ricorda lui stesso sin dal titolo dell’album  “Ormai mi trovo più vicino alla fine che all’inizio, ma questo non mi spaventa…”. In effetti sin dalla iniziale Diving Bell, dall’incedere lento e maestoso, il nostro amico ribadisce quello stile unico che per certi versi ne ha fatto una sorta di erede del Jimi Hendrix più “spaziale” ed estatico, con il pedale del wah-wah subito impegnato ad estrarre dalla sua solista quelle note lunghe e ricche di feeling che sono da sempre il suo tratto più caratteristico. Truth Or Lies ha un gusto più mosso e vicino al R&B classico, anche se la voce “ringhiante” e pigra di Trower, come al solito, non è particolarmente memorabile, pure se la chitarra “rimedia” abbondantemente, come ribadisce la title-track Coming Closer To The Day, dove il lavoro della solista è variegato e ricco di inventiva, anche se forse nell’album complessivamente,  al di là di qualche eccezione, non ci sono brani memorabili.

Una delle eccezioni è proprio lo splendido slow blues intenso e lancinante proposto nella notturna Ghosts, dove Robin lascia libero sfogo alla propria ispirazione “inimitabile”; Tide Of Confusion è il presunto singolo che ha preceduto l’album, un po’ più mossa e “commerciale” vagamente alla ZZ Top e con una voce femminile a contrappuntare quella di Trower. The Perfect Wrong è un altro rock-blues di quelli più cattivi, con un riff marcato e qualche parentela ai Dire Straits del periodo di mezzo, con il wah-wah mordente che è ancora una volta il punto di forza della canzone, Little Girl Blue è una ballata sospesa e assorta, raffinata e con un tocco jazzy, con Someone Of Great Renown più scandita e grintosa, ma come molti altri pezzi poco incisiva, al di là del lavoro chitarristico che è sempre al centro della costruzione melodica, mentre Lonesome Road, una riflessione sulla vita in giro per il mondo a suonate la propria musica, è nuovamente un blues lento dove viene fuori il classico suono hendrixiano del miglior Trower, ricco di maestria e tecnica sopraffina. E pure Tell Me è una ennesima (piccola) variazione sul tema, con Don’t Ever Change che lo denuncia anche nel titolo e nel suono, così come la conclusiva Take Me With You. Quindi solita musica, buona e suonata con classe, ma niente di nuovo all’orizzonte.

Bruno Conti

Il Blues Rocker Greco Ci Mancava! Sakis Dovolis Trio – Cross The Line

sakis dovolis trio cross the line

Sakis Dovolis Trio – Cross The Line – Grooveyard Records  

Bisogna ammettere che la Grecia, a livello di musica rock, non sia mai stata una delle nazioni più presenti: ci ricordiamo tutti gli Aphrodite’s Child di Demis e Vangelis, ma poi per il resto, almeno per me, è notte fonda su tutta la linea. A parte le terribili vicissitudini finanziarie con UE e Fondo Monetario, i nostri vicini ellenici si sono fatti notare a livello sportivo con il tennista emergente Stefanos Tsitsipas, e adesso ci provano di nuovo con il chitarrista Sakis Dovolis, un buon esponente del classico Power Trio style. Il musicista greco, almeno all’ascolto di questo Cross The Line, mi sembra appartenere alla categoria dei solisti “esagerati”, quelli che tecnicamente sono indubbiamente proficienti, ma dove potrebbero bastare poche note, ce ne infilano in quantità spropositate, suonate a velocità supersoniche, spesso  a discapito del feeling e del gusto, che non sempre sono tra i loro principali attributi.

