Tra Irlanda E Appalachi…Ma Dal Canada! The Dead South – Served Live

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The Dead South – Served Live – Six Shooter/Universal Canada 2CD

Dopo un EP e tre acclamati dischi in studio (l’ultimo dei quali, Sugar & Joy, risalente al 2019) anche i Dead South sono giunti all’appuntamento con quello che negli anni settanta era un must: il doppio album dal vivo. Canadesi della regione del Saskatchewan (la stessa di Colter Wall), i DS non sono un gruppo che suona musica cantautorale tipica della nazione del Nord America alla quale appartiene, ma in realtà sono una bluegrass band moderna con elementi folk ed anche rock, una notevole perizia strumentale ed un senso del ritmo non comune nonostante l’assenza di una sezione ritmica. I quattro (Nathaniel Hilts, voce solista, chitarra e mandolino, Scott Pringle, mandolino, chitarra e voce, Danny Kenyon, cello e voce, Colton Crawford, banjo e voce – con Kenyon che dallo scorso agosto ha lasciato il gruppo in quanto oggetto di una serie di accuse di molestie sessuali) sono stati paragonati come stile agli Old Crow Medicine Show, ma io vedo nel loro sound anche qualcosa dei Pogues, sia per le discendenze irlandesi di un paio di membri, sia per la foga con cui suonano ed anche per il timbro di voce parecchio arrochito di Hilts.

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Served Live è un doppio CD registrato a cavallo tra il 2019 ed il 2020 (appena prima che la pandemia decretasse lo stop ai concerti) in varie località di USA, Canada, Inghilterra ed Irlanda, 17 canzoni durante le quali i nostri mettono sul piatto tutta la loro bravura e la capacità di improvvisare jam strumentali con un’attitudine da rock band. Il palco è chiaramente la loro dimensione ideale, e ciò viene fuori alla grande nei due brani centrali del doppio, i sette minuti di Broken Cowboy, bellissima ballad cadenzata dal motivo di base decisamente coinvolgente https://www.youtube.com/watch?v=mHiOjCuQzzA , ed i nove minuti e mezzo della superba Honey You, country-folk dal crescendo costante con una velocità di esecuzione impressionante, assoli a profusione ed una serie di stop & go che mandano in visibilio il pubblico https://www.youtube.com/watch?v=fa8BwgLBMUc .

Michael Skocay

Michael Skocay

Ma il disco è anche molto altro: Diamond Ring, che sembra un traditional folk dell’anteguerra, viene suonato ai mille all’ora e cantato con grande grinta, il puro bluegrass Blue Trash, con ottimi cambi di ritmo e melodia, la fulgida ballata Black Lung, tesa ma coinvolgente, la formidabile The Recap, tra western e Messico, la creativa Boots, che in pochi minuti si trasforma da bluegrass a folk a puro country, oppure lo strepitoso western tune Spaghetti, tra i pezzi più trascinanti del doppio https://www.youtube.com/watch?v=Lqk4tTTubtY . Senza dimenticare le forsennate e travolgenti The Bastard Son e Snake Man, suonate con un approccio da punk band, Heaven In A Wheelbarrow, delizioso ed orecchiabile country-grass, la divertente cowboy song In Hell I’ll Be In Good Company, fino al gran finale con le irresistibili Travellin’ Man e Banjo Odyssey, un titolo che è tutto un programma. I Dead South sono una bella realtà, e questo Served Live li consacra come uno degli acts più interessanti in ambito folk-bluegrass contemporaneo.

Marco Verdi

Il Ritorno Di Una Band Dimenticata…E Forse Dimenticabile! Clem Snide – Forever Just Beyond

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Clem Snide – Forever Just Beyond – Ramseur CD

Forse pochi di voi si ricorderanno dei Clem Snide, band di alternative country originaria di Boston che prende il nome da un personaggio creato dal noto scrittore William S. Burroughs (presente tra l’altro nella famosa opera Il Pasto Nudo). Il gruppo è stato creato da Eef Barzelay nell’ormai lontano 1991, ma ha esordito solo nel 1998 con You Were A Diamond, al quale sono seguiti una mezza dozzina di album rigorosamente indipendenti fino al 2010 (c’è stato per la verità un disco anche nel 2015, Girls Come First, ma era in realtà un lavoro solista di Barzelay dato che era l’unico musicista presente). Nella decade ormai trascorsa ad Eef è capitato un po’ di tutto, dallo scioglimento della band alla dichiarazione di bancarotta con conseguente perdita della casa, passando per la separazione dalla moglie: una serie di avvenimenti che avrebbero messo a dura prova chiunque, ma Barzelay ha ricominciato passo dopo passo a rimettere insieme i cocci della sua vita con l’aiuto della meditazione spirituale, fino a riformare il suo vecchio gruppo, che ora è un trio con le new entries Bill Reynolds al basso e Mike Marsh alla batteria.

Forever Just Beyond è quindi da considerarsi il disco della rinascita artistica per Barzelay, il quale per l’occasione ha fatto le cose in grande facendosi produrre da Scott Avett degli Avett Brothers, che si è anche occupato di diverse parti strumentali e pubblicato l’album per l’etichetta di famiglia, la Ramseur Records, e ha messo a disposizione del nostro un paio di sessionmen di prestigio come Dana Nielsen al sassofono (il quale è però più famoso come tecnico del suono, avendo lavorato tra gli altri con Neil Young, Santana, gli stessi Avett Brothers, Bob Dylan in Tempest – ed Adele nel multimilionario 21) e soprattutto Ketch Secor degli Old Crow Medicine Show al violino. C’erano quindi tutti gli ingredienti per un ritorno coi fiocchi, ma purtroppo a Forever Just Beyond manca forse la cosa più importante: le canzoni. Barzelay è in possesso di uno stile decisamente intimista, a volte direi quasi sonnolento, ed usa una strumentazione piuttosto scarna a supporto della sua voce che già di per sé non è fulminante: la cosa potrebbe anche funzionare se però ci fossero appunto dei brani di qualità a sostenere il tutto, ma qui purtroppo dopo un po’ le canzoni finiscono con l’assomigliarsi tutte, ed Eef secondo me non è in possesso del carisma e del mestiere necessari per sopperire a tali mancanze (ed Avett non può fare più di tanto).

