Tra Texas E Louisiana Un Altro “Sfizioso” Artista Di Culto Da Scoprire. Johnny Nicholas – Mistaken Identity

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Johnny Nicholas – Mistaken Identity – Valcour Records

Nel CV di Johnny Nicholas una delle prime cose che viene evidenziata è quella di essere stato un componente degli Asleep At The Wheel: ma poi se approfondiamo scopriamo che Nicholas ha fatto parte della band solo dal 1978 al 1981, apparendo in un disco, il pur ottimo Served Live, dove cantava alcuni brani e suonava chitarra ritmica, piano e armonica, non in un ruolo di primo piano. Questo non per dire che non sia bravo, tutt’altro, ma quanto spesso le biografie siano fuorvianti. Il buon Johnny appartiene anche lui alla categoria dei “diversamente giovani”, avendo ormai superato i 70 anni; una lunga carriera che negli inizi di metà anni ‘60 lo vede nel Rhode Island con la Black Cat Blues Band insieme a Duke Robillard, poi passando brevemente per la California, arriva a Chicago e suona con Big Walter Horton e Robert Lockwood Jr., in seguito di nuovo nel Rhode Island in una band con Ronnie Earl, a questo punto arriva l’esperienza con gli Asleep, ma anche “visite musicali” dalle parti della Louisiana, e che ti fa poi il buon Johnny?

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Si ritira per dieci anni per formare e crescere una famiglia, si apre una stazione di servizio, trasformata in ristorante, nel Sud del Texas, ma a inizio anni ‘90 torna alla musica blues, accompagnando Johnny Shines e Snooky Pryor, e proseguendo nella propria carriera solista, che ad oggi consta di otto album, non conosciutissimi ma tutti di buona fattura, benché di non facile reperibilità. Ed eccoci arrivati a questo Mistaken Identity, prodotto dal vecchio amico della Louisiana, il maestro di cajun Joel Savoy, registrato quasi tutto in presa diretta con una piccola pattuglia di ottimi musicisti texani, Scrappy Jud Newcomb (del giro Austin dei Loose Diamonds) a chitarre e mandolino, il bravissimo bassista Chis Maresh (di recente nel Live di David Grissom) e il batterista John Chipman, più alcuni ospiti tra cui spiccano Max e Josh Baca a bajo sexto e accordion, Chris Stafford e Eric Adcock alle tastiere e un gruppetto di vocalist aggiunti.

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Genere musicale potremmo dire blues contemporaneo, con forti componenti roots: Nicholas si scrive quasi tutte le canzoni, con l’eccezione di una bellissima cover di River Runs Deep del compianto Stephen Bruton, posta in chiusura e che da sola vale quasi l’acquisto, un piccolo capolavoro di equilibri sonori, una ballata soffice e sinuosa che profuma di Sud, dove la slide della resonator di Nicholas interagisce con organo e la chitarra di Newcomb e con la voce vissuta ma sicura dello stesso Johnny https://www.youtube.com/watch?v=fmModwL0kZE  Il resto del disco è a tratti decisamente più bluesato, dall’elettrica e grintosa She Stole My Mojo con elementi di southern rock, tra bottleneck e armoniche insinuanti, a Mule And The Devil, più polverosa e sottile, tra mandolini, clavinet, il violino di Savoy e l’armonica con un’aria pigra e indolenta che rimanda sempre alle amate atmosfere roots https://www.youtube.com/watch?v=dUY2lVS44AQ , con il resto della band a far quadrare il cerchio del suono. Spark To A Flame inserisce anche elementi country e l’uso di voci femminili per completare un quadro sonoro più complesso, dove strumenti acustici ed elettrici si intrecciano con grande facilità https://www.youtube.com/watch?v=W3y994qiQ38 , mentre la title track, con un pianino barrelhouse a guidare le danze, sembra uscire da qualche disco di New Orleans, con tocchi R&B e soul, rimandi a Dr. John e JJ Cale, entrambi maestri del laidback sound, e anche qualche tocco sardonico di Randy Newman nella voce di Nicholas https://www.youtube.com/watch?v=4ep4GBzrO0E .

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Deliziosa pure Guadalupe’s Prayer dove bajo sexto e chitarre acustico mi hanno ricordato il suono di un altro grande “sudista di culto” come Grayson Capps  . I Wanna Be Your Baby è un bel blues-rock sempre pigro e indolente, ma con le chitarre decisamente presenti https://www.youtube.com/watch?v=NphjhMBTJY8 , e nella divertente Tight Pants si vira verso il R&R e ritmi molto più mossi e trascinanti, per farsi di nuovo riflessivi e malinconici in una storia tipica della Louisiana come She Didn’t Think Of Me That Way, nella quale l’accordion di Josh Baca e il resonator aggiungono ulteriori tocchi bajou a questa incantevole ballata https://www.youtube.com/watch?v=RKSE9JYkGWc , con Highway 190 che oscilla tra coretti doo-wop e old school R&R, un po’ Chuck Berry e un po’ Fats Domino, comunque assai godibile, come peraltro tutto il disco, della serie non solo blues: da scoprire.

Bruno Conti

Ecco Uno Che Sa Fare Solo Dischi Bellissimi! Chris Stapleton – Starting Over

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Chris Stapleton – Starting Over – Mercury/Universal

Chris Stapleton ha esordito come solista abbastanza tardi (Traveller, del 2015, è stato pubblicato quando il singer-songwriter del Kentucky aveva già 37 anni), ma in pochissimo tempo ha fatto vedere di non avere molto terreno da recuperare. Con un passato da autore per conto terzi ed una militanza in un paio di band con le quali non ha mai inciso alcunché, Stapleton infatti non ci ha messo molto per affermarsi come uno dei musicisti migliori oggi in America: Traveller era un lavoro splendido e ha avuto anche un notevole successo https://discoclub.myblog.it/2015/07/25/good-news-from-dave-cobb-productions-chris-stapleton-traveller-christian-lopez-band-onward/ , ed anche il doppio From A Room del 2017 (pubblicato però in due diverse tranche) era di livello notevole seppur leggermente inferiore all’esordio. C’era quindi parecchia attesa per il terzo album di Chris (in quanto io considero i due From A Room come una cosa unica), e sappiamo quanto possa essere problematico il terzo lavoro per un artista che ha debuttato col botto https://discoclub.myblog.it/2017/12/16/peccato-solo-che-forse-non-ci-sara-un-terzo-volume-chris-stapleton-from-a-room-volume-2/ .

