Si Sa Che Le Piante Grasse Hanno Vita Lunga! Cactus – Tightrope

cactus tightrope

Cactus – Tightrope – Purple Pyramid/Cleopatra CD

Non so in quanti si ricordino dei Cactus, gruppo di Long Island formato nel 1969 dall’ex sezione ritmica dei Vanilla Fudge, ovvero il bassista Tim Bogert ed il batterista Carmine Appice (*NDB Io si! https://discoclub.myblog.it/2016/10/28/ci-riprovano-lennesima-volta-cactus-black-dawn/ ) . Fautrice di un hard rock con copiose iniezioni di blues (che li aveva fatti definire da qualche critico troppo entusiasta “i Led Zeppelin americani”), la band ebbe il suo momento di gloria dal 1969 al 1972, con la pubblicazione di quattro album che diedero loro una discreta popolarità; poi Bogert e Appice si unirono al grande Jeff Beck per registrare il seminale Beck, Bogert & Appice ed il gruppo si dissolse. Una prima reunion si ebbe nel 1976 per mano del cantante originale Rusty Day, ma la nuova formazione non consegnò alcunché ai posteri: per avere un nuovo album dei nostri bisognerà attendere il 2006 quando i redivivi Bogert e Appice (insieme anche al chitarrista originale Jim McCarthy, ex Detroit Wheels) pubblicheranno Cactus V, un lavoro peraltro abbastanza ignorato, cosa che peraltro capiterà anche a Black Dawn, uscito nel 2016.

Ora a sorpresa la band dello stato di New York ritorna con Tightrope, il loro settimo lavoro in studio: Appice è ormai rimasto l’ultimo tra i membri originali (Bogert ci ha lasciato nel gennaio di quest’anno, ma non faceva più parte del gruppo già da anni) e si è circondato di onesti mestieranti come il chitarrista Paul Warren (per anni con Rod Stewart), il bassista Jimmy Caputo, l’armonicista Randy Pratt ed il cantante Jimmy Kunes, con McCarthy che si limita ad una comparsata in un paio di canzoni. Devo dire in tutta sincerità che non mi aspettavo nulla di buono da questo nuovo lavoro della band, sia perché Appice è uno che per soldi suonerebbe anche nella sigla di Peppa Pig, sia per il fatto che il gruppo in sé è formato da comprimari, ed anche perché la Cleopatra (etichetta di Los Angeles che distribuisce il CD) spesso non è garanzia di qualità. Invece in parte mi devo ricredere: Tightrope non è certamente un capolavoro, ma neppure una ciofeca, ed in poco più di un’ora (forse anche venti minuti in meno sarebbero bastati) riesce ad intrattenere con una bella dose di rock-blues di matrice hard, un suono decisamente robusto che negli anni 70 andava per la maggiore.

Appice sarà quello che sarà, ma quando si siede ai tamburi picchia ancora come un fabbro, Kunes è un cantante sufficientemente potente ed espressivo e le parti chitarristiche non sono disprezzabili, anche se qua e là i suoni sono un po’ tagliati con l’accetta. Si parte in maniera potente con la title track, rock-blues roccioso con reminiscenze zeppeliniane sia nel sound che nel cantato: forse il songwriting non è proprio di prima scelta ma lo scopo viene comunque raggiunto grazie ad una buona tecnica ed una discreta dose di feeling. Papa Was A Rolling Stone è proprio la vecchia hit dei Temptations, anche se qui il pezzo viene completamente stravolto diventando una rock song sanguigna alla quale l’armonica dona un sapore blues; All Shook Up invece non è quella di Elvis ma una canzone nuova, un rock’n’roll con chitarre al vento e steroidi a mille, mentre Poison In Paradise è una riuscita ballatona elettrica dai forti umori blues, notturna, cadenzata e sinuosa.

Con Third Time Gone si torna a pestare duro, ma il suono di fondo ha forti connessioni southern, a differenza delle solide Shake That Thing e Primitive Touch che rimandano ancora all’ex gruppo di Page & Plant, pur non raggiungendo gli stessi livelli di eccellenza (e ci mancherebbe). Preaching Woman Man Blues è appunto un buon blues saltellante, adatto per la voce arrochita di Kunes ed abbastanza coinvolgente grazie anche all’ottima prestazione di tutta la band; Elevation, puro hard rock ancora dalle tinte blues, porta al pezzo centrale del CD, ovvero la lunga Suite 1 And 2: Everlong, All The Madmen, rock ballad soffusa e quasi psichedelica che rimanda decisamente al sound di fine sixties, con la chitarra di Warren che nel finale si erge a protagonista assoluta. La vivace Headed For A Fall, puro blues dal ritmo acceso, ed il rock anni 70 di Wear It Out chiudono un disco che, pur non essendo affatto imprescindibile, è molto meglio di quanto avessi previsto.

Marco Verdi

La Prova Del Terzo Disco Per Il “Piccolo Dirigibile”, Brillantemente Superata! Greta Van Fleet – The Battle At Garden’s Gate

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Greta Van Fleet – The Battle At Garden’s Gate – Republic/Universal CD

In realtà quello di cui mi accingo a parlare sarebbe il secondo album dei Greta Van Fleet dopo il celebrato (e discusso) Anthem Of The Peaceful Army del 2018 https://discoclub.myblog.it/2018/10/28/una-nuova-speranza-forse-piu-lattacco-dei-cloni-greta-van-fleet-anthem-of-the-peaceful-army/ , ma il quartetto di Frankenmuth, Michigan aveva esordito nel ’17 con From The Fires, EP di otto canzoni che però con i suoi 32 minuti durava più di tanti album. I GVF (i tre fratelli Josh, voce, Jake, chitarra, e Sam Kiszka, basso e tastiere, e l’amico Danny Wagner alla batteria) con i due lavori precedenti hanno diviso pubblico e critica come poche altre band, almeno in tempi recenti: chi li celebrava come una ventata di aria fresca nel panorama rock visto che i loro colleghi coetanei (i ragazzi sono poco più che ventenni) sono perlopiù artisti rap, hip-hop, trip-hop e boiate varie, chi li stroncava perché li considerava un vero e proprio clone dei Led Zeppelin. Forse la verità stava nel mezzo: il paragone con il Dirigibile ci stava benissimo (ed i nostri un po’ ci marciavano) sia per lo stile musicale proposto, un solido rock-blues molto anni 70, sia per il timbro vocale di Josh incredibilmente simile a quello di Robert Plant, ma nello stesso tempo il fatto di avere una ventata di aria fresca e giovane nel mondo del rock è una cosa indubbiamente positiva. Il problema quando sei associato a doppio filo ad una determinata band è però quello di smarcarti dallo scomodo paragone, e quindi tutti aspettavamo al varco i quattro con il nuovo album The Battle At Garden’s Gate.

Come al solito le critiche sono state alterne, nel senso che i loro detrattori hanno continuato ad accusarli di essere derivativi, mentre altri hanno intravisto nelle varie canzoni più di un tentativo di proporre qualcosa di nuovo, anche se sempre nell’ambito di un suono rock classico. Siccome io sono un po’ come San Tommaso, ho voluto toccare con mano (anzi, con orecchio), e devo dire che The Battle At Garden’s Gate è un deciso upgrade rispetto al seppur buon disco precedente, sia in termini di suono che di songwriting che di performance, e gran parte del merito va certamente al produttore Greg Kurstin (Foo Fighters, Adele, ma anche il Paul McCartney di Egypt Station). Certo, parecchi residui dell’influenza del gruppo di Page & Plant ci sono ancora, meno evidenti ma comunque presenti in più di un pezzo, ma qua e là abbiamo anche “l’ingresso” di sonorità di stampo quasi californiano e psichedelico, in linea con i testi che evocano temi esoterici e mondi paralleli (basta vedere la copertina e le immagini interne). Le canzoni sono solide e godibili dalla prima all’ultima, al punto che i 63 minuti complessivi trascorrono abbastanza facilmente, cosa non affatto scontata. Heat Above inizia con un organo inquietante, poi arriva la batteria lanciatissima ed entra il resto della band per una power ballad abbastanza diversa dallo stile del disco precedente (a parte la voce “plantiana”, ma quella non si può cambiare): arrangiamento elettroacustico ma potente con un quartetto d’archi sullo sfondo, chitarre ed organo ad evocare ampi spazi aperti e melodia molto fluida.

