Il Solito Album, Bravo Chitarrista Ma Non Basta. Tyler Bryant & The Shakedown – Pressure

tyler bryant & the shakedown pressure

Tyler Bryant & The Shakedown – Pressure – Snakefarm/Spinefarm Records/Universal

Avendo recensito in pratica tutti i precedenti album di Tyler Bryant con i suoi Shakedown https://discoclub.myblog.it/2019/08/29/per-gli-amanti-del-rock-robusto-magari-non-raffinatissimo-tyler-bryant-and-the-shakedown-truth-and-lies/ , proseguo con il filotto anche con questo quarto Pressure, e non posso che ripetermi: le potenzialità ci sarebbero, la band texana, ma di stanza a Nashville, ha tutte le carte in regola per fare del buon rock, un chitarrista, lo stesso Tyler, non ancora trentenne, considerato tra i migliori axeman in circolazione, sponsorizzato agli inizi da Jeff Beck, con un sound che però rimane sempre pericolosamente in bilico tra blues-rock e hard-rock, pendendo però verso il secondo, grazie anche alle frequentazioni verso il circuito live di questo genere (anche se ora si sono dovute fermare le tournéè ovunque) e Bryant e soci, durante la quarantena hanno deciso di registrare questo nuovo album, proprio a casa di Tyler: nuovo bassista Ryan Fitgerald, mentre il batterista Caleb Crosby e il secondo chitarrista Graham Whitford (figlio di Brad degli Aerosmith) rimangono al loro posto. Nel nuovo album ci sono anche un paio di ospiti: Rebecca Lovell delle Larkin Poe (anche loro un duo secondo me irrisolto), che è la moglie di Bryant, e Charlie Starr dei Blackberry Smoke.

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L’iniziale Pressure a tutto riff e a tutto volume, dimostra che poco è cambiato, suono sempre tiratissimo e assolo di Tyler “esagerato”, che potrebbe indicare una sua candidatura al trono lasciato vacante da Eddie Van Halen, se amate il genere https://www.youtube.com/watch?v=UtuVZr1gzFA . Meglio la successiva Hitchhiker con il nostro amico che innesta il bottleneck per un brano dove il blues-rock prende il sopravvento, anche se la voce rimane sempre volutamente sguaiata https://www.youtube.com/watch?v=mZQ8xJEyjDk ; in Crazy Days arriva l’aiuto della Lovell alle armonie vocali, per un brano di rock classico che non è malaccio, una buona melodia e la solita tecnica alla slide del nostro amico. A seguire Backbone è un bluesazzo di quelli tosti e cattivi, con chitarra lavorata e soliti “omaggi” all’amato sound del maestro Jeff Beck (ma ce ne vuole), Holdin’ My Breath, pur con le evoluzioni della solista, rimane sempre dalle parti della metallurgia, anche con l’aiuto di Charlie Starr alla seconda voce e chitarra, benché alla fine non mi dispiaccia, la grinta non manca e anche una certa perizia, molto meglio di tanti carneadi che popolano queste latitudini sonore solo per fare casino, senza arte né parte https://www.youtube.com/watch?v=xhlX_Xp7o1I . E poi, ohibò, spunta addirittura una chitarra acustica per Like The Old Me, una sobria e malinconica ballata che illustra il lato più romantico del nostro amico.

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Da qui in avanti, forse per risparmiare sulle parole, tutti i titoli delle canzoni sono composti da una sola parola: una “riffatissima” Automatic che mi ha ricordato il vecchio classic rock anni ‘70 di Ted Nugent (ma non a quei livelli), Wildside, meno rocciosa e più vicina a un AOR di discreta fattura, sempre retto dal lavoro delle chitarre, Mysery è uno slow blues rock elettroacustico, sempre con uso slide, genere che gli vorremmo vedere frequentare con più impegno, esagero, qualche traccia dei vecchi Aerosmith https://www.youtube.com/watch?v=5xYKswewScc . Ma è un attimo, in Fuel ricominciano a picchiare riff a volontà, prima di placarsi di nuovo in Loner, che poi ha comunque un crescendo radiofonico nella seconda parte grazie a un bel lavoro della solista di Bryant. Fever ha di nuovo una partenza alla Beck, ma è il Jeff dell’ultimo periodo, quello che spesso si perde alla ricerca di inutili “modernismi” sonori e pure Tyler lo segue, per poi concederci una sobria Coastin’, con voce e slide alla ricerca del blues perduto. Insomma, bravo chitarrista, ma non basta.

