Un Piacevole “Scherzetto” Da Parte Dello Zio Bob: Il 26 Febbraio Esce Il Triplo “ Bob Dylan 1970”.

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Bob Dylan – 1970 – Sony 3CD 26/02/2021

A partire dal 2012, con cadenza annuale, la Sony ha immesso a sorpresa una serie di album multipli, inizialmente in LP e poi in CD, che riguardavano tutto ciò di inedito a livello di sessions che Bob Dylan aveva inciso 50 anni prima, allo scopo di proteggere il copyright (che in Europa scade appunto dopo mezzo secolo) e di evitare il proliferare di bootleg che altrimenti sarebbero stati perfettamente legali. Il problema che queste pubblicazioni non sono state pensate per una commercializzazione su larga scala, e quindi vengono immesse senza alcun battage pubblicitario, sempre verso fine anno ed in pochissimi negozi inglesi, francesi e se non sbaglio anche olandesi, diventando in breve degli ambitissimi oggetti da collezione e raggiungendo cifre da capogiro su Ebay. Ciò è avvenuto appunto nel 2012, 2013 e 2014 (rispettivamente per gli anni 1962, 1963 e 1964), mentre per il bienno 1965-66 ci hanno pensato la versione limitata “Big Blue” del dodicesimo episodio delle Bootleg Series dylaniane The Cutting Edge ed il “cubo” con le registrazioni complete del tour del 1966. Stessa cosa per i Basement Tapes, riepilogati nel Bootleg Series Vol. 11, mentre le poche sessions inedite di John Wesley Harding sono finite lo scorso anno in Travelin’ Thru insieme a quelle di Nashville Skyline (con e senza Johnny Cash) ed in parte Self Portrait.

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Nel 2019 però è ricominciata la prassi di far uscire senza preavviso la Copyright Collection (e dallo scorso anno pochissime copie sono state messe in vendita anche sul sito inglese Badlands) con tutte le sessions del 1969 che non erano finite su Travelin’ Thru e su Another Self Portrait, un dischetto interessante ma forse non indispensabile dal momento che il meglio era già stato pubblicato. Quest’anno è successo ancora, ma a differenza del 1969 le sessions del 1970 erano ancora per certi versi inesplorate, in quanto vertevano più che altro sull’album New Morning che era stato appena sfiorato dai Bootleg Series passati (anche se non manca ancora qualcosa da Self Portrait), ma soprattutto c’erano le nove canzoni incise il primo maggio insieme a George Harrison, una sessione più volte mitizzata e piratata. Inutile dire che sul sito della Badlands il triplo CD (72 canzoni), messo in commercio di punto in bianco lo scorso 30 novembre, è andato esaurito praticamente in due minuti, ma dato l’alto interesse musicale oltre che collezionistico della pubblicazione (che vede Dylan reincidere anche brani del suo periodo folk ed affrontare gustose ed inattese cover) in questa occasione le quotazioni su Ebay hanno toccato livelli di assoluta follia, partendo da basi d’asta di circa 500 euro fino ad arrivare a chiusure che si aggiravano sui duemila euro. La cosa deve aver attirato non poco l’attenzione della Sony (e forse dello stesso Dylan), in quanto con una mossa senza precedenti pochi giorni fa è stata annunciata l’uscita per il prossimo 26 febbraio di 1970, una versione della Copyright Collection disponibile su larga scala e con una nuova copertina, un evento abbastanza unico e per certi versi insperato dal momento che non farà parte delle Bootleg Series ma rimarrà un episodio a sé stante (ed il tempo ci dirà se sarà il primo di una nuova serie).