Ebbene, non solo Starting Over conferma la crescita esponenziale del nostro come autore e performer, ma a mio parere è perfino superiore a Traveller, e si candida fin dal primo ascolto ad uno dei posti di vertice per la classifica dei migliori del 2020. Starting Over (che si presenta con una copertina ultra-minimalista, per non dire inesistente) propone la consueta miscela di rock, country e southern music tipica del nostro, ma con una qualità compositiva di primissimo livello ed un feeling interpretativo notevole, grazie soprattutto ad una voce tra le più belle ed espressive del panorama musicale odierno ed una tecnica chitarristica da non sottovalutare. Prodotto al solito dall’amico Dave Cobb e con gli abituali compagni di ventura (la moglie Morgane Stapleton alla seconda voce, Cobb stesso alle chitarre acustiche, J.T. Cure al basso e Derek Mixon alla batteria), Starting Over ha anche degli ospiti che impreziosiscono alcuni brani , come Paul Franklin, leggendario steel guitarist di Nashville, e gli Heartbreakers Benmont Tench e Mike Campbell, non una presenza casuale in quanto Stapleton è presente sul nuovissimo album d’esordio dei Dirty Knobs, il gruppo guidato proprio da Campbell (appena recensito su questi schermi).

In poche parole, forse il miglior disco uscito negli ultimi mesi insieme a quello di Bruce Springsteen, in un periodo solitamente dedicato alle antologie e ristampe proiettate alle vendite natalizie. Il CD parte benissimo con la title track, una spedita ballata di stampo acustico servita da una melodia di prim’ordine e con la prima di tante prestazioni vocali degne di nota: il refrain, poi, è splendido. Devil Always Made Me Think Twice è una robusta rock’n’roll song di chiaro stampo sudista: Chris ha la voce perfetta per questo tipo di musica, ma è il brano in sé ad essere trascinante, ed io ci vedo chiara e lampante l’influenza di John Fogerty sia nelle sonorità swamp che nella linea melodica e modo di cantare. Il piano di Tench introduce Cold, una ballata elettroacustica eseguita con grande forza e pathos (ma sentite che voce), con un leggero accompagnamento d’archi che le dona un tocco suggestivo in più e crea un crescendo da brividi.

When I’m With You è un lento alla Waylon Jennings, una canzone bella, limpida e ricca di anima con gli strumenti dosati alla perfezione, a differenza di Arkansas che è una travolgente rock song elettrica di grande potenza, con Campbell co-autore e chitarra solista che si produce in un mirabolante assolo dei suoi, mentre Joy Of My Life, prima cover del disco, è un delicato pezzo che Fogerty aveva dedicato a sua moglie nel 1997: Stapleton fa lo stesso con Morgane ed il risultato è eccellente, con l’aggiunta di elementi southern che l’originale non aveva. Il sud è ancora presente nell’intensa Hillbilly Blood, notevole ballata tra rock e musica d’autore che ricorda molto da vicino il Gregg Allman più roots, timbro vocale compreso, al contrario di Maggie’s Song, bellissima country ballad dal motivo molto classico (vedo l’ombra di The Band, zona The Weight) e con l’organo di Benmont ad impreziosire ulteriormente un gioiello già luccicante di suo.

Lo slow elettrico di matrice rock-blues Whiskey Sunrise, suonato ancora con indubbia forza e con un paio di pregevoli assoli da parte del leader, precede le altre due cover del CD, entrambe prese dal songbook del grande Guy Clark: se Worry B Gone è un coinvolgente rockin’ country texano al 100% contraddistinto da una performance collettiva da applausi, Old Friends è uno dei pezzi più noti e belli dello scomparso cantautore di Monahans, e la resa di Chris è semplicemente da pelle d’oca. Watch You Burn è il secondo brano scritto e suonato con Campbell, una rock song asciutta e diretta, sempre con quell’afflato southern che è insito nella voce del nostro, canzone che precede You Should Probably Leave, strepitoso e cadenzato pezzo dal sapore decisamente errebi (uno dei più godibili del lotto), e l’intensa Nashville, TN, country ballad “cosmica” alla Gram Parsons che chiude degnamente un album davvero splendido. A parte un paio di dubbi avevo praticamente già deciso i dieci dischi più belli di quest’anno, ma dopo aver ascoltato Starting Over mi vedo costretto a ritoccare la lista. E nei primissimi posti.

Marco Verdi

Torna La Band Di Austin Con Un Ennesimo Ottimo Album. The Band Of Heathens – Stranger

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The Band Of Heathens – Stranger – BOH Records

Nel 2018 avevano rivisitato con garbo e classe A Message From The People, uno dei capolavori assoluti di Ray Charles, riproposto attraverso la loro ottica sonora più rootsy e rock https://discoclub.myblog.it/2018/10/23/un-disco-storico-di-ray-charles-rivisitato-con-garbo-e-classe-band-of-heathens-a-message-from-the-people-revisited/ : due anni dopo i Band Of Heathens ritornano, con la produzione di Tucker Martine, che ha messo il suo stampo musicale, più etereo e ricercato sonicamente, con il nuovo album Stranger, registrato in trasferta per loro a Portland in Oregon, considerando che i cinque, originari di Austin, vivono tra California, North Carolina e Tennessee, e durante la pandemia si sono comunque abilmente ingegnati a realizzare una serie di video di deliziose cover, spesso con ospiti aggiunti, ognuno impegnato dalla propria casa, anche in concerti trasmessi in streaming (cercate su YouTube, perché meritano, per esempio una splendida versione di My Sweet Lord con Raul Malo, che vedete qui sotto.

