Un Piacevole Lavoro Di Moderno Bluegrass. Ray Cardwell – Just A Little Rain

ray cardwell just a little rain

Ray Cardwell – Just A Little Rain – Bonfire CD

Ray Cardwell è un musicista figlio d’arte originario del Missouri: suo padre, Marvin Cardwell, negli anni sessanta era a capo di un gruppo bluegrass, e questo ha trasmesso al figlio la passione per quel genere fin dai primi anni. Ray ha poi iniziato a scrivere canzoni e a girare l’America con diversi gruppi fin dalla metà dei seventies, intraprendendo una vita quasi da nomade che lo ha portato a vivere in diverse città per poi tornare in Missouri allorquando ha messo su famiglia. Una gavetta lunghissima se pensiamo che Ray è riuscito soltanto nel 2017 a pubblicare il suo album d’esordio Tennessee Moon, facendolo seguire due anni dopo da Stand On My Own, due lavori che hanno attirato l’attenzione a livello locale per quanto riguarda la musica bluegrass. Ray infatti ha deciso di continuare l’opera del padre, ma aggiungendo un tocco personale: il genitore infatti aveva un approccio decisamente tradizionale con il tipo di musica proposta, mentre Ray ha optato per un taglio più moderno per quanto riguarda la struttura compositiva, dal momento che dal punto di vista strumentale le sonorità sono assolutamente vintage.

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Just A Little Rain, terzo e nuovo album del nostro, è perfettamente indicativo di quanto sto dicendo: dieci canzoni (otto nuove più due cover) che dal punto di vista sonoro non vanno oltre la classica configurazione tipica del bluegrass, un quartetto formato da chitarra, banjo, violino e mandolino, con Cardwell al basso (e non c’è la batteria), mentre dal lato compositivo la scrittura è attuale, contemporanea. Ed il disco è godibile dall’inizio alla fine, poco più di mezz’ora di musica pura suonata con grande perizia e con ottime armonie vocali che sono il vero quid in più che fa di Just A Little Rain un album che non deluderà gli appassionati del genere. Prendete l’introduttiva e vivace The Grass Is Greener: l’accompagnamento è tradizionale al 100% con le voci amalgamate alla perfezione, ma lo script è moderno ed il brano si reggerebbe sulle proprie gambe anche con una base strumentale rock. Standing On The Rock è la cover di un pezzo degli Ozark Mountain Daredevils, puro bluegrass godibile dalla prima all’ultima nota con assoli a raffica dei vari strumenti, ed anche se la melodia originale è di matrice blues qui siamo idealmente in piena mountain music. La creatività del nostro spicca ancora di più nella seguente rilettura del classico di Al Green Take Me To The River, canzone che qui viene spogliata dei suoi elementi soul-errebi per diventare una folk song di stampo tradizionale dal sapore d’altri tempi, con Ray che canta con voce limpida https://www.youtube.com/watch?v=T9iJW_-GxRk .

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I Won’t Send You Flowers è una delicata ballad, una country tune moderna  in tutto e per tutto contraddistinta da un motivo toccante, ma con Born To Do siamo ancora in pieno bluegrass a tutto ritmo nonostante l’assenza della batteria, ed il brano è quasi un pretesto per lanciarsi in assoli al fulmicotone. La title track inizia come uno slow attendista, poi il tempo si fa più veloce ed il pezzo si tramuta in una riuscita miscela tra folk e blues; Rising Sun ricorda un po’ la Nitty Gritty Dirt Band più tradizionale, puro country nobilitato da un refrain diretto ed immediato https://www.youtube.com/watch?v=T9iJW_-GxRk , mentre Shoulda Known Better è dotata di un motivo splendido, legato a doppio filo alle canzoni di settanta e più anni fa. Il dischetto si conclude con Thief In The Night, altra bluegrass tune suonata ai cento all’ora, e con la lenta e malinconica Constant State Of Grace (scritta insieme a Darrell Scott), che ha uno sviluppo melodico simile a certe cose di Jackson Browne https://www.youtube.com/watch?v=FGI3uBuToyE . Ray Cardwell è quindi un musicista da tenere d’occhio, in quanto riesce a rendere attuale un genere musicale legato al passato grazie ad una scrittura piacevole e moderna.

Marco Verdi

Purtroppo E’ Arrivato “Quel Tempo”, Da Venerdì Scorso Il Texas E’ Un Po’ Più Povero. A 78 Anni Se Ne E’ Andato Mr. Bojangles Jerry Jeff Walker.

Jerry+Jeff+Walker+jerryjeff - Copyjerry jeff walker

Oggi purtroppo devo dare la notizia di un altro lutto nel mondo della “nostra” musica, e cioè della scomparsa avvenuta venerdì 23 ottobre all’età di 78 anni del grande Jerry Jeff Walker, dovuta alle complicazioni causate da un cancro alla gola diagnosticatogli nel 2017. Pensavi a Walker e pensavi al Texas, in quanto il nostro è stato fin dalla fine degli anni sessanta uno dei più importanti ed influenti singer-songwriters di stampo country del Lone Star State, e facente parte di un immaginario club esclusivo i cui altri soci sono (ed erano) Willie Nelson, Waylon Jennings, Kris Kristofferson, Billy Joe Shaver, Guy Clark e Townes Van Zandt. Autore e performer estremamente divertente e coinvolgente, Walker è stato l’inventore e massimo esponente del cosiddetto “gonzo country”, un tipo di musica assolutamente scanzonata e spesso associata a colossali bevute in compagnia, proposta dal nostro sempre con il sorriso sulle labbra ma che dietro una maschera di disimpegno celava una solida capacità nel songwriting, ed i suoi pezzi venivano eseguiti sempre con l’aiuto di musicisti preparatissimi.

Walker era anche un cantautore atipico, dal momento che alcuni dei suoi brani più noti erano stati scritti da altri artisti all’epoca non ancora famosi (come L.A. Freeway di Clark, Up Against The Wall Redneck Mother di Ray Wylie Hubbard e London Homesick Blues di Gary P. Nunn), mentre la sua canzone più famosa in assoluto, ovvero la splendida Mr. Bojangles (che parlava di un ex ballerino di tip-tap alcolista e galeotto, non si sa se inventato o ispirato ad una persona reale), era stata portata al successo nel 1970 dalla Nitty Gritty Dirt Band. Due cose che molti non sanno sono che Walker in realtà si chiamava Ronald Clyde Crosby e che era texano solo d’adozione, essendo di origini newyorkesi. Nella Grande Mela il giovane Crosby (il nome d’arte lo prenderà solo nel 1966) mosse anche i primi passi artistici dopo una breve parentesi a Philadelphia con un gruppo chiamato The Tones, esibendosi nel Greenwich Village prima come folksinger e poi a capo di una band chiamata Circus Maximus, con la quale pubblicò anche due album.

Stabilistosi ad Austin dopo un pellegrinare che lo aveva portato anche a New Orleans ed in Florida, JJW pubblicò nel 1968 il suo debut album Mr. Bojangles con l’aiuto di David Bromberg ed altri sessionmen di nome, disco che lo fece subito notare come autore di estremo interesse grazie anche alla title track che, oltre che della Nitty Gritty, attirerà le attenzioni anche di un certo Bob Dylan che la inciderà durante le sessions di Self Portrait (e la Columbia la pubblicherà nel 1973 all’interno dell’album-rappresaglia Dylan). In pochi anni Walker divenne una leggenda texana, in parte grazie alle sue imperdibili esibizioni dal vivo con la Lost Gonzo Band (il live Viva Terlingua! del 1973 è ancora oggi il suo disco più famoso) ed in parte per merito di album splendidi come Jerry Jeff Walker, Ridin’ High, A Man Must Carry On, It’s A Good Night For Singin’ e Contrary To Ordinary, tutti usciti all’epoca per la MCA e ristampati di recente dall’australiana Raven.

