L’Album E’ Un Capolavoro: Ma Vale La Pena Il Costoso Box Per Gli Stessi 14 Brani Ripetuti 7 Volte. Più Qualche Jam? John Lennon Plastic Ono Band

john lennon plastic ono band frontjohn lennon plastic ono band box

John Lennon Plastic Ono Band The Ultimate Collection Super Deluxe Box – 6 CD/2 Blu-Ray Audio Apple/Universal – 2 CD – 2 LP

Come per i colleghi George, Paul & Ringo, il primo album da solista di John Lennon fu assolutamente consono alle aspettative dei fans dei Fab Four: un disco “non facile”, ma che negli anni ha acquistato la statura di un capolavoro, forse non a livello di vendite, che non furono straordinarie, quanto a livello critico, dove i giudizi furono quasi unanimemente molto positivi (con i soliti distinguo, per esempio ricordo Dave Marsh, uno bravo, che disse che l’album era meno avventuroso dell’opera di Yoko Ono, ci aggiungerei un per fortuna, senza voler essere troppo scontato). Un disco dal suono volutamente scarno e particolare, con John accompagnato solo da Ringo Starr e Klaus Voorman, bassista dallo stile decisamente diverso da quello di McCartney. La produzione era nelle mani dello stesso Lennnon, di Yoko (?!?) e di Phil Spector, qui molto più sobrio negli arrangiamenti dopo il pasticcio di Let It Be dei Beatles: quindi in pratica un disco in trio, con Lennon che suona chitarre e tastiere, con le sole eccezioni del piano in Love, suonato dallo stesso Spector e da Billy Preston in God.

Come più o meno tutti sanno l’album fu fortemente influenzato, a livello di testi, dalla esperienza che John aveva intrapreso seguendo la “primal therapy” di Arthur Janov, famoso psicologo e psicoterapeuta californiano, che però non venne completata in quanto nel frattempo scadde il permesso di soggiorno di Lennon per rimanere negli USA. Ma i temi salienti del disco, principalmente “l’abbandono” dei genitori, della mamma Julia in particolare, vennero fortemente esplorati nei testi di molte canzoni, ma anche Dio, l’amore, Gesù, Hitler, Buddha, Kennedy, Elvis. Zimmerman e i Beatles, tutta gente in cui non credeva più, citata nel testo della bellissima God. Poi, dopo il ritorno in Inghilterra, l’album venne registrato ad Abbey Road tra il 26 settembre e il 23 ottobre del 1970 e pubblicato l’11 dicembre, per cui è un altro caso di Anniversario 50+1, come l’imminente Déjà Vu.

L’antefatto furono i tre singoli, inseriti come bonus nel box e anche nelle versioni doppie: Give Peace A Chance, l’inno corale pacifista registrato nella camera di Hotel dell’albergo di Montreal il 1° giugno 1969, Cold Turkey, registrata agli Emi Studios di Londra il 30 settembre 1969, con Eric Clapton aggiunto alla chitarra solista, e Instant Karma (We All Shine On), registrata a fine gennaio del 1970, con Alan White alla batteria, al posto di Ringo, George Harrison e Billy Preston, il primo singolo di un ex componente dei Beatles a vendere un milione di copie negli Stati Uniti, senza peraltro raggiungere il primo posto nelle classifiche. Tre ottimi brani, anche loro riproposti in sette differenti versioni.

Facendo un riepilogo dei contenuti del cofanetto: abbiamo un bel libro rilegato di 132 pagine, il poster di War Is Over, 6 CD audio e 2 Blu-Ray, che contengono un totale di 159 nuovi mix delle 11 canzoni del disco originale, inclusi i singoli, oltre ad una ventina di brani tra classici del R&R, due pezzi dei Beatles, qualche pezzo di Yoko, che non citerò (mi dispiace, ma ridateci Cynthia). Mentre i 6 CD audio contengono “solo” i 14 brani in diverse takes, suddivise in The Ultimate Mixes, The Out-Takes, The Element Mixes, The Raw Studio Mixes, The Evolution Documentary Soundtrack, The Jams And The Demos. Confesso che, pur essendo un grande fans dei Beatles e di Lennon, ho fatto parecchia fatica a sentire questa caterva di ripetizioni, sia pure spalmata in ascolti effettuati in diversi giorni. Comunque il suono è eccellente, specie nelle versioni in Dolby Atmos o Hi-Res presenti nei Blu-ray, ma anche i CD suonano bene, con una definizione eccellente.

Si diceva del capolavoro che è l’album originale, aperto con la catartica Mother, l’unico brano ad essere estratto come singolo: quattro tocchi di una campana funeraria aprono la canzone, poi entra il canto appassionato di John in grande forma vocale, anche in leggero falsetto a tratti e con un leggero eco applicato, sostenuto dalla ritmica marcata e scandita, quasi metronomica, con il piano rarefatto ed il ritmo che verso metà del brano inizia ad accelerare mentre la voce si incattivisce, fino alle urla quasi disperate della parte finale, uno dei 3-4 capolavori presenti nell’album, una canzone come raramente si era ascoltata, come impostazione sonora, fino ad allora. Hold On è uno dei rari brani positivi dell’album, su una ritmica agile, Lennon innesta la sua tremolo guitar, per un pezzo breve ma molto godibile. I Found Out torna al pessimismo di fondo delle canzoni di Plastic Ono Band, con i suoi richiami alle false religioni e idoli, John questa volta impiega una chitarra con il fuzz inserito che garantisce un suono più grintoso, quasi cattivo, tipico di molte sue canzoni con i Beatles, incalzante e con il basso di Voorman che trova un groove quasi colossale e fantastico.

Per molti il capolavoro assoluto del disco è Working Class Hero, canzone dal testo indimenticabile, intriso di idee “rivoluzionarie”, come disse lo stesso Lennon, forse lo stesso Dylan non fu mai così esplicitamente politico in una canzone, solo una voce, quella splendida di John e una chitarra acustica, e la parola “fucking” gettata ripetutamente e con noncuranza in faccia all’ascoltatore, per la prima volta in un disco mainstream. Isolation è una bellissima ballata pianistica sulle insicurezze portate dalla fama e dalla fortuna, brano che si infervora durante il suo svolgimento, con un Organo Hammond, sempre suonato da John, che arriva a metà brano e aggiunge profondità al suono. Remember apriva la seconda facciata del vecchio LP (e volendo anche del nuovo), un brano il cui riff di piano era già stato provato con i Beatles ai tempi in cui stavano incidendo Something di George Harrison, ma con un testo sempre fortemente influenzato dal lavoro di e con Janov, altro pezzo incentrato sul trio piano, basso e batteria sempre con un tempo pressante che man mano accelera, con il drumming inconfondibile di Ringo, ma ogni tanto si apre anche in brevi momenti più melodici tipici dell’arte sopraffina di Lennon come autore di canzoni, sempre con quel quid che solo i grandi avevano, anche il colpo di pistola finale (l’avrà chiesto a Spector?); Love, non c’è bisogno di dirlo, è una canzone su tutte le sfaccettature dell’amore, un tema che il nostro ha saputo maneggiare sempre con grande maestria, in questo caso bastano una chitarra acustica e il piano di Phil che va e torna, per ricreare le vecchia magia.

Well Well Well è uno dei pezzi più tirati, quasi da power trio, con lo spirito del vecchio rocker che torna a farsi sentire, riff granitico, Voorman di nuovo solidissimo al basso e chitarra lavorata il giusto, con John che si “incazza” come lui sapeva fare all’occorrenza, come nella parte centrale urlata e primeva, per spazzare tutte le sue problematiche, e finale caotico che riprende le tematiche del pezzo. Look At Me è un pezzo che risale all’epoca del periodo indiano dei Beatles, di nuovo voce e una chitarra in fingerpicking, non dissimile da molti dei brani usati poi nel White Album, sempre un piacere, da ascoltare ripetutamente. L’ultimo capolavoro dell’album è la sublime God, con un colossale (visto l’argomento trattato) Billy Preston al pianoforte a coda e quella sequela memorabile di versi che non si può non pubblicare, perché vale più di quanto io o chiunque altro potrebbe dire sui contenuti della canzone.

God is a concept
By which we measure our pain
I’ll say it again
God is a concept
By which we measure our pain
Yeah, pain, yeah

I don’t believe in magic
I don’t believe in I Ching
I don’t believe in the Bible
I don’t believe in tarot
I don’t believe in Hitler
I don’t believe in Jesus
I don’t believe in Kennedy
I don’t believe in Buddha
I don’t believe in mantra
I don’t believe in Gita
I don’t believe in yoga
I don’t believe in kings
I don’t believe in Elvis
I don’t believe in Zimmerman
I don’t believe in Beatles

I just believe in me
Yoko and me
And that’s reality

The dream is over
What can I say?
The dream is over
Yesterday

I was the dreamweaver
But now I’m reborn
I was the walrus
But now I’m John
And so, dear friends
You’ll just have to carry on
The dream is over

Il disco avrebbe potuto chiudersi qui ma per comletare la vicenda, come in una sorta di ripensamento, in coda viene aggiunta My Mummy’s Dead, il terzo brano dedicato alla mamma, dopo Julia e Mother, un breve brano di meno di un minuto, ripescato dai demo registrati a Bel Air in preparazione dell’album, cantato volutamente in modo monocorde sul tema musicale di una vecchia filastrocca per bambini.