Pandemia che indirettamente è in tema con il titolo del disco, che però è ispirato dal romanzo di Camus e da Straniero In Terra Straniera di Heinlein: Ed Jurdi e Gordy Quist, con le loro voci e chitarre, sono sempre alla guida della band, coadiuvati dalle tastiere di Trevor Nealon, che anche lui contribuisce vocalmente, come pure il bassista Jesse Wilson e il batterista Richard Milssap, alle intricate armonie che sono uno dei marchi di fabbrica del gruppo. Il suono è più complesso e con soluzioni più lavorate aggiunte da Martine, ma l’iniziale Vietnorm, scritta dal bassista Wilson, e con un marcato, benché non invasivo, impegno politico e sociale inconsueto nel loro songbook, immagina il ritorno di questo veterano del Vietnam Norm, che era un personaggio della sitcom Cheers, il tutto a tempo di scandito rock classico, con le solite influenze beatlesiane dei BOH, tra chitarre vibranti e fuzzy, tastiere insinuanti e melodie comunque molto piacevoli.

Ritmi sempre mossi anche in Dare, che tratta di fake news, di cui The Donald è (stato) uno specialista, armonie vocali mirabili, euforiche sonorità 60’s pop tra British invasion e Byrds/Buffalo Springfield, con chitarre tintinnanti e sound avvolgente.

La divertente Black Cat racconta la storia di un immigrato portoghese di più di 2 metri che fu tra i lavoratori impiegati nella costruzione del ponte di Brooklyn e poi entrò nella leggenda perché uccise a mani nude una pantera in un combattimento sotterraneo, il tutto naturalmente descritto a tempo di morbida psichedelia, tra spolverate di archi, tastiere misteriose, influssi orientaleggianti e chitarre che appaiono e scompaiono ai comandi di Martine.

Anche How Do You Sleep? tratta dei problemi della cattiva informazione, in una affascinante ballata elettroacustica, con goduriosi interscambi vocali tra Jurdy e Quist e spolverate di pop barocco, Call Me Gilded è una sorta di folk tune a tempo di valzer, sempre con le splendide armonie vocali della band presenti, magari con un leggero aumento del tasso zuccherino, ma sopportabile. South By Somewhere e Asheville Nashville Austin, sono entrambi brani che trattano della vita on the road, tra continui spostamenti per portare in giro la loro musica, e l’approccio è quello del sound classico della band, più roots e rock, anche se il produttore lavora più per aggiunta che per detrazione, benché mai in modo fastidioso, con una strumentazione ricca e ricercata, che vira in un country southern brillante nel secondo, dove appare anche una pedal steel https://www.youtube.com/watch?v=79uXntmFOYQ ; anche Truth Left tratta del tema dell’informazione, questa volta della sua eccessiva politicizzazione, una canzone vivace di impianto rock, con chitarre e tastiere a sorreggere le usuali ed eleganti divagazioni vocali del gruppo, con i consueti inserti orchestrali ed “effettistici” di Tucker Martine.

Today Is Our Last Tomorrow, tra arditi falsetti e le immancabili derive beatlesiane dei BOH, è sempre molto godibile, grazie anche a degli interventi decisi delle chitarre, mentre la conclusiva sognante ed ottimista Before The Day Is Done, con una voce femminile a renderla ancora più eterea, conferma questa svolta più ricercata e meno immediata del loro sound. Piacerà? Vedremo, comunque i Beatles avrebbero approvato e anche il sottoscritto ha apprezzato questo nuovo ottimo album della band di Austin.

Bruno Conti

Tornano Gli Alfieri Del “Christian Rock”. NEEDTOBREATHE – Out Of Body

needtobreathe out of body

NEEDTOBREATHE – Out Of Body – Elektra Records – LP – CD

A distanza di quattro anni dall’ ultimo lavoro in studio, il deludente Hard Love (16) https://discoclub.myblog.it/2016/11/08/invece-veramente-brutto-needtobreathe-hard-love/ , seguito lo scorso anno dallo splendido Acoustic Live Vol. 1 https://discoclub.myblog.it/2019/01/16/un-live-riparatore-di-ottimo-livello-needtobreathe-acoustic-live-vol-1/ , tornano i Needtobreathe con questo nuovo lavoro Out Of Body, che ad un primo ascolto sembra non essere malaccio, anche se per chi scrive sono lontani i tempi degli esordi con Daylight (06), The Heat (07), The Outsiders (09), e soprattutto con l’ottimo The Reckoning (11). Dopo l’abbandono del membro fondatore Bo Rinehart (suonava la chitarra, il mandolino e il banjo), i Needtobreathe (tra sermoni e preghiere) trovano il tempo di ritornare negli abituali studios di Nashville con il restante trio composto da sempre dal carismatico Bear Rinehart vocalist e chitarre, Seth Bolt al basso, mandolino, batteria, percussioni, e cori, Josh Lovelace alle tastiere, mandolino, piano, e cori, per registrare insieme ai produttori Cason Cooley e Jeremy Lutito un “set” di brani dalla musicalità coinvolgente, leggermente danzereccio a tratti, che propongono le solite ben note distinte atmosfere, supportate come sempre anche da testi che riflettono un approccio religioso.

La traccia di apertura Mercy’s Shore, inizia con un “riff” di chitarra acustica per poi svilupparsi con una melodia in sottofondo che ricorda i migliori Mumford & Sons, a cui fanno seguito le chitarre elettriche e il basso di una tambureggiante e danzabile Alive, la forza trascinante di una canzone di speranza come Hang On, fino ad arrivare al “folk-rock” religioso Survival cantato in duetto con Drew Holcomb e la moglie Ellie (titolari di ottimi dischi con il marchio Drew Holcomb & The Neighbors). Si riparte, tanto per cambiare con una preghiera a Dio, una Child Again che è un vero e proprio “gospel” bianco, seguita dalla title track Out Of Body dall’atmosfera speranzosa, mentre la bella Who Am I è un brano “roots” che gira intorno alla limpida voce di Bear Rinehart, deliziosa anche Banks (una delicata lettera d’amore a un bambino), con in sottofondo un meraviglioso coro.