Un buon inizio. My Way, Soon è il primo singolo che gira già da qualche mese, un brano decisamente più rock a partire dal riff elettrico iniziale, anche se il motivo ed il cantato rilassato portano un po’ di sensibilità pop che non pensavo fosse nelle corde dei ragazzi (e qui la voce è più simile a quella di Geddy Lee dei Rush), a differenza di Broken Bells che è una suggestiva ballata il cui attacco (ma anche l’assolo finale) non può che ricordare Stairway To Heaven, ma poi il gruppo prende una direzione sua anche se Josh torna in modalità Plant: il brano comunque risulta molto bello, ricco di pathos e di ottimo livello compositivo. La dura Built By Nations è forse la più in linea con l’album di tre anni fa (e quindi la più zeppeliniana), un rock-blues solido e roccioso ma anche coinvolgente e suonato benissimo; un bell’intro di chitarra ed un’entrata decisamente “pesante” della sezione ritmica fanno di Age Of Machine una hard rock ballad coi fiocchi, dal suono al 100% anni 70 e solo vaghe reminiscenze di un gruppo che sapete qual è, mentre la lenta Tears Of Rain invade ancora i territori prog-rock cari ai Rush (una band a mio parere sottovalutata) e Stardust Chords è “semplicemente” una gran bella rock song, senza particolari influenze.

La potente Light My Love, con la chitarra ed un bel pianoforte in evidenza, è una lucida ballata dal leggero sapore californiano, zona Laurel Canyon (tra le più riuscite del CD), Caravel è dura, chitarristica e fa emergere il lato più puramente rock dei nostri, The Barbarians ha elementi psichedelici ed una chitarra wah-wah che rende tutto godurioso e ci fa tornare ai tempi in cui David Crosby non si ricordava il suo nome, solo con qualche tonnellata di decibel in più. Finale con Trip The Light Fantastic, che ricorda gli Zeppelin “leggeri” di In Through The Out Door e con la maestosa The Weight Of Dreams, più di otto minuti di sano rock anni 70 tra chitarre, archi e melodie ad ampio respiro, con il miglior assolo del disco. Saranno anche derivativi (in questo album un po’ meno), ma a me i Greta Van Fleet piacciono.

Marco Verdi

Un Ripasso Della “Seconda Carriera” Della Storica Band Sudista. Lynyrd Skynyrd – Nothing Comes Easy 1991-2012

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Lynyrd Skynyrd – Nothing Comes Easy 1991-2012 – Hear No Evil/Cherry Red 5CD Box Set

I Lynyrd Skynyrd, tra i più leggendari gruppi southern rock ancora in attività, sono discograficamente fermi a Last Of A Dyin’ Breed del 2012 https://discoclub.myblog.it/2012/09/03/e-alla-fine-ne-rimase-uno-lynyrd-skynyrd-last-of-a-dyin-bree/ , anche se fra live e tributi non hanno mai smesso di dare alle stampe materiale a loro nome. In questi giorni il mercato vede l’uscita di ben due progetti riguardanti la band di Jacksonville: il 9 aprile verrà rilasciato in varie configurazioni Live At Knebworth ’76, una mezza fregatura dato che in gran parte era già stato pubblicato anni fa con un altro titolo (ma ve ne parlerà prossimamente ed in maniera più diffusa Bruno), mentre è già disponibile da qualche settimana Nothing Comes Easy 1991-2012, un box quintuplo in formato “clamshell” che si occupa di riepilogare parzialmente la carriera dei nostri a seguito della reunion avvenuta nel 1987, dieci anni dopo il tristemente noto incidente aereo che mise temporaneamente fine alla loro avventura. Il cofanetto ripropone quattro studio album pubblicati nel periodo indicato nel titolo oltre ad un raro EP, scelti peraltro senza un preciso criterio logico: infatti sono presenti i primi due dischi dalla reunion in poi e gli ultimi due, tralasciando quindi il periodo di mezzo formato dall’ottimo unplugged di studio Endangered Species, i discreti Twenty e Edge Of Forever ed il poco riuscito Vicious Cycle.

lynyrd skynyrd nothng comes easy box

Una pubblicazione quindi che interesserà più i neofiti o coloro che possiedono solo i lavori degli anni 70, visto che le strombazzate bonus tracks aggiunte ad ogni dischetto non sono né così rare né tantomeno imprescindibili. In generale il box offre comunque un buon ripasso della discografia recente del gruppo (ed il tutto è stato opportunamente rimasterizzato), con i primi due album ancora legati a doppio filo ai classici rock, blues e boogie tipicamente southern, ed il resto in cui il sound si sposta decisamente su territori hard e AOR. Il primo CD è dedicato a Lynyrd Skynyrd 1991 (indovinate in che anno è uscito), album pubblicato originariamente dalla Atlantic e prodotto dal grande Tom Dowd, con i membri della formazione “classica” Gary Rossington, Ed King, Billy Powell, Leon Wilkeson ed Artimus Pyle (che lascerà la band proprio in quell’anno sostituito da Kurt Custer), raggiunti dai nuovi Johnny Van Zant alla voce e Randall Hall alla chitarra, sostituti rispettivamente del fratello Ronnie Van Zant e di Steve Gaines, scomparsi nel già citato incidente aereo. Il disco è ancora oggi il migliore dal ’91 in poi, e può stare dignitosamente vicino ai lavori pubblicati dai nostri nei seventies, a partire dall’iniziale Smokestack Lightning, un trascinante boogie nel loro tipico stile con tutte le caratteristiche al posto giusto: voce grintosa, chitarre al vento, pianoforte infuocato e backing vocals femminili https://www.youtube.com/watch?v=rfRGWeZtUVk&list=OLAK5uy_m25iVuFxJgmtT0GFLElidVfR9G2Jv6oOk .

lynyrd skynyrd 1991

Gli altri highlights sono le potenti e rockeggianti Keeping The Faith, Southern Women, Good Thing (dalla strepitosa coda strumentale) e End Of The Road, tutte all’insegna del gran ritmo e chitarre goduriose, ben controbilanciate dalla limpida ballata elettroacustica Pure & Simple, il saltellante blues Money Man e Mama (Afraid To Say Goodbye), splendida soulful ballad di sette minuti; ci sono anche due pezzi dal suono un tantino “rotondo” (I’ve Seen Enough e It’s A Killer), ma sono entrambi perdonabili. Come unica e poco interessante bonus track abbiamo la versione “edit” di Keeping The Faith. Prodotto da un altro luminare del southern sound, Berry Beckett, The Last Rebel (1993, secondo CD del cofanetto) è ancora un buon disco anche se leggermente inferiore al suo predecessore, e comincia qua e là a spuntare qualche synth seppur usato con parsimonia. I punti di forza dell’album sono l’epica title track, forse la migliore ballata degli Skynyrd dalla reunion in avanti https://www.youtube.com/watch?v=rfRGWeZtUVk&list=OLAK5uy_m25iVuFxJgmtT0GFLElidVfR9G2Jv6oOk , il trascinante rock’n’roll Best Things In Life, sulla scia di classici come Down South Jukin’ e What’s Your Name, e la scintillante country ballad sudista Can’t Take That Away https://www.youtube.com/watch?v=fYA4XqP2Ih8 .