Dopo un paio di buoni lavori per la Elektra (Jerry Jeff, 1978, e Too Old To Change, 1979) ed il ritorno alla MCA, a metà anni ottanta Jerry fondò una sua etichetta, la Tried & True, mettendo a capo la moglie Susan Streit. Diventato ormai un artista di riferimento per molti musicisti venuti dopo di lui (Todd Snider, che ha pure inciso un intero album con le sue canzoni, credo che abbia una sua foto sul comodino vicino al letto https://www.youtube.com/watch?v=5QdWpab_kFg ), Walker continuerà a pubblicare ottimi dischi di puro country-rock texano, titoli come Viva Lukenbach (1994, seguito ideale di Viva Terlingua ed altro splendido live), Night After Night, Scamp, Gonzo Stew, Jerry Jeff Jazz, il solare e “buffettiano” Cowboy Boots And Bathing Suits (concepito dal nostro nella sua casa di villeggiatura in Belize), fino all’inatteso ritorno It’s About Time di due anni fa, a ben nove anni dall’album precedente https://discoclub.myblog.it/2018/07/21/come-da-titolo-era-ora-jerry-jeff-walker-its-about-time/ .

Il prossimo disco di Jerry Jeff Walker sarà quindi ad esclusivo beneficio di angeli e santi, anche se ho già idea di quale sarà il titolo: Gonzo’s Paradise.

Marco Verdi

Un’Ottima Band Dal Nobile Lignaggio! Midnight North – Under The Lights

midnight north under the lights

Midnight North – Under The Lights – Trazmick CD

I Midnight North sono un quintetto californiano con già due album in studio ed un live all’attivo, e sono guidati da un giovane chitarrista e cantante, Grahame Lesh, che è anche figlio d’arte, e non uno qualsiasi: infatti il padre è proprio Phil Lesh, storico bassista dei Grateful Dead, una delle colonne portanti del leggendario gruppo di San Francisco sin dalla prima ora. Quindi Grahame non ha avuto un’infanzia ed un’adolescenza qualunque, ma è cresciuto respirando grande musica ogni singolo giorno, cosa che sicuramente gli è servita a formarsi un background culturale di tutto rispetto: questo è evidente ascoltando questo Under The Lights, terzo album della sua band, che è indubbiamente un signor disco. Lesh Jr. (che è coadiuvato dalla seconda voce solista di Elliott Peck, che nonostante il nome è una ragazza, dal polistrumentista Alex Jordan e dalla sezione ritmica formata da Alex Koford e Connor O’Sullivan) ha però uno stile diverso dal gruppo di suo padre, in quanto è fautore di un rock chitarristico decisamente diretto ed imparentato con il genere Americana: Graheme scrive canzoni semplici e fruibili, ma non banali, ha un senso della melodia non comune e le sue canzoni sono tutte estremamente piacevoli; l’unico punto in comune con i Dead può essere una certa tendenza alla jam nella coda strumentale di alcuni pezzi, anche perché se ci pensiamo un attimo anche il combo guidato da Jerry Garcia nei dischi in studio era spesso piuttosto diverso che durante i concerti.

Under The Lights è quindi un disco di puro rock, con qualche aggancio al country ed una brillante propensione alle melodie corali e dirette, un lavoro fresco e piacevole, che spero metta in luce questo gruppo aldilà del cognome del suo leader. Anche se poi mi viene in mente che i due più bei dischi di studio dei Dead, Workingman’s Dead ed American Beauty, erano anch’essi esempi di Americana ante litteram, e quindi in un certo senso il cerchio si è chiuso. Il CD parte col piede giusto con la bella title track, una rock song fluida e scorrevole, dall’ottimo refrain corale, un tocco country ed un uso scintillante di piano e chitarra. E Grahame è un cantante migliore di suo padre (non che ci volesse molto). Playing A Poor Hand vede la Peck alla voce solista (lei e Lesh si alterneranno per tutto il disco), per una rock ballad ariosa, cadenzata e decisamente gradevole, con un bel gusto melodico che è un po’ il fiore all’occhiello del gruppo; la gioiosa Everyday è una via di mezzo tra un errebi con tanto di fiati ed un pop-rock alla Fleetwood Mac, mentre Greene County è chiaramente una country ballad, sempre di stampo californiano, con qualcosa di Eagles e del Bob Seger più bucolico (Fire Lake).

Roamin’ ha un approccio più rock, con sonorità anni settanta ed il solito ritornello immediato, Headline From Kentucky è una ballata elettrica dal ritmo sostenuto e dal mood intrigante, con un ottimo motivo senza sbavature: tra le più belle del CD; una bella chitarra introduce la fluida Back To California, fino ad ora la più dead-iana (più nella parte strumentale che nella melodia), ed anche qui siamo di fronte ad un brano coi fiocchi, mentre la saltellante e coinvolgente One Night Stand dona al disco un altro momento di allegria e buona musica. Echoes è un rock a tutto tondo, tra le più elettriche del lavoro e con tracce di Tom Petty, con ottime parti di chitarra e solito refrain vincente, The Highway Song è vera American music, un pop-rock terso ed altamente godibile, che porta in un soffio alla conclusiva Little Black Dog, puro country elettroacustico ancora corale e gioioso, che ricorda quasi la Nitty Gritty Dirt Band dei bei tempi. Midnight North è un nome da tenere a mente, il nome di un’altra piccola grande band sotto il sole della California.

Marco Verdi

Un Doveroso Omaggio Ad Un Protagonista Del West Coast Sound. Various Artists – A Tribute To Dan Fogelberg

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Various Artists – A Tribute To Dan Fogelberg – BMG Rights Management

Il 16 dicembre (ieri) è caduto il decimo anniversario dalla prematura morte di Dan Fogelberg, autore di ottimi dischi negli anni settanta e ottanta in uno stile riconducibile al country rock molto in auge in quel periodo grazie a protagonisti di assoluto valore come gli Eagles, Jackson Browne, Crosby, Stills & Nash, James Taylor, Poco e Doobie Brothers, solo per citare alcuni dei nomi più noti. Daniel era originario di una piccola cittadina dell’Illinois, Peonia. Dopo aver militato in alcuni gruppi locali, decise di esibirsi in proprio ed ebbe la fortuna di essere notato da Irving Azoff, colui che sarebbe diventato manager di grandi stelle del rock, tra cui i già citati Eagles. Azoff gli fece ottenere il primo contratto discografico e lo presentò all’esperto bassista e produttore Norbert Putnam che divenne suo amico e fidato collaboratore per il decennio che seguì, dal bel disco d’esordio Home Free, del 1972, fino al capolavoro del 1981, il doppio The Innocent Age (disco strepitoso dove erano presenti Joni Mitchell, Glenn Frey, Brecker Brothers, Richie Furay. Emmylou Harris, Don Henley, Chris Hillman e moltissimi altri grandi musicisti).

Per tutta la sua carriera Fogelberg, oltre a mettersi in luce come valido compositore di ballate spezza cuori e di brani rock dalla tipica impronta della West Coast, esibì notevoli doti di arrangiatore e strumentista suonando ogni tipo di chitarra o tastiera, sempre coadiuvato da session men di primissimo ordine. Pubblicò anche due interessanti album in coppia con il flautista Tim Weisberg, prova tangibile di una passione mai sopita per il jazz e per gli arrangiamenti orchestrali, e un vero gioiello in stile bluegrass, High Country Snows del 1985, realizzato con una band di superstars della musica country tradizionale. Negli anni novanta Dan diminuì progressivamente le sue produzioni e l’ultimo lavoro con materiale inedito rimane Full Circle, del 2003 (senza contare Love In Time uscito postumo nel 2009). Dopo le sua scomparsa nel 2007, Jean Fogelberg, terza delle sue mogli, si è presa l’impegno di onorarne la memoria con un album tributo che coinvolgesse musicisti di grande fama, da vecchi amici e collaboratori del marito a stelle emergenti dell’ultima generazione che riconoscessero Fogelberg come fonte d’ispirazione.