E adesso un bel track by track di tutte le versioni alternative contenute nel cofanetto: scherzo ovviamente, se volete vi comprate il box che non costa poco e ve le ascoltate, anche perché francamente con alternate takes varie delle diverse tracce che vanno dall’1 al 91 non è che ci siano variazioni memorabili o imperdibili, se non per maniaci beatlesiani, però è l’occasione per risentire l’album ripetutamente, magari alla ricerca di quel guizzo di genio che comunque non manca: cito a caso, forse la take 2 di Hold On sul CD 2 è addirittura superiore a quella pubblicata, peccato che non sia completa, spesso discorso per la take 1 di I Found Out, una Love acustica senza piano, o le versioni del CD Elements che mettono in evidenza particolari delle registrazioni, qui solo la voce, là il piano, altrove la chitarra elettrica e così via, e qui troviamo una versione straordinaria di God, che già è splendida di suo e forse merita tutte le sette versioni. O le versioni del CD Raw Studio Mixes che mi sembrano simili a quelle già conosciute, ma sentite a rotazione con le altre hanno un loro fascino, mentre quelle del CD 5 estratte dal documentario Evolution, sono un delizioso dietro le quinte su come nasceva una canzone di John Lennon, narrate dal suo stesso autore mentre dialoga amichevolmente con i suoi collaboratori e amici.

E troviamo anche i demo registrati in studio e a casa: ripeto, da ascoltare, un po’ alla volta, magari nel corso di diversi giorni. Infine le jam che dovrebbero essere uno dei punti di forza dei contenuti musicali inediti del box non sono particolarmente memorabili: alcune, tipo le due parodie di You’ll Never Walk Alone, una via di mezzo tra il brano da musical e la versione di Gerry & The Pakemakers praticamente non partono perché John e soci iniziano immediatamente a ridere come dei pirla e pure nella Elvis Parody di Don’t Be Cruel e Hound Dog si salva giusto la parte strumentale perché il R&R regna sovrano (e il fuck my tit che gli scappa in una delle takes è proprio da John). I due accenni di pezzi dei Beatles, un minuto strumentale di Get Back e 20” di I Got A Feeling sono degli intramuscolo, meglio, ma sempre molto brevi Johnny B. Goode con incorporata Carol, Ain’t That A Shame di Fats Domino, forse la migliore, e Glad All Over di Carl Perkins, niente male neppure Honey Don’t che nei Beatles cantava Ringo e una spiritata Matchbox. Interessanti le due versioni di I Don’t Want To Be A Soldier, che poi sarebbe uscita su Imagine, Goodnight Irene di Lead Belly, due strumentali molto piacevoli di Hold On, ma spesso sono solo dei frammenti con i musicisti che cazzeggiano e si divertono tra loro in studio, insomma non proprio il Santo Graal dei ritrovamenti.

Quindi concludendo, se non avete l’album è assolutamente indispensabile da avere, magari la versione doppia, il cofanetto solo se avete disponibilità economiche, siete dei fan sfegatati di John e degli “archeologi” della musica.

Bruno Conti

Un Ringo In Versione “Mini”, Ma Con Più Sostanza Del Solito! Ringo Starr – Zoom In

ringo starr zoom in

Ringo Starr – Zoom In – Universal CD EP

Inutile ribadire che la carriera solista di Ringo Starr ha rispettato in pieno le aspettative che i fans dei Beatles avevano dopo lo scioglimento del loro gruppo preferito: una lunga serie di album di piacevole ascolto, alcuni più riusciti di altri, ma con pochi titoli veramente imprescindibili (a mio parere si contano sulle dita di una mano: il countreggiante Beaucoup Of Blues del 1970, lo splendido Ringo del 1973, il suo seguito Goodnight Vienna, il comeback album del 1992 Time Takes Time e, forse, Vertical Man del 1998). In particolare, gli otto lavori pubblicati dal cantante-batterista di Liverpool tra il 2003 ed il 2019 sono tutti all’insegna di un pop-rock di facile assimilazione ma con poche vere zampate che li distinguano l’uno dall’altro, diciamo un livello medio di tre stellette https://discoclub.myblog.it/2019/11/16/sappiamo-cosa-aspettarci-e-sempre-lui-lex-beatle-ringo-starr-whats-my-name/ . Lo scorso anno Ringo si è trovato come tutti a fare i conti con la pandemia, e durante il lockdown ha messo insieme una manciata di canzoni nuove e le ha registrate come d’abitudine “with a little help from his friends”.

ringo starr zoom in 1

Il risultato è Zoom In, il primo EP della carriera del nostro, cinque canzoni per la durata complessiva di 19 minuti che mostrano un Ringo ispirato ed in ottima forma: forse il fatto di concentrarsi su soli cinque pezzi ha reso il progetto più solido e compatto e senza i soliti riempitivi presenti nei vari album dell’ex Beatle, ma è un fatto che Zoom In, pur non essendo un capolavoro, è la cosa migliore messa su disco dal barbuto drummer dai tempi di Ringo Rama (2003). Cinque brani che toccano vari generi, tutti affrontati da Ringo con la consueta verve e l’innata simpatia che lo contraddistingue da sempre, e prodotti da lui stesso insieme a Bruce Sugar. L’iniziale Here’s To The Nights (rilasciata sul finire del 2020) è il brano portante dell’EP, una bellissima ed emozionante ballata tra le migliori di Ringo negli ultimi trent’anni https://www.youtube.com/watch?v=S6oqrbFzLaU , nonostante una melodia ed un arrangiamento un po’ ruffiani tipici dell’autrice del pezzo (cioè la nota hit-maker Diane Warren): Ringo è accompagnato da Steve Lukather dei Toto alla chitarra, Nathan East al basso e Benmont Tench al pianoforte, ma il meglio lo troviamo nel coro “alla We Are The World” con la partecipazione tra gli altri di Paul McCartney, Joe Walsh, Lenny Kravitz, Sheryl Crow, Yola, Chris Stapleton, Ben Harper e Dave Grohl.

ringo starr zoom in 2

Ascoltate questa canzone almeno un paio di volte e farete fatica a togliervela dalle orecchie. Zoom In Zoom Out mostra il lato rock di Ringo, un brano cadenzato che vede ancora Tench al piano ed addirittura l’ex Doors Robby Krieger alla solista: la base è leggermente blues, ma poi Mr. Starkey intona una delle sue tipiche melodie saltellanti ben supportato dalle backing vocalist femminili, ed il risultato è una canzone solida e piacevole al tempo stesso https://www.youtube.com/watch?v=w3XaEPUmsFA . La pimpante Teach Me To Tango fonde mirabilmente una struttura da pop song con ritmi quasi latini, anche se una chitarrina insinuante mantiene alta anche la quota rock (ed il pezzo è, manco a dirlo, gradevolissimo) https://www.youtube.com/watch?v=zWrc9qRxx4Y , mentre Waiting For The Tide To Turn è un’inattesa incursione di Ringo nel reggae, un genere da lui molto amato (almeno così dice), ma che finora non aveva mai sfiorato: eppure il brano è riuscito, solare ed il nostro riesce a risultare credibile anche senza dreadlocks  . Chiude l’EP Not Enough Love In The World, scritta da Lukather insieme all’altro Toto Joseph Williams su misura per Ringo, in quanto si tratta di una deliziosa pop song dal ritmo guizzante ed un sapore decisamente beatlesiano https://www.youtube.com/watch?v=RJINbNKsAtc . Zoom In ci mostra quindi un Ringo Starr come di consueto fresco e piacevole ma, a differenza del solito, senza cali di qualità.

Marco Verdi

Chiamarla “Ristampa” Mi Sembra Un Tantino Riduttivo! Tom Petty – Wildflowers & All The Rest

tom petty wildflowers and all the rest

Tom Petty – Wildflowers & All The Rest – Warner 2CD – 3LP – 4CD Deluxe – 7LP – 5CD Super Deluxe – 9LP

Sia prima che dopo la sua improvvisa e dolorosa scomparsa avvenuta il 2 ottobre 2017, quando si è trattato di dedicare un cofanetto alla musica di Tom Petty è sempre stato fatto un lavoro eccellente, a partire dal box set antologico Playback del 1995 (tre CD di greatest hits, uno di rarità e b-sides e due di inediti), passando per la spettacolare Live Anthology del 2009, cinque CD dal vivo completamente unreleased, per finire con il bellissimo An American Treasure del 2018, box quadruplo che, vicino a qualche pezzo già conosciuto, presentava diverse canzoni mai sentite prima, oppure altre note ma in versioni alternate https://discoclub.myblog.it/2018/10/14/recensioni-cofanetti-autunno-inverno-2-un-box-strepitoso-che-dona-gioia-e-tristezza-nello-stesso-tempo-tom-petty-an-american-treasure/ . Da qualche anno si parlava della possibile ristampa di Wildflowers, album del 1994 del biondo rocker della Florida giustamente considerato uno dei suoi più belli (è nella mia Top 3 dopo Full Moon Fever e Damn The Torpedos), ristampa che inizialmente sembrava dover ricalcare la sequenza pensata in origine, con diversi brani scartati che nelle intenzioni di Tom avrebbero dovuto formare un album doppio.

tom petty wildlowers and all the rest

Quest’anno si è finalmente deciso di rendere pubblico il tutto con l’uscita di Wildflowers & All The Rest, ma oltre alla versione con due dischetti (o tre LP) si è scelto di fare le cose in grande ed allargare il progetto ad un box quadruplo (o con sette vinili) e, se volete spendere parecchio di più, solo sul sito di Tom è disponibile una splendida edizione Super Deluxe quintupla, o con nove LP, che è quella di cui vado a parlare tra poco (in realtà c’è anche una edizione “Ultra Deluxe” che costa 500 dollari ma non offre nulla di aggiuntivo dal punto di vista sonoro, ma solo una confezione più elegante ed una serie di gadgets abbastanza inutili). La confezione del box quintuplo è splendida, con all’interno la riproduzione dei testi originali con la calligrafia di Tom, un certificato di autenticità numerato e soprattutto un bellissimo libro con copertina dura che vede all’interno parecchie foto inedite, un saggio del “solito” David Fricke, i testi di tutte le canzoni (anche quelle inedite), tutte le indicazioni su chi ha suonato cosa e, dulcis in fundo, un esauriente commento track-by-track con le testimonianze dei protagonisti, tra cui il produttore Rick Rubin, gli storici tecnici del suono di Tom Ryan Ulyate e Jim Scott ed alcuni dei musicisti coinvolti).

