Un Ringo In Versione “Mini”, Ma Con Più Sostanza Del Solito! Ringo Starr – Zoom In

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Ringo Starr – Zoom In – Universal CD EP

Inutile ribadire che la carriera solista di Ringo Starr ha rispettato in pieno le aspettative che i fans dei Beatles avevano dopo lo scioglimento del loro gruppo preferito: una lunga serie di album di piacevole ascolto, alcuni più riusciti di altri, ma con pochi titoli veramente imprescindibili (a mio parere si contano sulle dita di una mano: il countreggiante Beaucoup Of Blues del 1970, lo splendido Ringo del 1973, il suo seguito Goodnight Vienna, il comeback album del 1992 Time Takes Time e, forse, Vertical Man del 1998). In particolare, gli otto lavori pubblicati dal cantante-batterista di Liverpool tra il 2003 ed il 2019 sono tutti all’insegna di un pop-rock di facile assimilazione ma con poche vere zampate che li distinguano l’uno dall’altro, diciamo un livello medio di tre stellette https://discoclub.myblog.it/2019/11/16/sappiamo-cosa-aspettarci-e-sempre-lui-lex-beatle-ringo-starr-whats-my-name/ . Lo scorso anno Ringo si è trovato come tutti a fare i conti con la pandemia, e durante il lockdown ha messo insieme una manciata di canzoni nuove e le ha registrate come d’abitudine “with a little help from his friends”.

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Il risultato è Zoom In, il primo EP della carriera del nostro, cinque canzoni per la durata complessiva di 19 minuti che mostrano un Ringo ispirato ed in ottima forma: forse il fatto di concentrarsi su soli cinque pezzi ha reso il progetto più solido e compatto e senza i soliti riempitivi presenti nei vari album dell’ex Beatle, ma è un fatto che Zoom In, pur non essendo un capolavoro, è la cosa migliore messa su disco dal barbuto drummer dai tempi di Ringo Rama (2003). Cinque brani che toccano vari generi, tutti affrontati da Ringo con la consueta verve e l’innata simpatia che lo contraddistingue da sempre, e prodotti da lui stesso insieme a Bruce Sugar. L’iniziale Here’s To The Nights (rilasciata sul finire del 2020) è il brano portante dell’EP, una bellissima ed emozionante ballata tra le migliori di Ringo negli ultimi trent’anni https://www.youtube.com/watch?v=S6oqrbFzLaU , nonostante una melodia ed un arrangiamento un po’ ruffiani tipici dell’autrice del pezzo (cioè la nota hit-maker Diane Warren): Ringo è accompagnato da Steve Lukather dei Toto alla chitarra, Nathan East al basso e Benmont Tench al pianoforte, ma il meglio lo troviamo nel coro “alla We Are The World” con la partecipazione tra gli altri di Paul McCartney, Joe Walsh, Lenny Kravitz, Sheryl Crow, Yola, Chris Stapleton, Ben Harper e Dave Grohl.

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Ascoltate questa canzone almeno un paio di volte e farete fatica a togliervela dalle orecchie. Zoom In Zoom Out mostra il lato rock di Ringo, un brano cadenzato che vede ancora Tench al piano ed addirittura l’ex Doors Robby Krieger alla solista: la base è leggermente blues, ma poi Mr. Starkey intona una delle sue tipiche melodie saltellanti ben supportato dalle backing vocalist femminili, ed il risultato è una canzone solida e piacevole al tempo stesso https://www.youtube.com/watch?v=w3XaEPUmsFA . La pimpante Teach Me To Tango fonde mirabilmente una struttura da pop song con ritmi quasi latini, anche se una chitarrina insinuante mantiene alta anche la quota rock (ed il pezzo è, manco a dirlo, gradevolissimo) https://www.youtube.com/watch?v=zWrc9qRxx4Y , mentre Waiting For The Tide To Turn è un’inattesa incursione di Ringo nel reggae, un genere da lui molto amato (almeno così dice), ma che finora non aveva mai sfiorato: eppure il brano è riuscito, solare ed il nostro riesce a risultare credibile anche senza dreadlocks  . Chiude l’EP Not Enough Love In The World, scritta da Lukather insieme all’altro Toto Joseph Williams su misura per Ringo, in quanto si tratta di una deliziosa pop song dal ritmo guizzante ed un sapore decisamente beatlesiano https://www.youtube.com/watch?v=RJINbNKsAtc . Zoom In ci mostra quindi un Ringo Starr come di consueto fresco e piacevole ma, a differenza del solito, senza cali di qualità.

Marco Verdi

Un Altro Live Delle Aquile, Ma Almeno Questo E’ Completo! Eagles – Live From The Forum MMXVIII

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Eagles – Live From The Forum MMXVIII – Rhino/Warner 2CD – 2CD/DVD – 2CD/BluRay – 4LP

Quando nel gennaio del 2016 è mancato prematuramente Glenn Frey, membro fondatore e co-leader degli Eagles insieme a Don Henley, ho immediatamente pensato che la storia dello storico gruppo californiano fosse finita per sempre. Inizialmente questo era stato anche il pensiero dei suoi ex compagni (Henley, Timothy B. Schmit e Joe Walsh), ma poi evidentemente il profumo della pecunia è stato talmente forte da far loro cambiare presto idea; siccome però la loro attività principale ormai era circoscritta ai tour e di dischi nuovi non se ne parlava neanche, era sorto il problema di sostituire l’amico scomparso, ed i tre hanno optato per due nomi anziché uno. La decisione di andare avanti è già moralmente discutibile di suo (ma se i Queen trovano legittimo proseguire con un ex vincitore di talent show al posto di Freddie Mercury allora vale tutto), ma la scelta di rimpiazzare Frey con ben due musicisti è oltremodo bizzarra: il primo è Vince Gill, notissimo countryman titolare di una lunga carriera di tutto rispetto, ma che non ha nulla da spartire con il passato delle Aquile (se non il fatto di esserne sicuramente stato ispirato), mentre l’altro è il figlio di Glenn, Deacon Frey, che ha dovuto in fretta e furia “inventarsi” musicista per rispondere alla chiamata di Henley e soci, che con questa mossa pensavano di legittimare l’operazione.

Personalmente giudico abbastanza triste il fatto che Frey Jr. debba girare l’America riproponendo le canzoni del padre e non possa tentare di costruirsi una carriera sua, dato che ormai ha 27 anni, un’età comunque giovane ma non proprio da pischello. Dopo due anni di concerti ora i nostri hanno dato alle stampe la prima pubblicazione ufficiale con la nuova formazione a cinque, un album dal vivo intitolato Live From The Forum MMXVIII, registrato nel corso di tre serate di settembre del 2018 al The Forum di Inglewood, Los Angeles (disponibile in varie configurazioni audio e video, e con le immagini girate con la tecnologia 4K): a monte di tutto avere un nuovo disco degli Eagles, seppur live, è un piccolo evento dato che stiamo parlando di una delle band più popolari del pianeta, e siccome alla maggior parte degli ascoltatori non importa poi molto dei discorsi fatti prima sul buon gusto di continuare o meno senza Frey, prevedo vendite cospicue soprattutto nell’imminente periodo natalizio.

E poi non dimentichiamo che l’unico live della loro storia che forniva l’esperienza di un concerto completo era il Live From Melbourne del 2005, tra l’altro uscito solo in video. I nostri sul palco sono sempre stati impeccabili e continuano ad esserlo: Henley ha ancora una gran voce, Schmit armonizza sempre alla grande con il suo timbro angelico, Walsh non sarà un genio ma è un ottimo chitarrista ed un vero animale da palcoscenico, Gill è un professionista serissimo ed anche il giovane Frey mostra di cavarsela egregiamente; in più il suono è davvero spettacolare, ed i vari brani sono eseguiti con una precisione svizzera grazie anche all’aiuto di una notevole backing band alle spalle formata da due tastieristi, un batterista, un chitarrista (l’ottimo Steuart Smith), una sezione archi di cinque elementi ed altrettanti fiati. E poi, dulcis in fundo, ci sono le canzoni, veri e propri classici il cui ascolto è in grado di mettere d’accordo tutti, titoli famosissimi come Take It Easy, One Of These Nights, Take It To The Limit, Tequila Sunrise, I Can’t Tell You Why, New Kid In Town, Peaceful Easy Feeling, Love Will Keep Us Alive, Lyin’ Eyes, Already Gone, Heartache Tonight, Life In The Fast Lane, fino alla conclusione del concerto con le mitiche Hotel California, ancora oggi uno dei più bei pezzi in circolazione, e la ballata pianistica Desperado, che normalmente rappresenta la fine dello show ma qui c’è ancora tempo per una potente e coinvolgente resa di The Long Run: alla fine quasi non vi accorgerete che i brani di Frey sono cantati da altri due musicisti.