Ad aiutarla, i fidati Putnam e Azoff, oltre al noto produttore Chuck Morris. Dopo sette anni e sette mesi passati a reclutare gli artisti e a trovare il tempo utile per farli incidere, ecco finalmente il risultato di tanta passione, un album piacevolissimo in cui la media delle performances si mantiene elevata e la bellezza originaria delle composizioni di Dan Fogelberg rimane intatta. Ad aprire le danze ci pensa l’icona del country nashvilliano Garth Brooks (supportato ai cori da Trisha Yearwood). La sua versione di Phoenix è fresca e potente con quel bel gioco di chitarre che caratterizzava anche la versione originale. Oibò! Che ci fa la regina della disco music in un contesto di questo genere? Frenate la vostra diffidenza, la scelta di Donna Summer (deceduta nel 2012, aveva registrato il pezzo due anni prima) per interpretare Nether Lands si rivela azzeccatissima.

Ascoltate come si dispiega la sua bella e stentorea voce sull’imponente arrangiamento orchestrale che riproduce fedelmente quello d’origine, e non potrete che applaudire. Michael Mc Donald annerisce con il suo vocione Better Change, sottolineandone il ritornello con un robusto coro gospel. La classe non è acqua, ma onestamente preferivo l’arrangiamento del suo autore. Vince Gill (a proposito, che ne dite del suo recente ingresso negli Eagles insieme al figlio di Glenn Frey?) duetta co nla moglie Amy Grant per uno degli hit di maggior successo di Fogelberg, la delicata Longer, qui impreziosita da un bell’assolo di tromba di Chris Botti. I Train (quelli di Hey Soul Sister) danno prova di coraggio dando ritmo ad una delle canzoni più lente e struggenti che Dan abbia mai composto, mantenendo la citazione finale di Auld Lang Syne suonata con il sax. A me non dispiace, ma siete liberi di pensarla diversamente.

Dobie Gray, protagonista negli anni settanta e ottanta tra country, soul e R&B (sua la mitica Drift Away), prima di arrendersi al cancro nel 2011 fece in tempo a registrare l’intensa  Don’t Lose Heart, uno dei pochi inediti presenti nella quadrupla antologia Portrait, del 1997. Versione di gran classe, che fa il pari con quella di Old Tennessee, eseguita da Danny Henson e Tom Kelly, in arte Fool’s Gold,  che accompagnarono Dan Fogelberg per il tour di Souvenirs nel 1974 ed incisero a loro nome un paio di buoni album nel ’76 e ’77. Casey James è un giovane cantautore e chitarrista texano di grandi prospettive come dimostrano i suoi tre dischi e questa incendiaria versione di As The Raven Flies. Casey ci dà dentro di brutto con la sua sei corde, dando nuova linfa ad un pezzo già trascinante. Randy Owen è meglio conosciuto come voce solista degli ultra noti Alabama. La sua scelta è perfetta perchè la magnifica country ballad Sutter’s Mill gli calza a pennello, melodia in crescendo e perfette armonie vocali nel refrain. Da qui in poi il tributo si assesta su livelli altissimi. Run For The Roses  è un’altra masterpiece song di Fogelberg e qui per riproporla al meglio troviamo altri due nomi eccellenti della country music, Richie Furay e la Nitty Gritty Dirt Band.

Boz Scaggs,  vecchia gloria del rock americano, interpreta con la sua calda ed intensa voce la malinconica Hard To Say, dotandola di un’atmosfera più blusey, con un pregevole assolo centrale di chitarra. Joe Walsh fu il produttore dell’ottimo e già citato Souvenirs, ovvio quindi che abbia scelto di riproporrre, insieme agli altri componenti degli Eagles, la canzone che apriva quell’album, Part Of The Plan. Bella versione, che mantiene la freschezza melodica dell’originale. Da quella che apre a quella che chiude lo stesso disco, manco a farlo apposta: There’s A Place In The World For A Gambler è, a mio modesto avviso uno dei vertici compositivi di Dan, una specie di inno che, non a caso, lui poneva in chiusura dei suoi concerti facendone cantare il ritornello al pubblico con un effetto da pelle d’oca (risentitela sul live Greetings From The West, ne vale la pena!). Il grande Jimmy Buffett la rivisita con tutta la maestria e la sensibilità di cui è capace, ricreando quel finale da brividi con gli strumenti e le voci che si rincorrono.

Il gran finale è riservato alla canzone in assoluto più nota e celebrata di Dan Fogelberg, quella Leader Of The Band che egli dedicò al padre, insegnante di musica e direttore della banda cittadina di Peonia. Zac Brown ne dà una versione scarna e toccante, registrata dal vivo, solo chitarra acustica e voci. Applausi…e da lassù padre e figlio riuniti sicuramente sorridono.

Marco Frosi

Veterani Ma Indipendenti, All’Insegna Della Purezza. Yonder Mountain String Band – Love, Ain’t Love

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Yonder Mountain String Band – Love, Ain’t Love – Frog Pad CD

La Yonder Mountain String Band, quintetto originario del Colorado, è ormai tra le realtà consolidate del cosiddetto movimento new grass. Pur rimanendo fieramente indipendente, la YMSB è infatti in attività da quasi vent’anni, si è costruita uno zoccolo duro di fans grazie anche alle esibizioni dal vivo, e ha pure una sua etichetta discografica personale: il suo percorso per certi versi è simile a quello degli String Cheese Incident, che però sono più rock e forse hanno dalla loro una maggiore creatività, anche se spesso tendono a partire per la tangente. La YMSB ha invece un approccio decisamente più tradizionale ed acustico, ed è una vera e propria string band, in quanto tutti e cinque i suoi elementi (Adam Ajala, Dave Johnston, Ben Kaufmann, Jacob Jolliff e Allie Kral) suonano strumenti a corda rigorosamente con la spina staccata, che siano chitarra, banjo, mandolino (Jolliff, uno dei più bravi), basso o violino, ma spesso con una forza tale che non ci si accorge dell’assenza della batteria. Un po’ come gli Old Crow Medicine Show (che però la batteria ce l’hanno e sono anche obiettivamente più bravi), hanno il loro punto di forza nelle esibizioni dal vivo, durante le quali i pezzi tratti dai loro album possono diventare vere e proprie jam: non si spiegherebbe altrimenti il fatto che, vicino ai sei album di studio pubblicati tra il 1999 ed il 2015, nella loro discografia trovano posto ben cinque dischi live, i vari volumi della serie Mountain Tracks.

Questo nuovissimo Love, Ain’t Love (l’equivalente del nostro “m’ama, non m’ama”), che esce a due anni da Black Sheep, prosegue il loro discorso, fatto di brani di pura country music con spiccate attitudini bluegrass, anche se la particolarità è che le canzoni non hanno il sapore di vecchi traditionals, ma bensì una struttura ed uno script moderni, soltanto che sono suonate con l’attitudine dei gruppi di un’altra epoca. Love, Ain’t Love ha tredici canzoni, tra pezzi strumentali ed altri cantati (da tutti i membri del gruppo), una produzione asciutta ad opera della band stessa ed un approccio ormai maturo e collaudato verso i vari brani, suonati tutti con grande perizia tecnica ma anche abbondante feeling: un dischetto dunque godibile e ben fatto, che non mancherà di soddisfare i numerosi estimatori del gruppo. Il brano di apertura, Alison, ha una melodia ed uno sviluppo moderni, quasi fosse un country-rock suonato però con strumenti acustici, un bel refrain ed i vari componenti del combo che iniziano a far sentire le loro abilità. Fall Outta Line è un breve strumentale in cui è il mandolino a fare da solista, ed il violino prende traiettorie trasversali, non necessariamente in sintonia con gli altri; Bad Taste è puro country, limpido e cristallino, e ricorda non poco certi episodi bucolici della Nitty Gritty Dirt Band, mentre Take A Chance On Me (gli Abba non c’entrano) è praticamente un altro strumentale, in quanto il testo si riduce ad un paio di frasi nel refrain, ed è un pezzo di bravura tra il mandolino di Jolliff e la chitarra di Ajala.