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E’ ovvio che il pensiero, non senza una punta di perfida soddisfazione, è andato verso quelli che hanno investito un capitale per accaparrarsi la versione “limitata” qui sopra, ed ora la vedono alla portata di tutti per la modica cifra di circa 30 euro, ma più ancora avrei voluto vedere la faccia di quelli che avevano ancora in essere una scommessa su Ebay e magari alla scadenza sono riusciti a vincerla essendo così costretti a strapagare una cosa che fra due mesi avrebbero potuto avere con il costo di una cena in pizzeria per due persone. E per aggiungere un’ulteriore beffa, 1970 conterrà due canzoni in più della versione del copyright! Ma entriamo nel dettaglio della pubblicazione. Come ho scritto poc’anzi, il grosso di queste sedute riguarda l’album New Morning che uscirà verso la fine del ‘70, ma alcune cose faranno in tempo a finire (non in queste versioni) su Self Portrait ed altre ancora come Lily Of The West, Spanish Is The Loving Tongue, l’hit di Elvis Presley Can’t Help Falling In Love e Sarah Jane verranno inserite sull’album “rinnegato” Dylan (ma qui abbiamo comunque takes alternate). Nei vari momenti suonano con Bob diversi musicisti di nome: nelle sessions di marzo troviamo David Bromberg alla chitarra e Al Kooper all’organo, che torneranno a giugno con una nuova sezione ritmica formata da Charlie Daniels al basso e Russ Kunkel alla batteria (con Ron Cornelius come chitarrista aggiunto).

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E poi c’è la già citata seduta del primo maggio, con Harrison alla solista https://www.youtube.com/watch?v=EKEGgIfIrUE&feature=emb_logo  e dietro le spalle Daniels e Kunkel (oltre al produttore Bob Johnston al piano): dopo un breve rehersal di Time Passes Slowly, Bob e George si divertono a suonare cose per il puro piacere di farlo, dato che era chiaro che il nuovo album non avrebbe avuto al suo interno nuove riletture full band di classici dylaniani della prima ora come Mama, You’ve Been On My Mind, It Ain’t Me, Babe, One Too Many Mornings e Gates Of Eden, né l’uno-due di brani di Carl Perkins (di cui George era grande fan) Matchbox e Your True Love, l’evergreen degli Everly Brothers All You Have To Do Is Dream o addirittura un divertente medley di due hit delle “girl groups” Shirelles e Crystals I Met Him On A Sunday/Da Doo Ron Ron. Ma oltre a Harrison c’è molto di più, e forse la parte meno interessante sono proprio le takes alternate dei brani di New Morning (con l’eccezione di If Not For You, della quale c’erano versioni migliori di quella poi finita sul disco originale), in quanto Bob si lancia in godibili riletture di canzoni che non ti aspetti da lui come Yesterday dei Beatles (sempre il primo maggio ma senza George), I Forgot To Remember To Forget di Elvis, Cupid di Sam Cooke, Universal Soldier di Buffy Sainte-Marie, Jamaica Farewell di Harry Belafonte ed Alligator Man di Jimmy C. Newman, quest’ultima in due gustose versioni, una rock’n’roll ed una country.

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Detto di un paio di strumentali senza titolo, più un riscaldamento che brani veri e propri, e della ripresa di altre canzoni passate del songbook dylaniano (Just Like Tom Thumb’s Blues, Rainy Day Women # 12 & 35, I Don’t Believe You, I Threw It All Away, Tomorrow Is A Long Time e perfino Song To Woody), una buona parte del triplo è occupata dalle versioni da parte di Bob di pezzi della tradizione ed altri che lo sono diventati, con menzioni particolari per Come All You Fair And Tender Ladies, Little Moses, Long Black Veil, ed il gospel Bring Me Little Water, Sylvie. Il triplo si chiude con tre canzoni prese da una session abbastanza misteriosa del 12 agosto con Buzzy Feiten alla chitarra e tutti gli altri musicisti sconosciuti, che comprende due ulteriori If Not For You e la non imperdibile Day Of The Locusts. Devo dire che la Sony e Bob Dylan hanno fatto bene a decidere di rendere queste sessioni disponibili al grande pubblico: 1970 è un triplo album perfetto per accompagnare Travelin’ Thru del 2019, e mette la parola fine alle prolifiche sedute del biennio 1969-70.

Ecco la lista completa delle canzoni, dei musicisti e degli autori dei brani presenti nel triplo CD.