lynyrd skynyrd the last rebel

Non male neppure il sanguigno boogie con fiati Good Lovin’s Hard To Find, l’energica e possente One Thing, il godibile midtempo elettrico Outta Hell In My Dodge e la conclusiva Born To Run, con formidabile finale strumentale che vede il piano di Powell salire in cattedra. Anche qui con le tracce bonus non è che si siano sprecati, avendo aggiunto solo altre due edit versions (The Last Rebel e Born To Run), ed una bella rilettura acustica della title track che però è la stessa di Endangered Species. E veniamo al terzo dischetto, che ci fa fare un balzo in avanti di ben sedici anni e propone God & Guns: di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, la band ha sofferto altre perdite eccellenti (Powell, che però ha fatto in tempo a completare le sessions dell’album, e Wilkeson, mentre King ha lasciato il gruppo nel 1996 per problemi di salute) e quindi Rossington è rimasto l’unico membro originale, raggiunto però dall’ex Blackfoot Rickey Medlocke, che aveva brevemente fatto parte degli Skynyrd prima del loro esordio nel 1973, mentre gli altri componenti sono onesti mestieranti. Ma soprattutto i nostri hanno indurito all’inverosimile il suono alla stregua di un qualsiasi gruppo hard rock (con puntate verso l’AOR), ed il ricorso ad un produttore esperto in hard & heavy come Bob Marlette è significativo, così come la presenza tra gli ospiti di Rob Zombie https://www.youtube.com/watch?v=Vw_6eUgpo30&list=OLAK5uy_nHKof2QbYo33gN7YQ69kwUCAJK-zaQeM8 .

lynyrd skynyrd god and guns

Suono pesante quindi, come nella potentissima Still Unbroken, con uno di quei riffoni tagliati con l’accetta ed un assolo con steroidi a mille, o la roboante Simple Life, che però ha un ritornello decisamente radio friendly, la solida Little Thing Called You, southern rock per palati forti, l’autocelebrativa e durissima Skynyrd Nation e Comin’ Back For More, con Van Zant che sembra quasi Alice Cooper. Comunque grinta e feeling non mancano, i dischi brutti sono altri, anche se questi Lynyrd Skynyrd sono un’altra band non solo rispetto a quelli degli anni 70 ma anche paragonati ai primi due CD di questo box. Tracce del vecchio smalto ci sono ancora, come nella bella e limpida Southern Ways, che riprende volutamente il mood di Sweet Home Alabama, le ballatone Unwrite That Song, un po’ ruffiana ma dall’indubbio pathos, e That Ain’t My America, anche meglio nonostante il testo infarcito di stucchevole patriottismo, o la splendida Gifted Hands che è di gran lunga il pezzo migliore grazie anche ad un notevole finale chitarristico. Anche qui un misero bonus, Still Unbroken nella solita versione accorciata. Il quarto CD è ancora legato a God & Guns, in quanto si tratta dell’EP di sei pezzi incluso nelle prime copie del disco del 2009 (e qui di bonus tracks neanche l’ombra): tre outtakes di studio, delle quali l’unica degna di nota è il robusto country-blues Hobo Kinda Man, e tre brani dal vivo registrati nel 2007: la non eccelsa Red, White & Blue e le sempre formidabili Call Me The Breeze e Sweet Home Alabama.

lynyrd skynyrd last of a dying breed

Ed eccoci al quinto ed ultimo CD, il già citato Last Of A Dyin’ Breed del 2012, un disco con lo stesso approccio sonoro di God & Guns (e lo stesso produttore), ma nel complesso meno riuscito https://www.youtube.com/watch?v=ekOH20mxjP4&list=OLAK5uy_kPCkCe5wrWR5c1E_tAgDlWMlhDYrmncO4 . Alti e bassi, tra reminiscenze southern del bel tempo che fu e sonorità decisamente più tamarre: qualche buona canzone c’è, come l’iniziale title track, un bel boogie deciso, coinvolgente e tirato che è un piacere, la rock ballad One Day At A Time, dotata di un ritornello sufficientemente epico, la lenta Something To Live For, ballatona di livello più che buono e suonata nel modo giusto, e la fiera e potente Life’s Twisted. Il resto è hard rock di media qualità, con alcuni brani pessimi come Homegrown e Nothing Comes Easy, oltre a Ready To Fly che è uno slow abbastanza insapore. Qui le bonus tracks sono ben sei, vale a dire tutte quelle comprese nelle due edizioni deluxe dell’epoca (quella “normale” e quella esclusiva della rivista Classic Rock): quattro pezzi in studio, dei quali l’unico davvero incisivo è il rock-boogie Do It Up Right, con i suoi rimandi ai seventies, e due dal vivo, la non imperdibile Skynyrd Nation e la travolgente Gimme Three Steps, southern rock’n’roll allo stato puro. In conclusione, un boxettino che forse può valer la pena acquistare se non si conoscono i Lynyrd Skynyrd “post crash”, ma abbastanza inutile se si possiedono già i dischi in questione, anche per la deludente scelta di bonus tracks.

Marco Verdi

Un Cofanetto Interessante Ma Non Esente Da Pecche (E Costoso). Black Sabbath – Vol. 4 Super Deluxe

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Black Sabbath – Vol. 4 Super Deluxe – BMG 4CD – 5LP Box Set

Dopo che lo scorso anno i Black Sabbath hanno ristampato il cofanetto quadruplo dedicato al loro secondo album Paranoid per celebrarne i 50 anni, box originariamente uscito nel 2016 (aggiungendo stavolta anche la versione in cinque LP), nel 2021 sarebbe stato lecito aspettarsi un identico trattamento per Master Of Reality, terzo lavoro del quartetto di Birmingham: invece, siccome le case discografiche sono delle simpatiche burlone, l’onore è toccato a Vol. 4 del 1972, lasciando quasi pensare che il gruppo formato da Ozzy Osbourne, Tony Iommi, Geezer Butler e Bill Ward abbia un problema con i suoi dischi dispari, dal momento che anche il loro debutto omonimo del 1970 non ha beneficiato di un’edizione Super Deluxe. Vol. 4 è uno degli album della band hard rock (qualcuno dice heavy metal) più amati dai fans e di maggior successo della loro discografia, ed è chiamato in gergo “il disco della cocaina” dato che durante la sua incisione (ai Record Plant Studios di Los Angeles, primo lavoro dei quattro ad essere registrato fuori dall’Inghilterra ed anche il primo ad essere autoprodotto) venivano recapitati in studio con cadenza quasi giornaliera scatoloni pieni della droga più popolare negli anni settanta, al punto che il titolo dell’album inizialmente doveva essere Snowblind, dove la neve che acceca non era esattamente quella che cade dal cielo.

black sabbath vol.4 super deluxe box

Eppure, nonostante Ozzy e soci fossero perennemente fatti come cavalli, riuscirono miracolosamente a tirare fuori un lavoro di livello più che buono, lucido, potente e coinvolgente come nella loro migliore tradizione, un disco che oggi rinasce a nuova vita grazie ad una rimasterizzazione adeguata in questo bel box che contiene quattro CD ed un libro ricco di foto e dettagli, anche se purtroppo il prezzo oscilla tra gli 80 ed i 90 euro (ed ancora di più per la versione in vinile), un costo già alto di suo ma che è ancora più sbilanciato se rapportato ai contenuti musicali, che se nel secondo e terzo CD si traducono in outtakes di studio inedite come da prassi (che però non aggiungono granché al disco originale), e che come vedremo a breve deludono abbastanza nel quarto dischetto, quello dal vivo https://www.youtube.com/watch?v=LU99kUnWW3E . Il Vol. 4 originale si apriva giustamente con il pezzo migliore, la potente e riffata Wheels Of Confusion dai tipici e repentini cambi di ritmo e melodia dei Sabbath, fraseggi chitarristici tutti da godere, la sezione ritmica che non perde un colpo ed un finale travolgente. Le sonorità pesanti la fanno ovviamente da padrone, con la vibrante Tomorrow’s Dream, unico singolo estratto all’epoca, la solida e riffatissima Supernaut https://www.youtube.com/watch?v=LU99kUnWW3E , il midtempo elettrico Snowblind https://www.youtube.com/watch?v=y_MAyLcNz3c , la plumbea e decisamente hard Cornucopia, la cadenzata e coinvolgente St. Vitus Dance e la nota Under The Sun.