Chasing My Tail è una rock song acustica, me la immagino suonata con le chitarre elettriche, ma anche così ha il suo perché e denota una certa grinta, Used To It è l’unica canzone con il piano, che assume il ruolo di protagonista per una ballata intensa e non priva di pathos, mentre Eat In Go Deaf (Eat Out Go Broke) è la prima vera e propria grass jam, con il mandolino suonato in maniera velocissima e strepitosa ed il resto della YMSB che tiene il passo, per più di cinque minuti ad alto tasso di coinvolgimento strumentale. Dancing In The Moonlight è l’unica cover, ed è proprio il notissimo pezzo dei King Harvest, un gruppo dei primi anni settanta che è stato un vero one hit wonder: un motivo che credo conoscano tutti, con un arrangiamento che dona ancora più freschezza ad un pezzo già solare di suo, mentre con On Your Dime i nostri riprendono il filo della jam, una pura bluegrass song, stavolta cantata, con gli strumenti che viaggiano come treni; Kobe The Dog ha il banjo come protagonista, e di tutti i brani è forse quello che più sa di tradizione, a differenza della vivace Last Of The Railroad Men, che è sempre country ma con un sapore più attuale. Il CD si chiude con la tonica Up For Brinkley’s, dal ritmo forsennato, e con la caraibica e godibile Groovin’ Away, una sorta di reggae acustico che mostra ancora una volta che i nostri oltre che bravi sono anche creativi.

Un dischetto che mi sento quindi di consigliare, ovviamente se vi piace il genere.

Marco Verdi

Le Buone Tradizioni Di Famiglia! Wilson Fairchild – Songs Our Dads Wrote

wilson fairchild songs our dads wrote

Wilson Fairchild – Songs Our Dads Wrote – BFD CD

I Wilson Fairchild, duo musicale formato da due cugini provenienti dalla Virginia, Wil e Langdon Reid, è uno dei rari casi di una band che cambia nome a carriera in corso: i due infatti avevano iniziato la carriera, pubblicando anche un paio di CD, come Grandstaff, ma poi pare che il nome creasse problemi ad essere compreso e così lo hanno mutato in Wilson Fairchild, ottenuto mettendo insieme i loro middle names (non che adesso il nome sia così memorizzabile). Indagando più a fondo, però, ho scoperto che i due altri non sono che i figli di Don e Harold Reid, cioè i due membri più importanti degli Statler Brothers, gruppo vocale country-gospel famoso negli anni sessanta e settanta (ma che hanno fatto dischi fino al 2002), il quale, pur avendo vinto diversi premi come gruppo country vocale dell’anno, deve gran parte della sua notorietà al fatto di essere stati per anni al servizio di Johnny Cash. Ma i due Reid Senior, che erano tra l’altro gli unici fratelli all’interno del gruppo (Statler era un nome di fantasia, preso da una marca di fazzoletti di carta!), hanno scritto anche diverse canzoni, nove delle quali sono entrate a far parte di questo CD di debutto dei figli Wil e Langdon (è il loro primo full length, alle spalle hanno solo un EP uscito nel 2013), intitolato significativamente Songs Our Dads Wrote.

Un omaggio sincero e sentito alle loro origini, un lavoro che mostra rispetto per il passato ed amore per la musica, due cose che oggi sono purtroppo sempre più rare: per far meglio risaltare la bellezza delle canzoni i Reid Jr., che sono tra l’altro dotati di due gran belle voci, hanno deciso di rivestire le melodie con il minimo indispensabile di strumenti, una scelta che fa loro onore, anche se commercialmente non avranno grandi benefici. Infatti in queste dieci canzoni (l’ultima, The Statler Brothers Song, è l’unica scritta dai figli e non dai padri, e tra l’altro già pubblicata 8 anni fa con la vecchia “ragione sociale”) troviamo solo le due chitarre acustiche dei nostri, l’armonica di Buddy Greene, una leggera percussione ad opera di Andy Hubbard ed un dobro in un paio di brani: nient’altro, a parte alcuni interventi vocali di Jimmy Fortune, un ex membro degli Statler Brothers anche se solo dal 1983. Le canzoni sono tutte molto belle, sia quando vengono riproposte con l’arrangiamento simile all’originale sia quando assumono un approccio più moderno, ed il lavoro dei due cugini è doppiamente meritevole, in quanto ci fanno riscoprire un gruppo oggi abbastanza dimenticato.

Il disco inizia benissimo con la bella Left Handed Woman, una limpida country song dalla melodia fluida e diretta, solo con le due chitarre dei nostri e l’armonica (che è quasi lo strumento solista), ma non si sente la mancanza di altro: se volete un termine di paragone, sembra di sentire una versione stripped-down della Nitty Gritty Dirt Band d’annata. Nella deliziosa I’ll Even Love You Better Than I Did Then, c’è anche una percussione appena accennata, che dona maggiore profondità ad un brano decisamente bello e fruibile, con i due che armonizzano davvero bene, mentre How Are Things In Clay, Kentucky? è quasi più folk che country, e mantiene le caratteristiche dei due brani precedenti, cioè una melodia semplice ma di spessore allo stesso tempo, con il solito accompagnamento scarno ma perfettamente bilanciato. Si sente che le canzoni sono state scritte in un’altra epoca, anche se l’approccio dei nostri è piuttosto contemporaneo: la pura e tersa She’s Too Good vede affacciarsi un dobro, Second Thoughts e Some I Wrote sono due scintillanti country songs ancora dal motivo classico e di presa sicura, con un refrain splendido la prima ed un’atmosfera d’altri tempi la seconda. Guilty rimanda direttamente ai canti folk appalachiani, ritmo spedito ed ottimo ritornello corale, mentre con la cristallina A Letter From Shirley Miller torniamo ai giorni nostri, per una squisita country ballad dall’aria nostalgica. L’album si chiude con la veloce He Went To The Cross Loving You, un brano originariamente di matrice gospel che i nostri trasformano in un riuscito country tune bucolico, e con la già citata The Statler Brothers Song, un sentito omaggio dei due ai propri padri, che pone termine ad un vero e proprio labor of love, e che è una dimostrazione pratica che il futuro ha le radici nel passato.

Marco Verdi

Tempo Di Antologie: Ottime, Anche Se Con Poche Sorprese! Nitty Gritty Dirt Band – Fishin’ In The Dark/Old Crow Medicine Show – Best Of/Harry Belafonte – When Colors Come Together

nitty gritty fishin' in the dark

Nitty Gritty Dirt Band – Fishin’ In The Dark: The Best Of The NGDB – Rhino CD

Old Crow Medicine Show – Best Of Old CrowMedicine Show – Nettwerk CD

Harry Belafonte – When Colors Come Together: The Legacy Of Harry Belafonte – Legacy/Sony CD

Solitamente il momento migliore per immettere sul mercato discografico un greatest hits è quello natalizio, ma talvolta le etichette scelgono altri periodi, forse proprio per non venire risucchiate nel vortice delle pubblicazioni stagionali: oggi vi parlo di tre antologie uscite da poco, diverse tra loro (ma tra le prime due c’è più di un’affinità), con il comune denominatore della buona musica.