[CD1]

March 3, 1970

I Can’t Help but Wonder Where I’m Bound
Universal Soldier – Take 1
Spanish Is the Loving Tongue – Take 1
Went to See the Gypsy – Take 2
Went to See the Gypsy – Take 3
Woogie Boogie

March 4, 1970
Went to See the Gypsy – Take 4
Thirsty Boots – Take 1

March 5, 1970
Little Moses – Take 1
Alberta – Take 2
Come All You Fair and Tender Ladies – Take 1
Things About Comin’ My Way – Takes 2 & 3
Went to See the Gypsy – Take 6
Untitled 1970 Instrumental #1
Come a Little Bit Closer – Take 2
Alberta – Take 5

Bob Dylan – vocals, guitar, piano
David Bromberg – guitar, dobro, bass
Al Kooper – organ, piano
Emanuel Green – violin
Stu Woods – bass
Alvin Rogers – drums
Hilda Harris, Albertine Robinson, Maeretha Stewart – background vocals

May 1, 1970
Sign on the Window – Take 2
Sign on the Window – Takes 3-5
If Not for You – Take 1
Time Passes Slowly – Rehearsal
If Not for You – Take 2
If Not for You – Take 3
Song to Woody – Take 1
Mama, You Been on My Mind – Take 1
Yesterday – Take 1

[CD2]

Just Like Tom Thumb’s Blues – Take 1
Medley: I Met Him on a Sunday (Ronde-Ronde)/Da Doo Ron Ron – Take 1
One Too Many Mornings – Take 1
Ghost Riders in the Sky – Take 1
Cupid – Take 1
All I Have to Do Is Dream – Take 1
Gates of Eden – Take 1
I Threw It All Away – Take 1
I Don’t Believe You (She Acts Like We Never Have Met) – Take 1
Matchbox – Take 1
Your True Love – Take 1
Telephone Wire – Take 1
Fishing Blues – Take 1
Honey, Just Allow Me One More Chance – Take 1
Rainy Day Women #12 & 35 – Take 1
It Ain’t Me Babe
If Not for You
Sign on the Window – Take 1
Sign on the Window – Take 2
Sign on the Window – Take 3

Bob Dylan – vocals, guitar, piano, harmonica
George Harrison – guitar, vocals (Disc 1, Tracks 20 & 24 and Disc 2, Tracks 2-3, 6-7, 10-11, & 16)
Bob Johnston – piano (Disc 1, Tracks 24-25 and Disc 2, Tracks 1-3)
Charlie Daniels – bass
Russ Kunkel – drums

June 1, 1970
Alligator Man
Alligator Man [rock version]
Alligator Man [country version]
Sarah Jane 1
Sign on the Window
Sarah Jane 2

[CD3]

June 2, 1970
If Not for You – Take 1
If Not for You – Take 2

June 3, 1970
Jamaica Farewell
Can’t Help Falling in Love
Long Black Veil
One More Weekend

June 4, 1970
Bring Me Little Water, Sylvie – Take 1
Three Angels
Tomorrow Is a Long Time – Take 1
Tomorrow Is a Long Time – Take 2
New Morning
Untitled 1970 Instrumental #2

June 5, 1970
Went to See the Gypsy
Sign on the Window – stereo mix
Winterlude
I Forgot to Remember to Forget 1
I Forgot to Remember to Forget 2
Lily of the West – Take 2
Father of Night – rehearsal
Lily of the West

Bob Dylan – vocals, guitar, piano, harmonica
David Bromberg – guitar, dobro, mandolin
Ron Cornelius – guitar
Al Kooper – organ
Charlie Daniels – bass, guitar
Russ Kunkel – drums
Background vocalists unknown

August 12, 1970
If Not for You – Take 1
If Not for You – Take 2
Day of the Locusts – Take 2

Bob Dylan – vocals, guitar, harmonica
Buzzy Feiten – guitar
Other musicians unknown

March 3-5 and May 1, 1970 sessions took place at Studio B, Columbia Recording Studios, New York City, New York
June 1-5 and August 12, 1970 sessions took place at Studio E, Columbia Recording Studios, New York City, New York