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Ma il disco non è solo heavy rock, in quanto il pezzo più famoso è la ballatona Changes (incisa in anni più recenti anche dal solo Ozzy in duetto con la figlia Kelly), uno slow romantico in cui la voce del frontman è accompagnata solo da piano e mellotron https://www.youtube.com/watch?v=RGOKgfIOGaA , ed inoltre troviamo anche il delizioso e folkeggiante strumentale acustico Laguna Sunrise, cercando di dimenticare una stranezza come FX, che per fortuna dura poco. Il secondo e terzo CD offrono nel complesso 17 tracce aggiuntive riferite a sei degli undici brani di Vol. 4 tra takes complete e non, false partenze e versioni alternate, il tutto remixato dall’onnipresente Steven Wilson. Abbiamo quindi sei diverse Wheels Of Confusion, tre Supernaut, altrettante Under The Sun (tra cui una eccellente take strumentale), due Snowblind ed una versione alternata ciascuna di The Straightener, Changes e Laguna Sunrise, tutte quante meno rifinite di quelle pubblicate sul disco del 1972 e più che altro destinate a fans e completisti della band britannica.

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Il quarto dischetto è, come ho già accennato, quello più deludente: registrato dal vivo in varie date del tour inglese del 1973, si propone di ricreare per la prima volta la setlist completa dei concerti di quel periodo, ma già questo non è vero perché ciò era già avvenuto nel postumo Live At Last del 1980. Ma la cosa più grave è che l’80% del CD è proprio la riproposizione di Live At Last (certo, con un suono migliore), e solo Tomorrow’s Dream, Sweet Leaf e Snowblind sono versioni inedite, cosa abbastanza inaudita dal momento che a quel prezzo uno vorrebbe perlomeno un intero show mai sentito. Polemiche a parte, le performance sono tutte solide e di buon livello, con i brani di Vol. 4 perfettamente inseriti in scaletta a fianco dei classici del gruppo (anche se mancano stranamente sia Black Sabbath che Iron Man, ma in quel periodo non venivano proprio suonate): tra gli highlights segnalo la nota War Pigs, un medley di 20 minuti che include Wicked World, Orchid, Into The Void, Sometimes I’m Happy e Supernaut (con una prestazione stratosferica di Iommi), ed il gran finale di Children Of The Grave e Paranoid.

Un cofanetto che ha quindi il difetto di rivolgersi principalmente ai fans più accaniti (e danarosi) dei Black Sabbath, con l’aggravante della mezza fregatura del quarto CD: per i neofiti sarà sufficiente accaparrarsi la versione singola di Vol. 4 e, se proprio vorranno, Live At Last.

Marco Verdi

Nel Periodo Dell’Isolamento Hanno Fatto Questo Breve E Piacevole Dischetto. Sammy Hagar & The Circle – Lockdown 2020

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Sammy Hagar & The Circle – Lockdown 2020 – F.W.O. Inc/Mailboat Records

Si moltiplicano i dischi registrati dai musicisti che se lo sono potuti permettere durante il periodo di isolamento: l’ultimo della lista, per ora, è Sammy Hagar, che insieme ai componenti della sua ultima band The Circle, ha realizzato questo nuovo album, significativamente intitolato Lockdown 2020, con ognuno che ha registrato la sua parte da remoto nella propria abitazione, poi grazie alla tecnica digitale il tutto è stato assemblato per creare un disco fatto e finito. Il gruppo, che nel 2019 aveva pubblicato l’album di debutto Space Between, arrivato fino al 4° delle classifiche, ed è comunque in attività dal 2014, è formato oltre che da Hagar dal bassista dei Van Halen Michael Anthony, dal batterista Jason Bonham, figlio di… e dal chitarrista Vic Johnson, già collaboratore di Sammy nei Waboritas. Ovviamente stiamo parlando di un album di hard’n’heavy, costituito però tutto da cover, meno un brano nuovo Funky Feng Shui, che è quello che ha dato il “la” al progetto (un po’ come aveva fatto nel 1985 il predecessore di Hagar nei Van Halen, David Lee Roth con il mini album Crazy From The Heat).

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Il nostro amico Sammy aveva esordito nel lontano 1973 nei Montrose, una delle band migliori di classic rock americano, autori di quattro dischi negli anni ‘70, guidati appunto da Ronnie Montrose, che in precedenza aveva suonato anche con il Van Morrison californiano nel 1971/’72, quindi non il primo pirla che passava per strada. E rock molto robusto troviamo anche nel nuovo CD (curiosamente distribuito dalla Mailboat, l’etichetta di Jimmy Buffett): lasciando perdere il dibattito se sia meglio lui o David Lee Roth (secondo me nessuno dei due, ma è un parere personale), Hagar, conosciuto come The Red Rocker, non ha più l’ugola di un tempo a 73 anni suonati, ma se la cava ancora, e il contenuto del disco, a chi piace il genere, è in ogni caso godibile e ben suonato. Funky Feng Shui come da titolo è un breve divertissement a tempo di funky https://www.youtube.com/watch?v=gzflDi1NH4Y , poi partono le cover, Won’t Get Fooled Again degli Who è solo un breve intramuscolo di due minuti (non il pezzo completo), come peraltro tutti i brani che faticano a superare i 3 minuti, assai simile all’originale, ma finisce quasi prima di iniziare, anche se il classico riff non manca https://www.youtube.com/watch?v=OyMAJ8JGxkU , Good Enough era su 5150, il primo disco dei Van Halen con Hagar, niente assoli devastanti ma un po’ di tapping di Johnson tipo quello che faceva Eddie.

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A seguire un tuffo nel repertorio di Bob Marley con Three Little Birds, un pezzo che era su Exodus, reggae music, ma sempre piuttosto robusta, nello stile dei Circle, seguita da uno dei classici assoluti dell’hard e degli AC/DC Whole Lotta Rosie, un vero festival del riff, con un Sammy Hagar che in tutte le sessions si dimostra in ottima forma vocale. In effetti per il disco sono stati realizzati una serie di video su YouTube, uno per ogni canzone. Si scava ancora di più nel passato per la classica For What It’s Worth dei Buffalo Springfield  con citazione di Walk On The Wild Side https://www.youtube.com/watch?v=QdY460-XBpY , e ancora più indietro per una scatenata Keep A-Knockin’ di Little Richard, dove nell’incipit Jason Bonham ruba al babbo una drum intro di quelle tipiche degli Zeppelin https://www.youtube.com/watch?v=vnRqIkwK_2w ; a seguire troviamo un altro terzetto di brani dei Van Halen, Right Now che era su For Unlawful Carnal Knowledge, ovvero F.U.C.K, uno dei rari brani dal testo social-politico del gruppo, seguito da Don’t Tell Me What Love Can Do da Balance del 1995, più duro e tirato, e infine Sympathy For The Human riportata come nel repertorio dei Van Halen, ma che era nell’album dei Waboritas del 1999. In chiusura troviamo una versione tirata e gagliarda di Heroes (dedicata agli eroi della pandemia) di David Bowie, con la band che ci dà dentro di gusto https://www.youtube.com/watch?v=CBAvI9IVF8Q ,come peraltro in tutto l’album, per una mezz’oretta piacevole e disimpegnata.