Wildflowers già al momento della sua uscita aveva colpito per la sua bellezza e per la profondità delle canzoni scritte da Tom, sia musicalmente che dal punto di vista dei testi, un album da vero e maturo songwriter rock che infatti era stato pubblicato come disco solista (il secondo dopo Full Moon Fever), dal momento che molte delle canzoni avevano uno stile che non veniva ritenuto adatto al sound prettamente rock degli Heartbreakers. Comunque i componenti del gruppo storico di Petty erano presenti al completo in session, soprattutto Mike Campbell e Benmont Tench che anche qui costituivano la spina dorsale del suono, mentre Howie Epstein non suonava il basso ma si limitava alle armonie vocali ed il batterista Steve Ferrone non era ancora entrato ufficialmente nella band ma lo avrebbe fatto subito dopo; tra gli altri musicisti presenti meritano una citazione il noto percussionista Lenny Castro, lo steel guitarist Marty Rifkin, Jim Horn al sax in un brano, il famoso arrangiatore Michael Kamen, responsabile delle orchestrazioni in una manciata di pezzi, e soprattutto Ringo Starr alla batteria ed il Beach Boy Carl Wilson alla voce in una canzone ciascuno.

Ma veniamo ad una disamina dettagliata del cofanetto, il cui ascolto si è rivelato un magnifico scrigno pieno di sorprese (ma non avevo dubbi in proposito). Il primo CD è il Wildflowers originale, un disco ancora oggi bellissimo ed attuale, pieno di deliziosi esempi di cantautorato maturo ed intimo come la splendida title track, il country-rock crepuscolare di Time To Move On, il puro folk-blues Don’t Fade On Me, una voce e due chitarre acustiche, la limpida e folkeggiante To Find A Friend e la ballata pianistica Wake Up Time. Ma la presenza degli Heartbreakers fa sì che il vecchio suono non sia certo messo in soffitta: così abbiamo il potente rock’n’roll di You Wreck Me, la bluesata ed elettrica Honey Bee, la creedenciana e “swampy” Cabin Down Below ed il notevole rock-blues quasi psichedelico House In The Woods, pieno di accordi discendenti; non mancano neppure i tipici pezzi midtempo del nostro, come la popolare You Don’t Know How It Feels, pare ispirata a The Joker della Steve Miller Band, la straordinaria It’s Good To Be King, che dal vivo diventerà uno dei momenti salienti dello show, e la younghiana Hard On Me. Infine troviamo dell’ottimo folk-rock d’autore come la cristallina Only A Broken Heart, con il suo feeling alla George Harrison, la sixties-oriented A Higher Place e l’elegante Crawling Back To You.

Come ho accennato poc’anzi, il secondo dischetto presenta dieci brani esclusi dalla tracklist del 1994 (a parte Girl On LSD che era uscita come lato B di un singolo, e che qui ritroviamo nel quinto CD), quattro dei quali finiranno in versione diversa sulla colonna sonora di She’s The One nel 1996. Il bello è che non stiamo parlando di dieci pezzi di livello inferiore, ma di canzoni che avrebbero potuto benissimo uscire e fare la loro ottima figura, in alcuni casi elevando addirittura il livello già alto di Wildflowers. Something Could Happen è una suggestiva ballata elettroacustica leggermente tinta di pop, con una melodia di prima qualità ed un gran lavoro di Tench, un pezzo inciso nel 1993 ancora con Stan Lynch in formazione e che sarebbe potuto diventare un classico. Ancora più incomprensibile l’esclusione di Leave Viginia Alone, stupendo uptempo folk-rock dal mood coinvolgente ed un motivo irresistibile, una delle migliori canzoni scritte da Tom negli ultimi 25 anni: poteva essere uno dei pezzi centrali di Wildflowers (e verrà invece registrata da Rod Stewart nel 1995 e pubblicata su A Spanner In The Works).

Climb That Hill Blues vede il solo Petty alla voce e chitarra acustica, un brano bluesato come da titolo che ritroveremo tra poco in una versione diversa e full band, ma questa take “unplugged” è davvero affascinante; Confusion Wheel è una limpida ballata dal passo lento e con un bel crescendo, influenzata in parte dalle folk songs tradizionali britanniche ed in parte dai Byrds “acustici”, mentre per California vale quasi lo stesso discorso fatto per Leave Virginia Alone, in quanto ci troviamo di fronte ad una deliziosa e solare canzone pop-rock dal motivo accattivante, che fortunatamente è stata poi reincisa per She’s The One (ma qui è migliore). Harry Green vede ancora Petty da solo, ma se Climb That Hill era un blues, qui siamo dalle parti del più puro e cristallino folk di stampo tradizionale, a differenza di Hope You Never che è un incalzante ed intrigante rock song chitarristica dal passo cadenzato, con un organo molto sixties ed un suono potente: altro pezzo che poteva tranquillamente finire su Wildflowers.

Somewhere Under Heaven è una rock ballad classica, molto anni 70, con un retrogusto psichedelico e Campbell che suona tutti gli strumenti, brano che precede la versione elettrica di Climb That Hill, solida rock song contraddistinta da un riff insistente ed un drumming martellante; chiusura con Hung Up And Overdue, ballata eterea dal gusto pop simile a certe cose del “periodo Jeff Lynne” di Tom, ancora con il pianoforte protagonista e la presenza simultanea di Ringo e Carl Wilson. Molto interessante il terzo CD, che si occupa degli “home recordings” precedenti alle sessions dell’album, registrati da Tom nel suo studio casalingo: non ci troviamo però davanti ai soliti demo per voce e chitarra acustica (e qualche volta armonica), ma a vere e proprie canzoni quasi complete, con sovraincisioni di chitarra elettrica, basso, piano, organo e percussioni. Ci sono anche tre inediti assoluti: There Goes Angela (Dream Away), una soave e delicata ballata impreziosita da una squisita melodia, A Feeling Of Peace, che se sviluppata maggiormente avrebbe potuto diventare una rock ballad di spessore (e parte delle liriche verranno utilizzate su It’s Good To Be King), e There’s A Break In The Rain, uno slow lento ed intenso che rispunterà con qualche modifica su The Last DJ con il titolo Have Love, Will Travel.

Le altre canzoni, alcune delle quali con qualche differenza testuale e strumentale, sono già bellissime così, in particolare You Don’t Know How It Feels, California, Leave Virginia Alone, Crawling Back To You, A Higher Place, To Find A Friend, Only A Broken Heart e Wildflowers. Quindi non la solita collezione di demo, magari un po’ noiosa, ma un disco che sta in piedi con le sue gambe. Il quarto dischetto è una delle ragioni per cui questo box era da me tanto atteso, dato che presenta 11 dei 15 brani di Wildflowers (più tre “aggiunte”) in versioni inedite dal vivo registrate da Tom ed i suoi Spezzacuori tra il 1995 ed il 2017, un CD strepitoso dal momento che stiamo parlando di una delle migliori rock’n’roll band di sempre, in grado di fornire la rilettura definitiva di qualsiasi brano suonato live (e se, per fare un esempio, nel 2003 con Live At The Olympic i nostri erano riusciti a trasformare un album deludente come The Last DJ in un disco da quattro stelle vi lascio immaginare cosa potessero fare con un lavoro del calibro di Wildflowers).

Tanto per cominciare abbiamo una monumentale It’s Good To Be King che da sola vale il CD, undici minuti di rock sublime con una prestazione monstre da parte di Campbell ed un crescendo irresistibile a cui partecipa attivamente anche Tench. Poi vanno segnalate una strepitosa You Don’t Know How It Feels, con Petty che arringa la folla da consumato showman, un trio di rock’n’roll songs formato da Honey Bee, Cabin Down Below e You Wreck Me, che dal vivo sono letteralmente esplosive, una limpida e countreggiante To Find A Friend acustica eseguita allo School Bridge Benefit di Neil Young nel 2000, la sempre bella Crawling Back To You, registrata a fine luglio 2017 (e quindi una delle ultime testimonianze dal vivo di Tom), puro vintage Heartbreakers, una versione molto più rock e diretta di House In The Woods ed una decisamente intima di Time To Move On, per chiudere con la sempre magnifica Wildflowers, qui in versione full band comprensiva di sezione ritmica.

Dicevo dei tre pezzi non appartenenti al disco originale, che iniziano con una deliziosa rilettura stripped-down di Walls (singolo portante di She’s The One), la vigorosa jam chitarristica Drivin’ Down To Georgia, brano che i nostri suonavano dal vivo già dal 1992 (ma questa è del 2010) e che abbiamo già sentito in un’altra versione su The Live Anthology, per chiudere con una rara Girl On LSD, un pezzo folle e divertente, musicalmente molto Johnny Cash, con Tom che mentre la canta fa fatica a rimanere serio. E veniamo al quinto dischetto, quello esclusivo dell’edizione Super Deluxe: sottointitolato Finding Wildflowers, presenta sedici versioni alternate prese dalle sessions dell’album, alcune simili ai brani ufficiali ed altre abbastanza diverse. Non tutto è inedito, ma piuttosto raro sì: ci sono due takes differenti di Don’t Fade On Me e Wake Up Time già pubblicate su An American Treasure, una rilettura semi-acustica di Cabin Down Below ed una versione alternativa di Only A Broken Heart (molto Jeff Lynne) uscite su B-sides, e poi la Girl On LSD originale, sempre spassosa e dall’arrangiamento più rockabilly di quella live.