Ci si avvia alla fine dei sermoni, con il “country moderno” di una Riding High, che inizia con una chitarra acustica, per poi svilupparsi con eccellenti armonie di strumenti e voci, per passare infine alle note pianistiche di una Bottom Of A Heartbreak cantata con voce appassionata, e andare a chiudere (forse anche la carriera dei Needtobreathe, dato che pure Bear Rinehart ha manifestato la sua volontà di uscire dal gruppo) con una struggente ballata Season, composta guarda caso da tutti i componenti del gruppo, i fratelli Rinehart, Josh Lovelace e Seth Bolt (una storia di amici intimi, che hanno attraversato momenti difficili insieme), un brano con le consuete eccellenti armonie vocali.

I Needtobreathe sono una band particolare, in primis perché appartengono al già citatp filone Christian-Rock (con tutto quello che ne consegue nel proporre scomodi testi religiosi), ma nello stesso tempo riescono a mischiare le sonorità anni settanta, con il classico sound alternativo dei nostri tempi. Se fosse veramente il “canto del cigno” dei Needtobreathe, per i ferventi credenti l’acquisto di Out Of Body è obbligatorio, per tutti gli altri meritano almeno un attento ascolto.

Tino Montanari

La Band Texana Non Lascia Ma Raddoppia, E Pubblica Uno Dei Loro Migliori Album In Assoluto. Reckless Kelly – American Jackpot/American Girls

reckless jelly jackpot americana american girls

Reckless Kelly – American Jackpot/American Girls – No Big Deal/Thirty Tigers 2 CD/Download

Anche il nuovo album (anzi, i nuovi album, visto che sono due) dei Reckless Kelly, è uscito prima per il download, e poi “dovrebbe” essere disponibile in doppio CD dal 24 luglio (ma più probabile il 31/7 o il 7 agosto, non è chiaro): annunciato all’inizio come un disco singolo, poi si è allargato man mano fino a raccogliere 20 brani , distribuiti su 2 CD, ed esce a quattro anni dal precedente Sunset Motel https://discoclub.myblog.it/2016/09/29/reckless-kelly-sai-cosa-ascolti-il-nuovo-album-sunset-motel/ , ed è il primo in cui non appare più il vecchio chitarrista David Abeyta, sostituito da Ryan Engleman, mentre la leadership è sempre saldamente nelle mani dei fratelli Braun, Will e Cody (come certo saprete ci sono altri due fratelli Micky & Gary Braun, alla guida degli ottimi Micky & Motorcars). Tutta la famiglia è nativa dell’Idaho, ma si sono trasferiti in quel di Austin, Texas, ormai dal lontano 1996, e sono tra i fondatori di quel movimento che è stato definito “Red Dirt Sound” che ingloba country(rock) texano, roots rock e americana, un suono ruspante che miscela sia il suono classico che derive più “moderne”.

Quando esce un doppio album si dibatte da sempre sul fatto se non sia meglio sfrondare qualche elemento, “venti pezzi sono troppi, sì il disco è bello, ma vuoi mettere se ci fosse stata qualche canzone in meno” e si cita spesso come esempio più famoso il White Album dei Beatles (qualcuno ha detto Ob-La-Di Ob-La-Da e Revolution 9, i due lati opposti della medaglia?), anche se poi con l’avvento del CD si è scoperto che molti di questi dischi ci stavano comodamente negli 80 minuti delle edizioni digitali e il loro fascino è spesso proprio anche nella lunghezza. Io sono da sempre favorevole ai doppi o comunque agli album lunghi: meglio che ci sia qualche canzone magari “superflua”, la ascolti una o due volte poi se non ti piace usi la funzione “skip”, e ti concentri sulle migliori, che comunque, anche nei dischi più riusciti, difficilmente superano le sei o sette, quando va bene: ma lasciamo stare perché stiamo disquisendo sul sesso degli angeli o di questioni di lana caprina. Quindi concentriamoci su American Jackpot/American Girls: si diceva 20 brani, 10 canzoni per ogni CD, che poi potrebbero essere interscambiabili nei due album, anche se in teoria American Jackpot dovrebbe essere quello più “impegnato”, su tematiche diverse, anche sociali e American Girls, più leggero e disimpegnato, su tematiche personali ed amorose.

Ripeto, o forse non l’ho ancora detto, a me il disco piace parecchio, e anche la critica, americana e non, recensendo la versione per il download ne ha parlato prevalentemente in termini più che positivi, mentre altri, pochi per la verità, hanno posto appunto dei distinguo per la presunta eccessiva lunghezza. Se il gruppo vi piace fregatevene e godetevi il disco che ha parecchi brani da gustare veramente con piacere, le cito alla rinfusa, visto che ci sono parecchie canzoni veramente belle. A partire dal commosso omaggio a Tom Petty nella splendida Tom Was A Friend Of Mine, usando potenti parole come “then silence filled the air like there would never be another sound again” e le onnipresenti delicate armonie vocali e le chitarre tintinnanti dei fratelli Braun, con il violino struggente di Cody in evidenza; 42 racconta la storia di una delle grandi icone del baseball americano Jackie Robinson, in una country-folk ballad intima e raccolta di grande fascino cantata a due voci dai fratelli, mentre l’armonica di Cody ne sottolinea l’atmosfera malinconica, ma c’è anche il R&R sudista, chitarristico e sfrenato della vibrante Mona https://www.youtube.com/watch?v=3hKLOcZ_ivc , l’iniziale introspettiva, almeno nei testi, ma sontuosa nell’approccio musicale, North American Jackpot sulla storia dell’immigrazione verso gli Stati Uniti dalla Mayflower ai giorni nostri.