E’ vero che nel power trio è richiesta molta “forza bruta”, ma maggiori finezza e varietà non guasterebbero, specie se dici di ispirarti a gente come Jimi Hendrix o al suo “erede” Srevie Ray Vaughan. Nel caso di Sakis Dovolis e del suo trio, anche l’etichetta per cui esce questo disco indica la direzione musicale: per  la Grooveyard Records, il cui motto è “The Sound Of Guitar Rock”, infatti incidono gruppi e solisti che si ispirano parecchio all’heavy rock degli anni ’70, oltre che al power trio classico, ma anche blues-rock molto robusto, virtuosi della 6 corde, quindi pure questo disco fa parte della categoria. Poi ce ne sono di più bravi e meno bravi, vediamo Dovolis in che categoria di “virtuosi” rientra. Da qualche parte ho visto paragoni con il suono degli Screamin’ Cheetah Wheelies, ma quella band era molto più varia e poi aveva un cantante portentoso nella persona di Mike Farris, mentre il nostro Sakis, per quanto sia cantante diciamo adeguato, non è certo a quei livelli: disco autarchico greco, prodotto dallo stesso Dovolis con Stavros Papadopoulos, sezione ritmica Fotis Dovolis (parente?) al basso, e Nick Kalivas alla batteria, il disco parte con un brano All Over You, che per dirla con un personaggio di Abatantuono è “Viulenza” sonora pura, fatta comunque abbastanza con costrutto, anche qualche spunto melodico qui e là, inframmezzato tra scale velocissime.

 

Già in Come On Dovolis innesta a manetta il pedale wah-wah e le influenze di Jimi sono ancora più evidenti,  Everything è più funky e ricca di groove, ma gli assoli sono sempre “carichi”, come pure in I’m An Angel che si avvicina alle scorribande di Stevie Ray Vaughan, al quale è esplicitamente dedicata la conclusiva Legacy, un raro lento brano strumentale dove oltre alla fluente tecnica del chitarrista greco si apprezza anche un tratto di maggiore finezza e feeling https://www.youtube.com/watch?v=_VAO_lKkts4 . Prima c’è spazio anche per un tuffo nei territori sudisti dell’unica cover del disco, una Nasty Dogs & Funky Kings targata ZZ Top dove il southern boogie dei texani viene ancora più caricato di elementi hard; Cross The Line, dopo un abbrivio più bluesy è sempre molto orientata verso un rock a tratti scontato, per quanto ben suonato e con assoli come piovesse. Insomma siamo dalle parti di chitarristi come Lance Lopez, Phillip Sayce, Eric Gales, quelli che vivono a pane, Hendrix e Vaughan, come ribadisce una violentissima Burn It Down, oppure il sinuoso strumentale sempre a tutto wah-wah Shades Of Blue https://www.youtube.com/watch?v=8-glSCK7nl0 , mentre nella incalzante Show Me Your Love si insinua qualche raffinato  tocco funky-jazz, ma è un attimo e siamo di nuovo all’hard rock quasi di marca Black Sabbath della rocciosa Devil’s Road. Direi che è tutto: complessivamente disco “duretto” ma di buona qualità, se amate il genere.

Bruno Conti

Un Altro Ottimo Disco Per Questo “Fuorilegge” degli Anni Duemila. Whitey Morgan & The 78’s – Hard Times And White Lines

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Whitey Morgan & The 78’s – Hard Times And White Lines – Whitey Morgan/Thirty Tigers CD

Negli ultimi anni si è notata una rinascita di un filone all’interno del genere country che può essere equiparato al movimento degli Outlaws negli anni settanta, e che ha certamente le sue punte di diamante in Chris Stapleton e Jamey Johnson, con esponenti che rispondono ai nomi di Shooter Jennings (uno che un Outlaw originale ce l’aveva in casa), Cody Jinks, Sturgill Simpson (che però con l’ultimo disco ha deciso di esplorare altre strade) e Whitey Morgan. Proprio di quest’ultimo ci andiamo ad occupare oggi: country-rocker del pelo duro e con una grinta notevole, Morgan è uno dei migliori esponenti del genere venuti fuori nell’ultimo decennio, con già tre album di ottimo country elettrico (più uno acustico e cantautorale, Grandpa’s Guitar), un suono strettamente imparentato con il rock e con la musica del Sud. Ad ascoltarlo sembra un texano doc, ma in realtà viene dal profondo nord, esattamente da Flint, in Michigan (località nella quale ha registrato anche un eccellente live album, Born, Raised And Live From Flint, uscito nel 2014), una zona degli States che non è certo rinomata per la musica country. Hard Times And White Lines segue a tre anni di distanza il validissimo Sonic Ranch https://discoclub.myblog.it/2016/02/10/le-due-facce-moderno-outlaw-whitey-morgan/ , e si mantiene sullo stesso livello elevato, una musica grintosa, elettrica, forte e molto più rock che country, ricca di ritmo e feeling.