Non è un brutto disco Forever Just Beyond, ma nemmeno un lavoro che mi sentirei di consigliare, e forse dimostra che Eef non era ancora pronto a tornare in auge. Roger Ebert fa iniziare l’album in tono intimo, con una ballata eterea guidata dal piano e dalla voce calma del leader, una melodia discorsiva ed un background tra folk e rock, che ricorda alla lontana lo stile dei Fleet Foxes. Una bella chitarra elettrica introduce Don’t Bring No Ladder, il pezzo più solare del CD, dal ritmo accentuato pur se in modo soffuso ed un motivo diretto e orecchiabile: Barzelay canta come se si fosse appena svegliato, ma quello è il suo modo di porsi e non inficia la canzone che è abbastanza riuscita. La title track torna alle atmosfere del primo brano, strumentazione sparsa, voce sospesa ed un tappeto di chitarre a sopperire all’assenza della batteria: un pezzo non facile ed un po’ troppo monotono per i miei gusti, meglio The Stuff Of Us che nonostante mantenga un’aura malinconica ha un sapore folk che la rende più approcciabile pur non avendo una melodia memorabile.

Sorry Charlie è un brano cadenzato che è anche quello che somiglia di più ad una country song, anche se la voce lamentosa di Eef comincia a darmi sui nervi, Easy è ancora sonnolenta ed il motivo non certo canticchiabile al primo ascolto non l’aiuta, così come Emily che dura quattro minuti ma sembrano otto. Il problema, oltre al suono decisamente monocorde, è il songwriting che fa fatica ad uscire, con i vari brani che si somigliano tutti: mi sarei aspettato di più da Avett, ma neanche lui può fare miracoli col materiale a disposizione (persino il violino di Secor è utilizzato col contagocce ed in maniera troppo languida, ben lontano dalle trascinanti scorribande degli OCMS). Tra i restanti pezzi segnalo solo l’acustica The Ballad Of Eef Barzelay, che ha un discreto sapore tra folk e western anche se la voce del leader tende ad appiattire tutto

.I Clem Snide non sono mai stati un gruppo fondamentale, ed anche questo comeback album nonostante le buone intenzioni si rivela essere un lavoro piuttosto mediocre e noioso.

Marco Verdi

*NDB Per una volta mi permetto di dissentire da quanto scritto sopra dall’amico Marco; nel Blog c’è sempre la massima libertà di esprimere le proprie opinioni  senza interferenze, ma anche di emettere pareri diversi, per cui vorrei dire che a me l’album non è dispiaciuto per nulla, certo non è un capolavoro, ma neppure così da massacrare, ed ha comunque avuto ottime recensioni in giro per il mondo, per cui valutate voi, magari anche ascoltando i video delle canzoni inserite nel Post.

Un’Ottima String Band Direttamente Dai Monti Appalachi. Fireside Collective – Elements

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Fireside Collective – Elements – Mountain Home CD

Uno dei filoni più attivi della musica americana è quello delle cosiddette “string bands”, cioè quei gruppi che suonano prevalentemente strumenti a corda e si ispirano alle tradizioni folk, country e bluegrass per creare qualcosa di nuovo. I capostipiti del genere sono senz’altro gli Old Crow Medicine Show, i migliori del lotto, gli Avett Brothers, che però negli ultimi anni hanno differenziato il suono aggiungendo abbondanti dosi di rock e pop, ed i Trampled By Turtles, che sono anche quelli che hanno cambiato meno negli anni (mentre i Mumford & Sons li abbiamo purtroppo persi da diverso tempo). Tra le band più promettenti di questo genere musicale vorrei segnalare i Fireside Collective, un quintetto che proviene direttamente dai monti Appalachi, precisamente dal North Carolina, e che con Elements pubblica il suo terzo lavoro dopo gli autodistribuiti Shadows And Dreams del 2014 e Life Between The Lines del 2017. I cinque ragazzi suonano una miscela molto creativa e coinvolgente appunto di country, bluegrass, folk e mountain music, e la loro caratteristica principale è quella di abbinare ad una strumentazione chiaramente tradizionale una serie di canzoni originali di stampo più moderno, così da creare un mix decisamente stimolante.

Il gruppo, che ha al suo interno ben tre lead vocalists, è formato dal leader Jesse Iaquinto al mandolino, Joe Cicero alla chitarra, Alex Genova al banjo, Tommy Maher al dobro e Carson White al basso: come avrete notato manca la batteria, ma vi posso assicurare che ascoltando il disco non ve ne accorgerete. Elements è prodotto da Travis Book (leader degli Infamous Stringdusters, altra string band) in maniera molto pulita, con le voci e gli strumenti che risaltano allo stesso modo, ed è un album che nel corso dei suoi tredici brani ci presenta una band che sa abbinare mirabilmente tecnica e feeling, ed in più è in grado di scrivere canzoni decisamente piacevoli. Dopo una breve introduzione in cui i nostri accordano gli strumenti si parte a tutta birra con Winding Road, una deliziosa country song dalla melodia accattivante ed immediata che ricorda la Nitty Gritty Dirt Band d’annata, con un ritornello corale e la band che inizia a darci dentro di brutto con gli assoli. Back To Caroline è un vivace bluegrass guidato dal banjo e suonato con notevole velocità e senso del ritmo, un pezzo che coniuga alla perfezione tradizione e modernità e che è seguito dalla limpida Circles, una country ballad che evidenzia la caratteristica principale dei Fireside, cioè pubblicare brani che mescolano una scrittura attuale ad un accompagnamento al 100% acustico, con le voci come ulteriore punto di forza.