Troviamo poi finalmente una studio version di Drivin’ Down To Georgia (che però funziona meglio dal vivo) e, tra le altre, segnalerei una A Higher Place più elettrica e Heartbreaker-sounding (con Kenny Aronoff alla batteria), Hard On Me leggermente più lenta dell’originale e con Campbell alla slide, a differenza di Crawling Back To You che è molto più veloce e ritmata di quella nota (e non so quale delle due preferire), You Wreck Me sempre energica ma con le chitarre acustiche, House In The Woods con un’inedita parte strumentale centrale dal sapore jazz, ed una Wildflowers delicatamente country, ancora con Ringo ai tamburi. Anche qui c’è spazio per un inedito assoluto intitolato You Saw Me Comin’, pop song gradevole dal ritmo incalzante, un brano abbastanza sconosciuto che mette la parola fine ad un cofanetto che definire splendido è poco, e che si batterà certamente per il titolo di ristampa dell’anno.

Tom Petty ci manca maledettamente, ogni anno di più.

Marco Verdi

Riprende La Campagna Di Ristampe Deluxe Di Sir Paul, Con Uno Dei Suoi Dischi Migliori Di Sempre. Paul McCartney – Flaming Pie

paul mccartney flaming pie

Paul McCartney – Flaming Pie – Capitol/Universal 2CD Deluxe – 2LP – 3LP – Super Deluxe 5CD/2DVD Box Set – Uber Deluxe 5CD/2DVD/3LP/45rpm Box Set

A poco più di un anno e mezzo dalla doppia uscita Wild Life/Red Rose Speedway ecco il tredicesimo capitolo delle ristampe potenziate del catalogo di Paul McCartney, in assoluto una delle serie più amate (ma anche più discusse) dai fans: se molti pronostici, incluso il mio, indicavano un’altra doppia pubblicazione che avrebbe chiuso gli anni settanta, cioè London Town e Back To The Egg (album quest’ultimo verso il quale ho sempre avuto un debole, e che andrebbe assolutamente rivalutato), Macca ha spiazzato tutti scegliendo quello che a tutti gli effetti è il lavoro più recente tra quelli presi in esame finora in questa serie, vale a dire Flaming Pie del 1997. Una scelta che comunque ha suscitato reazioni positive (anche nel sottoscritto, per quanto può valere), dato che stiamo parlando di uno degli album migliori dell’ex Beatle, anzi forse il suo ultimo vero grande disco, nonostante in seguito abbia ancora pubblicato lavori più che positivi come Chaos And Creation In The Backyard ed il recente Egypt Station: personalmente lo metto nella mia Top Three degli album di Paul, ultimo di un’ideale trilogia che comprende anche Band On The Run e Tug Of War.

Flaming Pie (che prende il titolo dal famoso sogno nel quale un giovane John Lennon vide un uomo uscire da una “pie” fiammeggiante – dove per “pie” si intende il tipico pasticcio di carne della cucina inglese – pronunciando la celebre frase “Voi sarete i Beatles con la A!”) è infatti un disco splendido, ispirato e pieno di grandi canzoni, un lavoro di un McCartney tirato a lucido ed in forma come non mai, con alcuni dei suoi brani migliori degli ultimi 30-40 anni. Il fatto che otto brani su quattordici siano prodotti dal mio “amico” Jeff Lynne (gli altri sei vedono alla consolle lo stesso Paul, quattro da solo e due con lo storico produttore dei Fab Four George Martin) non influenza il giudizio, al massimo è la classica ciliegina sulla torta. Lynne all’epoca era reduce dal progetto The Beatles Anthology per la quale aveva supervisionato i due brani nuovi Free As A Bird e Real Love, e sembrò a tutti una cosa naturale che alla fine l’ex ELO finisse per collaborare direttamente con Paul. Flaming Pie è anche l’ultimo album in cui compare l’amata moglie di Paul, Linda, già colpita dal tumore che la porterà via con sé nel 1998; oltre a McCartney, Linda e Lynne non è che il disco contenga molti altri musicisti: Paul e Jeff si occupano di gran parte degli strumenti, mentre in alcune canzoni alla batteria troviamo il vecchio compagno Ringo Starr ed alla chitarra solista in tre pezzi addirittura Steve Miller, amico di Paul da una vita (e nel brano Heaven On A Sunday l’assolo di chitarra è dell’allora diciannovenne figlio di Macca, James McCartney).

La ristampa di Flaming Pie esce nella solita varietà di formati, ed il top di gamma “umano” (sì perché c’è anche una versione mastodontica venduta solo sul sito di Paul a quasi seicento euro, e che incredibilmente non aggiunge neanche un minuto di musica rispetto al cofanetto “normale”) è il classico box Super Deluxe ricchissimo di contenuti visivi, con un libro davvero magnifico che raccoglie una lunga serie di bellissime foto di Paul in studio ed in famiglia (ed anche alcuni scatti insieme a George e Ringo per l’Anthology), una riproduzione del songbook originale ed un libretto di ricette di Linda con sei tipi diversi di pasticci di carne. Ma, memore delle critiche feroci piovutegli addosso per la ristampa di Flower In The Dirt, anche il contenuto musicale è più ricco che mai, e prosegue la nuova tendenza inaugurata con Wild Life e Red Rose Speedway: nonostante ciò, i circa 250 euro chiesti per questa edizione sono davvero esagerati. Il primo CD contiene ovviamente la versione rimasterizzata del disco originale, un lavoro ribadisco splendido.

Le tipiche ballate di Paul sono il frutto di un artista veramente ispiratissimo, deliziosi bozzetti come The Song We Were Singing, Calico Skies (un brano che ricorda Blackbird, ancora oggi nelle setlist dal vivo), Little Willow, Great Day (che invece rimanda curiosamente al piccolo frammento del White Album prima di Revolution # 9), e soprattutto le straordinarie Somedays, piccolo gioiello acustico con la raffinata orchestrazione di Martin ed una melodia da brividi, e la pianistica Beautiful Night, dotata anch’essa di un motivo di prima qualità ed un finale corale travolgente con il vocione di Ringo in evidenza (la canzone ha origini antiche, in quanto era stata incisa già nel 1986 ma inspiegabilmente lasciata in un cassetto). La produzione di Lynne qui è meno caratterizzante del solito, se si eccettuano il trascinante rock’n’roll della title track ed il coinvolgente pop-rock della bella The World Tonight, che sembra una outtake dei Traveling Wilburys.

E poi c’è Steve Miller che fa sentire la sua chitarra nella rockeggiante If You Wanna, nella jam session cruda e bluesata Used To Be Bad, nella quale duetta con Paul anche vocalmente, e soprattutto nella squisita Young Boy, una di quelle pop songs irresistibili che solo Paul è in grado di scrivere e che all’epoca uscì come primo singolo. Chiudono il cerchio la raffinata Heaven On A Sunday, dal tocco jazzato, il godibile errebi bianco di Souvenir e Really Love You, collaborazione più unica che rara a livello di scrittura tra Paul e Ringo e musicalmente una pura improvvisazione sullo stile di Why Don’t We Do It In The Road?

Il secondo dischetto del box è riservato agli Home Recordings di 11 dei 14 brani del disco, incisi da Paul tra il 1993 ed il 1995, voce, chitarra acustica e piano; se i pezzi di stampo acustico sono simili a quelli conosciuti, le sorprese riguardano The World Tonight, If You Wanna, Young Boy (qui ancora intitolata Poor Boy) e Flaming Pie, estremamente gradevoli anche in questa veste “stripped-down” (per la serie: se una canzone è bella, è bella sempre). Con il terzo CD ci spostiamo in studio (The Mill Studios nel Sussex, di proprietà di Paul, dove è stato inciso il disco): qui possiamo ascoltare i demo acustici, solo Paul e Linda, di Great Day, Calico Skies e If You Wanna, un work in progess di Beautiful Night con Paul e Ringo, una lunga versione alternata e non troppo rifinita di Heaven On A Sunday, un breve accenno di poco più di un minuto di C’mon Down C’mon Baby, brano mai più ripreso in seguito (ed a sensazione non ci siamo persi molto), e quattro “rough mix” di tre pezzi che finiranno sull’album ed uno, Whole Life (un discreto funk-rock inciso con Dave Stewart), che verrà usato sulla compilation a scopo benefico One Year On.

E veniamo al quarto dischetto, che inizia con un brano molto particolare: si tratta della nota collaborazione tra Paul ed Allen Ginsberg in The Ballad Of The Skeletons, una poesia del grande artista americano messa in musica proprio da Macca ed incisa con una superband che vede al suo interno oltre allo stesso Paul Lenny Kaye, Philip Glass, David Mansfield e Marc Ribot. Il brano, per chi non lo conoscesse, è una bella sorpresa: Ginsberg recita in maniera molto musicale, l’accompagnamento è elettrico al punto giusto (sembra quasi un pezzo di Lou Reed) e l’insieme risulta addirittura trascinante. Il CD prosegue con quattro b-sides, le prime due rispettivamente ancora con Lynne e Miller, ma se la funkeggiante Looking For You non è il massimo, il blues elettroacustico Broomstick non è affattto male; le altre due, Love Come Tumbling Down e la sofisticata Same Love (con il grande Nicky Hopkins al piano), risalgono addirittura al biennio 1987-88, ed avrebbero potuto occupare tranquillamente entrambe due lati A.