Come pure l’affettuosa Grandpa Was a Jack of All Trades, storia di un vecchio patriarca sopravvissuto a Pearl Harbor che aiuta i suoi vicini in difficoltà, narrata in una ballatona country dove violini, chitarre e steel guitars convivono a tempo di valzer, senza dimenticare l’avvolgente ballata pianistica, con uso di archi, Goodbye Colorado, ispirata dalle parole della poetessa Emma Lazarus, scolpite alla base della Statua della Libertà. C’è pure l’afflato springsteeniano nel blue collar rock delle deliziose Miss Marissa e Give Up On Love, il Tex-Mex divertito Lost Inside The Groove, dove l’organetto di Shawn Sahm rievoca le divertenti cavalcate del babbo Doug Sahm https://www.youtube.com/watch?v=76Cx7bFBfpE , e ancora il bel duetto con la splendida voce di Suzy Bogguss nel country&western cadenzato di Anyplace That’s Wild, dove “chitarroni” twangy, violini e armoniche, pedal steel e aspre chitarre elettriche convivono in questa rievocazione del vecchio West https://www.youtube.com/watch?v=-aDawb7N2Ho . A questo punto vi ricordo che nel disco, in alcuni brani, come ospiti alle chitarre, troviamo anche Gary Clark Jr. e Charlie Sexton.

Ne ho ricordati già dieci (e quindi senza meno non sarebbero pochi), ma ci sono almeno 4 o 5 altri brani di pregio in un disco che a mio modesto parere è sicuramente tra i migliori in ambito roots/Americana di questo scorcio di stagione, alla faccia dei (pochi) detrattori. Ci hanno messo quattro anni ma è venuto veramente bene,

Bruno Conti

Buono, Anche Se La “Nuova Svolta” Non Convince Del Tutto. Jayhawks – XOXO

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Jayhawks – XOXO – Sham/Thirty Tigers CD Deluxe

Prosegue il filotto di uscite dei Jayhawks diciamo Mark III: terzo album del post Marc Olson https://discoclub.myblog.it/2018/07/30/la-cura-ray-davies-ha-fatto-loro-molto-bene-the-jayhawks-back-roads-and-abandoned-motels/  e undicesimo disco di studio complessivo. Come annunciato, promesso e “minacciato”, Gary Louris per l’occasione di questo XOXO manda “Baci e abbracci” ai fans, e come ricorda lui stesso in alcune interviste, dove scherzando dice anche “XOXO è Elliott Smith, parte seconda!, visto che il compianto cantautore americano aveva pubblicato un CD intitolato XO. Non so molto dei dettagli del CD, visto che lo sto recensendo parecchio prima dell’uscita prevista intorno a metà luglio (e non ho fatto ritocchi al Post, in occasione dell’uscita avvenuta il 10 luglio), se non che oltre a Marc Perlman sono della partita anche Karen Grotberg e Tim O’Reagan che dovrebbero firmare l’album collettivamente con Louris, oltre ad essere anche spesso e volentieri le voci soliste del CD, in quanto lo stesso Gary in questo periodo è stato impegnato anche nella preparazione e stesura di un prossimo disco solo. Il nuovo album ha avuto una lunga fase di preparazione lo scorso anno, con Louris che andava e veniva dal North Carolina dove vive, per sessioni di scrittura e jam preparative, poi il disco è stato registrato a novembre del 2019 ai Pachyderm Studios di Cannon Falls e completato ai Flowers Studios sempre nel Minnesota.

Di solito il 90% del vecchio materiale era cantato dal nostro amico https://discoclub.myblog.it/2016/04/26/anche-senza-marc-olson-sempre-quasi-paging-mr-proust/  che questa volta lascia spazio ai suoi pard, devo dire con risultati, alterni, in quanto il nuovo CD è ondivago: se This Forgotten Town è puro e classico Jayhawks sound, con le loro inconfondibili armonie vocali corali e Louris e O’Reagan che si alternano come voce guida, pedal steel celestiali e grande assolo di chitarra, ben sostenuto dal piano e dall’organo dello Rotberg, la riffata Dogtown Days, scritta da O’Reagan alza subito la quota rock, contraddistinta da una spinta più power pop grazie alla solista riverberata di Louris, mentre Living On A Bubble, firmata dal solo Gary, ha il classico imprinting beatlesiano, con pianino saltellante della Grotberg e sonorità dei tardi Beatles, Abbey Road o giù di lì, con tutti i Jayhawks che la cantano.

Ruby conferma il talento di interprete ed autrice di Karen che sempre più si rivela pure ottima cantante, specie quando è alle prese con queste ballate struggenti, dove la sua voce viene anche filtrata a tratti. Homecoming ha sempre il tocco tipico della band, ma con un’aura di psichedelia gentile aggiunta e quel dono di saper incorporare il pop più raffinato nelle loro canzoni, con Louris, di nuovo autore unico, che aggiunge il solito assolo di chitarra, anche se forse il risultato finale è fin troppo lavorato.

Meglio la più immediata Society Pages, anche se finora si sente la mancanza della componente più rootsy della band, a favore di un sound che ricorda certe sonorità alla Jeff Lynne, qui rappresentate dall’autore O’Reagan. Le chitarre acustiche e il piano di Illuminate rimangono comunque ancora in queste coordinate sonore di pop molto ricercato, ribadite nelle complesse volute sonore della corale Bitter Pill. La Grotberg canta anche in Across My Field, calda ballata pianistica che potrebbe ricordare lo stile di Aimee Mann, un’altra che sa coniugare pop raffinato e canzone d’autore. Little Victories, con un giro di basso trascinante e una chitarra grintosa, ben sostenuta dall’organo, è ancora cantata coralmente da tutta la band, formula ripresa anche in Down To The Farm, più vicina ad un folk pastorale ed acustico, rappresentato dall’autore Marc Perlman. Looking Up Your Number solo voce, presumo O’Reagan, e chitarre acustiche arpeggiate, chiude la versione standard dell’album su una nota gentile.

Nelle tre bonus della versione Deluxe Jewel Of The Trimbelle è una ulteriore ballata pianistica cantata dalla Grotberg, con abbellimenti vocali e strumentali del resto della band, Then You Walked Away di Louris ricorda certo prog elegante anni ‘70, Caravan o primi Genesis, piacevole ed affascinante e Hypocryte’s Lament, dell’accoppiata Louris/Perlman, ma cantata a due voci dalla Grotberg, anche al piano e da Gary, che per l’occasione suona l’armonica, è un ulteriore gioiellino acustico dell’album, che in effetti però si discosta fin troppo dal suono della band, buono complessivamente, ma non entusiasma, mi aspettavo di più.