In scaletta però troviamo anche qualche canzone meno suonata, come l’iniziale cover di Seven Bridges Road (Steve Young), con i cinque che armonizzano alla grande, la roccata In The City che è il miglior contributo di sempre alle Aquile da parte di Walsh, la splendida versione di Ol’ 55 di Tom Waits, il pimpante country-rock di How Long (unico pezzo tratto dall’altalenante comeback album del 2007 Long Road Out Of Eden), e purtroppo anche la pessima Those Shoes. Infine c’è anche spazio per qualche brano dei vari repertori solisti, e se The Boys Of Summer di Henley è sempre molto piacevole (ma perché non suonano mai The End Of The Innocence?), Walsh passa dalle trascinanti Walk Away e Life’s Been Good al rock potente ma nulla più di Rocky Mountain Way per finire con la bruttarella Funk # 49, mentre pure Gill ha un momento tutto per sé con Don’t Let Our Love Start Slippin’ Away, uno dei suoi successi più noti.

Quindi, indipendentemente dal fatto che gli Eagles con Glenn Frey erano un’altra cosa, questo Live From The Forum MMXVIII si ascolta con grande piacere e può stare dignitosamente nella discografia del gruppo californiano, anche se gira e rigira sono sempre le stesse canzoni.

Marco Verdi

Il Ritorno Del “Fuorilegge” Con Una Banda Di Rinnegati. Ray Wylie Hubbard – Co-Starring

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Ray Wylie Hubbard – Co-Starring – Big Machine Records – CD – LP

Torna, a tre anni dal suo ultimo disco Tell The Devil I’m Gettin’ There As Fast As I Can, Ray Wylie Hubbard, uno dei migliori “texani” in assoluto (regolarmente recensito su queste pagine https://discoclub.myblog.it/2017/08/23/il-diavolo-secondo-ray-wylie-hubbard-tell-the-devil-im-gettin-there-as-fast-as-i-can/ ), con una carriera iniziata nel lontano ’76, prima come autore, poi come cantante di derivazione “country”, e proseguita come “rocker” a tutto tondo con influenze “blues”. Per questo ultimo progetto Co-Starring il “fuorilegge” Hubbard si avvale di un nutrito gruppo di “rinnegati”, comprimari di lusso a partire dai veterani Ringo Starr, Joe Walsh, Don Was, Ronnie Dunn, Peter Rowan, Chris Robinson (Black Crowes), novelle Calamity Jane quali le brave ma discontinue Larkin Poe, l’emergente Ashley McBryde, Pam Tillis, Elizabeth Cook, Paula Nelson (figlia del noto Willie) e giovani cacciatori di taglie come Aaron Lee Tasjan e Cadillac Three, per una decina di brani tra rock e blues, country e honky-tonky, un “cocktail” che risulta come sempre affascinante.

La cavalcata musicale si apre con Bad Trick, nel quale la band di Hubbard integrata da Ringo Starr, Don Was, Joe Walsh e Chris Robinson (una combinazione piuttosto strana), macina uno “swamp-rock” contagioso, segue Rock Gods (dedicata a Tom Petty) una ballata tagliente con la chitarra di Aaron Lee Tasjan in evidenza, cantata con trasporto da Ray Wylie, mentre il ritmo aumenta con la tosta Fast Left Hand (merito dei Cadillac Three, ovvero Jaren Johnston, Kelby Ray e Neil Mason), una rock-song trascinante con parti di chitarra che ricordano il grande Steve Vai. Dopo una breve sosta si riparte con una brano dedicato al bluesman e armonicista Mississippi John Hurt, cantata in duetto con Pam Tillis, mentre la seguente Drink Till I See Double è un bel brano “trash-country” con le voci d’accompagnamento di Paula Nelson e Elizabeth Cook, ad inseguire la tipica andatura cadenzata di Hubbard, per poi cambiare ancora ritmo con una sincopata R.O.C.K. che è valorizzata dalla emergente rock band di Nashville Tyler Bryant e i suoi Shakedown, e trovare il suo “alter ego” al femminile nella voce irresistibile di Ashley McBryde, in una meravigliosa Outlaw Blood dove si manifesta la bravura al mandolino di Jeff Plankenhorn.

La parte finale vede Hubbard esplorare il blues più scuro con Rattlesnake Shakin’ Woman, con l’intrigante apporto delle sorelle Larkin Poe, commuovere con una sontuosa ballata elettroacustica Hummingbird, eseguita con il musicista e compositore “bluegrass” americano Peter Rowan, suonata dal “duo” in punta di dita, e andare a chiudere conThe Messenger, in collaborazione con il cantautore “country” Ronnie Dunn e la poliedrica Pam Tillis, che nel testo e nell’arrangiamento riporta alla mente Mr. Bojangles di Jerry Jeff Walker. Questo signore viaggia ormai verso le 74 primavere e i quarant’anni di attività, con un “bottino” di 18 album (compreso questo), camminando sulla propria strada incurante di regole e convenzioni, un “outlaw” che si è ritagliato un mondo con la propria musica, raccontando storie di eroi buoni e cattivi, che lottano e si dibattono tra il bene e il male, un personaggio che starebbe a pennello in uno dei western di Sergio Leone, (il ruolo decidetelo voi dopo aver guardato la cover del CD), ovviamente con in sottofondo le musiche del compianto Ennio Morricone.

Credetemi bisogna chiamarsi Ray Wylie Hubbard per mantenere disco dopo disco una qualità delle canzoni sempre ad alto livello, e il contributo della gente che suona nel disco, che non molti riescono ad avere, ci fa sperare che con questo Co-Starring magariarrivi un tardivo riconoscimento. Consigliato!

Tino Montanari

Sappiamo Cosa Aspettarci. E’ Sempre Lui, L’Ex Beatle! Ringo Starr – What’s My Name

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Ringo Starr – What’s My Name – Universal Music

Album n° 20 (esclusi quelli usciti come All-Starr Band) per Ringo Starr, intitolato What’s My Name, è il “solito” disco per quello che sarà comunque sempre per tutti il batterista dei Beatles. Un disco pop piacevole e disimpegnato come è sempre stato per gli album di Ringo: i tempi degli esordi solisti quando aveva provato la strada degli standard classici e del country sono un lontano ricordo, mentre rimane a grandi linee quell’approccio più rock chitarristico degli ultimi anni, mutuato dalle sue collaborazioni con i musicisti della All-Starr Band, con il cognato Joe Walsh e Dave Stewart, che si alternano alla solista nei primi due brani e Steve Lukhater che è il chitarrista in quasi tutte le altre canzoni.. Tra gli altri membri della sua band per i concerti dal vivo ci sono anche Richard Page, Edgar Winter e Warren Ham, oltre a Edgar Winter, Benmont Bench e Jim Cox che si alternano come tastieristi: e naturalmente Paul McCartney, che suona il basso e si occupa delle armonie vocali nella cover del brano postumo di John Lennon, per completare la “reunion” il produttore del brano originale di John Jack Douglas ha inserito nella canzone anche una piccola citazione di Here Comes The Sun di George Harrison.