Bruno Conti

E Dopo Il Dessert…Caffè E Ammazzacaffè! Blue Oyster Cult – A Long Day’s Night/Live At Rock Of Ages Festival 2016

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Blue Oyster Cult – A Long Day’s Night – Frontiers CD/DVD

Blue Oyster Cult – Live At Rock Of Ages Festival 2016 – Frontiers CD/DVD

E proprio il caso di dire che il 2020 musicale si è aperto e chiuso nel segno dei Blue Oyster Cult, nota band americana dell’epoca d’oro dell’hard rock che quest’anno ha onorato il nuovo contratto con la nostrana Frontiers inondando il mercato di uscite discografiche, e cioè con le ristampe degli ultimi tre album di studio ufficiali ed il live del 2002 A Long Day’s Night (fra poco in dettaglio), ai quali hanno aggiunto ben cinque dischi dal vivo inediti e, come piatto forte, l’atteso nuovo lavoro The Symbol Remains, stampato lo scorso ottobre e rivelatosi più che buono https://discoclub.myblog.it/2020/10/14/e-finalmente-e-arrivato-il-dessert-blue-oyster-cult-the-symbol-remains/ . Sinceramente pensavo che il nuovo disco rappresentasse la fine del piano di uscite scaglionato per tutto l’anno, ma i BOC mi hanno stupito pubblicando da poco altri due album, e cioè la ristampa del già citato live di 18 anni fa più il “solito” CD/DVD inedito Live At Rock Of Ages Festival (registrato in Germania il 30 luglio 2016), due lavori che a questo punto penso siano davvero gli ultimi episodi di questa colossale operazione di rilancio.

Blue Öyster Cult - A Long Day's Night DVDrip-avi 0097

A Long Day’s Night, registrato a Chicago il 21 giugno del 2002 (giorno del solstizio d’estate, da cui il titolo), per anni è stata l’ultima pubblicazione ufficiale della band, un live molto bello e probabilmente migliore anche del suo predecessore Extraterrestrial Live del 1982.Il gruppo all’epoca era formato dal nucleo storico Eric BloomDonald “Buck Dharma” Roeser Allen Lanier, e completato dalla sezione ritmica di Danny Miranda al basso e Bobby Rondinelli alla batteria. Un live potente e coinvolgente come nella tradizione dei nostri, con le chitarre sempre in evidenza ed una tracklist piena di canzoni famose ma anche con qualche pezzo meno esplorato. Dagli ultimi due dischi di studio i BOC suonano solo un brano a testa, Harvest Moon da Heaven Forbid e Dance On Stilts da Curse Of The Hidden Mirror, ma poi, oltre ai soliti classici assodati (Burnin’ For You, O.D.’d On Life Itself, il tour de force chitarristico Buck’s Boogie ed il consueto finale con Godzilla e (Don’t Fear) The Reaper) abbiamo pezzi che non ascoltiamo tutti i giorni, cioè due “deep cuts” del primo periodo (il dirompente boogie Stairway To The Stars, perfetto per aprire il concerto, e la robusta Mistress Of The Salmon Salt) e due brani degli anni 80 (Perfect Waters e Lips In The Hills). Ma soprattutto c’è una fulgida rilettura della splendida Astronomy, spettacolare rock ballad che per il sottoscritto è la migliore canzone di sempre della band newyorkese, qui ulteriormente impreziosita da un superlativo finale chitarristico https://www.youtube.com/watch?v=NegQGi20oCk . Il DVD allegato contiene 19 brani contro i 13 del CD, ma inspiegabilmente lascia fuori proprio Astronomy.

blue oyster cult live at rock of ages festival 2016

Facciamo un salto in avanti di 14 anni per il live inedito al Rock Of Ages Festival: Bloom e Roeser sono sempre in sella al gruppo, lo scomparso Lanier è sostituito da Richie Castellano e la sezione ritmica è formata da Kasim Sulton e Jules Radino. Altro concerto di ottimo livello ed inciso in maniera spettacolare (e qui il DVD ha un brano in meno rispetto al CD), con il rock’n’roll a farla da padrone ancora più del solito. Ci sono sette pezzi in comune con A Long Day’s Night, mentre tra le altre segnalo l’iniziale This Ain’t The Summer Of Love, versione impeccabile e trascinante, una potentissima The Golden Age Of Leather, con bella introduzione corale a cappella, la travolgente ME 262, puro rock’n’roll sotto steroidi, e soprattutto una formidabile Then Came The Last Days Of May, rock ballad di dieci minuti caratterizzata da una prestazione micidiale da parte di Buck Dharma https://www.youtube.com/watch?v=AtZxgU3Ddmo . Credo a questo punto che la scorpacciata di ostriche blu sia finita con queste due uscite, e spero vivamente che nessuno abbia fatto indigestione.

Marco Verdi

Un Cofanetto “Vorrei Ma Non Posso” Per Una Band Dal Glorioso Passato (E Dal Solido Presente). Uriah Heep – 50 Years In Rock

uriah heep 50 years in rock front

Uriah Heep – 50 Years In Rock – Sanctuary/BMG 23CD/LP Box Set

Tra le varie celebrazioni del 2020 c’è stata anche quella, passata un po’ in sordina, dei 50 anni di carriera degli Uriah Heep, storica band hard rock londinese che nei primi anni 70 era considerata una delle quattro pietre angolari del genere insieme a Led Zeppelin, Deep Purple e Black Sabbath, anche se sia come successo che come popolarità sono sempre stati uno o due gradini sotto i tre gruppi appena citati. Almeno nei loro primi anni però gli Uriah Heep (che hanno preso il nome da un personaggio del David Copperfield di Charles Dickens) hanno sfornato alcuni album di grande levatura, con uno stile che fondeva mirabilmente hard rock e prog grazie all’uso marcato delle tastiere, che nell’economia del gruppo hanno sempre avuto quasi la stessa importanza della chitarra: il nucleo iniziale era formato dal tastierista e principale songwriter Ken Hensley, rimasto per tutta la prima decade (e morto lo scorso 4 novembre a seguito di una grave malattia), il chitarrista Mick Box, unico presente in tutti gli album della band, ed il cantante David Byron, possessore di un’ugola potente che lo faceva rientrare nella stessa categoria di “screamers” come Ian Gillan e Bruce Dickinson, mentre la sezione ritmica è quella che negli anni ha subito più avvicendamenti.

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Lo scorso ottobre la BMG per celebrare il mezzo secolo dei nostri (attivi ancora oggi), ha pubblicato 50 Years In Rock, un monumentale cofanetto di ben 23 CD (ed un LP, contenente il classico album The Magician’s Birthday con la copertina ridisegnata da Roger Dean – famoso per gli artwork dei dischi degli Yes – autore anche della cover originale): il box, che contiene (quasi) tutta la discografia degli Heep più quattro CD extra, presenta però diverse magagne non di poco conto, la cui gravità è secondo me amplificata dall’alto costo richiesto (tra i 165 ed i 200 euro a seconda dei vari siti), e che vi vado ad elencare brevemente prima di addentrarmi nei contenuti. 1: intanto non è vero che ci sono tutti i dischi, dato che l’unico live incluso è quello famoso del 1973, e poi mancano i due album del corrente millennio nei quali la formazione attuale ha reinciso i vecchi classici, cioè Remasters: The Official Anthology del 2001 (poi ristampato nel 2015 con il titolo Totally Driven) e Celebration del 2009. 2: i dischetti non sono stati rimasterizzati per l’occasione, e non contengono neppure mezza bonus track, cosa che rende il cofanetto appetibile solo per chi, come il sottoscritto, non possiede tutta la discografia completa, dato che i neofiti si accontenteranno di una delle mille antologie sul mercato.