Done Deal è ancora un bluegrass dalla linea melodica squisita che ricorda molto da vicino gli Old Crow (forse pure troppo dato che il motivo somiglia parecchio a quello di Wagon Wheel) ed uno splendido dobro, Bring It On Home è cadenzata e rimanda maggiormente al country delle origini, da Hank Williams in giù, Waiting For Tennessee è uno strepitoso brano tra folk e bluegrass con una melodia molto “appalachiana” ed una prestazione strumentale collettiva da applausi: con i suoi sei minuti è il brano più lungo del CD, ma scorre in un baleno. Where The Broad River Runs è puro folk d’altri tempi, intenso e drammatico (forse la più tradizionale finora dal punto di vista musicale), a differenza di Night Sky From Here che è un country-grass strumentale trascinante e dal ritmo acceso, con cambi di tempo e melodia assolutamente creativi (ottimo il banjo), mentre l’orecchiabile Don’t Stop Lovin’ Me è puro country-rock suonato acustico con il dobro in evidenza. High Time non è quella dei Grateful Dead, ma è ugualmente una bella canzone, tersa, fluida e con l’aggiunta di una steel suonata da Maher, She Was An Angel è l’ennesimo solare brano tra country e bluegrass ancora con gli Old Crow in mente; il CD si chiude con la forsennata Fast Train, nella quale i nostri suonano a velocità altissima, e con la ripresa strumentale di Winding Road.

E’ giunta l’ora di scoprire i Fireside Collective, soprattutto se un certo tipo di musica country “tradizionale” è pane per i vostri denti.

Marco Verdi

Non Saranno Tanto “Soul-Grass”, Ma Sono Bravi! The Copper Tones – Home Again

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The Copper Tones – Home Again – The Copper Tones CD

Ecco un nuovo gruppo che può entrare di diritto a far parte del genere country-grass moderno di string band del calibro di Old Crow Medicine Show, Avett Brothers (che ultimamente stanno virando verso il pop-rock, seppur di qualità) e Trampled By Turtles: il livello non è ancora quello, ma dopo avere ascoltato attentamente Home Again (il loro secondo album) posso tranquillamente affermare che i Copper Tones sono sulla buona strada. Quartetto proveniente dalla Florida, i CT hanno tutte le caratteristiche per piacere ai fans dei gruppi citati poc’anzi, in quanto sono validissimi strumentisti, sanno comporre canzoni dalla struttura moderna ed arrangiarle in maniera tradizionale e soprattutto suonano con un ritmo ed un feeling notevoli, mischiando con disinvoltura country, folk, rock (non mancano le chitarre elettriche), bluegrass ed anche soul.

Anzi, i nostri (Dyllan Thieme, voce solista, basso e mandolino, Stefanie Smerkers, voce solista, chitarra e banjo, Daniel Gootner, chitarra solista e ukulele, Andu Annoied, batteria, più un paio di ospiti rispettivamente al violino e pianoforte) si sono autodefiniti un gruppo “soul-grass”, anche se a dire il vero in Home Again di brani che potessero avere elementi soul ne ho contati al massimo un paio. Ma l’album, classificazioni a parte, è bello e coinvolgente, con canzoni dalla struttura rock ma suonate con una strumentazione tradizionale e, soprattutto, con molta energia. Il CD parte molto bene con la squisita Home, un folk-grass dal ritmo velocissimo, strumentazione elettrica e melodia deliziosa, una miscela vincente che non li pone lontanissimi dagli Old Crow. Dopo una breve intro a cappella anche Tempting The Bottle parte a tutta velocità, un brano di puro bluegrass dal sapore western suonato con foga da punk band nonostante la spina staccata; The Gallows è una vera e propria rock song nello script anche se gli strumenti sono acustici (tranne l’assolo chitarristico), e ha un altro refrain decisamente piacevole e diretto.

La saltellante Home Again è una bella canzone dal chiaro sapore bucolico e dotata di un ottimo ritornello a due voci, un pezzo che fonde capacità nel songwriting ed abilità strumentale, mentre Big Sugar, Big Change si pone come una classica ballata che sembra provenire dai seventies, quando i Grateful Dead avevano abbandonato la psichedelia per dedicarsi a sonorità più roots. Southbound Train è una splendida folk ballad elettrificata, suonata in punta di dita e servita da un motivo centrale rimarchevole, al contrario di Just Can’t Stop che è la più roccata finora, con un potente riff elettrico che introduce le varie strofe. La lenta Johnny & June è un toccante e riuscito omaggio ai coniugi Cash, con i primi leggeri elementi soul nel suono, ma con Reckless Life riprende il ritmo forsennato per un rock-grass sanguigno e grintoso nonché orecchiabile. La fluida Living In Hell è la prima vera (ed unica) soul ballad del disco, molto ben cantata dalla Smerkers e con un bel crescendo in cui il piano si fa sentire in maniera limpida; finale con To Blame, lucida e profonda ballata country-rock, e Andouille Sausage, un pezzo annerito e funkeggiante che si stacca decisamente dal resto del disco, risultando comunque gradevole e ben eseguito.

I Copper Tones sono una bella scoperta, un gruppo che ha idee e creatività nonché un’ottima tecnica ed un notevole senso del ritmo: da seguire.

Marco Verdi

Il Ragazzo Si Farà…Anzi E’ Già Bello Che Pronto! Chad Kostner – Highway 63

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Chad Kostner – Highway 63 – Blue Whiskey Van CD

Dalla piccola cittadina rurale di Bloomer, Wisconsin (stato del Midwest poco presente sulle mappe del rock’n’roll) arriva questo esordio fulminante da parte di un giovane songwriter, Chad Kostner, che si è avvicinato alla musica quasi per caso, ossia dopo che all’età di 18 anni ha trovato una vecchia chitarra Silvertone nella soffitta dei genitori. A poco a poco Chad ha imparato a suonare lo strumento, ha iniziato ad avvicinarsi ad autori classici tra country, roots e rock come Hank Williams, John Prine, Steve Earle e John Mellencamp e ha lentamente iniziato a comporre i brani che oggi vanno a formare Highway 63, il suo sorprendente album di debutto. Chad ha assorbito alla grande la lezione dei suoi artisti preferiti, mostrando di covare al suo interno un talento non comune: Highway 63 è formato infatti da otto canzoni una più bella dell’altra, una serie di ballate tra country e rock che hanno il sapore soprattutto dei già citati Prine (per l’approccio nel songwriting ed una certa ironia di fondo) e Mellencamp (per la voce roca ed una buona propensione per il rock “stradaiolo”), un lavoro maturo e riuscito che non sembra affatto l’opera di un esordiente.