La parte finale del dischetto è appannaggio di sei diversi capitoli della saga di Oobu Joobu, una trasmissione radio curata da Paul in cui l’ex Beatle parlava, scherzava e cazzeggiava, ma mandava in onda anche canzoni inedite: qui possiamo ascoltare una serie di brani registrati nel 1986 (alcuni con la produzione di Phil Ramone), tra cui la versione originale di Beautiful Night incisa con la band di Billy Joel, le orecchiabili Don’t Break The Promise e Love Mix e le meno riuscite I Love This House, Atlantic Ocean e Squid, tutte rovinate da orribili sonorità sintetizzate tipiche degli anni ottanta. Il quinto CD, intitolato Flaming Pie At The Mill, è uno spoken word di un’ora circa in cui Paul ci illustra il suo studio e parla del disco (di difficile ascolto se non siete di madre lingua), mentre gli episodi salienti dei due DVD sono i vari videoclip promozionali ed il documentario In The World Tonight (che ricordo all’epoca aveva trasmesso anche la RAI).

Un cofanetto quindi decisamente esauriente (ma, ripeto, costosissimo), che ci fa riassaporare in profondità uno dei più bei lavori di sempre di Sir Paul McCartney: non credo che con la prossima uscita ci si spingerà ancora più avanti come periodo, e quindi punto fin da ora sull’accoppiata di cui vi parlavo prima London Town/Back To The Egg (a meno che Paul non decida di rischiare e sorprenderci di nuovo con i criticatissimi Give My Regards To Broad Street e Press To Play).

Marco Verdi

Il 31 Luglio Esce Flaming Pie, La 13a Uscita Della Serie Delle Ristampe Di Paul McCartney

paul mccartney flaming pie

Paul McCartney – Flaming Pie – MPL/Capitol/Universal – 2 CD – 2 LP – Limited 3 LP Boxset – Superdeluxe 5 CD + 2 DVD – 31-07- 2020

Dopo il lungo lockdown, anche a livello discografico, l’estate sta portando ad un ritorno, sia pure ancora prudente, e con ulteriori diversi rinvii, anche all’ultimo momento, delle date di uscita, alla pubblicazione di parecchi nuovi album, anche nell’ambito dei cofanetti. Ne sono stati annunciati parecchi, e altri si aggiungono con cadenza nuovamente vivace.

Questo di Flaming Pie di Paul McCartney è sicuramente uno dei box più lussuosi (e ovviamente costosi, con un prezzo indicativo intorno ai 250 euro, ma c’è anche una Collector’s Edition limitata a 3.000 copie, con quattro vinili aggiunti, che sul sito di Macca costa 600 euro): oltre al contenuto discografico, il cofanetto, rivestito di panno, contiene, oltre a memorabilia assortita, che allargando l’immagine sopra, o guardando il video, potete verificare, il solito librone rilegato da 128 pagine (e anche gli Stones con Goats Head Soup per la prima volta seguiranno l’esempio) ricco di interviste, foto inedite di Linda, informazioni brano per brano, anche sui musicisti impiegati, tra cui alcuni ospiti di pregio, da Jeff Lynne, che co-produce il disco con Paul e George Martin, a Steve Miller, Ringo Starr, anche il figlio di Paul, James McCartney, che all’epoca aveva 20 anni, e una miriade di altri strumentisti, che fanno sì che questo album del 1997 sia uno dei migliori della sua produzione solista, anche per le canzoni presenti, tra cui ce ne sono parecchie di ottima qualità. Nella confezione anche 2 DVD, ma pure un CD parlato Flaming Pie At The Mill: negli altri 4 CD troviamo il disco originale rimasterizzato, un dischetto di registrazioni casalinghe e demo, un altro di studio tracks varie, e infine le B-sides di singoli, mix, e mini cd, per un totale di 32 canzoni extra.

Come al solito a seguire trovate il contenuto completo del cofanetto.

[CD1]
The Song We Were Singing
The World Tonight
If You Wanna
Somedays
Young Boy
Calico Skies
Flaming Pie
Heaven On A Sunday
Used To Be Bad
Souvenir
Little Willow
Really Love You
Beautiful Night
Great Day

[CD2: Demos & Home Recordings]
The Song We Were Singing [Home Recording]
The World Tonight [Home Recording]
If You Wanna [Home Recording]
Somedays [Home Recording]
Young Boy [Home Recording]
Calico Skies [Home Recording]
Flaming Pie [Home Recording]
Souvenir [Home Recording]
Little Willow [Home Recording]
Beautiful Night [1995 Demo]
Great Day [Home Recording]

[CD3: Studio Tracks]
Great Day [Acoustic]
Calico Skies [Acoustic]
C’mon Down C’mon Baby
If You Wanna [Demo]
Beautiful Night [Run Through]
The Song We Were Singing [Rough Mix]
The World Tonight [Rough Mix]
Little Willow [Rough Mix]
Whole Life [Rough Mix]
Heaven On A Sunday [Rude Cassette]

[CD4: B-Sides]
The Ballad Of The Skeletons
Looking For You
Broomstick
Love Come Tumbling Down
Same Love
Oobu Joobu Part 1
Oobu Joobu Part 2
Oobu Joobu Part 3
Oobu Joobu Part 4
Oobu Joobu Part 5
Oobu Joobu Part 6

[CD5]
Flaming Pie At The Mill (Spoken Word)

[DVD1]
In The World Tonight (Documentary)

[DVD2]
Beautiful Night
Making Of Beautiful Night
Little Willow
The World Tonight [Dir Alistair Donald]
The World Tonight [Dir Geoff Wonfor]
Young Boy [Dir Alistair Donald]
Young Boy [Dir Geoff Wonfor]
Flaming Pie Epk 1
Flaming Pie Epk 2
In The World Tonight Epk
Flaming Pie Album Artwork Meeting
Tfi Friday Performances
David Frost Interview

Per tutti gli ulteriori dettagli ed una disamina della parte musicale, dopo l’uscita del manufatto troverete sul Blog un resoconto dettagliato.

Bruno Conti

Il Ritorno Del “Fuorilegge” Con Una Banda Di Rinnegati. Ray Wylie Hubbard – Co-Starring

ray wylie hubbard co-starrng

Ray Wylie Hubbard – Co-Starring – Big Machine Records – CD – LP

Torna, a tre anni dal suo ultimo disco Tell The Devil I’m Gettin’ There As Fast As I Can, Ray Wylie Hubbard, uno dei migliori “texani” in assoluto (regolarmente recensito su queste pagine https://discoclub.myblog.it/2017/08/23/il-diavolo-secondo-ray-wylie-hubbard-tell-the-devil-im-gettin-there-as-fast-as-i-can/ ), con una carriera iniziata nel lontano ’76, prima come autore, poi come cantante di derivazione “country”, e proseguita come “rocker” a tutto tondo con influenze “blues”. Per questo ultimo progetto Co-Starring il “fuorilegge” Hubbard si avvale di un nutrito gruppo di “rinnegati”, comprimari di lusso a partire dai veterani Ringo Starr, Joe Walsh, Don Was, Ronnie Dunn, Peter Rowan, Chris Robinson (Black Crowes), novelle Calamity Jane quali le brave ma discontinue Larkin Poe, l’emergente Ashley McBryde, Pam Tillis, Elizabeth Cook, Paula Nelson (figlia del noto Willie) e giovani cacciatori di taglie come Aaron Lee Tasjan e Cadillac Three, per una decina di brani tra rock e blues, country e honky-tonky, un “cocktail” che risulta come sempre affascinante.

La cavalcata musicale si apre con Bad Trick, nel quale la band di Hubbard integrata da Ringo Starr, Don Was, Joe Walsh e Chris Robinson (una combinazione piuttosto strana), macina uno “swamp-rock” contagioso, segue Rock Gods (dedicata a Tom Petty) una ballata tagliente con la chitarra di Aaron Lee Tasjan in evidenza, cantata con trasporto da Ray Wylie, mentre il ritmo aumenta con la tosta Fast Left Hand (merito dei Cadillac Three, ovvero Jaren Johnston, Kelby Ray e Neil Mason), una rock-song trascinante con parti di chitarra che ricordano il grande Steve Vai. Dopo una breve sosta si riparte con una brano dedicato al bluesman e armonicista Mississippi John Hurt, cantata in duetto con Pam Tillis, mentre la seguente Drink Till I See Double è un bel brano “trash-country” con le voci d’accompagnamento di Paula Nelson e Elizabeth Cook, ad inseguire la tipica andatura cadenzata di Hubbard, per poi cambiare ancora ritmo con una sincopata R.O.C.K. che è valorizzata dalla emergente rock band di Nashville Tyler Bryant e i suoi Shakedown, e trovare il suo “alter ego” al femminile nella voce irresistibile di Ashley McBryde, in una meravigliosa Outlaw Blood dove si manifesta la bravura al mandolino di Jeff Plankenhorn.

La parte finale vede Hubbard esplorare il blues più scuro con Rattlesnake Shakin’ Woman, con l’intrigante apporto delle sorelle Larkin Poe, commuovere con una sontuosa ballata elettroacustica Hummingbird, eseguita con il musicista e compositore “bluegrass” americano Peter Rowan, suonata dal “duo” in punta di dita, e andare a chiudere conThe Messenger, in collaborazione con il cantautore “country” Ronnie Dunn e la poliedrica Pam Tillis, che nel testo e nell’arrangiamento riporta alla mente Mr. Bojangles di Jerry Jeff Walker. Questo signore viaggia ormai verso le 74 primavere e i quarant’anni di attività, con un “bottino” di 18 album (compreso questo), camminando sulla propria strada incurante di regole e convenzioni, un “outlaw” che si è ritagliato un mondo con la propria musica, raccontando storie di eroi buoni e cattivi, che lottano e si dibattono tra il bene e il male, un personaggio che starebbe a pennello in uno dei western di Sergio Leone, (il ruolo decidetelo voi dopo aver guardato la cover del CD), ovviamente con in sottofondo le musiche del compianto Ennio Morricone.