Una canzone romantica che Lennon aveva dedicato a Yoko Ono e che risulta il brano più romantico, malinconico e “beatlesiano” delle 10 tracce incluse nel CD, anche grazie alla presenza degli archi e della fisarmonica di Allison Lovejoy, oltre a Joe Walsh che utilizza un timbro molto simile a quello di George alla chitarra. Per il resto delle canzoni, Starr ha optato (a dispetto dei suoi quasi 80 anni) per un sound più rock e mosso, come nella traccia iniziale Gotta Get Up To Get Down, uno dei classici titoli nonsense alla Ringo, come A Hard Day’s Night e Tomorrow Never Knows, scritta insieme a Walsh, che improvvisa anche una sorta di rap rock nel brano, oltre a curare gli assoli di chitarra, waw-wah incluso e anche le tastiere di Edgar Winter hanno qualche rimando al suono di Billy Preston e Nathan East al basso fa la parte del McCartney; le parti di batteria sono tutte di Ringo, che è co-autore di tutti i brani e pure co-produttore. Anche It’s Not Love That You Want il brano scritto con Dave Stewart ha quell’aura tipica dei brani di Starr, pop-rock mosso e brioso. Magic è il brano scritto con Lukather una delle canzoni più rock, molto “riffata”, anche se il solito cantato laconico del nostro amico per emergere ha bisogno del consueto “aiuto dei suoi amici” alle armonie vocali, con un ottimo assolo di Steve.

Money (That’s What I Want)  è la cover del vecchio brano Motown che chiudeva With The Beatles, e nonostante l’impegno delle Waters alle armonie vocali, l’uso della voce trattata di Starr, che vorrebbe essere “moderna”, è invece piuttosto deleteria, mentre anche Better Days, scritta con Sam Hollander, è senza infamia e senza lode, buona la parte strumentale ma le melodie… L’allegra e spensierata Life Is Good è più adatta alle corde di Starr, con un ennesimo buon assolo di Lukather e anche Thank God For Music ancora scritta con Hollander, è una specie di ottimistica disamina della vita del nostro amico, con una bella melodia e ancora con un buon Lukather e sempre gradevole è Send Love Spread Peace, il classico brano con “messaggio” .universale (come da foto di copertina), con ottimo lavoro di Benmont Tench alle tastiere. Chiude la title track, il brano scritto con Colin Hay è uno di quelli più grintosi, con Warren Ham all’armonica e un fantastico Lukather alla slide, come detto, sappiamo cosa aspettarci, il solito Ringo!

Bruno Conti

Recensioni Cofanetti Autunno-Inverno 9. Un Box Lussuoso (E Costoso) Ma Fondamentalmente Inutile. A Meno Che… Eagles – Legacy

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Eagles – Legacy – Warner 12CD/DVD/BluRay – 15LP Box Set

…a meno che del gruppo abbiate poco o niente, nel qual caso il cofanetto in questione diventa imperdibile, in quanto elegante, ben fatto e tutto sommato dal costo equo (se dividete il totale per il numero dei dischetti, a meno che non vogliate la versione in vinile, che però omette la parte video), ma soprattutto per il fatto che la musica in esso contenuta è di livello eccelso. Ma andiamo con ordine: penso che non servano tante parole per spiegare chi sono gli Eagles, band simbolo del rock californiano degli anni settanta ed uno dei gruppi cardine della decade, nonché tra i più popolari al mondo (Italia compresa): basti pensare che, nel lungo periodo di separazione tra il 1980 ed il 1994 la loro fama non è calata di un millimetro, nonostante nel frattempo le carriere soliste dei vari membri non fossero mai veramente decollate. Ma, come ho già avuto modo di dire in passato, il gruppo guidato da Don Henley e Glenn Frey (scomparso nel nefasto 2016, primo e finora unico membro presente e passato ad averci lasciato) ha sempre avuto il braccino parecchio corto nella gestione degli archivi, regalando negli anni ai fans davvero poco a livello di materiale inedito (in studio praticamente nulla, qualcosa in più dal vivo ma quasi sempre con concerti monchi), ed anche con questo cofanetto celebrativo, intitolato Legacy, pare abbiano badato più alla confezione che al contenuto.

Eagles Legacy

Il box è, come già accennato, davvero bello, con inseriti all’interno, tre libretti a copertina dura, uno comprendente tutti gli album di studio, uno i live (compreso un DVD ed un BluRay) ed il terzo le note disco per disco e parecchie foto, ma niente testi o nomi di chi suona cosa nei vari dischi (e qualcuno online ha criticato anche la scelta di ignorare le vesti grafiche originali dei vari album). Il tutto senza l’ombra di mezza bonus track: l’unica chicca, se così vogliamo chiamarla, è un CD di dieci pezzi che contiene lati A e B di singoli, esclusivo per questo box, ma anche lì vedremo con poche sorprese. Ma analizziamo nel dettaglio il contenuto del cofanetto, che è comunque strepitoso, specie per i neofiti o per i super fan.

CD1: Eagles (1972) Suona strano che il disco d’esordio della band californiana sia stato registrato a Londra (con la produzione del grande Glyn Johns). Ma Eagles è un debutto coi fiocchi per il gruppo di Henley e Frey (completato da Bernie Leadon e Randy Meisner), e sono già presenti classici come lo splendido country-rock Take It Easy (scritta da Jackson Browne insieme a Frey), la potente ed intrigante rock song Witchy Woman e la deliziosa e countreggiante Peaceful, Easy Feeling. Tra i restanti brani si segnalano la trascinante Chug All Night, il rockin’ country Nightingale, ancora di Browne, e lo squisito honky-tonk Train Leaves Here This Morning di Leadon, responsabile anche del bluegrass elettrico Earlybird.  CD2: Desperado (1973) L’album migliore del primo periodo delle Aquile, un disco quasi perfetto in cui spiccano la splendida title track, tra le più belle canzoni dei seventies, la soft ballad di classe Tequila Sunrise e la sontuosa Doolin-Dalton, così bella che viene ripresa due volte. Ma non sono da meno Twenty-One, altro scintillante bluegrass di Leadon, l’irresistibile rock’n’roll di Out Of Control e la fulgida Saturday Night, con le perfette armonie vocali tipiche del gruppo.

CD3: On The Border (1974) Gli Eagles ringraziano Johns ed iniziano una lunga collaborazione con Bill Szymczyk, che dura fino ai giorni nostri. On The Border è un album di transizione, privo di vere hits, ma solido e di buon livello, a partire dal pimpante rock’n’roll d’apertura Already Gone, per proseguire con la bella cover di Tom Waits Ol’ 55 e con la 100% californiana The Best Of My Love. Brani minori ma comunque validi sono la squisita Midnight Flyer, ancora tra rock e bluegrass, la raffinata ballad My Man e la potente ed elettrica James Dean. In due brani fa la sua comparsa alla solista Don Felder, che da lì a breve entrerà a far parte stabile del gruppo. CD4: One Of These Nights (1975) La solita formula iniziava a mostrare la corda, e quindi i nostri aumentano le sonorità rock, pop ed anche errebi (come nel caso della famosa title track) entrando in disaccordo con Leadon che se ne andrà di lì a poco, non prima di aver lasciato in eredità l’ambizioso strumentale tra rock e musica western Journey Of The Sorcerer (per la verità tirato un po’ per le lunghe). Ci sono comunque un paio di omaggi al suono country-rock degli esordi con la tersa Lyin’ Eyes e la deliziosa e malinconica Hollywood Waltz. Ma il capolavoro del disco, e della carriera di Meisner, è la straordinaria ballata Take It To The Limit, tra le più belle in assoluto dei nostri. L’album è anche l’unico delle aquile a contenere un brano cantato da Felder, Visions, e dopo averlo ascoltato non è difficile capire perché non abbiano insistito.