La strumentazione è quanto di più classico si possa trovare, chitarre acustiche ed elettriche, basso, batteria, piano ed organo alla bisogna e spesso una steel a sfiorare le canzoni, ma sono proprio i brani a fare la differenza: tra country, rock e radici, suoni profondi figli della provincia americana, che colpiscono fin dal primo ascolto. Canzoni belle e fiere come l’iniziale Demons, uno splendido country-rock dal ritmo e refrain decisamente coinvolgenti, voce arrochita e sonorità classiche che vedono le chitarre in primo piano. Different Dream è una ballata lenta e soffusa guidata da chitarra acustica, pianoforte e da una malinconica steel sullo sfondo, nonché da un motivo profondo che avvicina il nostro al miglior Ryan Bingham; Rambler’s Soul è folk (e qui si palesa l’influenza di Prine), una canzone bella e scorrevole pur nella sua estrema semplicità, con un arrangiamento elettroacustico di sicuro impatto, mentre con Highway 63 andiamo quasi in Texas per un rockin’ country elettrico e trascinante che si ascolta tutto d’un fiato, con un uso delizioso delle chitarre (Steven James Carlson è il solista in tutto il disco).

Summer è un valzerone splendido sotto ogni aspetto, dal motivo emozionante all’esecuzione in punta di dita basata su chitarra, piano e fisarmonica fino al pathos che il nostro ci mette: tra le più belle del CD. Old Movies è limpida, diretta e con l’ennesima melodia che piace al primo ascolto, ed un ottimo uso del piano elettrico, Yellow Water è un’altra splendida country tune che più classica non si può, dall’accompagnamento limpido che contrasta con la voce roca di Chad (e nel songwriting vedo tracce degli Old Crow Medicine Show), brano che precede la conclusiva Heading Home, finale struggente con una solida ballatona dai toni crepuscolari. Un piccolo grande esordio questo Highway 63: Chad Kostner compone con un piglio da veterano, ed è sicuramente tra le realtà da tenere d’occhio per l’immediato futuro.

Marco Verdi

 

 

 

La Musica Di Qualità E’ Davvero Nelle Sue “Corde”! Billy Strings – Home

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Billy Strings – Home – Rounder CD

“Ho visto il futuro del bluegrass, il suo nome è Billy Strings!” Nessuno in realtà, che io sappia, ha mai pronunciato questa frase, ho semplicemente adattato la celeberrima sentenza con la quale l’allora critico Jon Landau definì un giovane Bruce Springsteen dopo un concerto a Cambridge in cui il futuro Boss apriva per Bonnie Raitt, e l’ho applicata a Billy Strings, musicista ventisettenne originario del Michigan. In realtà il nostro si chiama William Apostol, ed il soprannome Strings gli è stato appioppato dallo zio che era rimasto impressionato dalla sua abilità con gli strumenti a corda. D’altronde non poteva essere altrimenti, in quanto William fin da bambino è stato cresciuto a pane e bluegrass dal patrigno, musicista per diletto e grande appassionato di Doc Watson, Del McCoury, Bill Monroe e Ralph Stanley. Billy crescendo si è avvicinato anche al rock (da Jimi Hendrix in giù), ed il suo modo di suonare risente di queste molteplici influenze, in quanto stiamo parlando di un musicista con una tecnica straordinaria, che riesce a giostrarsi brillantemente con qualsiasi tipo di strumento tradizionale palesando una grinta ed un approccio da vero rocker, ed introducendo all’interno di una musica che è acustica al 90% anche delle parti di chitarra elettrica: non siamo ancora di certo ai livelli degli Old Crow Medicine Show (una band alla quale il nostro è stato paragonato), ma neppure distanti anni luce.

A parte due album autodistribuiti e registrati insieme a Don Julin, Billy ha esordito con un EP nel 2016 ed un anno dopo ha dato alle stampe il suo vero e proprio debutto, Turmoil And Tinfoil, che lo ha subito fatto notare come una sicura promessa in ambito bluegrass, a tal punto che per questo nuovo Home il nostro è stato messo sotto contratto dalla prestigiosa Rounder. Prodotto da Glenn Brown, Home vede Billy circondarsi di colleghi che come lui danno del tu agli strumenti: Strings si occupa di chitarre e banjo, ed è aiutato da Billy Failing sempre al banjo, Jarrod Walker al mandolino, Royal Masat al basso e John Mailander al violino, mentre in un paio di pezzi compare anche il dobro del maestro Jerry Douglas. Quattordici canzoni, tutte quante a firma di Billy nonostante in certi momenti ci sembra di ascoltare vecchi brani della tradizione. Taking Water  ha un inizio attendista nel quale i nostri paiono accordare gli strumenti, poi il banjo dà il via alle danze per un country-grass diretto e godibile, dal refrain corale che pare preso da un vecchio canto appalachiano. Ogni brano dona spazio agli assoli dei vari musicisti, che rendono ancora più piacevole l’ascolto. Must Be Seven è vivace e ha dalla sua una scrittura moderna nonostante l’accompagnamento d’altri tempi (ed anche qui non mancano un paio di splendidi interventi di banjo e chitarra), a differenza della deliziosa Running che sembra un antica pickin’ tune degli anni cinquanta (e sentite come suonano).