Non credo che chi legge questo blog non conosca la Nitty Gritty Dirt Band, storico gruppo country-rock californiano in giro da ben cinquant’anni (è uscito solo pochi mesi il bellissimo Circlin’ Back, album live commemorativo di cui ho parlato proprio su queste pagine virtuali), una band che ha sempre coniugato ottima musica e vendite cospicue, e pubblicando un capolavoro assoluto nel 1971 con il triplo Will The Circle Be Unbroken, un magnifico album di country e bluegrass con diversi padri del genere come ospiti ed un’operazione anche culturale di altissimo livello. Questa nuova antologia intitolata Fishin’ In The Dark ha però qualche problema: da un lato, con le sue 21 canzoni su un singolo CD offre una panoramica abbastanza esauriente della carriera del gruppo guidato da Jeff Hanna (pur con qualche mancanza, mi viene in mente per esempio House At Pooh Corner), ed è indispensabile per chi non li conosce e volesse avere un’infarinatura, dall’altro potrebbe però ricadere addirittura nella categoria “fregature” di cui ci occupiamo ultimamente, in quanto il disco altro non è che la fusione di due vecchie e famose antologie del gruppo, Twenty Years Of Dirt e More Great Dirt, prese pari pari ed unite con estrema nonchalance.

Un’operazione in sé discutibile (ed è strano perché la Rhino di solito si comporta in modo serio), che ha anche il difetto di fermare la carriera del gruppo al 1988 e di ignorarne il seguito, oltre a non comprendere alcunché dai tre volumi di Will The Circle Be Unbroken (ma per quelli forse ci vorrebbe un’antologia a parte). Dal punto di vista musicale comunque niente da dire, anche se vengono ignorati album fondamentali del gruppo come All The Good Times e Stars & Stripes Forever, e dagli anni settanta vengono presi solo tre pezzi: la splendida Mr. Bojangles, grande classico di Jerry Jeff Walker ed anche la loro incisione più nota, la lunga Ripplin’ Waters, da sempre al centro delle loro esibizioni live, e la solare e caraibica An American Dream. Il resto è tutto anni ottanta, con sonorità più radiofoniche ma sempre piacevoli e coinvolgenti, con sonorità molto californiane e talvolta vicine al sound degli Eagles (Make A Little Magic, I’ve Been’ Lookin’), o pezzi come Cadillac Ranch (proprio quella del Boss, in una scintillante versione country-rock), Workin’ Man, Baby’s Got A Hold On Me, le deliziose Partners, Brothers And Friends e Face On The Cutting Room Floor, le splendide Fishin’ In The Dark e Long Hard Road. Consigliato solo a chi non ha niente del gruppo, o a chi vuole un bel dischetto di country-rock da tenere in macchina.

old crow medicine show best of

Gli Old Crow Medicine Show sono il miglior gruppo del recente revival old-time country & bluegrass (o come lo vogliate chiamare), meglio di pochissimo a mio parere rispetto agli Avett Brothers (che sono più rock), e più nettamente dei comunque bravi Trampled By Turtles (mentre i Mumford & Sons, un tempo fantastici, credo che li stiamo perdendo…): anzi, per il sottoscritto gli OCMS sono addirittura la migliore band in assoluto tra quelle venute fuori nel nuovo millennio, un quintetto che rielabora la tradizione con grande grinta, inventiva, creatività e tecnica, alternando sapientemente brani originali a cover, e suggellando il tutto con un feeling mostruoso che viene fuori soprattutto nelle esibizioni dal vivo. Questo Best Of potrebbe però risultare un po’ prematuro, anche perché, essendo pubblicato dalla loro vecchia etichetta (la Nettwerk), prende in esame solo i primi tre CD (ed un EP), ignorando gli ultimi due lavori, gli splendidi Carry Me Back e Remedy.

Ma, a monte di tutto, è comunque un grande piacere riascoltare canzoni come la strepitosa Wagon Wheel (un testo inedito di Bob Dylan musicato da Ketch Secor), un capolavoro, una delle più belle canzoni degli ultimi quindici anni; ma gli OCMS sono anche altro, come lo scintillante folk Down Home Girl, il trascinante country’n’roll Alabama High-Test, il limpido bluegrass Big Time In The Jungle, la deliziosa Take ‘Em Away, la coinvolgente Fall On My Knees, suonata a velocità forsennata, o la stupenda I Hear Them All. Ci sono anche due inediti molto belli: Black-Haired Québécoise, cantata parzialmente in francese, uno squisito brano di stampo zydeco (anche se manca la fisarmonica) e dal ritornello vincente, e Heart Up In The Sky, un folk-grass cristallino e suonato alla grande. Fra meno di due mesi gli OCMS daranno alle stampe 50 Years Of Blonde On Blonde, fedele cronaca di un concerto dello scorso anno in cui hanno riproposto nota per nota (ovviamente alla loro maniera) il classico album di Dylan: un lavoro attesissimo e che figurerà certamente tra i dischi dell’anno.

harry belafonte when colors come together

Oggi di lui si parla molto poco, ma Harry Belafonte è stato uno dei più grandi cantanti americani di sempre; è ancora vivo e vegeto (ha da poco compiuto 90 anni), ma ho parlato di lui al passato in quanto è discograficamente fermo al 1988 per quanto riguarda i dischi in studio, mentre il suo ultimo lavoro in assoluto è l’ottimo An Evening With Harry Belafonte And Friends del 1997. Originario di Harlem ma di origini giamaicane da parte di madre e martinicane di padre, è noto per aver portato il calypso, musica tipica delle isole caraibiche, nelle case di milioni di americani, con una serie di canzoni indimenticabili, piene di suoni e colori, ma anche arrangiate in maniera sopraffina ed eseguite con la sua grande voce (una di quelle voci che sarebbero in grado di cantare qualsiasi cosa), diventando uno degli artisti più influenti del suo tempo: uno come Jimmy Buffett secondo me gli deve la vita, ma anche autori più distanti dal suo genere lo hanno sempre tenuto in grande considerazione (non ultimo Bob Dylan, che ebbe la prima esperienza discografica professionale proprio su una canzone di Harry, suonando l’armonica su Midnight Special nel 1962, qualche mese prima di incidere il suo album di debutto).

Ma Harry è stato anche un apprezzato attore ed un paladino dei diritti civili, una figura decisamente carismatica che oggi viene omaggiata proprio per i suoi novanta anni con questa bellissima antologia intitolata When Colors Come Together, 19 canzoni rimasterizzate in maniera spettacolare (alcune non sembrano affatto vecchie di 60 anni) che offrono una panoramica completa ai molti che oggi non hanno mai sentito parlare di lui. La migliore antologia di Harry sul mercato è certamente il Greatest Hits triplo uscito nel 2000, ma questa viene sicuramente subito dopo; c’è anche una incisione nuova, alla quale però Belafonte non ha partecipato: si tratta della title track, che in realtà è una versione di Island In The Sun affidata ad un coro di bambini, una cosa di cui avrei sinceramente fatto a meno. Ma il resto, che prende in esame materiale di tre decadi (’50, ’60 e ’70) è splendido, a partire dalla celeberrima Banana Boat Song (Day-O), una canzone che conoscono tutti, anche chi non ha mai comprato neppure un disco in vita sua, ci sono anche Matilda e Jamaica Farewell, due pezzi famosissimi. Poi ci sono imperdibili versioni di noti traditionals (All My Trials, On Top Of Old Smokey), o di standard contemporanei (Abraham, Martin And John), o ancora classici folk come Those Three Are On My Mind di Pete Seeger e Pastures Of Plenty di Woody Guthrie. Grande musica, un coinvolgente caleidoscopio di suoni e colori (Jump In The Line e la versione originale di Island In The Sun sono una goduria), alternate a ballate da pelle d’oca come Scarlet Ribbons o la natalizia Mary’s Boy Child.

Un grandissimo, che è giunto il momento di riscoprire.