CD5: Hotel California (1976) Il capolavoro degli Eagles, un disco quasi senza sbavature che deve gran parte della sua fama all’epica title track, una canzone magnifica dall’agghiacciante testo sul tema dell’autodistruzione e con uno dei più begli assoli di chitarra di sempre. Ma l’album contiene diverse altre perle, dal pop-rock quasi perfetto di New Kid In Town, alle roccate e coinvolgenti Life In The Fast Lane e Victim Of Love, fino alla buona slow ballad Wasted Time. Sul finale il disco cala leggermente, con il congedo di Meisner (che lascerà dopo l’uscita del disco) Try And Love Again, e l’esordio del nuovo chitarrista Joe Walsh (ex James Gang e subentrato al posto di Leadon), che con Pretty Maids All In A Row dimostra che le ballate non sono il suo pane. Ma c’è ancora tempo per un colpo di coda con la straordinaria The Last Resort, altra sontuosa ballad dalla melodia memorabile e con un crescendo emozionante. CD6: The Long Run (1979) Timothy B. Schmit, ex Poco, sostituisce Meisner giusto in tempo per partecipare a quello che per molti anni sarà l’ultimo album del gruppo, distrutto dai conflitti interni. The Long Run è un lavoro discontinuo, con tre pezzi ottimi (il gustoso errebi della title track, il rock’n’roll trascinante di Heartache Tonight, scritto con Bob Seger, e la malinconica The Sad Café), due buoni (la sofisticata I Can’t Tell You Why, perfetta per la voce angelica di Schmit, e la roccata In The City, con Walsh stavolta nel suo ambiente naturale) ed altri non proprio eccelsi, soprattutto le brutte The Disco Strangler e Those Shoes e la pessima Teenage Jail, forse la peggiore canzone in assoluto dei nostri. The Greeks Don’t Want No Freaks, che vede la presenza ai cori di Jimmy Buffett, è divertente nonostante sia un po’ stupidotta.

CD7/8: Long Road Out Of Eden (2007) un nuovo disco 28 anni dopo The Long Run, quasi un miracolo (anche se i nostri sono di nuovo insieme dal 1994 come live band), e la formazione è la stessa meno Felder, che ha “abbandonato” all’inizio del nuovo secolo per dissidi con Henley e Frey. Long Road Out Of Eden è formato da due CD, ed è il classico caso di un buon doppio album che avrebbe potuto essere un eccellente singolo, tenendo solo i brani migliori. Che sono concentrati in gran parte nel primo dischetto: la suggestiva apertura corale a cappella di No More Walks In The Wood, l’irresistibile country-rock How Long (scritta da J.D. Souther e suonata più volte dal vivo negli anni settanta dalle Aquile, ma mai incisa fino a quel momento), le belle Busy Being Fabulous, What Do I Do With My Heart e Waiting In The Weeds, la raffinata No More Cloudy Days e la delicata You Are Not Alone. Non male anche Guilty Of The Crime di Walsh, mentre gli highlights del secondo CD sono la grintosa Somebody e l’epica title track (10 minuti di durata), una signora canzone che però non è, come ha detto qualcuno, la nuova Hotel CaliforniaCD9: Eagles Live (1980) il primo disco dal vivo della band esce praticamente postumo, e contiene brani tratti dal tour del 1980 ma anche del 1976 (quindi ancora con Meisner in qualche brano). Ed è comunque un live splendido, con i nostri che forniscono scintillanti riletture delle pagine più belle del loro songbook (ma pare che i pezzi siano stati pesantemente ritoccati in studio), con l’aggiunta di due episodi del repertorio solista di Walsh (All Night Long e la trascinante Life’s Been Good, la signature song del biondo chitarrista) e della bellissima cover corale di Seven Bridges Road di Steve Young.

CD10: Hell Freezes Over (1994) la tanto attesa reunion avviene per un concerto negli studi della MTV a Burbank, al quale seguirà un tour di clamoroso successo. Il titolo si riferisce ad una frase di Henley dei primi anni ottanta, quando asserì che gli Eagles avrebbero suonato ancora assieme “quando l’inferno ghiaccerà”. I cinque (c’è anche Felder) sono in forma eccellente, e ci regalano versioni splendide di Take It Easy, Tequila Sunrise, I Can’t Tell You Why, The Last Resort e Desperado, e soprattutto una sontuosa Hotel California suonata interamente unplugged. Peccato scelgano di inserire anche le mediocri Pretty Maids All In A Row e New York Minute (di Henley solista quest’ultima). Ma la ciliegina sono quattro pezzi nuovi di zecca registrati in studio, tutti molto belli: il rock’n’roll quasi alla ZZ Top Get Over It, la romantica Love Will Keep Us Alive, scritta da Jim Capaldi e Paul Carrack ed affidata alla limpida voce di Schmit, la country ballad vecchio stile The Girl From Yesterday e l’intensa Learn To Be Still, slow song di Henley sulla falsariga di The End Of The InnocenceCD11: The Millenium Concert (2000) Uscito originariamente all’interno del cofanetto celebrativo Selected Works 1972-1999, in questo album si comincia a vedere il braccino corto dei nostri. Registrato il 31 Dicembre 1999 a Los Angeles, il CD (che è anche l’ultima apparizione su disco di Felder all’interno del gruppo) propone solo una parte del concerto, la miseria di dodici canzoni. Il suono e la performance sono impeccabili, e, a parte Hotel California e Peaceful, Easy Feeling, le Aquile propongono una scaletta “diversa”, con le raramente suonate Victim Of Love, Please Come Home For Christmas, Ol’ 55, The Best Of My Love ed una Take It To The Limit eseguita per la prima volta dal 1976 (la canta Frey). Però, porca pupazza, con solo 12 canzoni a disposizione, dovevamo per forza sorbirci le non eccezionali (eufemismo) Those Shoes, Dirty Laundy, All She Wants To Do Is Dance, Funky New Year e Funk # 49?

CD12: Singles And B-Sides (2018) Il CD “esclusivo” presenta, su dieci pezzi totali, sei versioni “single edit” di brani contenuti nei dischi precedenti; l’unica vera rarità, mai uscita prima in CD, è Get You In The Mood, un discreto rock-blues che era sul lato B di Take It Easy. Poi abbiamo le due facciate del singolo natalizio del 1978, Please Come Home For Christmas, decisamente bella (è un classico di Charles Brown), e Funky New Year, decisamente trascurabile. Chiude il dischetto la splendida Hole In The World, toccante canzone scritta all’indomani della tragedia dell’11 Settembre 2001, e caratterizzata dalle inimitabili armonie vocali del gruppo. DVD: Hell Freezes Over (1994) Trasposizione video del concerto già uscito in CD, con l’aggiunta di The Heart Of The Matter di Henley e Help Me Through The Night di Walsh e, come bonus audio, Seven Bridges Road, che però è un remaster della versione di Eagles Live (?!?). E, particolare non trascurabile, le quattro canzoni nuove che sul CD erano in studio qua sono dal vivo. BluRay: Farewell I Tour: Live From Melbourne (2005) Finalmente un concerto completo delle Aquile, e stavolta pure lungo, ma anche uno dei live in video più belli in circolazione, con i quattro in forma strepitosa, compreso Walsh (che nelle interviste degli extra sembra invece suonato come una campana). Inutile dire che i classici ci sono tutti, e sono suonati e cantati in maniera perfetta. Non mancano comunque le chicche, come alcuni ottimi episodi delle carriere soliste: The Boys Of Summer di Henley, You Belong To The City di Frey, Walk Away e Life’s Been Good di Walsh. Ci sono anche due brani all’epoca nuovi, No More Cloudy Days, che andrà su Long Road Out Of Eden, e One Day At A Time, che Walsh pubblicherà sul suo album solista Analog Man. Come ciliegina, la prima versione live ufficiale dell’emozionante Hole In The World, con armonie vocali da brivido.

A parte tutti i giudizi già espressi sull’avarizia discografica degli Eagles, Legacy è un cofanetto con dentro tantissima grande musica: diciamo che se conoscete qualcuno che a Natale vi vuol fare un bel regalo, questa potrebbe essere un’ottima opzione.