Ma gli highlights del disco sono Away From The Mire e Home, due brani straordinari di quasi otto minuti l’uno in cui il gruppo letteralmente si supera, con i vari membri che si rincorrono idealmente a vicenda tentando di sfidarsi a duello l’un l’altro: Away From The Mire parte come una ballata, ma dopo solo un minuto il ritmo prende il sopravvento (e compare anche una chitarra elettrica per uno strepitoso intermezzo rock), mentre Home è addirittura quasi psichedelica, con elementi orientaleggianti ed un finale anche qui elettrico, da applausi a scena aperta. Non solo tecnica, ma anche feeling e creatività a mille. Dopo due pezzi così il resto è in discesa, ma non sarebbe giusto ignorare tracce come la limpida Watch It Fall, puro country, il bluegrass a tutta velocità di Long Forgotten Dream (altro brano suonato con un approccio rock pur avendo la spina staccata), la strana Highway Hypnosis, che parte tradizionale al massimo e poi diventa un insieme di sonorità ipnotiche (come da titolo), per poi riprendere il tema iniziale e chiudere in scioltezza. Enough To Leave è una country ballad molto suggestiva, Hollow Heart riporta il ritmo a livelli altissimi, mentre Love Like Me è una folk song pura e fresca. Il CD si chiude con Everything’s The Same, altra canzone in cui Billy e compagni si divertono a suonare ad alta velocità, il fantastico strumentale Guitar Piece, vero pezzo di bravura ed abilità chitarristica per il nostro (e qui vedo addirittura l’influenza di John Fahey), e con Freedom, un bellissimo brano che fonde folk e gospel, con tanto di botta e risposta tra voce e coro, pura mountain music.

Home è un album fulminante, e Billy Strings un nome sul quale contare sicuramente per il futuro. Per quanto mi riguarda, anche per il presente.

Marco Verdi

Ecco Un Altro Gruppo Che Non Sbaglia Un Disco Neanche Volendo! Marley’s Ghost – Travelin’ Shoes

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Marley’s Ghost – Travelin’ Shoes – Sage Arts CD

Quando si parla di gruppi che rielaborano la tradizione country, folk e bluegrass in chiave moderna la mente va subito a Old Crow Medicine Show, Avett Brothers e Trampled By Turles, ma spesso ci si dimentica di citare i Marley’s Ghost, sestetto californiano in giro da più di trent’anni. Una band di veterani quindi, ed infatti i capelli dei membri sono ormai irrimediabilmente grigi (quando non del tutto assenti), ma la loro forza nel suonare ed abilità nel produrre grande musica è pari a quella dei gruppi citati sopra. I Marley’s Ghost (Mike Phelan, chitarre, dobro, basso, violino e voce, Ed Littlefield Jr., chitarre, steel, basso e voce, Jon Wilcox, mandolino, chitarre e voce, Dan Wheetman, basso, steel, chitarra e voce, Jerry Fletcher, piano e voce, Bob Nichols, batteria) sono meno rock sia degli Old Crow che dei Fratelli Avett, pur avendo una sezione ritmica ed usando qua e là anche la chitarra elettrica, ma si rifanno più direttamente a sonorità tradizionali di generi come country, bluegrass, folk, gospel e old time music, rilette comunque con grande forza ed eccellente perizia strumentale.

 

Non hanno inciso moltissimo in 32 anni, appena una dozzina di album, ma proprio per questo quando esce una loro pubblicazione si può stare certi che non sarà una delusione. I loro ultimi due lavori, i bellissimi Jubilee e The Woodstock Sessions, erano prodotti da Larry Campbell, uno che con questo tipo di musica va a nozze, ed infatti i nostri lo hanno voluto a bordo anche per questo nuovissimo Travelin’ Shoes, un album davvero splendido, forse ancora più bello dei precedenti, in cui il sestetto rivisita a modo suo una serie di brani della tradizione gospel, con l’aggiunta di appena due brani originali. Il risultato è di altissimo livello, una strepitosa collezione di brani che rivedono il gospel aggiungendo cospicue dosi di ritmo, passando dal country al rock al bluegrass con estrema disinvoltura, e senza un attimo di tregua. Che non ci troviamo di fronte ad un disco qualsiasi lo si capisce fin dalla title track posta in apertura, che inizia per voce e banjo, poi entra il resto del gruppo ed anche la sezione ritmica comincia a farsi sentire: il binomio tra l’accompagnamento grintoso e la melodia tipicamente folk è vincente, in gran parte grazie alla fusione delle varie voci. Hear Jerusalem Moan è un traditional molto noto, ed è eseguito con uno splendido arrangiamento tra gospel e bluegrass, con alternanza tra parti vocali ed assoli strumentali (particolarmente belli quelli di violino e pianoforte);You Can Stand Up Alone, dopo un lungo intro a cappella, è eseguita in maniera cadenzata e con una deliziosa veste doo-wop anni sessanta (e la chitarra è elettrica), rilettura irresistibile, tra le più belle del CD.

Someday è scritta da Campbell, ed è un saltellante country-gospel contraddistinto da una performance in punta di dita ed all’insegna della classe sopraffina di cui i nostri sono provvisti in grande quantità. So Happy I’ll Be è un vecchio pezzo di Flatt & Scruggs, un coinvolgente gospel sullo stile di brani come Will The Circle Be Unbroken e Amazing Grace, superbamente eseguito e cantato alla perfezione; nell’insinuante Shadrack i nostri sembrano degli epigoni di Tennessee Ernie Ford, con quel tipico approccio old style ed un bel botta e risposta tra voce solista e coro, il tutto con un vago sapore jazzato. Run Come See Jerusalem è un capolavoro, sembra uscita di botto da un disco anni settanta di Ry Cooder, dall’intro di chitarra elettrica, all’atmosfera a metà tra Hawaii e Messico (c’è anche una fisarmonica), ed il coro fa la parte che fu di Bobby King e Terry Evans: magnifica. Judgement Day, unico pezzo originale dei nostri (ad opera di Wheetman), è un altro highlight assoluto, una splendida western ballad elettrica che sarebbe piaciuta a Johnny Cash, vibrante e dalla melodia epica, When Trouble’s In My Home richiama ancora Cooder (quello di Boomer’s Story), canzone tra folk, gospel e blues, con slide acustica ed intesa vocale perfetta, mentre Standing By The Bedside Of A Neighbor è uno scintillante e ritmato western swing con il grande Bob Wills come riferimento principale. Chiudono l’album la cristallina A Beautiful Life, puro country con un tocco di gospel, e con Sweet Hour Of Prayer, un toccante slow pianistico e corale che ha quasi il sapore di un brano natalizio.