Marco Verdi

Una Grande Serata Per Chiudere Il Cerchio! Nitty Gritty Dirt Band & Friends – Circlin’ Back

nitty gritty dirt band circlin' back

Nitty Gritty Dirt Band & Friends – Circlin’ Back: Celebrating 50 Years – NGDB/Warner CD – DVD

Oggi si parla molto poco della Nitty Gritty Dirt Band, e ci si dimentica spesso che nei primi anni settanta fu una delle band fondamentali del movimento country-rock californiano in voga all’epoca, che vedeva Byrds e Flying Burrito Brothers come esponenti di punta. Formatisi nel 1966 a Long Beach (e con un giovanissimo Jackson Browne nel gruppo, con il quale purtroppo non esistono testimonianze discografiche), la NGDB stentò parecchio durante i primi anni, trovando poi quasi per caso un inatteso successo con la loro versione del classico di Jerry Jeff Walker Mr. Bojangles (ancora oggi il loro brano più popolare), tratto dall’ottimo Uncle Charlie And His Dog Teddy. Ma, bei dischi a parte (All The Good Times ed il doppio Stars & Stripes Forever sono due eccellenti album del periodo), la loro leggenda iniziò quando nel 1972 uscì Will The Circle Be Unbroken, un triplo LP magnifico, nel quale il gruppo rivisitava brani della tradizione country con un suono più acustico che elettrico e come ospiti vere e proprie leggende come Mother Maybelle Carter, Merle Travis, Roy Acuff, Earl Scruggs, Jimmy Martin e Doc Watson, e che anticipava quella riscoperta della musica e delle sonorità dei pionieri che oggi è molto diffusa, ma all’epoca era quasi rivoluzionaria: un disco che, senza esagerare, potrebbe essere definito da isola deserta, e che negli anni ha avuto due seguiti (1989 e 2002), entrambi splendidi ed a mio giudizio imperdibili, ma che non ebbero l’impatto del primo volume.

Dalla seconda metà degli anni settanta la carriera del gruppo prese una china discendente (fino al 1982 si accorciarono pure il nome, ribattezzandosi The Dirt Band), per poi ridecollare nella seconda parte degli ottanta, in coincidenza con la rinascita del country, con ottimi album di successo come Hold On e Workin’ Band. Negli ultimi 25 anni la loro produzione si è alquanto diradata, anche se sempre contraddistinta da una qualità alta, portando però il gruppo a non essere più, per usare un eufemismo, sotto i riflettori: lo scorso anno però i nostri hanno deciso di riprendersi la scena festeggiando i 50 anni di carriera con un bellissimo concerto, il 14 Settembre, al mitico Ryman Auditorium (che sta a Nashville come la Royal Albert Hall sta a Londra), preludio ad una lunga tournée celebrativa in corso ancora oggi. Circlin’ Back è il risultato di tale concerto, un bellissimo CD dal vivo (esiste anche la versone con Dvd aggiunto) nel quale la NGDB riprende alcune tra le pagine più celebri della sua storia, con l’aiuto di una bella serie di amici e colleghi. I nostri avevano già celebrato i 25 anni nel 1991 con l’eccellente Live Two Five, che però vedeva sul palco solo i membri del gruppo, ma con questo nuovo CD siamo decisamente ad un livello superiore.

Il nucleo storico dalla band è rappresentato da Jeff Hanna e Jimmy Fadden, ed è completato da John McEuen, vera mente musicale del gruppo e comunque con loro dal 1967 al 1986 e poi di nuovo dal 2001 ad oggi, e da Bob Carpenter, membro fisso dai primi anni ottanta (mentre l’altro dei compagni “storici” Jimmy Ibbotson, fuori dal 2004, è presente in qualità di ospite), con nomi illustri a completare la house band quali Byron House al basso, Sam Bush al mandolino e violino e Jerry Douglas al dobro e steel, i quali contribuiscono a dare un suono decisamente “roots” alle canzoni. La serata si apre con una vivace versione di You Ain’t Goin’ Nowhere di Bob Dylan, più veloce sia di quella di Bob che dei Byrds, con assoli a ripetizione di mandolino, dobro, violino e quant’altro, una costante per tutta la serata: ottima partenza, band subito in palla e pubblico subito caldo. Il primo ospite, e che ospite, è John Prine, con la mossa e divertente Grandpa Was A Carpenter (era sul secondo volume di Will The Circle Be Unbroken) e la splendida Paradise, una delle sue più belle canzoni di sempre: John sarà anche invecchiato male, ma la voce c’è ancora (a dispetto di qualche scricchiolio) e la classe pure. My Walkin’ Shoes, un classico di Jimmy Martin, è il primo brano tratto dal Will The Circle del 1972, ed è uno scintillante bluegrass dal ritmo forsennato, un bell’assolo di armonica da parte di Fadden e McEuen strepitoso al banjo; sale poi sul palco Vince Gill, che ci allieta insieme ai “ragazzi” con la famosissima Tennessee Stud (Jimmy Driftwood), nella quale ci fa sentire la sua abilità chitarristica, dopo aver citato Doc Watson come fonte di ispirazione, e la fa seguire da Nine Pound Hammer, di Merle Travis, altro bluegrass nel quale duetta vocalmente con Bush, e tutti suonano con classe sopraffina, con il pubblico che inizia a divertirsi sul serio.

Buy For Me The Rain è una gentile e tersa country ballad tratta dal primo, omonimo album dei nostri, molto gradevole ed anche inattesa dato che come dice Hanna non la suonavano da 35 anni; è il momento giusto per l’arrivo di Jackson Browne, accolto da una vera e propria ovazione, il quale propone il suo classico These Days, in una versione decisamente intima e toccante, e poi si diverte con l’antica Truthful Parson Brown, un brano degli anni venti dal chiaro sapore old time tra country e jazz, davvero squisito. E’ la volta quindi della sempre bella e brava Alison Krauss, che ci delizia con una sublime e cristallina Keep On The Sunny Side, notissimo country-gospel della Carter Family, e con la bella Catfish John, scritta da Bob McDill (ed incisa da tanti, tra cui anche Jerry Garcia), country purissimo con ottima prestazione di Douglas al dobro; Alison rimane sul palco, raggiunta da Rodney Crowell, che esegue due suoi pezzi, la solare e godibilissima An American Dream, un brano che sembra scritto per Jimmy Buffett, e la bellissima ed intensa Long Hard Road.

Poteva forse mancare Mr. Bojangles? Assolutamente no, così come non poteva mancare il suo autore, Jerry Jeff Walker, che impreziosisce con la sua grande voce ed il suo carisma una canzone già splendida di suo: uno dei momenti più emotivamente alti della serata. Fishin’ In The Dark è stato uno dei maggiori successi della NGDB, che in questa rilettura torna ad essere un quintetto in quanto è raggiunta da Jimmy Ibbotson, e la canzone rimane bella e coinvolgente anche in questa veste meno radio-friendly di quella originale del 1987. Il vivace medley Bayou Jubilee/Sally Was A Goodun, dove il gruppo si lascia andare ad un suono più rock, prelude al gran finale di Jambalaya, il superclassico di Hank Williams (in una travolgente versione tutta ritmo) ed alla conclusiva, e non poteva che essere così, Will The Circle Be Unbroken, con tutti quanti sul palco a celebrare la carriera di uno dei più importanti gruppi country-rock di sempre, altri sei minuti di puro godimento sonoro.

Gran bel concerto, inciso tra l’altro benissimo: praticamente imperdibile.

Marco Verdi

Novità Prossime Venture Autunno 2016, Parte I. David Bromberg, Nitty Gritty Dirt Band, Bon Iver, Bob Weir, Billy Bragg/Joe Henry, Devendra Banhart

david bromberg band the blues, the whole blus and nothing but the blues

Riprendiamo con la rubrica della anticipazioni discografiche dopo la pausa estiva (non del Blog che veniva regolarmente aggiornato ogni giorno anche in questo periodo): partiamo con qualche titolo in uscita tra il 23 e il 30 settembre. L’unica eccezione sarebbe il nuovo CD della David Bromberg Band The Blues, The Whole Blues And Nothing But The Blues, che ha una data di pubblicazione ufficiale per il 14 ottobre, tramite l’etichetta Red House, ma visto che sulle nostre lande è già approdato da qualche giorno, tramite la distribuzione Ird, ve lo segnalo comunque.