Marco Verdi

Un Doveroso Omaggio Ad Un Protagonista Del West Coast Sound. Various Artists – A Tribute To Dan Fogelberg

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Various Artists – A Tribute To Dan Fogelberg – BMG Rights Management

Il 16 dicembre (ieri) è caduto il decimo anniversario dalla prematura morte di Dan Fogelberg, autore di ottimi dischi negli anni settanta e ottanta in uno stile riconducibile al country rock molto in auge in quel periodo grazie a protagonisti di assoluto valore come gli Eagles, Jackson Browne, Crosby, Stills & Nash, James Taylor, Poco e Doobie Brothers, solo per citare alcuni dei nomi più noti. Daniel era originario di una piccola cittadina dell’Illinois, Peonia. Dopo aver militato in alcuni gruppi locali, decise di esibirsi in proprio ed ebbe la fortuna di essere notato da Irving Azoff, colui che sarebbe diventato manager di grandi stelle del rock, tra cui i già citati Eagles. Azoff gli fece ottenere il primo contratto discografico e lo presentò all’esperto bassista e produttore Norbert Putnam che divenne suo amico e fidato collaboratore per il decennio che seguì, dal bel disco d’esordio Home Free, del 1972, fino al capolavoro del 1981, il doppio The Innocent Age (disco strepitoso dove erano presenti Joni Mitchell, Glenn Frey, Brecker Brothers, Richie Furay. Emmylou Harris, Don Henley, Chris Hillman e moltissimi altri grandi musicisti).

Per tutta la sua carriera Fogelberg, oltre a mettersi in luce come valido compositore di ballate spezza cuori e di brani rock dalla tipica impronta della West Coast, esibì notevoli doti di arrangiatore e strumentista suonando ogni tipo di chitarra o tastiera, sempre coadiuvato da session men di primissimo ordine. Pubblicò anche due interessanti album in coppia con il flautista Tim Weisberg, prova tangibile di una passione mai sopita per il jazz e per gli arrangiamenti orchestrali, e un vero gioiello in stile bluegrass, High Country Snows del 1985, realizzato con una band di superstars della musica country tradizionale. Negli anni novanta Dan diminuì progressivamente le sue produzioni e l’ultimo lavoro con materiale inedito rimane Full Circle, del 2003 (senza contare Love In Time uscito postumo nel 2009). Dopo le sua scomparsa nel 2007, Jean Fogelberg, terza delle sue mogli, si è presa l’impegno di onorarne la memoria con un album tributo che coinvolgesse musicisti di grande fama, da vecchi amici e collaboratori del marito a stelle emergenti dell’ultima generazione che riconoscessero Fogelberg come fonte d’ispirazione.

Ad aiutarla, i fidati Putnam e Azoff, oltre al noto produttore Chuck Morris. Dopo sette anni e sette mesi passati a reclutare gli artisti e a trovare il tempo utile per farli incidere, ecco finalmente il risultato di tanta passione, un album piacevolissimo in cui la media delle performances si mantiene elevata e la bellezza originaria delle composizioni di Dan Fogelberg rimane intatta. Ad aprire le danze ci pensa l’icona del country nashvilliano Garth Brooks (supportato ai cori da Trisha Yearwood). La sua versione di Phoenix è fresca e potente con quel bel gioco di chitarre che caratterizzava anche la versione originale. Oibò! Che ci fa la regina della disco music in un contesto di questo genere? Frenate la vostra diffidenza, la scelta di Donna Summer (deceduta nel 2012, aveva registrato il pezzo due anni prima) per interpretare Nether Lands si rivela azzeccatissima.

Ascoltate come si dispiega la sua bella e stentorea voce sull’imponente arrangiamento orchestrale che riproduce fedelmente quello d’origine, e non potrete che applaudire. Michael Mc Donald annerisce con il suo vocione Better Change, sottolineandone il ritornello con un robusto coro gospel. La classe non è acqua, ma onestamente preferivo l’arrangiamento del suo autore. Vince Gill (a proposito, che ne dite del suo recente ingresso negli Eagles insieme al figlio di Glenn Frey?) duetta co nla moglie Amy Grant per uno degli hit di maggior successo di Fogelberg, la delicata Longer, qui impreziosita da un bell’assolo di tromba di Chris Botti. I Train (quelli di Hey Soul Sister) danno prova di coraggio dando ritmo ad una delle canzoni più lente e struggenti che Dan abbia mai composto, mantenendo la citazione finale di Auld Lang Syne suonata con il sax. A me non dispiace, ma siete liberi di pensarla diversamente.

Dobie Gray, protagonista negli anni settanta e ottanta tra country, soul e R&B (sua la mitica Drift Away), prima di arrendersi al cancro nel 2011 fece in tempo a registrare l’intensa  Don’t Lose Heart, uno dei pochi inediti presenti nella quadrupla antologia Portrait, del 1997. Versione di gran classe, che fa il pari con quella di Old Tennessee, eseguita da Danny Henson e Tom Kelly, in arte Fool’s Gold,  che accompagnarono Dan Fogelberg per il tour di Souvenirs nel 1974 ed incisero a loro nome un paio di buoni album nel ’76 e ’77. Casey James è un giovane cantautore e chitarrista texano di grandi prospettive come dimostrano i suoi tre dischi e questa incendiaria versione di As The Raven Flies. Casey ci dà dentro di brutto con la sua sei corde, dando nuova linfa ad un pezzo già trascinante. Randy Owen è meglio conosciuto come voce solista degli ultra noti Alabama. La sua scelta è perfetta perchè la magnifica country ballad Sutter’s Mill gli calza a pennello, melodia in crescendo e perfette armonie vocali nel refrain. Da qui in poi il tributo si assesta su livelli altissimi. Run For The Roses  è un’altra masterpiece song di Fogelberg e qui per riproporla al meglio troviamo altri due nomi eccellenti della country music, Richie Furay e la Nitty Gritty Dirt Band.

Boz Scaggs,  vecchia gloria del rock americano, interpreta con la sua calda ed intensa voce la malinconica Hard To Say, dotandola di un’atmosfera più blusey, con un pregevole assolo centrale di chitarra. Joe Walsh fu il produttore dell’ottimo e già citato Souvenirs, ovvio quindi che abbia scelto di riproporrre, insieme agli altri componenti degli Eagles, la canzone che apriva quell’album, Part Of The Plan. Bella versione, che mantiene la freschezza melodica dell’originale. Da quella che apre a quella che chiude lo stesso disco, manco a farlo apposta: There’s A Place In The World For A Gambler è, a mio modesto avviso uno dei vertici compositivi di Dan, una specie di inno che, non a caso, lui poneva in chiusura dei suoi concerti facendone cantare il ritornello al pubblico con un effetto da pelle d’oca (risentitela sul live Greetings From The West, ne vale la pena!). Il grande Jimmy Buffett la rivisita con tutta la maestria e la sensibilità di cui è capace, ricreando quel finale da brividi con gli strumenti e le voci che si rincorrono.

Il gran finale è riservato alla canzone in assoluto più nota e celebrata di Dan Fogelberg, quella Leader Of The Band che egli dedicò al padre, insegnante di musica e direttore della banda cittadina di Peonia. Zac Brown ne dà una versione scarna e toccante, registrata dal vivo, solo chitarra acustica e voci. Applausi…e da lassù padre e figlio riuniti sicuramente sorridono.

Marco Frosi

Ecco Un Altro Gruppo Con Il Braccino Corto! Eagles – Hotel California 40th Anniversary

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The Eagles – Hotel California 40th Anniversary – Elektra/Warner CD – 2CD – Box Set 2CD/BluRay

(NDM: mi spiace cominciare al solito con una precisazione, ma il disco in questione uscì nel Dicembre del 1976, e quindi questa deluxe edition doveva essere pubblicata lo scorso anno, in quanto se la matematica non è un’opinione gli anni sono 41. Poi siamo d’accordo che il suo enorme successo ha avuto il suo picco nel 1977, ma nessuno si è mai sognato, per esempio, di affermare che The Wall dei Pink Floyd fosse un album del 1980).