Con Travelin’ Shoes i Marley’s Ghost hanno aggiunto un altro gioiello ad una collezione già preziosissima: tra i dischi più belli di questa prima parte di 2019, almeno nel genere country e derivati.

Marco Verdi

Siamo Arrivati A Quel Periodo Dell’Anno! Il Meglio Del 2018 In Musica Secondo Disco Club, Parte IV

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Ed ecco l’ultimo pensatore del nostro team di cervelli in azione, con la sua classifica relativa alle cose migliori che ci ha riservato questo anno che si avvia alla conclusione e qualche auspicio per l’anno a venire.

I BEST DEL 2018 di Marco Verdi

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Disco Dell’Anno: Ekoostik Hookah – Halcyon

https://discoclub.myblog.it/2018/03/16/nostalgia-californiana-anni-70-ekoostik-hookah-halcyon/ Anche se il Post non è suo!

marianne faithfull negative capability

Piazza D’Onore: Marianne Faithfull – Negative Capability

https://discoclub.myblog.it/2018/11/09/di-nuovo-questa-splendida-settantenne-che-non-ha-ancora-finito-di-stupire-marianne-faithfull-negative-capability/

Gli Altri 8 Della Top 10:

old crow medicine show volunteer

Old Crow Medicine Show – Volunteer

https://discoclub.myblog.it/2018/05/14/straordinaricome-sempre-old-crow-medicine-show-volunteer/

jayhawks back roads and abandoned motels                                          

The Jayhawks – Back Roads And Abandoned Motels

https://discoclub.myblog.it/2018/05/14/straordinaricome-sempre-old-crow-medicine-show-volunteer/

janiva magness love is an army                                          

Janiva Magness – Love Is An Army

                                          

rosanne cash she remembers everything

Rosanne Cash – She Remembers Everything Come già detto album che rientrerà sicuramente nei “recuperi” stagionali.

chip taylor fix your words

Chip Taylor – Fix Your Words

https://discoclub.myblog.it/2018/04/25/uno-dei-lavori-piu-belli-del-signor-james-wesley-voight-chip-taylor-fix-your-words/                                           

elvis costello look now

Elvis Costello – Look Now

  https://discoclub.myblog.it/2018/10/26/laltro-elvis-un-ritorno-alla-forma-migliore-per-mr-mcmanus-il-disco-pop-dellanno-elvis-costello-the-imposters-look-now/                                        

tommy emmanuel accomplice one

Tommy Emmanuel – Accomplice One

   https://discoclub.myblog.it/2018/07/16/ripassi-estivi-3-in-poche-parole-un-disco-semplicemente-fantastico-tommy-emmanuel-accomplice-one/                                       

brandi carlile by the way

Brandi Carlile – By The Way, I Forgive You Altro album molto bello che per vari motivi è sfuggito alle nostre recensioni, anche questo da recuperare.

 

I “Dischi Caldi”:

graham parker cloud symbols 21-9

Graham Parker – Cloud Symbols

                             

sheepdogs changing colours

The Sheepdogs – Changing Colours

 john prine the tree of forgiveness                            

John Prine – The Tree Of Forgiveness

https://discoclub.myblog.it/2018/04/23/diamo-il-bentornato-ad-uno-degli-ultimi-grandi-cantautori-john-prine-the-tree-of-forgiveness/

cody jinks lifers                             

Cody Jinks – Lifers

thom chacon blood in the usa                             

Thom Chacon – Blood In The USA

 american folk joe purdy amber rubarth                             

Joe Purdy & Amber Rubarth – American Folk Soundtrack

 tom rush voices                            

Tom Rush – Voices

https://discoclub.myblog.it/2018/06/10/torna-il-vecchio-folksinger-e-fa-quasi-un-capolavoro-tom-rush-voices/

willie nelson last man standing                             

Willie Nelson – Last Man Standing

mark knopler down the road wherever                             

Mark Knopfler – Down The Road Wherever

joan baez whistle down the wind                             

Joan Baez – Whistle Down The Wind

https://discoclub.myblog.it/2018/03/12/uno-splendido-commiato-per-una-grandissima-artista-joan-baez-whistle-down-the-wind/

colter wall songs of the plains                             

Colter Wall – Songs Of The Plains

dana fuchs loves live on                             

Dana Fuchs – Love Lives On

https://discoclub.myblog.it/2018/07/09/strepitosa-trasferta-soul-a-memphis-per-una-delle-piu-belle-voci-del-rock-americano-dana-fuchs-love-lives-on/

jimi hendrix both sides of the sky                             

Jimi Hendrix – Both Sides Of The Sky

https://discoclub.myblog.it/2018/03/19/se-fosse-uscito-nel-1970-sarebbe-stato-un-gran-disco-ma-pure-oggi-jimi-hendrix-both-sides-of-the-sky/

Ristampe:

bob dylan more blood more tracks 1 cd

Bob Dylan – More Blood, More Tracks

https://discoclub.myblog.it/2018/11/05/recensioni-cofanetti-autunno-inverno-4-un-album-leggendariominuto-per-minuto-bob-dylan-more-blood-more-tracks-parte-2-il-box/

beatles white album                  

The Beatles – White Album 50th Anniversary

tom petty an american treasure box                  

Tom Petty – An American Treasure

https://discoclub.myblog.it/2018/10/14/recensioni-cofanetti-autunno-inverno-2-un-box-strepitoso-che-dona-gioia-e-tristezza-nello-stesso-tempo-tom-petty-an-american-treasure/

wings red rose speedwaywings wild life                   

Paul McCartney/Wings – Wild Life – Red Rose Speedway Anche di queste due ristampe sta per arrivare la recensione.