Si tratta di un eccellente ritorno di Bromberg alle sue radici musicali, con un disco di poderoso blues elettrico, prodotto da Larry Campbell, finanziato con il crowdfunding, tredici brani di autori classici, qualche traditional e anche canzoni di autori più recenti, un paio dello stesso David:

Walking Blues (Robert Johnson)
How Come My Dog Don’t Bark When You Come ‘Round (Unknown)
Kentucky Blues (George ” Little Hat” Jones)
Why Are People Like That ? (Bobby Charles)
A Fool For You (Ray Charles)
Eyesight To The Blind (Sonny Boy Williamson)
900 Miles (Traditional)
Yield Not To Temptation (Deadric Malone)
You’ve Been A Good Ole Wagon (John Willie Henry)
Delia (Traditional)
The Blues, The Whole Blues, Nothing But The Blues (Gary Nicholson & Russell Smith)
This Month (David Bromberg)
You Don’t Have to Go (David Bromberg)

La band è composta da Mark Cosgrove, chitarra elettrica e mandolino, Nate Grower, violino, Butch Amiot, basso e Josh Kanusky, batteria, più una sezione fiati impiegata in cinque brani e, tra gli ospiti, Bill Payne, al piano e all’organo in sette brani, oltre a Teresa Williams, la moglie Campbell, che guida le voci di supporto in Yeld Not To Temptation. Inutile dire (ma lo dico) che il disco è molto bello.

billy bragg joe henry shine a light

Altro album molto bello, è il disco del mese di settembre del Buscadero, la rivista per cui collaboro (un po’ di promozione), parliamo di Shine A Light: Field Recordings From The Great American Railroad, CD dell’accoppiata Billy Bragg & Joe Henry, in uscita il 23 p.v, per la Cooking Vinyl. Si tratta, come dice il titolo, di field recordings, ovvero registrazioni sul campo, effettuate in giro per varie stazioni ferroviarie degli Stati Uniti, in un viaggio da Chicago a Los Angeles, alle prese con la grande tradizione della canzone americana.

1. “Rock Island Line” – Traditional (Recorded by Lead Belly, Lonnie Donegan)
2. “The L&N Don’t Stop Here Anymore” – Jean Ritchie
3. “The Midnight Special” – Traditional (Lead Belly)
4. “Railroad Bill” – Traditional (Riley Puckett)
5. “Lonesome Whistle” – Hank Williams
6. “KC Moan” – Traditional (The Memphis Jug Band)
7. “Waiting for a Train” – Jimmie Rodgers
8. “In the Pines” – Traditional (Lead Belly, The Louvin Brothers)
9. “Gentle on My Mind” – John Hartford (Glen Campbell, Aretha Franklin)

https://www.youtube.com/watch?v=xxHQk9-zZWw

10. “Hobo’s Lullaby” – Goebel Reeves (Woody Guthrie)
11. “Railroading on the Great Divide” – Sara Carter (The Carter Family)
12. “John Henry” – Traditional (Doc Watson)
13. “Early Morning Rain” – Gordon Lightfoot

Un inglese e un americano che si comprendono alla perfezione, per un disco semplice ma profondo.

devendra banhart ape in pink marble

Sempre il 23 settembre, per la Nonesuch/Warner esce il nuovo album di Devendra Banhart Ape In Pink Market. Segue di tre anni il precedente Mala, uscito nel 2013  e che non mi aveva entusiasmato. Tra i collaboratori di Devendra che che ha scritto, prodotto, arrangiato ed inciso quello che è il suo nono disco da solista, ricordiamo i soliti Noah Georgeson e Josiah Steinbrick.

Non ho avuto occasione di ascoltarlo, a parte i due brani apparsi su YouTube, comunque non male. per cui non so dirvi.

nitty gritty dirt band circlin' back

Il  settembre esce, un po’ a sorpresa, per la Warner Nashville, questo Circlin’ Back Celebrating 50 Years che festeggia appunto i 50 anni di carriera della Nitty Gritty Dirt Band (in questi giorni, su etichetta Chesky, è uscito anche un disco solista di John McEuen, Roots Music Made In Brooklyn con vari ospiti pure quello, tra cui Bromberg, John Cowan, Steve Martin, Jay Ungar, John Carter Cash). Viene pubblicato sia in CD che in CD/DVD (entrambi solo per il mercato americano e il combo in esclusiva per Amazon USA).

E’ stato registrato al Ryman Auditorium di Nashville e ha il seguente contenuto, con gli ospiti evidenziati tra parentesi:

Tracklist
1. You Ain’t Going Nowhere
2. Grandpa Was a Carpenter (feat. John Prine)
3. Paradise (feat. John Prine)
4. My Walkin’ Shoes
5. Tennessee Stud (feat. Vince Gill)
6. Nine Pound Hammer (feat. Sam Bush with Vince Gill)
7. Buy for Me the Rain
8. These Days (feat. Jackson Browne)
9. Truthful Parson Brown (feat. Jackson Browne)
10. Keep on the Sunny Side (feat. Alison Krauss)
11. Catfish John (feat. Alison Krauss)
12. An American Dream (feat. Rodney Crowell with Alison Krauss)
13. Long Hard Road (The Sharecropper’s Dream) (feat. Rodney Crowell)
14. Mr. Bojangles (feat. Jerry Jeff Walker)
15. Fishin’ in the Dark (feat. Jimmy Ibbotson)
16. Bayou Jubilee / Sally Was a Goodun
17. Jambalaya
18. Will the Circle Be Unbroken

bob weir blue mountain

Sempre il 30 esce anche il primo disco solista in studio di Bob Weir Blue Mountain, dai tempi degli anni ’70: nel frattempo erano uscite delle collaborazioni Live con Rob Wasserman, dei dischi a nome Bobby And The Midnites, Ratdog e altro. La prima cosa che salta all’occhio guardando la copertina del CD, che verrà pubblicato dalla Sony Legacy, per dirla come qualche comico di cui al momento mi sfugge il nome, “come è diventato vecchio”, al di là dei 68 anni effettivi (69 al 16 ottobre). Comunque, considerazioni sull’età a parte, le canzoni del disco sono state scritte tutte insieme al cantautore Josh Ritter, la produzione è affidata a Josh Kaufman e Dan Goodwin, con lo stesso Weir, tra le collaborazioni niente nomi celeberrimi, a parte qualche membro dei National che lo accompagneranno nel prossimo tour americano ma non appaiono nel CD. Dodici brani nuovi scritti per l’occasione:

1. Only A River
2. Cottonwood Lullaby
3. Gonesville
4. Lay My Lily Down
5. Gallop On The Run
6. Whatever Happened To Rose
7. What The Ghost Towns Know
8. Darkest Hour
9. Ki-Yi Bossie
10. Storm Country
11. Blue Mountain
12. One More River To Cross

Sentiremo, dal primo brano sembra promettente.

bon iver -  22 a million

Viceversa, bruttissimo, o se preferite sorprendente in senso negativo, almeno per i miei gusti personali, e anche in base alle precedenti uscite, è il nuovo disco di Bon Iver 22, A Million, pubblicato dalla Jagaguwar sempre il 30 settembre. Un disco tutto costruito su campionamenti elettronici e cut’n’paste vocali che avrà purei suoi fans, ma il sottoscritto non rientra tra loro. Ve lo segnalo come monito, occhio alla penna, già i titoli sono significatvi:

Tracklist
1. 22 (OVER S∞∞N)
2. 10 d E A T h b R E a s T ⚄ ⚄
3. 715 – CRΣΣKS
4. 33 “GOD”
5. 29 #Strafford APTS
6. 666 ʇ
7. 21 M♢♢N WATER
8. 8 (circle)
9. ____45_____
10. 00000 Million

La prima volta che lo ho ascoltato in anteprima pensavo fosse un difetto delle canzoni, ma invece è proprio così. Come si usa dire, de gustibus…So che esiste questo filone elettronico e che per molti è la musica del futuro, ma non pensavo fosse così anche per Bon Iver, alias Justin Vernon, visti i dischi precedenti. Parere del tutto personale ovviamente e non cercate di convincermi del contrario.