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3: il consueto libro incluso è pieno al 90% di foto e come testi si limita alle varie lineup del gruppo oltre a quattro brevi introduzioni dei curatori del progetto (Box, Hensley, il primo bassista Paul Newton ed il batterista di lungo corso Lee Kerslake, anch’egli scomparso nel 2020); inoltre, la grafica delle copertine dei CD è davvero pessima, in quanto sembrano fotocopie di bassa qualità degli originali. 4: alcuni album sono stati accoppiati con la formula “due LP in un CD”, e fin qui nulla di male, peccato che si sia scelto di “fondere” insieme le due copertine creando degli ibridi abbastanza inguardabili, e non, come è stato correttamente fatto solo per Demons And Wizards e The Magician’s Birthday, metterne una sul fronte e l’altra sul retro. 5: la magagna più grave: i quattro CD finali sono in realtà quattro compilation “esclusive” con la scelta delle canzoni preferite dei quattro curatori, ma non in versioni alternate o live ma nelle stesse già sentite nei primi 19 dischetti! In pratica quattro aggiunte totalmente inutili (e pure con diverse ripetizioni tra uno e l’altro), quando sarebbe bastato inserire b-sides, rarità e magari un paio di concerti inediti.

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Ma veniamo ad un breve excursus sulla discografia contenuta nel box, un percorso di alti e bassi che ha però nel periodo 1970-73 una striscia di album di grande profilo, a partire dall’esordio …Very ‘Eavy…Very ‘Umble del 1970, disco con una delle copertine più orrorifiche dell’epoca (che ritrae un irriconoscibile Byron agonizzante e coperto di ragnatele) ma con pezzi hard rock di altissimo livello come Gypsy, la potente e riffata Walking In Your Shadow, il blues afterhours Lucy’s Blues, con Hensley strepitoso all’organo, la saltellante Dreammare e la suggestiva ballata Come Away Melinda, primo classico della band https://www.youtube.com/watch?v=KzylV7LpDyM . Salisbury del 1971 si apre alla grande con l’epica Bird Of Prey e si chiude con la maestosa suite di sedici minuti che intitola il disco (con l’accompagnamento di un’orchestra di 24 elementi); in mezzo, la nota Lady In Black che mostra il lato soft, romantico e folkeggiante dei nostri, bissata dall’affascinante The Park, nella quale Byron fornisce una prova vocale notevole https://www.youtube.com/watch?v=C3C8HnBT_lg . Look At Yourself, ancora del ’71, è un altro album eccelso, che vede in pratica Hensley unico compositore: la trascinante title track, tra i pezzi migliori di sempre del gruppo, e la straordinaria rock ballad July Morning sono classici assodati, ma non vanno trascurate le roboanti I Wanna Be Free e Love Machine e la “leggera” What Should Be Done https://www.youtube.com/watch?v=kk5K6L2OPj4 .

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Demons And Wizards (1972, anche questo con la copertina di Roger Dean) è forse insieme al seguente il lavoro più famoso di Box e compagni, con la galoppante Easy Livin’ che è uno dei loro brani più conosciuti. Ottime anche la fascinosa The Wizard, Traveller In Time, Circle Of Hands, Rainbow Demon ed il boogie The Spell, ma non c’è un solo momento sottotono https://www.youtube.com/watch?v=hBAZLERYy7M . The Magician’s Birthday, sempre del 1972, ha in Sweet Lorraine un’altra canzone decisamente popolare, ma anche rock songs potenti ed epiche come Sunrise, Echoes In The Dark e la title track https://www.youtube.com/watch?v=A6mK7HKC8lI . La prima fase della carriera dei nostri si chiude nel 1973 con il noto Uriah Heep Live, registrato alla Town Hall di Birmingham ed uno dei grandi dischi dal vivo degli anni 70, con magnifiche riletture di Sweet Lorraine, Traveller In Time, Easy Livin’, July Morning, Tears In My Eyes e Look At Yourself, oltre ad un trascinante rock’n’roll medley di otto minuti che comprende Roll Over Beethoven, Blue Suede Shoes, Whole Lotta Shakin’ Goin’ On, Mean Woman Blues, Hound Dog e At The Hop https://www.youtube.com/watch?v=2NlqM8FPT1Y&list=PLO2DpnSLxoYXnY7Et3EvUw2ac1pBGwrgz .

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Con Sweet Freedom del 1973 gli Heep iniziano ad esplorare sonorità leggermente più radiofoniche che ne faranno l’album il più venduto della loro discografia https://www.youtube.com/watch?v=znmgVKSBnXc , e lo stesso sound proseguirà in Wonderworld del 1974, un gradino sotto come qualità, e nel riuscito Return To Fantasy del 1975: in questi tre album trovano posto canzoni piacevoli e molto poco hard come Dreamer, Stealin’, One Day, Sweet Freedom, So Tired, Prima Donna, la pop ballad The Easy Road e la “californiana” Your Turn To Remember, in cui più che gli Uriah Heep sembra di ascoltare gli Eagles https://www.youtube.com/watch?v=2o-CSc0j3dE . Ma comunque i cinque non hanno perso il tono epico, riscontrabile in Pilgrim, Return To Fantasy e nella bluesata I Won’t Mind. I restanti album della decade vedono un ulteriore ammorbidimento dei toni, con la comparsa del synth ed un suono a metà tra Toto e Boston: High And Mighty del 1976 sarà anche l’ultimo album con Byron, che verrà sostituito nei seguenti Firefly, Innocent Victim (entrambi del 1977) e Fallen Angel del ’78 da John Lawton, un buon vocalist dall’impostazione più teatrale. Non mancano anche in questi lavori i brani ottimi, come Can’t Keep A Good Band Down, Make A Little Love, Keep On Ridin’, Do You Know, la maestosa Choices, in cui Lawton sembra Ronnie James Dio, e Free Me, che sarà anche soft rock ma è indubbiamente splendida https://www.youtube.com/watch?v=lK45E6zfJeA .

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A quel punto però nel gruppo iniziano i tumulti seri: Lawton se ne va ed anche Hensley non è più tanto felice di stare ancora nella band, e quindi l’album Conquest del 1980 (con il tastierista che ha già un piede fuori) si rivela il più debole dei nostri fino a quel momento, a causa anche del nuovo cantante John Sloman, non esattamente un fuoriclasse. A questo punto Box decide di rifondare il gruppo e si affida al ritorno di Kerslake dietro i tamburi e ad un altro vocalist, Peter Goalby, che resta per tre album. Il problema di Abominog (1982), Head First (1983) e Equator (1985, anno in cui muore Byron) è che seguono al 100% il trend pop metal (o hair metal) tipico della decade, con canzoni piene di sintetizzatori e big drum sound, una veste sonora che si addice ben poco agli Heep specie se paragonata a quella di inizio carriera. E pure come band hair metal in giro c’è di meglio, e quindi i vecchi fans, dopo aver relativamente premiato Abominog che ha vendite discrete, li abbandonano senza essere rimpiazzati da nuovi estimatori. Raging Silence del 1989 è importante solo perché introduce il nuovo cantante Bernie Shaw (una sorta di clone di Byron) ed il tastierista Phil Lanzon, entrambi in sella ancora oggi, ma il disco prosegue il trend sonoro dei suoi predecessori, ed ancora più pop è Different World del 1991, dove in parecchi brani il quintetto suona meno rock di Sting (e ho detto tutto).

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Sea Of Light del 1995 (terzo disco con la copertina disegnata da Dean) segna un sorprendente ritorno ad atmosfere più classiche, con la chitarra di Box più in evidenza e canzoni migliori https://www.youtube.com/watch?v=jnNghFBupVg , e lo stesso fa Sonic Origami del 1998 seppur piazzandosi un gradino sotto. A questo punto gli Heep si prendono una pausa discografica di ben dieci anni, ripresentandosi nel 2008 con Wake The Sleeper, finalmente un album di rock duro e puro che rimanda direttamente all’età d’oro della band, anche se sembra quasi che si sia dato più spazio ai muscoli che alla scrittura delle canzoni. Molto meglio saranno i seguenti tre lavori (Into The Wild, 2011, Outsider, 2014, e Living The Dream, 2018), ottimi album di puro hard rock classico ben bilanciati tra energia e fruibilità, nonostante il suono più che gli Heep ricordi i Deep Purple, anche per la voce “gillaniana” di Shaw. 50 Years In Rock, a parte le contraddizioni di un progetto “vorrei ma non posso” o forse ancora meglio “potrei ma non voglio”, contiene quindi al suo interno diversa ottima musica specie nei primi otto-dieci CD e negli ultimi tre (se vi piace il genere, ovvio), ed è un modo seppur costoso di rievocare l’epopea degli Uriah Heep, una grande band oggi un po’ dimenticata.