Credetemi bisogna chiamarsi Ray Wylie Hubbard per mantenere disco dopo disco una qualità delle canzoni sempre ad alto livello, e il contributo della gente che suona nel disco, che non molti riescono ad avere, ci fa sperare che con questo Co-Starring magariarrivi un tardivo riconoscimento. Consigliato!

Tino Montanari

The Devil Went (Back) To Heaven: Ci Ha Lasciato Anche Charlie Daniels. Ed Un Augurio A Ringo Starr.

charlie daniels

In una fase di profonda crisi sociale (parlo degli USA), che però sta portando alcune persone su posizioni deliranti come il considerare razzista chiunque rivendichi le sue radici sudiste o far cambiare il nome a gruppi di seconda o terza fascia, vorrei celebrare la figura di Charlie Daniels, storico musicista scomparso ieri all’età di 83 per un ictus emorragico, un personaggio che in vita non aveva mai nascosto il suo orgoglio di “southern man”, né le sue tendenze conservatrici (posizioni che non escludono assolutamente il fatto di essere contro ogni tipo di razzismo, anche se molti soloni e buonisti un tanto al chilo pensano che ciò sia impossibile), e non aveva paura di usare la parola “Dixie” nelle sue canzoni.

Nato Charles Edward Daniels a Wilmington in North Carolina, il nostro è stato negli anni settanta con la sua Charlie Daniels Band uno dei massimi esponenti del movimento southern rock, anche se rispetto a gruppi come Allman Brothers Band e Lynyrd Skynyrd la componente country era molto più marcata, grazie al fatto che Charlie era un provetto violinista che talvolta operava anche per conto terzi (per esempio era diventato nei seventies uno presenza quasi fissa negli album della Marshall Tucker Band).

Man mano che passavano gli anni la sua musica (sia da solo che con la CDB, ma non ci sono mai state grandi differenze nel suono in un caso rispetto all’altro) era diventata sempre più country, ma lo spirito graffiante del rock’n’roll non lo aveva mai abbandonato, e ciò si notava specialmente nelle potenti esibizioni dal vivo. Attivo dagli anni sessanta, Daniels comincia principalmente come sessionman a Nashville (inizialmente come bassista, solo in seguito si sposta alla chitarra e come ho già detto al violino), suonando anche con Bob Dylan (negli album Nashville Skyline, Self Portrait e New Morning) e Leonard Cohen. Il suo esordio discografico omonimo avviene nel 1970, ma è con il quinto album Fire On The Mountain del 1974 che Charlie pubblica uno dei lavori cardine del southern rock di quel periodo, un lavoro splendido che contiene tre dei suoi brani più popolari: Caballo Diablo, Long Haired Country Boy e The South’s Gonna Do It.

Da lì in poi il suono diventa sempre più country (e le vendite iniziano ad aumentare), con dischi comunque di ottimo valore come Saddle Tramp, High Lonesome e soprattutto il pluripremiato Million Mile Reflections del 1979 che contiene la celebre The Devil Went Down To Georgia, unico singolo di Daniels a raggiungere il primo posto in classifica. Se gli album sono più country che rock, le esibizioni live pongono maggiormente l’accento su potenza ed elettricità, con il nostro che dà il via dalla metà dei seventies alle Volunteer Jam, una sorta di appuntamento annuale in cui i migliori gruppi del sud (e non solo) si trovano sullo stesso palco per lanciarsi appunto in jam infuocate, un rendez-vous che però negli anni verrà parecchio diradato. Negli anni ottanta Daniels continua a pubblicare album di buona qualità trovando anche ottimi riscontri di vendite (specialmente con Windows del 1982 e Simple Man del 1989), mentre dai novanta inizia a perdere qualche colpo con lavori che denotano un certo patriottismo da baci Perugina come lo stucchevole America, I Believe In You ma anche con buone cose come Renegade del 1991 (che contiene una bellissima versione country-rock di Layla di Eric Clapton) e By The Light Of The Moon, notevole e coinvolgente collezione di cowboy songs.

Nei duemila Charlie ribadisce la sua fede repubbicana (ma nei settanta aveva appoggiato la candidatura di Jimmy Carter) difendendo la politica estera di Geroge W. Bush e registrando addirittura un album dal vivo in Iraq davanti alle truppe americane; non mancano però le zampate, come il bel disco di duetti Deuces del 2007 e, negli ultimi anni, un eccellente tributo alle canzoni di Dylan (Off The Grid, 2014), bissato nel 2016 da un altro ottimo disco di canzoni western, questa volta dal suono più acustico (Night Hawk). Due anni fa è uscito il bellissimo tributo dal vivo a Charlie in occasione della pubblicazione della ventesima Volunteer Jam, un notevole doppio CD con ospiti del calibro di Blackberry Smoke, Lynyrd Skynyrd, Devon Allman con Duane Betts, Billy Gibbons oltre naturalmente al padrone di casa.

Riposa in pace, vecchio Charlie, ed insegna agli angeli come si suona il violino.

Marco Verdi

ringo starr 80

P.S: vorrei controbilanciare una brutta notizia con una lieta, facendo gli auguri a Ringo Starr per il suoi 80 anni, portati peraltro splendidamente. Non sto certo qui a spiegarvi di chi sto parlando (tutti sanno chi è ed in che gruppo ha militato), ma vorrei celebrarlo con due canzoni: la prima adattissima per via del titolo anche se non è lui a cantare (ma a suonare la batteria sì!), mentre la seconda è uno dei suoi classici assoluti e forse la mia preferita del suo repertorio solista, un brano il cui testo rivela che Ringo aveva capito fin da subito che il suo percorso artistico post-Beatles non sarebbe stata una passeggiata.

Sappiamo Cosa Aspettarci. E’ Sempre Lui, L’Ex Beatle! Ringo Starr – What’s My Name

ringo starr what's my name

Ringo Starr – What’s My Name – Universal Music

Album n° 20 (esclusi quelli usciti come All-Starr Band) per Ringo Starr, intitolato What’s My Name, è il “solito” disco per quello che sarà comunque sempre per tutti il batterista dei Beatles. Un disco pop piacevole e disimpegnato come è sempre stato per gli album di Ringo: i tempi degli esordi solisti quando aveva provato la strada degli standard classici e del country sono un lontano ricordo, mentre rimane a grandi linee quell’approccio più rock chitarristico degli ultimi anni, mutuato dalle sue collaborazioni con i musicisti della All-Starr Band, con il cognato Joe Walsh e Dave Stewart, che si alternano alla solista nei primi due brani e Steve Lukhater che è il chitarrista in quasi tutte le altre canzoni.. Tra gli altri membri della sua band per i concerti dal vivo ci sono anche Richard Page, Edgar Winter e Warren Ham, oltre a Edgar Winter, Benmont Bench e Jim Cox che si alternano come tastieristi: e naturalmente Paul McCartney, che suona il basso e si occupa delle armonie vocali nella cover del brano postumo di John Lennon, per completare la “reunion” il produttore del brano originale di John Jack Douglas ha inserito nella canzone anche una piccola citazione di Here Comes The Sun di George Harrison.

Una canzone romantica che Lennon aveva dedicato a Yoko Ono e che risulta il brano più romantico, malinconico e “beatlesiano” delle 10 tracce incluse nel CD, anche grazie alla presenza degli archi e della fisarmonica di Allison Lovejoy, oltre a Joe Walsh che utilizza un timbro molto simile a quello di George alla chitarra. Per il resto delle canzoni, Starr ha optato (a dispetto dei suoi quasi 80 anni) per un sound più rock e mosso, come nella traccia iniziale Gotta Get Up To Get Down, uno dei classici titoli nonsense alla Ringo, come A Hard Day’s Night e Tomorrow Never Knows, scritta insieme a Walsh, che improvvisa anche una sorta di rap rock nel brano, oltre a curare gli assoli di chitarra, waw-wah incluso e anche le tastiere di Edgar Winter hanno qualche rimando al suono di Billy Preston e Nathan East al basso fa la parte del McCartney; le parti di batteria sono tutte di Ringo, che è co-autore di tutti i brani e pure co-produttore. Anche It’s Not Love That You Want il brano scritto con Dave Stewart ha quell’aura tipica dei brani di Starr, pop-rock mosso e brioso. Magic è il brano scritto con Lukather una delle canzoni più rock, molto “riffata”, anche se il solito cantato laconico del nostro amico per emergere ha bisogno del consueto “aiuto dei suoi amici” alle armonie vocali, con un ottimo assolo di Steve.

Money (That’s What I Want)  è la cover del vecchio brano Motown che chiudeva With The Beatles, e nonostante l’impegno delle Waters alle armonie vocali, l’uso della voce trattata di Starr, che vorrebbe essere “moderna”, è invece piuttosto deleteria, mentre anche Better Days, scritta con Sam Hollander, è senza infamia e senza lode, buona la parte strumentale ma le melodie… L’allegra e spensierata Life Is Good è più adatta alle corde di Starr, con un ennesimo buon assolo di Lukather e anche Thank God For Music ancora scritta con Hollander, è una specie di ottimistica disamina della vita del nostro amico, con una bella melodia e ancora con un buon Lukather e sempre gradevole è Send Love Spread Peace, il classico brano con “messaggio” .universale (come da foto di copertina), con ottimo lavoro di Benmont Tench alle tastiere. Chiude la title track, il brano scritto con Colin Hay è uno di quelli più grintosi, con Warren Ham all’armonica e un fantastico Lukather alla slide, come detto, sappiamo cosa aspettarci, il solito Ringo!