Se c’è un gruppo che negli anni ha sempre concesso pochissimo ai suoi fans in materia di inediti e concerti d’archivio, questi sono certamente gli Eagles, e la cosa è ancora più strana in quanto stiamo parlando di una delle band più popolari al mondo. Oggi l’occasione per riparare in parte a questa mancanza è affidata a questa ristampa celebrativa del loro disco più famoso, e per molti il loro capolavoro (per me è Desperado, ma di un nonnulla), cioè Hotel California, uno degli album più venduti di tutti i tempi. L’operazione comprende l’inutile riedizione singola (buona al limite per i neofiti), un doppio CD ed un cofanetto deluxe, ma anche questa volta il gruppo californiano d’adozione (o chi decide per loro) si è contraddistinto per il braccino corto, in quanto la versione doppia propone sul secondo CD un concerto inedito a Los Angeles dell’Ottobre del 1976, ma soltanto dieci canzoni per la miseria di 48 minuti! Cosa ancora più grave, il cofanetto, oltre ad essere ridicolmente caro (circa 90 euro), non aggiunge un solo minuto di musica inedita, essendo il terzo dischetto una versione in BluRay audio dell’album principale: quindi quasi 70 euro in più per un doppione sonoro ed un (bel) libro con foto e note (note completamente assenti dalla versione doppia, solo qualche foto ed i crediti, neppure i testi delle canzoni).

E per le Aquile questo è un vecchio vizio, siccome già in passato si erano contraddistinti per la loro parsimonia: nel cofanetto retrospettivo del 2000 Selected Works, oltre alla miseria di tre inediti che non erano neppure canzoni, c’era il Millenuim Concert, e anche lì solo 12 canzoni, mentre come aggiunta alla versione deluxe dello splendido DVD History Of The Eagles c’era un live del 1977, ma anche stavolta solo una manciata di brani. Esaminiamo quindi il contenuto di questa ristampa, e stavolta mi limito alla versione doppia, dato che basta e avanza. Nel 1976 gli Eagles erano ad un punto di svolta: dopo l’ottimo successo di One Of These Nights avevano perso un pezzo per strada, in quanto Bernie Leadon non era soddisfatto della direzione musicale più commerciale presa dal gruppo; Don Henley e Glenn Frey, da sempre i due leader della band, ingaggiarono quindi Joe Walsh, ex chitarrista della James Gang, che garantiva un approccio più rock ed era considerato il giusto partner per l’altro axeman Don Felder. Don e Glenn avevano in mente quindi di alzare ulteriormente l’asticella, e pensarono ad una sorta di concept album sui problemi causati da fama e successo, dalla perdita dell’innocenza e dalla discesa agli inferi a seguito di un tenore di vita “nella corsia di sorpasso”: Hotel California, l’album che ne risultò (con una iconica copertina che raffigurava il barocco Beverly Hills Hotel di Los Angeles in maniera un po’ inquietante) fu un grande disco, e lo è ancora quattro decenni dopo. Gran parte della sua fortuna la deve indubbiamente alla fantastica title track, una di quelle canzoni che definiscono una carriera intera, un irripetibile equilibrio tra una melodia di prim’ordine, un ritornello strepitoso, un testo degno di una trama da film horror ed un assolo di chitarra finale, suonato all’unisono da Walsh e Felder, che è stato giudicato tra i più belli di sempre.

Ma l’album contiene altre grandi canzoni, ed è in un certo senso il disco di Henley, che canta da solista ben cinque degli otto pezzi totali (uno è una ripresa strumentale di Wasted Time): oltre alla title track Don è protagonista infatti della roboante Life In The Fast Lane, caratterizzata da un gran lavoro di Walsh, della già citata Wasted Time, romantica ma non melensa, la roccata e trascinante Victim Of Love e soprattutto la magnifica The Last Resort, una lunga e sontuosa ballata con una melodia ed un crescendo strepitosi, uno dei pezzi più belli delle Aquile in assoluto. Frey canta da solista in un solo brano, il pop-rock di gran classe New Kid In Town (il brano più di successo dopo Hotel California), Randy Meisner fornisce il suo ultimo contributo (lascerà la baracca l’anno dopo, sostituito da Timothy B. Schmit) con la gradevole Try And Love Again, unico rimando sonoro ai primi Eagles, mentre Walsh a mio parere “cicca” un po’ il suo esordio con la lenta e noiosa Pretty Maids All In A Row: Joe non è mai stato un grande songwriter, e men che meno nelle ballate. E veniamo al secondo CD, che come da copione è davvero bello, in quanto i nostri sono sempre stati una live band coi fiocchi…peccato che finisca quando ci si comincia a prendere gusto! Da Hotel California, che al momento del concerto doveva ancora uscire, ci sono la title track, già imperdibile, ed una New Kid In Town più rock che in studio; l’inizio della serata è riservato alla sempre bellissima e coinvolgente Take It Easy, anch’essa decisamente più chitarristica, subito seguita dall’altrettanto splendida Take It To The Limit, la signature song di Meisner. Ci sono anche due “deep cuts”, ovvero due pezzi poco noti (entrambi tratti da On The Border), James Dean e Good Day In Hell, uno spedito country-rock chitarristico la prima ed un ruspante brano che sa di southern la seconda (ottima la slide). L’intrigante Witchy Woman è sempre una gran bella rock song, mentre Funk # 49 dimostra i limiti di Joe come autore. Finale con la funkeggiante One Of These Nights, la già citata Hotel California ed il travolgente rock’n’roll di Already Gone.

E poi, come già detto, il CD finisce, lasciandoci l’amaro in bocca per l’ennesima occasione perduta.

Marco Verdi

Il “Solito” Ringo, Piacevole E Disimpegnato. Ringo Starr – Give More Love

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Ringo Starr – Give More Love – Universal CD

Personalmente non sono mai stato d’accordo con le critiche più frequenti mosse negli anni verso Ringo Starr, e cioè che fosse un batterista piuttosto scarso e che dovesse la sua fama semplicemente all’allontanamento di Pete Best dal posto dietro ai tamburi dei Beatles. Certo, quello può essere stato un colpo di fortuna, ma il piccolo e nasuto Richard Starkey i galloni se li è guadagnati sul campo, migliorandosi negli anni e mettendo a punto uno stile riconoscibilissimo, pulito ed essenziale: non credo infatti che la miriade di musicisti che, dal 1970 in poi, hanno richiesto i servigi di Ringo sui propri album fossero tutti degli autolesionisti che volevano un batterista poco capace solo perché “faceva figo” avere il nome di un Beatle sul disco. Diverso è il discorso quando si parla di Ringo come musicista in proprio, dato che nella sua ormai ampia discografia (19 album di studio compreso l’ultimo) e volendo stare larghi, di dischi indispensabili ne citerei tre: l’ottimo esercizio di puro country Beaucoups Of Blues del 1970, lo splendido Ringo del 1973 ed il riuscito comeback album del 1992 Time Takes Time. Nel corso degli ultimi vent’anni Ringo ha continuato ad incidere con regolarità (e ad esibirsi con la sua All-Starr Band, ma questa è un’altra storia), sfornando una serie di album tanto piacevoli quanto tutto sommato superflui, con alcuni meglio di altri (Vertical Man, Ringo Rama, Liverpool 8) ed altri apprezzabili ma decisamente meno riusciti, tra i quali metterei senz’altro i tre usciti nella presente decade, Y Not http://discoclub.myblog.it/2009/12/30/ringo-starr-y-not/ , Ringo 2012 e Postcard From Paradise.