 

Album Dal Vivo:

little steven soulfire live 31-8

Little Steven – Soulfire Live!

 joe bonamassa british blues explosion live                            

Joe Bonamassa – British Blues Explosion Live

https://discoclub.myblog.it/2018/05/13/uno-strepitoso-omaggio-ai-tre-re-inglesi-della-chitarra-joe-bonamassa-british-blues-explosion-live/

beth hart live at the royal albert hall                             

Beth Hart – Live At The Royal Albert Hall

fairport convention what we did on our saturday                             

Fairport Convention – What We Did On Our Saturday

https://discoclub.myblog.it/2018/07/15/i-migliori-dischi-dellanno-2-fairport-convention-what-we-did-on-our-saturday/

Tribute Album:

strange angels in flight with elmore james

VV.AA. – Strange Angels: In Flight With Elmore James

DVD/BluRay:

van morrison in concert

Van Morrison – In Concert

Canzone:

Marianne Faithfull – The Gypsy Faerie Queen

La Delusione:

decemberists i'll be you girl

The Decemberists – I’ll Be Your Girl E anche il nuovo EP Traveling On appena uscito non è che sia il massimo

Piacere Proibito:

Bohemian Rhapsody (film e colonna sonora)

“Sola” Dell’Anno: The Band – Music From Big Pink 50th Anniversary (ovvero un cofanetto che inaugura una nuova tendenza: offrire MENO delle precedenti ristampe, ma ad un prezzo più alto!)

band music from big pink

Evento Dell’Anno: di questi tempi, il fatto che “The Reaper” abbia fatto solo vittime “collaterali” (a parte Aretha Franklin, Charles Aznavour e Marty Balin) è già di per sé una notizia.

 

Album attesi/sognati per il 2019:

 

Studio: un nuovo Bob Dylan finalmente con canzoni inedite (il seguito di Tempest) – un nuovo John Fogerty

 

Album Live: un doppio CD tratto dal tour di Roger McGuinn e Chris Hillman

 

Ristampe: Bruce SpringsteenBorn In The U.S.A. 35th Anniversary Box Set

Tom Petty – The Complete Wildflowers Sessions

                  Neil YoungArchives vol. 2

Una serie di cofanetti che celebrano i 50 anni di: Abbey Road – Liege And Lief – Live/Dead – Happy Trails (non ho citato il secondo omonimo di The Band o Let It Bleed dei Rolling Stones perché so già che, se escono, saranno deludenti

Marco Verdi

Straordinari…Come Sempre! Old Crow Medicine Show – Volunteer

old crow medicine show volunteer

Old Crow Medicine Show – Volunteer – Columbia/Sony CD

E’ da anni che considero gli Old Crow Medicine Show la migliore band di Americana in circolazione, superiore anche ai bravissimi Avett Brothers: una conferma l’hanno data lo scorso anno quando è stato pubblicato lo splendido tributo dal vivo a Blonde On Blonde di Bob Dylan, dato che non è da tutti affrontare uno dei dischi più importanti della storia del rock e riproporlo con una tale inventiva, bravura e creatività https://discoclub.myblog.it/2017/05/09/come-rinfrescare-degnamente-un-capolavoro-assoluto-old-crow-medicine-show-50-years-of-blonde-on-blonde/ . E poi il sestetto guidato da Ketch Secor e Critter Fuqua (le due menti creative, gli altri sono Kevin Hayes, Chance McCoy, Morgan Jahnig e Cory Younts) è in continua crescita, disco dopo disco: il loro ultimo album Remedy era meglio di Carry Me Back, che a sua volta era meglio di Tennessee Pusher. Volunteer è il nuovissimo lavoro degli OCMS, giunge a quattro anni da Remedy e manco a dirlo è il più bello mai registrato dal gruppo: i nostri sono andati ad inciderlo nel mitico RCA Studio A di Nashville, facendosi produrre per la prima volta da Dave Cobb.

Era logico che prima o poi il miglior gruppo Americana ed il miglior produttore del genere si incontrassero, e se Cobb ha messo a disposizione tutte le sue capacità e la sua esperienza, i nostri hanno portato in dote alcune tra le loro migliori canzoni di sempre: se poi aggiungete il fatto che dal punto di vista della tecnica sono sempre più bravi (e qui sono coadiuvati in tutti i pezzi da Joe Andrews che funge quasi da settimo Corvo), capirete perché Volunteer si può definire il più bel disco dei nostri. La loro miscela di country, bluegrass, folk e rock non ha eguali al momento, ed ormai hanno maturato una capacità nel songwriting che consente loro di sfornare grandi canzoni con estrema facilità. Flicker & Shine, il primo singolo estratto, è un bluegrass irresistibile dal ritmo forsennato, suonato con piglio da vera rock band, un ritornello corale dal sapore deliziosamente tradizionale ed uno spettacolare cambio di ritmo a circa metà canzone. A World Away è strepitosa, una rock song fatta e finita ma suonata con strumenti della tradizione (comunque c’è anche una chitarra elettrica, per la prima volta dal 2004), dotata di un motivo di prim’ordine ed il solito feeling smisurato; la guardia non si abbassa neppure con la magnifica Child Of The Mississippi, altra coinvolgente e cadenzata country song con marcato accento sudista, dotata ancora di un ritornello eccellente.

La saltellante Dixie Avenue è un vivace honky-tonk elettroacustico, anch’esso dalla squisita linea melodica, Look Away dicono gli OCMS essergli stata ispirata dai Rolling Stones, ed in effetti è una ballatona sul genere di Wild Horses, davvero stupenda e suonata alla grande, come si usava fare negli anni settanta (c’è anche un limpidissimo pianoforte), mentre Shout Mountain Music è un altro di quei bluegrass al fulmicotone che dal vivo fanno saltare tutta la platea. Mi rendo conto che sto usando aggettivi altisonanti, ma album come questo non si ascoltano tutti i giorni (e fortunatamente di dischi belli ne ascolto parecchi). The Good Stuff è un pimpante e gustoso western swing, in cui i nostri sembrano dei veri texani (ed il ritmo è sempre elevato), Old Hickory è una fulgida country ballad che sembra una outtake di Sweetheart Of The Rodeo (la melodia assomiglia ad una You Ain’t Goin’ Nowhere rallentata), Homecoming Party inizia come una folk song acustica, poi entra la band al completo ed il brano assume la veste di un intensa e limpida country tune, pur mantenendo l’aria malinconica dell’inizio. Il CD termina con il breve strumentale Elzick’s Farewell (unico traditional), altro bluegrass velocissimo e con un non so che di irlandese (ma sentite come suonano), e con Whirlwind, ancora una ballata country-rock decisamente bella, che ricorda non poco la Nitty Gritty Dirt Band dell’epoca d’oro

Non solo Volunteer è il disco più bello degli Old Crow Medicine Show, ma credo che a fine anno sarà difficile scalzarlo dalla mia Top Three.