Bruno Conti

Accadeva 50 Anni Fa, Ieri. Su E Giù Per Le Strisce Pedonali Di Abbey Road Con I Beatles: Ecco Il Cofanetto In Uscita Per L’Anniversario.

beatles abbey road box 50th anniversarybeatles abbey road 50th anniversary

Beatles – Abbey Road – Appple/Universal – Super Deluxe 3 CD + Blu-ray – 2 CD – 1 CD – 3 LP – 1 LP Standard – 1 LP Picture

Esattamente 50 anni fa (per la verità la data di uscita era stat il 26 settembre del 1969, un venerdì, come oggi) veniva pubblicato Abbey Road, l’ultimo grande album dei Beatles, anche se poi l’anno successivo sarebbe uscito Let It Be, che però era stato registrato prima del disco di cui ci stiamo occupando: la storia la conoscono un po’ tutti, anche perché in questi giorni c’è stato un florilegio di articoli e servizi televisivi dedicati a questo evento, ai quali comunque non possono esimermi di aggiungermi, raccontando a grandi linee come andarono le cose.

Il giorno dopo il concerto sulla terrazza, ovvero il 31 gennaio del 1969, un evento che avrebbe dovuto completare le registrazioni per quello che sarebbe diventato Let It Be (sia il disco che il film). il gruppo entrò in studio per registrare Two Of Us, Let It Be The Long And Winding Road, tre canzoni che per ovvi motivi non avevano potuto eseguire sul tetto. Ma due giorni più tardi succede un’altra cosa che mina ulteriormente i rapporti già deteriorati tra i i quattro: John, George e Ringo mettono in minoranza Paul e decidono di affidare i loro affari a Allen Klein, il manager americano dei Rolling Stones (ottima mossa!). Però anche se sotto alcuni aspetti non si potevano più vedere, oltre dieci anni di amicizia e complicità ( un paio in meno per Ringo) non si potevano cancellare in un attimo, e quindi anche se nel frattempo c’erano dei problemi tecnici ad utilizzare l’edificio della Apple dove un “amico” del periodo LSD di Lennon, tale “Magic Alex” Mardas, aveva installato un presunto banco di registrazione a 72 piste, che però si era rivelato essere un oscilloscopio tenuto insieme a casaccio da dei pezzi di legno, affidandosi a George Martin, che aveva noleggiato un vero banco a 8 piste dagli Abbey Road Studios, iniziano le registrazioni per quello che diventerà l’album omonimo, che però a dispetto del titolo, verrà registrato tra Olympic e Trident Studios.

E perciò il 22 di febbraio viene portata a termine, in 35 diversi tentativi, una prima versione di I Want You (She’s So Heavy), approfittando anche della presenza di Billy Preston, che non era ancora ripartito da Londra dopo le registrazioni di gennaio: la canzone, un blues tirato e reiterato, viene considerato, anche per il sottotitolo, come Helter Skelter, tra i prodromi del nascente heavy metal, ed in particolare di quello doom dei Black Sabbath (dove militava Ozzy Osbourne, grande fan della band). Quasi tutti hanno parlato bene di questo brano, meno Ian McDonald, l’autore dei libro Revolution In The Head (in italiano The Beatles L’Opera Completa, che se già non possedete comunque vi consiglio, in quanto secondo me si tratta del miglior libro a livello critico sulla musica del gruppo). Comunque il 14 aprile John e Paul da soli tornano in studio per registrare The Ballad Of John And Yoko, che troviamo tra le bonus del secondo CD, e che verrò pubblicato come singolo, tra il 16 e il 18 aprile registrano Old Brown Shoe di George Harrison, che sarà il lato B, sempre nelle bonus extra. Lo stesso giorno, il 16 aprile, iniziano le takes di Something (nelle parole di Frank Sinatra, la più bella canzone di Lennon e McCartney (!!!), e anche la più grande canzone d’amore mai scritta), ispirata dal brano di James Taylor Something In The Way She Moves (qualcosa che c’era nell’aria George era subito pronto a carpirlo,come diranno i giudici anche in relazione a My Sweet Lord, “ispirata” da He’s So Fine delle Chiffons), comunque grandissima canzone. E non dimentichiamo che pure John Lennon “si ispirò” a You Can’t Catch Me di Chuck Berry per Come Together, pagando poi pegno su Rock’N’Roll del 1975: e così abbiamo “sistemato” le prime due canzoni di Abbey Road, peraltro famosissime e bellissime.

Something verrà poi completata tra maggio ed agosto del 1969, mentre ad aprile i Beatles iniziano anche a lavorare su Oh! Darling e Octopus’s Garden, poi il segmento di You Never Give Me Your Money e così via, la maggior parte delle canzoni incise tra luglio ed agosto. La qualità sonora del nuovo mix stereo targato 2019 preparato da Giles Martin e dall’ingegnere del suono Sam Okell, questo sì agli Abbey Road Studios, è eccellente, soprattutto per la grande definizione del suono, a mio parere soprattutto le parti di basso di Paul McCartney suonano fantastiche. Senza dilungarci ulteriormente nel primo CD spiccano le due canzoni appena ricordate, che erano sul lato A del vecchio vinile, mentre del lato B come non ricordare il Long Medley preparato da Paul e Here Comes The Sun di George, per un album che la rivista Rolling Stone ha inserito al n° 14 dei Più Grandi Album Di Tutti I Tempi (ma i lettori lo misero al primo posto) e tantissimi altri critici ne hanno cantato le lodi nel corso degli anni, tanto da essere considerato uno dei più belli del quartetto di Liverpool. Se poi aggiungiamo una delle più iconiche copertine della storia del rock, con il famoso scatto sulle strisce pedonali di Abbey Road dell’8 agosto del 1969, si capisce perché c’era tanta attesa per la ristampa del 50° Anniversario.

Questo è quello che si sapeva, vediamo il resto.

[CD2: Sessions] dal cofanetto.
1. I Want You (She’s So Heavy) (Trident Recording Session & Reduction Mix) Stranamente la versione, non è più lunga di quella pubblicata sull’album, che come è noto, su ordine di Lennon a Geoff Emerick nell’editing finale anziché venire sfumata venne troncata brutalmente al minuto 7:44, concludendo il brano e la prima facciata del disco. Nel nuovo CD il brano dura “solo” 6 minuti e 59 secondi complessivamente, inclusa una breve falsa partenza e Lennon che arringa i presenti e poi sprona gli altri con un “My Boys Are Ready To Go”. La parte formidabile di questa take è la parte finale, quando Billy Preston per oltre tre minuti e mezzo imbastisce da par suo una jam fantastica con un assolo di organo reiterato che è pura libidine.
2. Goodbye (Home Demo) E’ una deliziosa canzone scritta da Paul McCartney per Mary Hopkin, solo voce e chitarra acustica, registrata a casa sua e non ancora completata.da Sir Macca.
3. Something (Studio Demo) Stesso discorso per il demo casalingo del brano in versione embrionale ed intimista, solo voce, chitarra elettrica e piano, e con il testo che comprende un passaggio non memorabile che poi verrà omesso nella versione definitiva “You know I love that woman of mine / And I need her all of the time / And you know what I’m telling to you / That woman don’t make me blue”, rime non indimenticabili.
4. The Ballad Of John And Yoko (Take 7) John all’acustica e Paul alla batteria danno l’OK a George Martin e poi partono per una versione scarna e minimale del brano che senza le sovraincisioni perde però molto della sua carica rock
5. Old Brown Shoe (Take 2) Versione abbastanza simile a quella che verrà pubblicata, con George alla slide e il ritmo galoppante con il basso in evidenza, per una canzone che al sottoscritto è sempre piaciuta parecchio. Paul dovrebbe essere al piano e la voce di John non sembra presente in questa take.

6. Oh! Darling (Take 4) Canzone ispirata a Paul dallo stile doo-wop, ottima prova vocale di McCartney, meno rifinita e più raffazzonata dell’originale, comunque una piacevolissima canzone.
7. Octopus’s Garden (Take 9) Il secondo brano scritto da Ringo (con un “piccolo” aiuto da parte di George) per un album dei Beatles è una canzone surreale e divertente, tra le migliori di Starr. Versione che viene interrotta bruscamente per un errore del batterista.
8. You Never Give Me Your Money (Take 36) Uno dei segmenti del Long Medley, qui lo ascoltiamo in una eccellente “long version” live con ottimo lavoro di John e George alle chitarre, veramente uno dei brani più interessanti del cofanetto.
9. Her Majesty (Takes 1-3) Questa era la breve traccia nascosta posta in conclusione della seconda facciata del disco, solo voce e chitarra acustica, qui in tre versioni registrate in successione.
10. Golden Slumbers/Carry That Weight (Takes 1-3 / Medley) Due delle tre canzoni poste nella parte finale del medley, Paul si prende in giro da solo, quando all’inizio di Golden Slumbers canta le prime strofe di The Fool On The Hill, il cui giro melodico è molto simile, ma in fondo le ha scritte entrambe lui. Tra i passaggi più belli di Abbey Road e bellissime outtakes, nonostante gli errori e le riprese.
11. Here Comes The Sun (Take 9) Solo il nucleo nudo e crudo della canzone originale, senza le armonie vocali dei Beatles, la parte di synth e tutte le sovraincisioni che ne costituivano parte del fascino.
12. Maxwell’s Silver Hammer (Take 12) Il brano più odiato da John e George che la consideravano “Granny music”, musica per nonne, ma a cui invece Paul teneva molto,tanto da costringere gli altri ad una estenuante serie di tentativi per raggiungere il risultato che voleva. In questa versione naturalmente mancano i colpi di martello sull’incudine dell’originale e nel finale McCartney cazzeggia ad libitum, diciamo non indispensabile, o meglio una mezza tavanata!