Morgan è accompagnato come sempre dai fidi 78’s (Joey Spina alle chitarre, Brett Robinson, bravissimo, alla steel, Alex Lyon al basso e Tony DiCello alla batteria), ed in questo disco è aiutato anche da altri sessionmen, tra i quali spiccano i nomi del bravo Jesse Dayton, già valido songwriter e chitarrista a proprio nome, del pianista ed organista Jim “Moose” Brown (di recente con Willie Nelson e Bob Seger), e soprattutto del noto polistrumentista Larry Campbell, qui impiegato alla steel e violino. Il suono di questo Hard Times And White Lines (ispirato dalle truckin’ songs, le canzoni per camionisti che occupano quasi un genere a parte nell’ambito del country made in U.S.A.) è davvero spettacolare, forte, nitido e potente, e le canzoni fanno il resto. Il disco si apre con Honky Tonk Hell, una possente ballata, lenta e cadenzata, che dà la misura dell’approccio musicale del nostro: un brano dalla struttura melodica chiaramente country ma suonata con piglio da vero rocker, ed un’intensità che si tocca quasi con mano, con chitarre elettriche e steel che vanno a braccetto. Con Bourbon And The Blues sembra quasi di sentire una outtake di Waylon degli anni settanta, una canzone in cui tutto, dalla melodia alla voce al ritmo, ricorda lo stile del grande texano: ottima ancora la steel ed anche il piano elettrico che aggiunge un sapore southern, e con la ciliegina di una splendida coda strumentale.

Ancora ritmo elevato con la goduriosa Around Here, un country-rock diretto e grintoso che conferma l’eccellente stato di forma del nostro anche dal punto di vista del songwriting, mentre Hard To Get High è una ballatona di stampo western, che non si muove da sonorità vigorose di chiaro stampo texano. La lenta ed evocativa Fiddler’s Inn fa venire in mente cowboys accampati al crepuscolo, con cavallo, falò, chitarra e whisky come unica compagnia (splendida anche qua la steel), ma Tired Of The Rain è ancora più intima e malinconica, con un feeling enorme, mentre con Wild And Reckless Whitey riprende in mano il pallino del puro country con una cristallina honky-tonk ballad alla George Jones. Nel CD trovano posto anche tre cover di varia estrazione, a partire dalla deliziosa What Am I Supposed To Do del poco conosciuto cantautore Don Duprie, una country song ariosa e solare dal motivo davvero bello ed immediato (anche quando non mostra i muscoli Morgan si conferma un musicista coi fiocchi), e seguita da una gustosa versione tra honky-tonk e rock di Carryin’ On di Dale Watson, uno che già di suo ha i cromosomi del countryman di razza. Ma la rilettura in un certo senso più inattesa è quella, decisamente robusta e bluesata, di Just Got Paid degli ZZ Top, che mantiene la tensione elettrica dell’originale aggiungendo un pizzico di country (ma neanche troppo), con strepitosi interventi chitarristici nel finale.

Gran bel disco, tra i migliori esempi di country elettrico usciti quest’anno.

Marco Verdi

Toh Guarda Chi Si Rivede: Se Siete “Giovani Vecchi”! Reverend Peyton’s Big Damn Band – Poor Until Payday

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Reverend Peyton’s Big Damn Band  – Poor Until Payday – Family Owned Records/Thirty Tigers

Mi ero occupato di loro recensendo l’album del 2011 https://discoclub.myblog.it/2011/10/18/giovani-vecchi-tradizionalisti-rev-peyton-s-big-damn-band-pe/ , ma poi nel frattempo non è che si fossero ritirati, tutt’altro, più o meno un album all’anno lo pubblicano con regolarità e quindi eccomi di nuovo a parlare di loro.