A breve, nei prossimi giorni, per rimembrare il passato, articolo retrospettivo in due parti sulla carriera discografica dei Jayhawks, anche con breve spazio sulle carriere soliste di Olson e Louris.

Bruno Conti

Un Altro Di Quelli Che Non Sbagliano Un Colpo! Jason Isbell And The 400 Unit – Reunions

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Jason Isbell And The 400 Unit – Reunions – Southeastern/Thirty Tigers

Da quando nel 2007 ha lasciato i Drive-By Truckers per dedicarsi alla carriera solista, Jason Isbell si è creato la meritata reputazione di uno dei migliori giovani songwriters in circolazione, con una serie di album che manifestano una crescita costante fino al suo ultimo lavoro, il bellissimo The Nashville Sound del 2017 https://discoclub.myblog.it/2018/01/15/da-nashville-con-orgoglio-jason-isbell-and-the-400-unit-the-nashville-sound/ . The Nashville Sound è il classico album che segna l’apice di una carriera, uno splendido esempio di cantautorato in puro stile Americana con il quale Jason ci ha dimostrato che la vera musica della capitale del Tennessee non è certo il becero pop da classifica spacciato come country, ma quel sound tra folk, country e rock che deriva direttamente dagli album di fine anni sessanta nei quali spopolavano i cosiddetti Nashville Cats (ovvero quell’insieme di grandi sessionmen di stanza nella Music City in grado di portare il suono giusto a qualsiasi album). The Nashville Sound ha avuto un notevole successo di critica ed anche di pubblico, risultando l’album più venduto della carriera del nostro a dimostrazione che ogni tanto anche la “nostra” musica si sa ancora far valere.

Nel 2018 l’esposizione mediatica di Jason è pure aumentata, in quanto è stato coinvolto nella colonna sonora del film multimilionario A Star Is Born (scrivendo Maybe It’s Time per il protagonista maschile Bradley Cooper), godendo quindi di un ottimo ritorno di popolarità. Ora Isbell torna a fare quello che gli riesce meglio, sempre a capo dei 400 Unit (che a parte la moglie Amanda Shires al violino e voce sono Sadler Vaden alla chitarra, Derry DeBorja alle tastiere, Jimbo Hart al basso e Chris Gamble alla batteria) e ci consegna un lavoro nuovo di zecca intitolato Reunions, un album in gran parte introspettivo soprattutto nei testi, che parlano di come l’autore stesso sia progredito negli anni sia come artista che come essere umano in termini di relazioni col prossimo (amanti, figli, genitori o amici) ed anche per quanto riguarda il suo equilibrio interiore, ma nello stesso tempo affronta la complicata situazione politica americana con brani come la dura (nel testo) Be Afraid, nella quale sembra rivolgersi tanto ai colleghi artisti (compreso sé stesso) quanto ai fans, chiedendo loro di non ignorare il momento ma di prendere delle posizioni nette. Il disco, che per la quarta volta di fila vede il quasi onnipresente Dave Cobb alla produzione, è quindi maggiormente incentrato sulle ballate rispetto ai lavori passati, anche se non mancano i brani più mossi ed un certo gusto pop qua e là.

Forse Reunions ad un primo approccio può risultare meno immediato di The Nashville Sound, ma se gli concederete più di un ascolto non potrete che metterlo comunque molto in alto nelle vostre classifiche di gradimento: personalmente la prima volta che l’ho infilato nel lettore l’avevo giudicato buono ma leggermente inferiore al predecessore, ma dopo altri ascolti le canzoni hanno cominciato a crescere dentro di me a poco a poco ed ora lo metto tranquillamente sullo stesso piano. Nel disco suonano solo Jason, i 400 Unit e qualche chitarra aggiunta da parte di Cobb, ma come ospiti alle backing vocals abbiamo Jay Buchanan (leader del gruppo hard rock Rival Sons, che ha come unico punto in comune con Isbell il fatto di essere prodotto da Cobb) e soprattutto David Crosby, che abbellisce con il suo inconfondibile timbro l’iniziale What’ve I Done To Help, un’affascinante ballata tra pop e musica cantautorale cantata e suonata con molta forza, con la frase del titolo ripetuta in modo insistente ed un feeling anni settanta dato dall’uso particolare degli archi in sottofondo: più che di Cobb, lo stile di produzione sembra quello di Dan Auerbach, con la parte finale che mi ricorda la conclusione della mitica Ohio di CSN&Y, non tanto per la melodia che è molto diversa ma per il fatto che la voce di Crosby si staglia sulle altre ripetendo più volte la frase del titolo. Dreamsicle è una ballata limpida e distesa dall’arrangiamento elettroacustico e cantata molto bene, con un bel background basato su chitarre e piano e sempre quel gradevole sapore d’altri tempi; Only Children è un delizioso bozzetto acustico cantato a due voci con Amanda ed eseguito con grande finezza (ed un apprezzabile intervento di chitarra elettrica), mentre Overseas è uno splendido brano in puro stile Americana, un folk-rock dal ritmo cadenzato dalla melodia scintillante e con un paio di assoli chitarristici decisamente coinvolgenti.

Isbell ormai è diventato un songwriter sul quale contare ad occhi chiusi, in grado di passare con grande disinvoltura dalle ballate più intense ai brani rock più coinvolgenti con la massima naturalezza, oltre ad essere un provetto chitarrista. Running With Our Eyes Closed ha un inizio soffuso ed attendista che ricorda certe cose dei Fleetwood Mac “californiani”, un pezzo che fa uscire un’anima pop-rock da non sottovalutare; River è una tenue ballata che ci riporta allo stile tipico di Jason, un racconto strumentato con gusto e misura in cui a dominare sono il piano di DeBorja ed il violino della Shires, il tutto eseguito con intensità e pathos notevoli. La già citata Be Afraid ha un ritmo cadenzato ed è decisamente più elettrica, e non manca anche qui l’elemento pop che rimanda a paesaggi sonori cari a Lindsey Buckingham, a differenza di St. Peter’s Autograph che è un delicato pezzo cantautorale al 100% in cui la voce del nostro è circondata dal minimo sindacale di strumenti. L’album si chiude con la mossa e gradevole It Gets Easier, rock ballad elettrica tra le più immediate del lavoro, e con la toccante Letting You Go, sorta di valzerone folk dal pathos notevole (altro brano da inserire tra i migliori), finale splendido per un altro disco di elevato spessore da parte di Jason Isbell, che lavoro dopo lavoro si conferma come uno dei maggiori songwriters oggi in America. Esce il 15 maggio.