Per oggi è tutto, ci sentiamo nei prossimi giorni per altre uscite future.

Bruno Conti

Country-Bluegrass Di Vecchio Stampo, Ma Con Nuova Freschezza. National Park Radio – The Great Divide

national park radio the great divide

National Park Radio – The Great Divide – Mri Associated

Sono in cinque, vengono dalla zona delle Ozark Mountains, e il loro stile si ispira (forse inconsciamente), o cosi sostiene il loro leader Stefan Szabo, a quello di gruppi come i primi Mumford And Sons, gli Avett Brothers, gli Old Crow Medicine e a tutto quel movimento che fa riferimento a bluegrass, country, folk, old mountain music, Americana e roots. Insomma una vecchia storia che si ripete, pensate anche a gruppi dei tempi che furono, Ozark Mountain Daredevils, Dillards, Country Gazette, certe cose più bluegrass della Nitty Gritty Dirt Band, tutti gruppi, gli ultimi quanto i primi, che Szabo dichiara di non avere mai sentito ai tempi o oggi, se non dopo essere entrato nel mondo della musica. Il nostro amico, che dichiara di essere un “vecchio tipo” di 30 anni che va per i 60, ha iniziato tardi a fare musica: sposato a 18 anni, a 21 aveva già due figli, e fino a 27 anni non ha iniziato a scrivere canzoni, accompagnandosi con una Fender Statocaster, poi venduta per passare ad un banjo a 6 corde accordato come una chitarra. Dal 2012 ha cominciato a cercare anime gemelle per proporre quella che era la sua musica (diversa da i successi da top 40 e dall’alternative Christian rock che ascoltava alla radio quando era un ragazzo), quindi una musica prettamente acustica che nasce dalla zona dell’Arkansas nei pressi delle Ozark Mountain, a Harrison, nelle vicinanze del Parco Nazionale del Buffalo National River, da cui ha preso il nome il gruppo.

Dicevamo che sono un quintetto, oltre a Szabo, voce solista, chitarra acustica, banjo e autore delle canzoni, Heath Shatwell, banjo e voce, Mike Womack, basso, Ed Barrett, batteria e il violinista Jon Westover, polistrumentista che suona anche altri strumenti a corda e le tastiere. Il suono che scaturisce dal loro album di esordio, questo Great Divide, ispirato dalla linea che divide in due longitudinalmente il continente americano, è, come si diceva, una miscela di country e bluegrass, principalmente acustico, ma con la grinta e l’attitudine di una band rock, infatti qualcuno con termine felice ha parlato di “Rock And Roll Americana”. In effetti sembra proprio di ascoltare molte delle band citate poc’anzi, tra folate poderose di banjo, chitarre acustiche, una ritmica quasi sempre impegnata sui ritmi del bluegrass ma con l’approccio di una band rock, un violino guizzante e la bella voce di Szabo che ricorda quelle dei vari Richie Furay, John Dillon e Steve Cash ( i due degli Ozarks), Doug Dillard, Jeff Hanna, fino ad arrivare agli attuali Seth e Scott Avett e Ketch Secor degli Old Crow Medicine Show. Le undici canzoni sono tutte piuttosto belle, ma come in tutti gli album d’esordio confluisce il materiale preparato da tutta una vita e quindi poi sarà difficile ripetersi (a giudicare da altri brani che si trovano in rete non è detto però https://www.youtube.com/watch?v=C9hFOvLJ-e4  ), ma per il momento accontentiamoci.

I testi sono ispirati dallo spirito esplorativo dei pionieri, dalla sana provincia americana che non si accontenta di vivere secondo le regole del consumo, andare al college, trovare un lavoro, magari per la stessa società per 30 anni e passa e poi ritirarsi: Szabo predica la vita all’aria aperta, l’andare in canoa, fare camping, crescere la propria famiglia secondo sani principi, anche religiosi, preservare la natura (e quindi anche i Parchi Nazionali), seguire le proprie passioni e i propri amori, tutte bellissime cose sulla carta, nella tradizione del grande sogno americano, poi non sempre si riesce a realizzarli. Musicalmente si diceva che prevale questo country-bluegrass veloce e frizzante, esemplificato per esempio dall’iniziale title track The Great Divide, dove un banjo detta il ritmo frenetico che poi viene arricchito da vari altri strumenti a corda, acustiche, mandolini, e da una ritmica incalzante, begli intrecci vocali, soprattutto la voce pimpante di Stefan Szabo e una melodia ariosa che ti rimane in testa

Nella successiva There’s A Fire entra nell’insieme anche il violino guizzante di Jon Westover, sullo sfondo si agitano pure piccoli tocchi di tastiere, per un suono che è tutt’altro che monocorde, degno degli migliori canzoni degli Old Crow Medicine Show o degli Avett Brothers più roots, veramente coinvolgente. In Steady, che rallenta leggermente i tempi, entrano piccoli elementi vaudeville, con piano e organo e le deliziose armonie vocali che assumono un’aria un poco demodé ma non pacchiana, cosa di cui erano maestri quelli della Nitty Gritty https://www.youtube.com/watch?v=9te90CQ5N7E ; I Will Go On, una canzone incentrata sulla sopravvivenza nei difficili tempi che stiamo vivendo, riparte di grande lena, di nuovo con banjo e violino sugli scudi, oltre alle immancabili chitarre acustiche e a quel sound senza tempo della migliore tradizionale musicale americana, con l’appassionata voce di Szabo ad incorniciare il tutto, e qui l’energia almeno ricorda quella dei primi Mumford And Sons https://www.youtube.com/watch?v=1cXihlp5OAY .

Monochrome è una delle migliori canzoni dell’album, una ballata mid-tempo degna dei migliori brani del country-rock di inizio anni ’70, con le tastiere, piano e organo, che conferiscono un tocco di “modernita” (si fa per dire) degno della Band più rurale e genuina, con le canzoni di tutto il disco che hanno spesso questo spirito quasi antemico nel loro dipanarsi; Ghost, altro brano più intimo e raccolto, ma sempre con il picking vorticoso degli strumenti a corda e le evoluzioni del violino ben presenti, insomma si rallenta appena, ha uno svolgimento tra lo spirituale ed il religioso, pur sempre con quella leggera vena irriverente e scanzonata che scorre comunque nei pezzi di Szabo, peraltro assai godibili. Once Upon A Time, ancora per merito della voce brillante di Stefan Szabo, sembra un brano di quelli più belli degli Avett Brothers, con intrecci vocali e strumentali di grande fascino. Rise Above è bluegrass allo stato puro, al limite con qualche elemento gospel, una canzone dallo spirito positivo e ottimista, con chitarre, mandolino, banjo e sezione ritmica sempre impegnati nelle evoluzioni tipiche dello stile, e qui mi gioco di nuovo Old Crow Medicine Show e Nitty Gritty, e pure i Dillards, ma è solo per tracciare dei parallelismi con il meglio del genere. The Walking Song, per quanto piacevole, tra voce come filtrata da un megafono e l’uso del kazoo, è forse la traccia meno brillante del disco, mentre The Ground And The Knee, di nuovo una brillante folk-country song, un filo meno frenetica e con un coretto coinvolgente da memorizzare, e soprattutto la splendida ballata conclusiva, una Virginia che illustra anche il lato più melodico e raccolto del songbook di Szabo, con un violino struggnete, sono di nuovo ottimi esempi del talento compositivo del leader di questi National Park Radio. Promossi con pieno merito,

Bruno Conti