Marco Verdi

Il Solito Album, Bravo Chitarrista Ma Non Basta. Tyler Bryant & The Shakedown – Pressure

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Tyler Bryant & The Shakedown – Pressure – Snakefarm/Spinefarm Records/Universal

Avendo recensito in pratica tutti i precedenti album di Tyler Bryant con i suoi Shakedown https://discoclub.myblog.it/2019/08/29/per-gli-amanti-del-rock-robusto-magari-non-raffinatissimo-tyler-bryant-and-the-shakedown-truth-and-lies/ , proseguo con il filotto anche con questo quarto Pressure, e non posso che ripetermi: le potenzialità ci sarebbero, la band texana, ma di stanza a Nashville, ha tutte le carte in regola per fare del buon rock, un chitarrista, lo stesso Tyler, non ancora trentenne, considerato tra i migliori axeman in circolazione, sponsorizzato agli inizi da Jeff Beck, con un sound che però rimane sempre pericolosamente in bilico tra blues-rock e hard-rock, pendendo però verso il secondo, grazie anche alle frequentazioni verso il circuito live di questo genere (anche se ora si sono dovute fermare le tournéè ovunque) e Bryant e soci, durante la quarantena hanno deciso di registrare questo nuovo album, proprio a casa di Tyler: nuovo bassista Ryan Fitgerald, mentre il batterista Caleb Crosby e il secondo chitarrista Graham Whitford (figlio di Brad degli Aerosmith) rimangono al loro posto. Nel nuovo album ci sono anche un paio di ospiti: Rebecca Lovell delle Larkin Poe (anche loro un duo secondo me irrisolto), che è la moglie di Bryant, e Charlie Starr dei Blackberry Smoke.

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L’iniziale Pressure a tutto riff e a tutto volume, dimostra che poco è cambiato, suono sempre tiratissimo e assolo di Tyler “esagerato”, che potrebbe indicare una sua candidatura al trono lasciato vacante da Eddie Van Halen, se amate il genere https://www.youtube.com/watch?v=UtuVZr1gzFA . Meglio la successiva Hitchhiker con il nostro amico che innesta il bottleneck per un brano dove il blues-rock prende il sopravvento, anche se la voce rimane sempre volutamente sguaiata https://www.youtube.com/watch?v=mZQ8xJEyjDk ; in Crazy Days arriva l’aiuto della Lovell alle armonie vocali, per un brano di rock classico che non è malaccio, una buona melodia e la solita tecnica alla slide del nostro amico. A seguire Backbone è un bluesazzo di quelli tosti e cattivi, con chitarra lavorata e soliti “omaggi” all’amato sound del maestro Jeff Beck (ma ce ne vuole), Holdin’ My Breath, pur con le evoluzioni della solista, rimane sempre dalle parti della metallurgia, anche con l’aiuto di Charlie Starr alla seconda voce e chitarra, benché alla fine non mi dispiaccia, la grinta non manca e anche una certa perizia, molto meglio di tanti carneadi che popolano queste latitudini sonore solo per fare casino, senza arte né parte https://www.youtube.com/watch?v=xhlX_Xp7o1I . E poi, ohibò, spunta addirittura una chitarra acustica per Like The Old Me, una sobria e malinconica ballata che illustra il lato più romantico del nostro amico.

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Da qui in avanti, forse per risparmiare sulle parole, tutti i titoli delle canzoni sono composti da una sola parola: una “riffatissima” Automatic che mi ha ricordato il vecchio classic rock anni ‘70 di Ted Nugent (ma non a quei livelli), Wildside, meno rocciosa e più vicina a un AOR di discreta fattura, sempre retto dal lavoro delle chitarre, Mysery è uno slow blues rock elettroacustico, sempre con uso slide, genere che gli vorremmo vedere frequentare con più impegno, esagero, qualche traccia dei vecchi Aerosmith https://www.youtube.com/watch?v=5xYKswewScc . Ma è un attimo, in Fuel ricominciano a picchiare riff a volontà, prima di placarsi di nuovo in Loner, che poi ha comunque un crescendo radiofonico nella seconda parte grazie a un bel lavoro della solista di Bryant. Fever ha di nuovo una partenza alla Beck, ma è il Jeff dell’ultimo periodo, quello che spesso si perde alla ricerca di inutili “modernismi” sonori e pure Tyler lo segue, per poi concederci una sobria Coastin’, con voce e slide alla ricerca del blues perduto. Insomma, bravo chitarrista, ma non basta.

Bruno Conti

E Finalmente E’ Arrivato Il Dessert! Blue Oyster Cult – The Symbol Remains

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Blue Oyster Cult – The Symbol Remains – Frontiers CD

I Blue Oyster Cult, band americana da sempre tra i gruppi di punta dell’età d’oro del “classic rock” anni 70, fino allo scorso anno erano fermi discograficamente al live del 2002 A Long Day’s Night, ma quest’anno hanno recuperato il tempo perduto con gli interessi. Infatti da gennaio in poi i BOC hanno ristampato per l’etichetta nostrana Frontiers i loro tre ultimi lavori di studio (Cult Classic del 1994, Heaven Forbid del 1998 e Curse Of The Hidden Mirror del 2001) e pubblicato ben quattro live album inediti, il tutto per preparare i fans al piatto forte di questa sorta di menu degustazione che era il tanto atteso nuovo album di inediti, il primo in 19 anni. Fino a qualche anno fa sembrava che ad Eric Bloom e Donald “Buck Dharma” Roeser, cioè gli unici due membri fondatori ancora nel gruppo, non interessasse affatto scrivere ed incidere nuovo materiale, ma negli ultimi tempi i due hanno cambiato opinione decidendo di regalare ai loro estimatori almeno un’ultima testimonianza in studio e hanno cominciato con molta calma (pare nel 2017) a lavorarci.

Il risultato è ora nelle nostre mani, un disco nuovo di zecca intitolato The Symbol Remains (sulla cui copertina campeggia il loro ben noto logo, trasformato in una sorta di devastante “wrecking ball”), un riuscito album che mischia come d’abitudine dei nostri hard rock di elevata potenza a brani più moderati ed orecchiabili e che si rivela come il loro lavoro migliore da molto tempo a questa parte (NDM: penso che ora che è uscito il nuovo CD la prevista ristampa di A Long Day’s Night e l’ennesimo live inedito registrato in Germania nel 2016 slittino a data da destinarsi). Bloom e Roeser sono accompagnati dal chitarrista Richie Castellano, da diversi anni nella band ma all’esordio su un disco in studio, dal bassista Danny Miranda (già coi BOC dal 1995 al 2004 e poi di nuovo dal 2017) e dal batterista Jules Radino, nel gruppo dal 2004. The Symbol Remains è un disco di puro rock fatto alla maniera classica, un lavoro decisamente energico e con le ballate ridotte al minimo, 14 canzoni forse non tutte allo stesso livello e che forse non riprendono la magia delle incisioni dei primi quattro album dei nostri, ma che, Imaginos a parte che era un mezzo capolavoro fuori tempo massimo, vanno a formare il loro album più riuscito almeno da Fire Of Unknown Origin.