Bruno Conti

Per Gli Amanti Del Rock “Robusto”, Magari Non Raffinatissimo. Tyler Bryant And The Shakedown – Truth And Lies

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Tyler Bryant And The Shakedown – Truth And Lies – Spinefarm Records

Il primo disco di Tyler Bryant con gli Shakedown, Wild Child, pubblicato nel 2013, era stato preceduto da un potente battage pubblicitario e da una sorta di sponsorizzazione da parte di vari artisti famosi, da Eric Clapton a Jeff Beck, passando per Vince Gill, che ne avevano parlato come di un nuovo fenomeno della chitarra, una sorta di erede di Stevie Ray Vaughan. Il ragazzo è bravo, ma come testimonia la presenza nella band del secondo chitarrista Graham Whitford, figlio di Brad, degli Aerosmith, il tipo di sound a cui dobbiamo riferirci è quello: anche se sono originari del Texas, operano in quel di Nashville, una delle principali capitali della musica americana commerciale, niente country, ma un suono decisamente mainstream,che partendo dal rock-blues vira spesso verso un hard rock alquanto di maniera, come testimoniato dal primo album, buono senza entusiasmare, passando per il “difficult” second album che quattro anni dopo aveva certificato più che progressi qualche passo indietro https://discoclub.myblog.it/2018/01/17/il-famoso-secondo-difficile-album-tyler-bryant-the-shakedown-tyler-bryant-the-shakedown/ .

In questo terzo disco non si cambia, il mio parere è personale ovviamente: se amate il vostro rock hard and heavy probabilmente qui troverete pane per i vostri denti. Insomma siamo più sul versante rock-blues che su quello blues-rock, discrimine sottile ma efficace per inquadrare i quattro giovanotti, che dal vivo sono sicuramente efficienti e coinvolgenti, ma nei dischi di studio convincono di meno. Per restare nella similitudine con gli Aerosmith, siamo più verso quelli commerciali e “tamarri” (no, quello lo sono sempre stati) della seconda parte della carriera rispetto ai “nuovi Stones americani” degli anni ’70, richiami a Led Zeppelin, Yardbirds e soci ci sono sempre, ma molto più tenui, a favore di un rock appunto più di maniera e da classifica, manca mi sembra quel guizzo o quel tocco melodico di classe, anche se l’impegno però  non manca, paiono gli stessi difetti dei dischi meno riusciti di Black Keys e Gary Clark Jr.

L’iniziale Shock And Awe, uno dei due singoli, oscilla tra Led Zeppelin, riif alla Jeff Beck era Yardbirds e un hard più convenzionale, sempre infarcito di coretti che vorrebbero ampliarne l’appeal commerciale, e le sferzate della solista di Tyler Bryant; On To The Next,  il secondo singolo, riff e lavoro della batteria molto nerboruti, voce filtrata e minacciosa e improvvise scariche chitarristiche, rimane sempre sulle stesse coordinate e applica la stessa formula Hard rock. Ride è più lenta e cadenzata, chitarra leggermente distorta ed acida, ma sempre quella sensazione di canzoni parzialmente irrisolte, nonostante il lavoro del produttore newyorchese Joel Hamilton ( buon pedigree, ha lavorato anche con Black Keys e Tom Waits); non manca qualche ballatona come Shape I’m In, intro acustica e poi un buon crescendo melodico che sfocia nel solito assolo di Bryant, e anche Judgement Day ricorda quelle ballate un po’ ruffiane alla Aerosmith.

Eye To Eye e Panic Button tornano a virare sul classico hard rock della band, sempre più anni ’90 che anni ’70, gli assoli torcibudella di Tyler non sempre bastano ad alzare del tutto la qualità di una musica a tratti abbastanza scontata. Drive Me Mad con qualche richiamo ai Deep Purple di Fireball è più vivace e mossa, ma Without You torna nel rock routinario, al di là di un assolo formidabile del giovane Bryant. Trouble è un’altra ballata mid-tempo con vaghi accenni blues, mentre Out There con i suoi accenti acustici quanto meno indica un tentativo di tentare altre strade sonore e offre un buon lavoro in modalità slide della chitarra, poi subito dimenticati nella bombastica Cry Wolf e nella pretenziosa Couldn’t See The Fire. Insomma siamo sempre dalle parti del secondo album: bravo chitarrista, tanta grinta e se siete in astinenza da hard-rock potere provare questa specialità, molto fuoco, ma ogni tanto l’arrosto sa di bruciato, più bugie che verità, comunque le virtuali tre stellette di stima ed incoraggiamento per l’impegno mostrato.