Album numero 10 (più qualche EP), in circa quindici anni di carriera, per il trio “revivalista” Reverend Peyton’s Big Damn Band: nel loro mondo musicale in cui la tecnologia utilizzata non dovrebbe essere più recente del 1959, tutto è registrato dal vivo in studio su nastro analogico, l’unica cosa che ogni tanto cambiava era il batterista. Ma la coppia Josh Peyton, chitarre Fingerstyle e slide, armonica e voce, nonché in questo Poor Until Payday autore di tutti i brani, e la moglie “Washboard Breezy”, un nome, una professione, sembra essersi affezionata al batterista e percussionista Maxwell Senteney, già “ben” al secondo disco con loro. Per il resto in quel mondo parallelo fatto di vecchie chitarre, amplificatori e microfoni dell’era pre-anni ’60, tra blues, rock’n’roll e sonorità vintage, poco o nulla cambia disco dopo disco, forse cresce la loro popolarità, grazie anche ad un contratto di distribuzione con la Thirty Tigers che consente una maggiore visibilità all’etichetta di famiglia, e magari per gradire giusto qualche pizzico di country, hillbilly, gospel e Americana nel loro menu sonoro.

Rodati da qualche centinaio (esageriamo, massimo trecento) di date on the road all’anno, il Reverendo e i suoi seguaci aprono i sermoni con l’arrembante gospel-country-blues corale di You Can’t Steal My Shine , tra slide guitar in fingerpickin’, percussioni in libertà e belle armonie vocali i tre confermano la loro bravura e stamina. Ma la Big Damn Band, come altri hanno ricordato, fa anche del blues come l’avrebbero suonato gli ZZ Top se fossero vissuti ai tempi di Charley Patton, sintomatico in questo senso il boogie blues di Dirty Swerve, con il call and response tra il vocione di Josh e quella più contenuta, ma ricca di grinta, di Breezy, mentre chitarre e percussioni ci danno dentro alla grande; Poor Until Payday, con il bottleneck in modalità Elmore James, è una sorta di inno per l’uomo comune dei nostri giorni, povero fino al giorno di paga ma orgoglioso, come sottolinea una armonica sinuosa. So Good, con una amplificazione più potente, avrebbero potuto suonarla George Thorogood, i Canned Heat o Johnny Winter, sempre con Breezy che “aizza” il marito dai lati e Senteney che picchia di gusto sul suo drumkit, piccolo ma sincero.

Church Clothes è un folk blues acustico dall’atmosfera raccolta, ricco di pathos e amore per i suoni del passato, solo voce e la solita slide insinuante di Peyton che cerca di far rivivere l’epopea di Patton e Robert Johnson. La vibrante Get The Family Together è più scatenata, energica e frenetica, con chitarre e batterie ovunque, tanto che alla fine della galoppata il buon Josh esclama “That Felt Pretty Hot”, Me And The Devil è della categoria figli illegittimi di Howlin’ Wolf e Robert Johnson, il massimo della elettricità a cui si spinge questa piccola grande band, con Frenchmen Street che ci porta a fare una capatina anche nelle strade e nei  vicoli più nascosti di New Orleans, quelli dove impera ancora la musica tradizionale pura e pimpante. I Suffer, I Get Tougher, un titolo e al tempo stesso una dichiarazione di intenti, è un altro esempio del loro blues “bastardizzato” da anni di contatti e ascolti del rock che è venuto dopo, ma che loro suonano con 30 watt scarsi di energia fregati da qualche vicino di casa, e per concludere un’altra abbondante dose di bottleneck boogie-blues and roll, se così possiamo definirlo, per una energica It Is Or It Ain’t che dovrebbe fare faville nei loro Live shows. Solo per “giovani vecchi”, o anche il contrario!