E questo nonostante il fatto che The Symbol Remains sia un disco “democratico”, dove cioè per quanto riguarda la composizione Roeser e Bloom lasciano spesso spazio a Castellano (che scrive ben quattro pezzi da solo) e perfino a Tadino, mentre i testi sono in buona percentuale opera dello scrittore sci-fi John Shirley, collaboratore della band da diversi anni; tra i tanti musicisti ospiti del CD c’è anche il loro ex compagno Albert Bouchard, che in That Was Me suona la “mitica” cowbell (se volete sapere perché mitica andate su Google e cercate “Blue Oyster Cult – more cowbell – Saturday Night Live). E proprio con That Was Me inizia l’album, una hard rock song potente e dal riff martellante, un avvio molto energico quasi alla Alice Cooper che ci mostra in maniera prepotente che i nostri non sono dei vecchietti che cercano di rimpolpare la pensione. La tipica voce melodiosa di Roeser (che per tutto il disco si alterna con quella più grintosa di Bloom, e pure Castellano ci fa ascoltare il suono della sua ugola) introduce Box In My Head, sempre con ritmo e chitarre in primo piano ma un motivo più strutturato e fruibile, come è nello stile dei nostri dopotutto. Tainted Blood è una rock ballad un po’ AOR, ma con le chitarre al posto dei synth ed un ritornello corale che sembra preso da un disco dei Toto, il tutto piuttosto ben fatto: questi sono i BOC targati 2020, e tutto sommato visto certo ciarpame che c’è in giro stiamo parlando di musica rock eseguita con classe.

Nightmare Epiphany è saltellante e frenetica, meno incisiva dal punto di vista dello script ma che dal vivo farà la sua figura (e Roeser si dimostra un axeman coi fiocchi con un finale pirotecnico), Edge Of The World è una giusta mediazione tra rock duro e melodia, che è sempre stata la caratteristica del sound dei BOC ma qui sembrano crederci di più rispetto ad altre volte; The Machine è introdotta dallo squillo di un cellulare ma poi entra un riff chitarristico godurioso ed il pezzo si rivela una rock’n’roll song tra le più dirette del CD. Rock’n’roll che continua con la tosta e trascinante Train True (Lenny’s Song), tutta ritmo e chitarre (Buck Dharma è nel suo ambiente naturale), ed il tiro non si abbassa neppure con The Return Of St. Cecilia, che anzi ha un drumming ed una serie di riff quasi punk, stemperati solo dal refrain corale. Stand And Fight ha un intro di basso e chitarra pesantissimo, siamo quasi dalle parti dei Metallica, ma per fortuna la voce è diversa e quindi il brano prende una direzione differente pur confermandosi il più duro del disco; la morbida Florida Man, gradevole e dal sapore più pop (bello questo saltellare tra uno stile e l’altro con disinvoltura) precede la lunga The Alchemist, indicato come uno dei pezzi centrali del progetto, una canzone epica con un testo preso in parte da un’opera di H.P. Lovecraft e che per struttura ed andatura melodica ricorda (volutamente?) la mitica Astronomy, pur non arrivando certo a quel livello (però sentite come arrota Roeser). La ritmata e piacevole Secret Road è una boccata d’aria fresca e prelude alle conclusive There’s A Crime, riffatissima ma non imperdibile, ed all’elegante Fight, ancora leggermente AOR ma di quello giusto.

Non so se nel calendario cinese il 2020 sia “l’anno dell’ostrica”, di sicuro lo è in quello del classic rock d’annata, con ottobre come mese più importante.

Marco Verdi

Ma Lassù Avevano Bisogno Di Un Chitarrista? A 65 Anni Ci Ha Lasciato Eddie Van Halen.

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Anche se questo blog tratta solo saltuariamente di hard rock classico degli anni 70 (e spesso su indicazioni del sottoscritto), data l’importanza e la popolarità del personaggio Bruno mi ha invitato a scrivere un breve ricordo: è scomparso ieri a Santa Monica all’età di appena 65 anni Edward Lodewijk Van Halen, meglio conosciuto come Eddie Van Halen, dopo una purtroppo inutile battaglia contro un cancro alla gola. Di origini olandesi, Eddie emigrò con la famiglia a Pasadena, California, all’età di sette anni, ed iniziò presto ad appassionarsi alla musica rock insieme al fratello Alex dopo aver ascoltato fino alla noia Jimi Hendrix e Led Zeppelin; dotato di un talento innato, Eddie divenne presto un chitarrista prodigio e formò nel 1972 una band con Alex (che suonava la batteria) che solo due anni dopo ribattezzò Van Halen, riuscendo da subito a suonare in location leggendarie come il Whiskey A Go Go di Los Angeles, dove venne presto notato da emissari della Warner che fecero firmare al gruppo un contratto discografico.

La band (che era completata dal bassista Michael Anthony e soprattutto dal gigionesco cantante David Lee Roth, vero animale da palcoscenico) esordì quindi nel 1978 con l’omonimo Van Halen, un album di hard rock che coniugava tecnica, canzoni coinvolgenti ed appeal radiofonico un po’ come facevano nello stesso periodo in Inghilterra gli Whitesnake, ma soprattutto rivelava l’incredibile talento chitarristico di Eddie, un vero portento della sei corde che in pochi anni diventerà uno degli axemen più influenti della sua generazione (ed anche dei più copiati), e che univa una tecnica sopraffina ad una grande velocità di esecuzione: in particolare Eddie era un maestro nell’arte del “tapping”, che consisteva nel suonare le corde sul manico della chitarra con la mano destra (per lui che era destrorso), “pigiandole” come se fossero i tasti di un pianoforte, stile esemplificato nella celebre Eruption.

Il primo album entrò subito nella Top 20 ed un buon successo ebbe anche il primo singolo, una cover del classico dei Kinks You Really Got Me: una delle ragioni della loro popolarità risiedeva nel fatto che in quel periodo gran parte di un certo tipo di musica hard rock veniva dal Regno Unito, mentre in America oltre a Kiss e Aerosmith non c’era molto, ed i Van Halen diedero in un certo senso il la al cosiddetto movimento “hair metal” che spopolerà nella Los Angeles degli anni ottanta. I nostri ebbero quindi ancora più successo con gli album seguenti, Van Halen II, Women And Children First, Fair Warning e Diver Down, uno per anno dal 1979 al 1982, ma la popolarità mondiale arriverà due anni dopo con l’LP 1984 ed il singolo spacca-classifiche Jump, un brano che personalmente non ho mai amato in quanto infarcito di sintetizzatori e troppo “pop” per i miei gusti.

I nostri però erano ormai nell’olimpo delle band più famose, ed Eddie cominciava ad essere un chitarrista molto ambito (celebre la sua partecipazione a Thriller di Michael Jackson nel brano Beat It), ma con il successo cominciarono ad arrivare le prime frizioni che porteranno Roth ad abbandonare il gruppo e ad essere sostituito da Sammy Hagar (ex voce dei Montrose), che non aveva il carisma di David e risultava anche più sguaiato. Ma 5150 del 1986 sarà ancora più venduto di 1984, ed andranno più che bene anche i successivi tre lavori (fino a Balance del 1995), anche se il crescente movimento grunge, fatale a molte band anni 80, sposterà l’attenzione anche dai Van Halen. Un tentativo di reunion con Gary Cherone degli Extreme come cantante (Van Halen III, 1998) andrà benino ma non benissimo, ed i nostri rimarranno silenti fino al sorprendente ritorno con Roth al microfono nel 2012 con A Different Kind Of Truth, album in cui l’unico membro non facente parte della famiglia Van Halen era proprio David, dato che al basso Anthony aveva ceduto il posto al figlio di Eddie, Wolfgang https://www.youtube.com/watch?v=3WfQ-hV3WtA .

Proprio nel 2012 Eddie, che negli anni passati tra alcol e droghe non si era fatto mancare nulla, inizia ad avere problemi di diverticoli (ma aveva già debellato un cancro alla lingua nel 2000), e nel 2019 comincerà la sua battaglia purtroppo persa contro il tumore alla gola. Resta la testimonianza di un grandissimo della chitarra, fedele fino alla fine alla band da lui creata (non ha mai pubblicato nulla al di fuori dei Van Halen), e che ora allieterà le serate degli abitanti del Paradiso insieme a molti altri suoi colleghi.

Marco Verdi