Marco Verdi

(Quasi) Perduto Ma Ottimo. Langhorne Slim – Lost At Last Vol.1

langhorne slim lost al last vol.1

Langhorne Slim – Lost At Last Vol.1 – Dualtone Music Group  

Langhorne Slim è il nome d’arte di Sean Scolnick, nome mutuato dalla piccola cittadina della Pennsylvania da cui viene il nostro, e questa era abbastanza facile (di lui avevo parlato anni fa, quasi agli inizi del Blog, poi lo avevo perso un po’ di vista http://discoclub.myblog.it/2009/11/20/piccoli-gioiellini-dagli-states-langhorne-slim-maldives-e-co/)! Più difficile è inquadrare lo stile musicale in cui incasellarlo: mi sa che ci dovremo rivolgere al generico ma utilissimo Americana Music (odiato da alcuni musicisti, per esempio Dan Stuart non ne vuole sentir parlare) ma assai in voga per descrivere un genere che, a sua volta, ne incorpora molti altri. Se poi, come nel caso di questo Lost At Last Vol.1 anche il suo autore non si attiene rigidamente alle coordinate che lo definiscono, diventa difficile raccapezzarsi: questa volta Langhorne Slim non parrebbe accompagnato dal suo gruppo The Law, ma poi, leggendo i nomi dei musicisti, sono più o meno quelli soliti che suonano con Scolnick, anzi, oltre ai cinque della band abituale, ci sono la bellezza di altri dodici ospiti che appaiono in queste registrazioni.

Eppure, per certi versi, mi sembra che anziché usare il solito “less is more”, si sia utilizzato l’esatto opposto, “more is less”: ovvero, considerando che in tutto nel disco suonano ben 18 musicisti, in molti brani sembra di sentire un suono molto scarno e raccolto, quasi lo-fi, creato da tre/quattro persone al massimo. In quanto al genere si viaggia tra folk rurale, country, roots music, un pizzico di zydeco qui, un tocco di dixieland là, in definitiva un disco molto eclettico. Langhorne Slim ha una voce delicata, sottile, senza tempo, quasi da “antico” cantautore folk classico. Prendete l’iniziale Life Is Confusing, dove un organo, un violino, una chitarra acustica e poco altro, oltre alle voci di Langhorne e Casey Jane, creano un ambiente sonoro delizioso (ri)pescato da qualche vecchio album di folk(rock?) degli anni ’60. Old Things aggiunge un mandolino alla chitarra acustica pizzicata, sempre la seconda voce della Jane, un contrabbasso, per un sound che ricorda degli Avett Brothers o degli Old Crow Medicine Show ancor più minimali (infatti tra gli ospiti c’è Willie Watson, ex OCMS), anche nelle durate delle canzoni,  circa1:45 ed è già finito tutto. House Of My Soul (You Light The Rooms) è più mossa e divertita, con effetti dixieland portati dai fiati, trombone e clarinetto in particolare, un pianino sottotraccia e anche una sezione ritmica, sempre minimale ma presente, per quanto un po’ confusa nel suono volutamente (?) lo-fi del brano https://www.youtube.com/watch?v=p_hgKjdVfks ; Ocean City sembra un pezzo di Paul Simon, folk, musica etnica, un ritmo incalzante, scandito dal basso tuba, un vibrafono, la fisarmonica, delle percussioni appena accennate, con risultati molto piacevoli e coinvolgenti.

Diciamo che anche l’album nel suo insieme è estremamente gradevole, forse un filo frammentario a tratti, ma molti brani meritano più di un ascolto: Private Poverty sembra un pezzo dell’era della Depressione, tipo Woody Guthrie, ma cantato alla Simon & Garfunkel, con una pedal steel e un mandolino che la impreziosiscono, Money Road Shuffle è un intermezzo che pare provenire da un vecchio 78 giri di Jelly Roll Morton, Never Break è una delicata canzone d’amore sotto forma di ballata, tra due persone che cercano, con difficoltà, di… “Let’s fall in love with our telephones off”, Bluebird, un incrocio tra zydeco, bluegrass e old time music, Alligator Girl un intenso blues elettrico con retrogusti gospel and soul quasi à la Ray Charles, Funny Feelin’ (For Jumior Kimbrough And Ted Hawkins), come dice il titolo, è un sentito ed affettuoso omaggio a due personaggi di culto che ci sono molto cari, un country blues elettroacustico caratterizzato dalla particolare voce di Langhorne Slim. Zombie (non quella dei Cranberries) è il singolo/video dell’album, parte come una canzone dei Mamas And Papas per trasformarsi subito in una specie di country-rock “strano” e deragliante, con una pedal steel che cerca di dare una ragione e un senso all’alternative indie folk-rock, tutto molto“alternativo”, del brano; Lost This Time è un altro esempio di folk minimale ed asciutto, con le voci di Langhorne e Casey Jane ad armonizzare https://www.youtube.com/watch?v=0mWlfPb-w8w , mentre la conclusione è affidata a Better Man, una traccia che, arrangiata in modo meno spartano e rustico a livello sonico, sarebbe un piccolo gioiellino, i fiati e gli archi si “intuiscono”, ma il musicista della Pennsylvania lascia intravedere le sue potenzialità già delineate nei precedenti cinque album. Da ascoltare.

Bruno Conti