Give More Love, uscito il 15 Settembre scorso, è un buon disco, con alcune canzoni ottime ed altre più nella norma, un lavoro che non si aggiunge certo ai tre “imperdibili” citati all’inizio ma si colloca altrettanto certamente tra i più positivi delle ultime due decadi. Inizialmente Give More Love doveva essere un album country da realizzare in collaborazione con l’ex Eurythmics Dave Stewart, ma poi Ringo ha scritto canzoni con uno spirito diverso, più rock, e le ha incise e prodotte in proprio nel suo studio casalingo. E l’esito finale è molto piacevole, forse più del solito: Ringo non sarà mai un fuoriclasse, ma in tutti questi anni ha imparato anche a scrivere canzoni migliori, e se messo nelle giuste condizioni, cioè con in brani adatti a lui e con l’aiuto di qualche amico, è ancora in grado di divertire. Dicevo degli amici, ed in questo disco c’è una lista di nomi impressionanti, che solo ad elencarli tutti ci vuole un post a parte (anche se ognuno di loro, devo dirlo, si mette al servizio del nostro senza rubargli mai la scena): Steve Lukather, Peter Frampton, Joe Walsh, Greg Leisz, Dave Stewart, Gary Nicholson, Benmont Tench, Edgar Winter, Don Was, Greg e Matt Bissonette, Timothy B. Schmit, Nathan East e, l’ho lasciato volutamente per ultimo, l’ex compare Paul McCartney al basso in due pezzi. Un gradevole disco di pop-rock quindi, senza troppe problematiche, di classe e suonato benissimo. Si inizia con la potente We’re On The Road Again, un rock’n’roll trascinante con Lukather alla solista e McCartney al basso che “pompano” che è un piacere e Ringo che canta in maniera sicura (e Paul alla fine piazza un paio di controcanti riconoscibilissimi): ottimo avvio. Laughable, cadenzata ed insinuante, è piacevole ed immediata, grazie ad un bel refrain, e mostra che il nostro ha scelto una produzione più rock che pop, con grande spazio per le chitarre (qui l’axeman è Frampton).

Show Me The Way è uno slow piuttosto asciutto nell’arrangiamento (organo, chitarra e sezione ritmica), ma io Ringo lo preferisco nei brani più mossi, come Speed Of Sound, altro rock’n’roll deciso, ben eseguito e sufficientemente coinvolgente, con Frampton che per l’occasione rispolvera il suo talkbox. Molto carina Standing Still, un rock-country-blues con un bravissimo Leisz al dobro e Ringo che intona una melodia che piace all’istante; King Of The Kingdom (scritta con Van Dyke Parks) ha un tempo reggae, un motivo orecchiabile e solare ed un bell’intervento di Winter al sax, mentre Electricity, nonostante la presenza di Walsh e Tench ed un testo autobiografico, non è una gran canzone. Molto meglio So Wrong For So Long, una languida country ballad con la splendida steel di Leisz, unico residuo del progetto iniziale con Stewart (che infatti è co-autore), un peccato comunque che non si sia andati fino in fondo. La parte “nuova” del CD (dopo vedremo perché nuova) si chiude con la swingata Shake It Up, un boogie dal gran ritmo, una delle più immediate del lavoro, e con la squisita title track, la più pop del disco, ma con il sapore nostalgico dei brani dell’amico George Harrison. A questo punto il dischetto presenta quattro bonus tracks, quattro brani che Ringo ha preso dal suo passato reincidendoli ex novo (e va detto, senza mai superare gli originali), a partire da una versione molto particolare di Back Off Boogaloo, che parte dal demo originale del 1971 al quale sono stati aggiunti gli strumenti odierni, e c’è anche Jeff Lynne alla chitarra (e per una volta non alla produzione). Poi abbiamo la beatlesiana Don’t Pass Me By, suonata insieme alla band indie americana Vandaveer (ed accenno finale ad Octopus’s Garden), una tonica You Can’t Fight Lightning con il gruppo anglo-svedese Alberta Cross e, sempre con i Vandaveer, la sempre bellissima Photograph.

Un disco, ripeto, molto piacevole e senza troppe elucubrazioni mentali, forse non imperdibile, ma comunque se lo comprate non sono soldi buttati.

Marco Verdi

Il Disco Blues Dell’Anno? Forse No, Ma Soltanto Perché Non E’ (Solo) Blues! Taj Mahal & Keb’ Mo’ – TajMo

tajmo

Taj Mahal & Keb’ Mo’ – TajMo – Concord CD

Henry Saint Clair Fredericks, meglio conosciuto come Taj Mahal, è una vera e propria leggenda della musica americana. Considerato giustamente uno dei giganti del blues, Taj non è mai stato però solo un bluesman: certo, la musica del diavolo è sempre stata quella più presente nei suoi dischi, ma spesso e volentieri il musicista di Harlem si è fatto contaminare da folk, rock, soul, R&B, country, musica africana e, sue grandi passioni, le musiche caraibica e hawaiana. Nella sua carriera ha inciso, live compresi, più di trenta dischi, meno di quanto uno potrebbe pensare (preferendo quindi la qualità alla quantità), ma è stato coinvolto negli anni in una serie innumerevole di collaborazioni, le più note delle quali sono il famoso e variopinto Rock And Roll Circus dei Rolling Stones ed il supergruppo dei Rising Sons insieme a Ry Cooder, una band giovanile dalle enormi potenzialità che avrebbe meritato ben altra fortuna: discograficamente Mahal è fermo dal 2008, anno in cui diede alle stampe l’ottimo MaestroKeb’ Mo’, pseudonimo di Kevin Moore, è invece un personaggio di minor profilo, ma pur sempre di una certa importanza: attivo dagli anni ottanta, Moore è sempre stato un bluesman raffinato e con spesso un occhio rivolto alle vendite, con non infrequenti ammiccamenti al pop e diversi Grammy vinti, anche se ultimamente sembra aver preso stabilmente la strada del blues; Moore e Mahal non avevano mai collaborato, almeno fino ad oggi, dal momento che hanno deciso di unire le forze e pubblicare questo album di coppia, intitolato semplicemente TajMo.

Ed il disco è una vera sorpresa, non tanto per Mahal che sappiamo essere un fuoriclasse, quanto per Moore, il quale, forse stimolato dalla presenza del grande Taj, ha dato il meglio di sé, forse come raramente aveva fatto prima. Un album splendido, suonato e cantato alla grande dai due leader (davvero due generazioni a confronto) e con una lunga serie di ottimi sessionmen che rendono il suono del disco davvero ricco e pieno di sfumature e sfaccettature; come ho scritto nel titolo, il disco non è solo blues, almeno non nel senso canonico del termine: certo, il blues è quasi sempre presente, ma il più delle volte mescolato con il soul (i fiati sono molto presenti), il folk, la musica roots ed anche un paio di ballate, con un giusto bilanciamento di cover e brani originali, questi ultimi, sei su undici totali, tutti scritti da Moore, e due di essi insieme a Taj. Dulcis in fundo, abbiamo anche diversi ospiti di nome (e sostanza), come Bonnie Raitt, l’Aquila Joe Walsh, il songwriter canadese Colin Linden, la percussionista Sheila E. (sorella di Alejandro Escovedo), il grande batterista Chester Thompson, già con Frank Zappa Genesis e la cantante soul e jazz Lizz Wright. Quello che forse stupisce di più è però l’affiatamento tra i due leader, quasi come se TajMo non fosse il primo disco in coppia ma l’ultimo di una lunga serie, con il vecchio Taj (ma anche Kevin non è certo un ragazzino) che si presta volentieri a collaborare in brani non proprio tipici del suo stile.

Si parte benissimo con Don’t Leave Me Here, uno scintillante e potente rock-blues, con i fiati a colorare il suono e le due grandi voci che si alternano, con ottimi interplay tra la chitarra di Moore e l’armonica di Billy BranchShe Knows How To Rock Me è un vecchio brano di William Lee Perryman, alias Piano Red (ed inciso anche da Little Richard), che qui assume le tonalità di un country-blues rurale, con le due voci arrochite e le due chitarre acustiche (quella di Kevin è slide) a guidare le danze, mentre All Around The World è un ritmato soul-errebi di grande presa, vivace, colorato e coinvolgente, con grande uso del pianoforte ed un ottimo background da parte dei fiati e cori femminili, un pezzo più nelle corde di Moore che di Mahal, ma comunque davvero godibile. Om Sweet Om è una ballata decisamente raffinata, quasi vellutata, arrangiata con gusto e con la gran voce della Wright che si unisce a quelle del duo, un brano quasi easy listening ma di gran classe; Shake Me In Your Arms è un rock’n’soul scritto da Billy Nichols, mosso e grintoso, con fiati e chitarre (l’assolo è di Walsh) che si contendono la scena ed i due “giovanotti” che secondo me si divertono un mondo; That’s Who I Am è ottima, un vibrante blues-got-soul dalla melodia orecchiabile e train sonoro diretto (il genere in cui eccelle uno come Robert Cray), ancora con i fiati in gran spolvero ed i nostri che sembrano interagire da sempre.