Bruno Conti

Il Famoso “Secondo Difficile Album”. Tyler Bryant & The Shakedown – Tyler Bryant & The Shakedown

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Tyler Bryant & The Shakedown – Tyler Bryant & The Shakedown – Spinefarm Records

Dall’esordio Wild Child del 2013 sono passati quattro anni http://discoclub.myblog.it/2013/01/19/una-curiosa-coincidenza-tyler-bryant-the-shakedown-wild-chil/ , quindi i ragazzi texani (almeno il leader è nato laggiù) ma di stanza a Nashville, si sono presi tutto il tempo che occorreva per realizzare il famoso “secondo difficile album”, l’omonimo Tyler Bryant & The Shakedown. Tyler Bryant, chitarrista, cantante e autore dei brani (a rotazione con gli altri componenti della band, soprattutto il batterista Caleb Crosby), non è un più giovincello: l’ex ragazzo prodigio che divideva i palchi con Jeff Beck, Clapton, B.B King e Z.Z. Top, oggi ha 26 anni, ma dalla foto di copertina ne dimostra anche meno, e questo disco dovrebbe essere la conferma di quanto di buono (e meno buono) aveva messo in luce con il primo CD. Aiutato dal secondo chitarrista Graham Whitford (figlio di Brad, degli Aerosmith) e dal nuovo bassista Noah Denney (si sa i bassisti si cambiano spesso), Bryant propone il suo “solito” menu a base di rock-blues, hard rock e classic rock anni ’70 https://www.youtube.com/watch?v=oi1G1_j3hc8 , con risultati in parte apprezzabili per quanto non memorabili, la stoffa c’è, ma un occhio è fin troppo rivolto anche verso il mercato, pure in questi tempi dove la discografia annaspa si spera comunque di vendere, ed è umano. Le chitarre “riffano”, la sezione ritmica picchia, e Bryant e Whitford  si disbrigano con buona lena alle chitarre: i brani magari non sempre sono impeccabili, l’iniziale Heartland non è imparentata con il roots rock di Mellencamp, ma la successiva Don’t Mind The Blood sicuramente qualche spunto dai vecchi Yardbirds di Beck lo prende (e per osmosi dai loro seguaci Aerosmith), con accenti blues-rock e un groove sinuoso, mentre le chitarre iniziano a scaldare il motore.

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https://www.youtube.com/watch?v=menivpp5zzM

Jealous Me con voce filtrata e coretti fastidiosi si avvicina a quel rock misto a pop che ammorba le classifiche, omologato con altri mille brani simili che magari troveranno la loro strada in qualche futuro spot o colonna sonora, il sound della chitarra è interessante, ma basta? Con Backfire siamo dalle parti degli ZZ Top anni ’80, quelli più radiofonici e da MTV (entrambe in via di estinzione), meglio la bluesata Ramblin’ Bones dove Bryant imbraccia una acustica con bottleneck per un tuffo in un suono più roots, ma nulla per cui stracciarsi le vesti. Weak And Weepin’ è un bel rock and roll come usavano fare i vecchi Aerosmith, tutto ritmo e riff con le chitarre che imperversano, finalmente un po’ di vita sul pianeta Shakedown, Anche Manipulate Me più “atmosferica” e con qualche tocco glam, grazie alla voce particolare di Bryant, non è malaccio, con Easy Target che vira verso un rock-blues forse un po’ di maniera ma efficace nelle sue derive chitarristiche. Magnetic Field è la classica ballata che non può mancare in un disco come questo, forse un po’ irrisolta sia pure con il solito buon lavoro delle chitarre, che poi si scatenano nella dura Aftershock. Finale a sorpresa con le atmosfere sospese, leggermente psych, della conclusiva Into The Black. Mi sa che il secondo disco era “difficile” davvero, vedremo il prossimo: se siete proprio in astinenza da rock magari fateci un pensierino.

Bruno Conti