Bruno Conti

Bluesmen A Tempo Determinato. Parte 1: Billy F. Gibbons – The Big Bad Blues

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Billy F. Gibbons – The Big Bad Blues – Concord CD

A parte gli esordi psichedelici con i Moving Sidewalks, il blues è un genere musicale che è sempre stato legato a doppio filo alla figura di Billy Gibbons (la F. sta per Frederick), e la musica del gruppo di cui è leader da quasi cinquant’anni, gli ZZ Top, è sempre stata infarcita di blues fino al midollo. Però un vero disco tutto di blues gli ZZ Top non lo hanno mai fatto, neppure i loro primi tre album (i migliori) lo erano, in quanto il blues era mirabilmente mescolato con forti dosi di rock e boogie (esiste però un’ottima antologia a tema del gruppo, One Foot In The Blues, che raggruppa alcuni brani del trio imparentati con la musica del diavolo). Nel 2015 Billy ha esordito come solista con l’album Perfectamundo, ed era lecito pensare finalmente ad un disco di blues, anche se poi il risultato finale era tutt’altro, un deludente pastrocchio di ispirazione afro-cubana che aveva scontentato gran parte dei suoi fans. Oggi Gibbons ci riprova, e già dal titolo, The Big Bad Blues, ci fa capire che questa volta ci siamo: infatti l’album è la cosa migliore fatta dal nostro da moltissimi anni a questa parte, ZZ Top compresi (l’ultimo lavoro dei quali, La Futura, era comunque un bel disco), un disco di vero blues, suonato e cantato con grande forza e feeling, con lo stile tipico del nostro.

Sono infatti presenti nelle undici canzoni del CD massicce dosi di rock, un po’ di boogie, e se amate i suoni ruspanti e “grassi” di chitarra qui troverete pane per i vostri denti. L’album, prodotto da Billy insieme a Tom Hardy, ha un suono spettacolare, decisamente vigoroso, e la band che accompagna il nostro è assolutamente in palla: James Harman, grande armonicista, è uno dei protagonisti del disco, poi abbiamo lo stesso Hardy al basso, Elwood Francis alla seconda chitarra, Mike Flanigin (già nella band di Jimmie Vaughan) alle tastiere, e ben due batteristi, Greg Morrow ed il tonante Matt Sorum, ex Guns’n’Roses, Motorhead, The Cult e Velvet Revolver ed attualmente con gli Hollywood Vampires. The Big Bad Blues ha una prevalenza di brani originali, ma non mancano i tributi a musicisti che hanno influenzato Billy, principalmente Muddy Waters e Bo Diddley, presenti con due pezzi a testa. Di Waters abbiamo una magistrale Standing Around Crying, un blues lento, sudato ed appiccicaticcio, con un’ottima armonica ed un feeling da far tremare i muri, e la nota Rollin’ And Tumblin’, lanciata come un treno in corsa, una splendida chitarra ed una sezione ritmica da paura. Diddley è omaggiato con Bring It To Jerome, possente, annerita, quasi minacciosa ma piena di fascino, e con una deliziosa Crackin’ Up, che assume quasi toni solari e caraibici, alla Taj Mahal.

Delle restanti sette canzoni, sei sono opera di Billy ed una della moglie Gilly Stillwater, che poi è l’opening track e primo singolo Missin’ Yo Kissin’, un pezzo dall’introduzione potente, chitarra dal suono ruspante, basso e batteria formato macigno e voce catramosa, un boogie travolgente che potrebbe entrare tranquillamente nel repertorio degli ZZ Top: la parte cantata è relativamente breve, quasi un pretesto per far volare gli strumenti, con la sei corde del leader in testa. Ancora ritmo e potenza per My Baby She Rocks, un bluesaccio cadenzato e decisamente gustoso, con un’armonica tagliente ed i soliti strali chitarristici; molto bella Second Line, un rock-blues forte e grintoso, con assoli altamente goduriosi e suonati con un feeling enorme, mentre la saltellante Let The Left Hand Know ci porta idealmente in un fumoso localaccio della periferia di Chicago: ancora un duello tra la chitarra di Billy e l’armonica di Harman, e con la sezione ritmica che tanto per cambiare pesta di brutto. La torrida That’s What She Said vede il nostro lavorare di slide, ben supportato dalla seconda chitarra di Francis, Mo’ Slower Blues è ancora vigorosa e con il pianoforte in evidenza, ma musicalmente è un po’ ripetitiva, mentre Hollywood 151 è un eccellente rock-blues, roccioso e diretto come un pugno in faccia, e che mantiene altissima la temperatura.

A quasi settant’anni Billy F. Gibbons ha fatto finalmente il disco che aspettavamo da una vita: di sicuro tra gli album di blues più belli di questo 2018.

Marco Verdi