Diving Duck Blues, di Sleepy John Estes, è l’unico blues “duro e puro” del CD, affrontato alla maniera di Mississippi John Hurt, due voci, due chitarre ed un’aria leggermente folkeggiante, ed il risultato finale è, manco a dirlo, superlativo; Squeeze Box, proprio il brano degli Who, di recente l’ho sentita anche rifatta da Bruce Robison ma, con tutto il rispetto per il countryman texano, qui siamo su un altro pianeta: gran ritmo, atmosfera vagamente caraibica, grande uso di fisarmonica (squeeze box, appunto) da parte di Phil Madeira, ed i due che divertono divertendosi: senza dubbio tra gli highlights del disco. Disco che si chiude con altri due brani scritti da Moore (il secondo con Mahal), la bella Ain’t Nobody Talkin’, altro travolgente errebi venato di rock, e la solare, colorata e godibilissima Soul, nella quale il vecchio Taj si trova nel suo ambiente musicale naturale, per finire con Waiting On The World To Change, una soul ballad di John Mayer, ancora in veste spoglia ma con un leggero accompagnamento ritmico, oltre alle armonie vocali della Raitt.

Un gran bell’album quindi, cosa prevedibile se si mettono insieme una leggenda ed un veterano: consigliato anche a chi non ha il blues come sue genere preferito.

Marco Verdi

Forse L’Ultima Occasione Per Un “Cantante Vero”! Frankie Miller’s Double Take

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Frankie Miller – Frankie Miller’s Double Take – Universal CD – CD+DVD

Per chi non lo sapesse, e purtroppo temo siano in molti, soprattutto tra i più giovani, Frankie Miller è stato uno dei più grandi cantanti inglesi della storia del rock (e pure del soul, non solo quello blue eyed, ma in generale), un interprete ed autore assolutamente alla pari, anche superiore per certi versi, a gente come Rod Stewart o Paul Rodgers, ma anche andando a ritroso, Eric Burdon, Joe Cocker, Chris Farlowe, Steve Marriott, uno in grado di interpretare brani di Otis Redding e Marvin Gaye, infondendo nelle canzoni il fuoco dell’interprete sublime o del rocker selvaggio, ma anche autore di splendide canzoni, che se non hanno infiammato le classifiche nel suo periodo aureo, sono state apprezzate da tutti gli amanti della musica più genuina, grazie a una potenza vocale inaudita, un phrasing perfetto ed una grinta incredibile, soprattutto nei concerti dal vivo (andatevi a recuperare il triplo CD o doppio DVD del Rockpalast, è fenomenale), ma anche i dischi in studio, soprattutto i sette incisi tra il 1973e il 1980, e raccolti nello splendido cofanetto That’s Who: Complete Chrysalis Recordings 1973-1980, sono tra le migliori cose di sempre prodotte dal rock britannico (anzi scozzese, perché il nostro viene da Glasgow).

Tra le sue collaborazioni sono famose quelle con Phil Lynott dei Thin Lizzy per Still In Love With You e quelle dal vivo con Rory Gallagher, un altro genuino e istintivo come lui  https://www.youtube.com/watch?v=OUAM66Oc-ck. Un paio di brani nei top 10 inglesi, alcune canzoni in film e serie televisive, i suoi pezzi sono stati incisi anche da Ray Charles, Rod Stewart, Etta James, Johnny Cash, Roy Orbison e i Traveling Wilburys, qualche apprezzata esperienza come attore, poi i suoi brani hanno cominciato ad avere successo in ambito country, ma dal 1985 non riusciva più ad incidere un album nuovo. Nel 1994 si era trasferito a New York per formare un nuovo gruppo, con Joe Walsh alla chitarra, Nicky Hopkins al piano e Ian Wallace alla batteria, quando improvvisamente una notte, il 25 agosto del 1994, la luce si è spenta, Miller ha avuto una emorragia cerebrale per cui ha rischiato di morire, è rimasto molti mesi in coma, ma caparbiamente, anche se dicevano che non avrebbe più camminato e recuperato l’uso delle sue funzioni vitali, ha ripreso la vita per i capelli, e anche se non ha più potuto cantare e scrivere canzoni, come racconta l’ottimo documentario della BBC Stubborn Kinda Fella https://www.youtube.com/watch?v=DI24jV1AxwE , comunque si è impegnato per riavere quello che era possibile.

E ora, dopo molti anni e molti tributi, tramite l’interessamento di Rod Stewart, suo grande ammiratore, che lo ha definito l’unico cantante bianco “in grado di portare una lacrima al mio occhio”, e che ha contattato il produttore australiano David Mackay chiedendogli se era a conoscenza di materiale inedito di Frankie Miller, il quale a sua volta lo ha chiesto alla moglie di Miller Annette, sempre rimasta al suo fianco in questi anni difficili, che gli ha spedito due sacchettoni pieni di demos, dal quale sono emersi i diciannove pezzi che compongono questo Frankie Miller’s Double Take. Come direbbe Fantozzi, paventavo “una cagata pazzesca” e invece l’album, che ho sentito ripetutamente in streaming prima dell’uscita e di nuovo in questi giorni, è decisamente buono, non un capolavoro, ma assolutamente degno delle glorie passate di Frankie. Canzoni interpretate nell’album sotto forma di duetto con ospiti illustri: dal rock iniziale di Blackmail, con l’amico Joe Walsh alle chitarre, anche slide, passando per Where Do The Guilty Go, che sembra una canzone perduta del Elton John anni ’70, con Steve Cropper alla chitarra. Way Past Midnight, un poderoso rock’n’soul faitistico con Huey Lewis, True Love, una bella ballata con Bonnie Tyler, seconda voce meno “pomposa! del solito, perché comunque la protagonista assoluta del disco è la voce di Miller, forte e potente come sempre, e il contorno musicale creato è assolutamente all’altezza. In Kiss Her For Me, il duetto con Rod Stewart, è difficile distinguere le voci dei due, stesso timbro, stesso phrasing, ottima canzone, Gold Shoes, il pezzo con Francis Rossi, sembra uno di quelli belli degli Status Quo, deliziosa anche la canzone con Kiki Dee e Jose Antonio Rodriguez (?), e persino Kid Rock fa un figurone in Jezebel Jones, un pezzo che ricorda moltissimo Bob Seger (che ha ammesso le influenze di Miller nella sua musica).

Grande tiro in When It’s Rockin’, il duetto con Steve Dickson, che rievoca le vecchie glorie dei Full House, la sua band dell’epoca, tra fiati e slide a manetta. Frankie Miller e Delbert McClinton sono due gemelli separati alla nascita nella tirata Beginner At The Blues, e Kim Carnes ha lampi del vecchio splendore nella ballata To Be With You Again; Willie Nelson aggiunge la sua classe e un assolo di Trigger nello splendido country-soul che risponde al nome di I Want To Spend My Life With You. Se il disco si fosse limitato a queste dodici canzoni sarebbe stato un album da tre stellette e mezzo, delle altre sette aggiunte, con vecchie glorie perlopiù bollite, si salvano ancora i duetti con Paul Carrack e quello con Lenny Zakatek, della band inglese funky anni ’70 Gonzalez, oltre alla conclusiva I Do, in solitaria e un’altra ballata The Ghost, con Tomoyasu Hotel (?!?), che a tratti sembra Purple Rain di Prince. A dispetto delle premesse, un vero disco per un cantante “vero”.

Bruno Conti