Marco Verdi

Un Bel Disco Di Ispirazione Letteraria. David Starr – Beauty & Ruin

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David Starr – Beauty & Ruin – Cedaredge CD

Pur avendo esordito nel 2003 e vantando una discografia di quasi una decina di unità, il nome di David Starr è abbastanza sconosciuto presso il pubblico. Originario dell’Arkansas ma da anni spostatosi in Colorado, Starr è un cantautore classico, di quelli che si ispirano alla scuola californiana degli anni settanta (Jackson Browne, Dan Fogelberg, ecc.) costruendo le sue canzoni attorno alla voce ed alla chitarra, e rivestendo il tutto con pochi ma selezionati strumenti: una steel in sottofondo, talvolta un organo, una sezione ritmica mai invadente, in certi casi un violino. Per il suo nuovo lavoro Beauty & Ruin David ha scelto di farsi produrre da John Oates, che dopo i fasti del duo Hall & Oates si è reinventato come artista roots-oriented (ottimo il suo album Arkansas del 2018 https://discoclub.myblog.it/2018/02/13/chiamatelo-pure-mississippi-john-oates-john-oates-arkansas/ ), ed i due hanno selezionato una serie di autori noti e meno noti, tra i quali Jim Lauderdale, il duo formato da Doug e Telisha Williams (più conosciuti come Wild Ponies) ed Oates stesso, dando ad ognuno dei quali una copia del libro Of What Was, Nothing Is Left, opera del 1972 del noto autore Fred Starr (nonno di David), e chiedendo ad ognuno di loro di scrivere un testo ad esso ispirato al quale poi lui e John avrebbero aggiunto la musica.

Il risultato è appunto Beauty & Ruin, un album di ballate intense e profonde suonato da un manipolo di gente molto nota tra cui Glenn Worf, Dan Dugmore e Greg Morrow: musicisti che solitamente troviamo in dischi country, anche se qui il country è solo un tramite (e neanche sempre) per dare un suono ai brani di Starr, che come dicevo poc’anzi derivano direttamente dalla lezione dei cantautori classici dei seventies. Laura è una gentile ballata acustica, profonda ed intensa, con David che canta con voce limpida: un brano da vero songwriter, con strumentazione parca ma dosata al punto giusto e la steel di Dugmore che si staglia sullo sfondo https://www.youtube.com/watch?v=pvk2p81XXGk . Bella anche la title track, un pezzo tenue suonato in punta di dita che rimanda allo stile pacato di James Taylor, anche se qui l’accompagnamento è più “rootsy”; Rise Up Again è ariosa e tersa, un brano che sembra uscito proprio da qualche disco degli anni settanta, mentre Bury The Young ha un delicato sapore western ed è dotata di un motivo profondamente evocativo ed emozionante, una gran bella canzone. Il quinto brano si intitola proprio come il libro di nonno Fred, Of What Was, Nothing Is Left, ed è un pezzo attendista che si sviluppa con lentezza intorno alle chitarre, fino al refrain in cui il suono si fa più corposo: David si conferma un autore coi fiocchi, brani come questo non si scrivono per caso.

Cracks Of Time è soffusa e raffinata, con un arrangiamento che valorizza la melodia ed un bel gioco di percussioni, Road To Jubilee (il brano di Lauderdale) ha una strumentazione avvolgente con le chitarre e l’organo che creano un tutt’uno col motivo centrale https://www.youtube.com/watch?v=6RKBZKhFLRA , mentre con My Mother’s Shame torniamo alle atmosfere interiori, e non manca una certa tensione di fondo (non è un brano rock, ma è quello che si avvicina di più) https://www.youtube.com/watch?v=L_31JXbnNIw . Il CD prosegue senza sbavature: Fly By Night ha una bella chitarra che accompagna la melodia solare ed è uno dei brani più belli ed immediati, con un suono vagamente jingle-jangle; chiusura con Laurel Creek, deliziosa ballata dal sapore country, e con I Don’t Think I’ll Stay Here, canzone distesa ed orecchiabile che mette il sigillo ad un bel disco di cantautorato d’alta classe.

Marco Verdi

Una Sorpresa Nell’Uovo Di Pasqua! Cowboy Junkies – Ghosts

cowboy junkies ghosts

Cowboy Junkies – Ghosts – Latent Recordings / Download + Streaming

Nell’ultimo periodo c’è stata una notevole uscita di dischi “fantasma” (nel senso che fisicamente non sono reperibili in CD, ma si possono scaricare o ascoltare nei vari siti di musica digitale), e noi sul sito ci siamo occupati dei lavori dell’ultimo Matthew Ryan, di Jeff Black, Natalie Merchant, con la speranza prossimamente di recensire anche Amidst The Alien Cane di William Topley (parlo per me), e per stare in tema non poteva certamente mancare anche questo inaspettato Ghosts dei Cowboy Junkies. A soli due anni di distanza dall’ottimo All That Reckoning (18), questo Ghosts non è altro che una raccolta di canzoni su cui i Cowboy Junkies avevano incominciato a lavorare mentre erano in giro in tournée per promuovere il citato ultimo lavoro in studio, e l’improvvisa morte della madre due mesi dopo, è stata la scintilla che ha portato i tre fratelli Timmins ad elaborare il lutto portando a termine questi otto brani, decidendo poi di farli ascoltare in “streaming” a chi era interessato, in attesa di un eventuale futura edizione in doppio vinile, allegandolo ad ATR.