[CD3: Sessions] oppure CD 2 della versione doppia.
1. Come Together (Take 5) Versione più ruvida e rozza, buona ma non memorabile, anche con qualche imperfezione vocale di Lennon che alla fine rinuncia. 
2. The End (Take 3) uno dei tanti tentativi per la chiusa strumentale dell’album, non tra le più riuscite e coinvolgenti.
3. Come And Get It (Studio Demo) Questo è il brano scritto da Paul per i Badfinger, demo ben rifinito da One-Man Beatle, per una canzone pop estremamente gradevole tipica di McCartney. 
4. Sun King (Take 20)
5 Mean Mr Mustard (Take 20)
6. Polythene Pam (Take 27) Questi tre brani in sequenza sono il contributo di John Lennon al medley: la prima canticchiata in sottofondo e senza le armonie vocali da sballo dell’originale, non sembra più nemmeno quell’alternativa a Albatross dei Fleetwood Mac, stesso discorso per il secondo brano, cantato senza grande impegno da un John annoiato alla ventesima versione e il terzo il più interessante dove Lennon confessa all’inizio di take forse di essersi ispirato agli Who di Tommy per il riff insistito di chitarra.
7. She Came In Through The Bathroom Window (Take 27) che poi come nell’album senza soluzione di continuità si aggancia al brano di Paul, e anche questa è una delle cose più interessanti tra le outtakes, vibrante e di ottima qualità questa versione
8. Because (Take 1 – Instrumental) Un brano che aveva la sua forza nelle straordinarie armonie a tre parti poi aumentate fino a portarle a nove nella versione finale, in questa take solo della parte strumentale non brilla più di tanto.


9. The Long One (Trial Edit & Mix – 30 July 1969). (Medley: You Never Give Me Your Money, Sun King, Mean Mr Mustard, Her Majesty, Polythene Pam, She Came In Through The Bathroom Window, Golden Slumbers, Carry That Weight, The End) Versione alternativa del lungo medley, con tutti i frizzi e lazzi vocali strumentali della versione definitiva, che dire, bellissimo quasi come l’originale, con Her Majesty che rientra a far parte del medley come era stato previsto all’inizio, peccato che manchi ila lunga parte finale chitarristica.
10. Something (Take 39 – Instrumental – Strings Only) La descrizione dice tutto, versione strumentale solo per archi
12. Golden Slumbers/Carry That Weight (Take 17 – Instrumental – Strings & Brass Only) E anche le parti strumentali solo per fiati e archi di questi pezzi è interessante ma non esiziale.

In conclusione ed in definitiva i circa 100 euri che ti chiedono per il cofanetto, al di là del bellissimo libro incluso, sono soldi ben spesi forse solo se siete fan accaniti dei Beatles. Mi sembra che nella ristampa del White Album ci fosse molta più roba e poi il solito bel mah per il Blu-ray solo audio con le versioni per audiofili, che confesso di non capire.

Bruno Contii

Un Riuscito Omaggio Alle Sue Radici, Anche Attraverso Una Serie Di Duetti. Rodney Crowell – Texas

rodney_crowell-Texas_cover

Rodney Crowell – Texas – RC1 Rodney Crowell Records

Il nostro amico viene dal Texas, come recita il titolo di uno dei suoi dischi degli anni 2000 The Houston Kid, ma si è trasferito a Nashville, Tennessee nel lontano 1972, dove dapprima è stato uno dei più apprezzati autori country per altri cantanti e poi nel 1978 ha iniziato la sua carriera solista con l’ottimo Ain’t Living Long Like This. Nel corso degli anni il suo stile, comunque country-rock, come testimonia la sua militanza nella Hot Band, il gruppo che ha accompagnato a lungo Emmylou Harris, si è progressivamente allargato con l’inserimento di elementi, folk, roots, Americana ed in generale cantautorali, anche grazie al sodalizio con Rosanne Cash, sposata nel 1979, e con cui ha collaborato a lungo anche a livello musicale, sia come produttore che come autore di canzoni. Quando la loro unione ha iniziato a sfaldarsi, ed in seguito dopo il divorzio, i due (un po’ come Richard e Linda Thompson) hanno tratto ispirazione dalle loro amare vicissitudini amorose e personali per realizzare alcuni dei dischi migliori delle rispettive carriere, anche se poi, appianate le divergenze, i due col passare del tempo sono rimasti amici e collaborano saltuariamente a livello musicale.

Tra l’altro Crowell, che ha comunque una discografia cospicua, con una ventina di album di studio pubblicati, questo Texas dovrebbe essere il n° 21, nell’ultima decade ha incrementato la sua produzione, e degli ultimi tre dischi si era occupato l’amico Marco, incluso uno natalizio https://discoclub.myblog.it/2018/11/11/per-un-natale-texano-diverso-rodney-crowell-christmas-everywhere/ , dove all’interno della recensione trovate il link per risalire ai precedenti e leggere quanto scritto su di lui nel Blog. Per cui non mi dilungo ulteriormente e passo a parlarvi del nuovo album: come ricorda il titolo del disco, oltre ad essere un omaggio al suo stato di origine questo Texas è un album quasi totalmente di duetti, prodotto dallo stesso Crowell con Ray Kennedy, e oltre agli ospiti che vediamo subito brano per brano, nel CD suona una pletora di musicisti veramente formidabile, decine di strumentisti che si alternano nelle varie canzoni. Alle chitarre tra gli altri troviamo Audley Freed, Jack Pearson, Jedd Hughes, John Jorgenson, Steuart Smith, al basso Dennis Crouch, Lex Price Michael Rhodes, alla batteria Fred Eltringham Greg Morrow, oltre a Ringo Starr, alle tastiere Jim Cox, oltre a violinisti, mandolinisti e suonatori di fisarmonica assortiti. Le canzoni, che formano una sorta di ciclo dedicato ai vari aspetti del Lone Star State, portano tutte la firma di Crowell, che per certi versi le ha anche adattate alle caratteristiche dei vari musicisti che partecipano all’album: l’iniziale Flatland Hillbillies è addirittura in trio, con Randy Rogers a rappresentare il “nuovo” movimento Red Dirt, ma anche il country-rock ed il southern, mentre Lee Ann Womack è l’unica (bella) voce femminile, ricorrente, visto che appare in due brani, e si tratta di un pezzo grintoso, bluesato, con il testo divertito e ricco di humor, le chitarre sudiste e vibranti sono quelle di Freed e Jorgenson.

Caw Caw Blues come da titolo è un altro brano di quelli tosti e tirati, con Vince Gill voce duettante che doppia quella di Crowell e soprattutto Jack Pearson alla solista, che amplifica il suono southern ripreso dalla sua militanza negli Allman Brothers, e addirittura il rock sudista tocca il suo apice in una poderosa 56 Fury, dove Billy F. Gibbons scatena il suo boogie-rock  in un pezzo che non ha nulla da invidiare alle migliori cavalcate degli ZZ Top, pure con Rodney Crowell intrippato alla grande. Deep In The Heart Of Uncertain Texas vede financo la presenza di tre vocalist ospiti nella stessa canzone, Willie Nelson, Lee Ann Womack Ronnie Dunnin un delizioso valzerone, dove si apprezzano la fisarmonica di Rory Hoffman, la Resonator guitar di Hughes, mandolino e violino, per una splendida canzone che profuma di Texas e country classico; Ringo Starr offre l’inconfondibile drive della sua batteria in una divertente e mossa, beatlesiana persino a tratti You’re Only Happy When You’re Miserable, con la tipica ironia delle canzoni di Crowell, mentre la band, di nuovo con uno scatenato Jorgenson alla chitarra e l’ottimo Cox al piano, tira di brutto. I’ll Show You non prevede ospiti, c’è ancora Pearson alla solista, il sound è sempre bluesy ed elettrico, sembra quasi un brano alla David Bromberg, laconico e rilassato, quasi in talking con l’ottimo Cox al piano e Tim Lauer all’organo e una atmosfera da saloon fumoso, What You Gonna Do Now, con l’amico Lyle Lovett, è un altro vivacissimo rock-blues con i due che si “lanciano” versi l’un l’altro con una grinta ed un divertimento veramente palpabili, mentre Steuart Smith rilascia un assolo breve ma incisivo, se musica texana deve essere, questo ne è uno dei migliori esempi.

The Border, con John Jorgenson alla gut string guitar è proprio una atmosferica e bellissima ballata di frontiera, con Cox al piano, Hoffman alla fisa, elementi messicani e rimandi ai migliori Joe Ely o Tom Russell, Siobhan Kennedy alle armonie vocali aggiunge un tocco di classe; niente ospiti nella successiva Treetop Slim And Billy Lowgrass, una ondeggiante, swingante e vivace outlaw song, con Eamon McLoughlin a violino e mandolino, mentre in Brown And Root, Brown And Root, oltre che il mandolino, Steve Earle, chi altri, porta anche il suo vocione per una sorta di lezione di storia sul Texas dall’era della depressione alla guerra del Vietnam, nel brano più politicizzato, ma anche tra i più belli del disco, una sorta di folk song intensa e palpitante, dove si apprezzano anche la fisa e l’armonica di Rory Hoffman. In chiusura un altro brano senza ospiti Texas Drought Part 1, dove Crowell rende nuovamente omaggio al sound dei Beatles, quello dell’epoca di Let It Be O Abbey Road, belle armonie vocali (ancora Siobhan Kennedy) e una bella melodia che unisce il pop classico dei Beatles con la migliore musica americana.

Eccellente chiusura per un ennesimo ottimo album che conferma la classe immensa di questo grande cantautore.

Bruno Conti