Oggi come ieri la formazione della band è sempre la stessa: con Margo Timmins alla voce, i fratelli Michael alle chitarre e Peter alla batteria, con l’inserimento dell’amico Alan Anton al basso, per una buona mezzora di musica dove si respirano metaforicamente rabbia, rimorso e dolore. Dolore che si nota subito nella traccia di apertura Desire Lines, con la meravigliosa voce di Margo che declama il testo della canzone, seguita dalle affascinanti note della pianistica Breathing https://www.youtube.com/watch?v=hez9al5ny50 , e dal suono caldo e avvolgente di Grace Descends, che viene accompagnata dal basso di Alan Anton. Le emozioni ripartono con il suono cinematografico e leggermente “psichedelico” dell’intrigante (You Don’t Get To) Do It Again, per poi passare alla soave malinconia di una struggente e accorata The Possessed (il brano finale di All That Reckoning, lasciato fuori nella versione in vinile), mentre il fascino della voce di Margo si manifesta ancora una volta in Misery, con un accompagnamento in primo piano fluido e diretto. Ci si avvia alla fine dei ricordi e del dolore con una ballata romantica, notturna e rarefatta come This Dog Barks (marchio di fabbrica del gruppo), impreziosita dalle note di un violino “tzigano” impazzito https://www.youtube.com/watch?v=g6-rRG9tTJU , per terminare con un dolcissimo e sentito omaggio al sassofonista jazz Ornette Coleman, un giusto riconoscimento della famiglia Timmins ad uno dei “padri” della propria formazione musicale https://www.youtube.com/watch?v=QvBmZgF7_DY .

Stilisticamente questi otto brani rispecchiano il suono del precedente All That Reckoning, e per chi scrive, che ascolta i Cowboy Junkies da tempi di Trinity Session(88) non poteva essere altrimenti: un gruppo che nella sua lunga carriera ha saputo estrarre il meglio della tradizione americana, passando dalle radici blues ad un “country-rock” ovattato e moderatamente “roots”, facendo rivivere con le loro canzoni malinconiche atmosfere da sogno e paesaggi sonori che si stringono e prendono forma con la suggestiva voce di Margo Timmins che non si può non riconoscere. I CJ sono in pista ormai da più di trenta anni, e dopo 18 album in studio (compreso questo Ghosts) e 6 album Live, continuano a credere nella loro proposta, che non è certamente quella di una musica commerciale, quindi senza guardare in faccia a nessuno cercano comunque di proporre sempre musica di grande qualità, come anche in questo ultimo lavoro.

Tino Montanari

Il Ragazzo Si Farà…Anzi E’ Già Bello Che Pronto! Chad Kostner – Highway 63

chad kostner highway 63

Chad Kostner – Highway 63 – Blue Whiskey Van CD

Dalla piccola cittadina rurale di Bloomer, Wisconsin (stato del Midwest poco presente sulle mappe del rock’n’roll) arriva questo esordio fulminante da parte di un giovane songwriter, Chad Kostner, che si è avvicinato alla musica quasi per caso, ossia dopo che all’età di 18 anni ha trovato una vecchia chitarra Silvertone nella soffitta dei genitori. A poco a poco Chad ha imparato a suonare lo strumento, ha iniziato ad avvicinarsi ad autori classici tra country, roots e rock come Hank Williams, John Prine, Steve Earle e John Mellencamp e ha lentamente iniziato a comporre i brani che oggi vanno a formare Highway 63, il suo sorprendente album di debutto. Chad ha assorbito alla grande la lezione dei suoi artisti preferiti, mostrando di covare al suo interno un talento non comune: Highway 63 è formato infatti da otto canzoni una più bella dell’altra, una serie di ballate tra country e rock che hanno il sapore soprattutto dei già citati Prine (per l’approccio nel songwriting ed una certa ironia di fondo) e Mellencamp (per la voce roca ed una buona propensione per il rock “stradaiolo”), un lavoro maturo e riuscito che non sembra affatto l’opera di un esordiente.

La strumentazione è quanto di più classico si possa trovare, chitarre acustiche ed elettriche, basso, batteria, piano ed organo alla bisogna e spesso una steel a sfiorare le canzoni, ma sono proprio i brani a fare la differenza: tra country, rock e radici, suoni profondi figli della provincia americana, che colpiscono fin dal primo ascolto. Canzoni belle e fiere come l’iniziale Demons, uno splendido country-rock dal ritmo e refrain decisamente coinvolgenti, voce arrochita e sonorità classiche che vedono le chitarre in primo piano. Different Dream è una ballata lenta e soffusa guidata da chitarra acustica, pianoforte e da una malinconica steel sullo sfondo, nonché da un motivo profondo che avvicina il nostro al miglior Ryan Bingham; Rambler’s Soul è folk (e qui si palesa l’influenza di Prine), una canzone bella e scorrevole pur nella sua estrema semplicità, con un arrangiamento elettroacustico di sicuro impatto, mentre con Highway 63 andiamo quasi in Texas per un rockin’ country elettrico e trascinante che si ascolta tutto d’un fiato, con un uso delizioso delle chitarre (Steven James Carlson è il solista in tutto il disco).

Summer è un valzerone splendido sotto ogni aspetto, dal motivo emozionante all’esecuzione in punta di dita basata su chitarra, piano e fisarmonica fino al pathos che il nostro ci mette: tra le più belle del CD. Old Movies è limpida, diretta e con l’ennesima melodia che piace al primo ascolto, ed un ottimo uso del piano elettrico, Yellow Water è un’altra splendida country tune che più classica non si può, dall’accompagnamento limpido che contrasta con la voce roca di Chad (e nel songwriting vedo tracce degli Old Crow Medicine Show), brano che precede la conclusiva Heading Home, finale struggente con una solida ballatona dai toni crepuscolari. Un piccolo grande esordio questo Highway 63: Chad Kostner compone con un piglio da veterano, ed è sicuramente tra le realtà da tenere d’occhio per l’immediato futuro.

Marco Verdi