All songs written by Bob Dylan, except: “I Can’t Help but Wonder Where I’m Bound” by Tom Paxton; “Universal Soldier” by Buffy Sainte-Marie; “Spanish Is the Loving Tongue,” “Alberta,” “Come All You Fair and Tender Ladies,” “Things About Comin’ My Way,” “Fishing Blues,” “Honey, Just Allow Me One More Chance,” “Bring Me Little Water, Sylvie,” “Lily of the West” traditional, arranged by Bob Dylan; “Little Moses” by A.P. Carter; “Thirsty Boots” by Eric Andersen; “Come a Little Bit Closer” by Tommy Boyce, Bobby Hart, and Wes Farrell; “Yesterday” by John Lennon and Paul McCartney; “I Met Him on a Sunday (Ronde-Ronde)” by Shirley Owens, Beverly Lee, Addie Harris, and Doris Coley; “Da Doo Ron Ron” by Phil Spector, Jeff Barry, and Ellie Greenwich; “Ghost Riders in the Sky” by Stan Jones; “Cupid” by Sam Cooke; “All I Have to Do Is Dream” by Boudleaux Bryant; “Matchbox” and “Your True Love” by Carl Perkins; “Alligator Man” by Jimmy C. Newman and Floyd Chance; “Jamaica Farewell” by Irving Burgie; “Can’t Help Falling in Love” by Hugo Peretti, Luigi Creatore, and George David Weiss; “Long Black Veil” by Marijohn Wilkin and Danny Dill; and “I Forgot to Remember to Forget” by Charlie Feathers and Stan Kesler.

Produced for release by Jeff Rosen and Steve Berkowitz
Sessions originally produced by Bob Johnston

Marco Verdi

Non Gli Avranno Portato Sfortuna? Jerry Jeff Walker – Mr. Bojangles: The Atco/Elektra Years

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Jerry Jeff Walker – Mr. Bojangles: The Atco/Elektra Years – Morello/Cherry Red 5CD Box Set

Una spiegazione per l’ironico titolo del post: il cofanetto di cui mi accingo a parlare non è uno di quei casi di “instant anthology” messa fuori da una casa discografica per capitalizzare la recente morte di un artista, ma era già stata messa in cantiere quando Jerry Jeff Walker, grande singer-songwriter scomparso lo scorso 23 ottobre, era ancora in vita, e la conferma di ciò si trova nel libretto incluso nel box, che parla del musicista newyorkese ma texano d’adozione al presente e non fa riferimento al triste epilogo. Oggi non sono qui per commemorare il countryman nato Ronald Clyde Crosby (per questo vi rimando al mio post di ottobre https://discoclub.myblog.it/2020/10/25/purtroppo-e-arrivato-quel-tempo-da-venerdi-scorso-il-texas-e-un-po-piu-povero-a-78-anni-se-ne-e-andato-mr-bojangles-jerry-jeff-walker/ ), ma appunto per parlare nel dettaglio di questo Mr. Bojangles: The Atco/Elektra Years, un pratico cofanettino con dentro cinque CD rimasterizzati, ma senza bonus tracks, risalenti a due periodi ben diversi della carriera del nostro, e cioè i suoi tre primi album da solista dopo gli esordi con i Circus Maximus e due lavori di fine anni settanta, quando Jerry Jeff era già diventato famoso grazie ai dischi pubblicati con la MCA (e ristampati qualche anno fa dall’australiana Raven, che purtroppo ha chiuso i battenti da alcuni anni).

Ascoltando questi cinque dischetti uno ad uno si tocca quasi con mano l’evoluzione di Walker come songwriter e musicista: già pronto a farsi notare con il primo album in cui piazza subito la sua canzone più famosa, lo lasciamo dopo il terzo lavoro per poi ritrovarlo maturo e texano al 100% con il primo dei due LP per la Elektra, nei quali paradossalmente si rivolge quasi totalmente a brani altrui. Ma iniziamo da Mr. Bojangles (1968), esordio prodotto dal grande Tom Dowd e con una band capitanata da David Bromberg: tutti i brani presenti sono scritti da Jerry Jeff, a partire dalla leggendaria title track, che diventerà un classico assoluto della canzone americana e verrà portata al successo due anni dopo dalla Nitty Gritty Dirt Band, ma discretamente famosa sarà anche lo scintillante bluegrass Gypsy Songman, che diventerà uno dei soprannomi del nostro.

Altri brani di punta di un debutto niente male sono l’intima e deliziosa Little Bird, la spedita I Makes Money (Money Don’t Make Me), altro bluegrass coi fiocchi, la vivace ed orecchiabile Round And Round, la folk tune Broken Toys, molto anni 60 e con il piano di Gary Illingworth in evidenza, e la complessa The Ballad Of The Hulk, brano che in sette minuti tratta diversi temi, dalla politica al Vietnam passando per il controllo delle nascite e le compagnie discografiche, e che musicalmente paga tributo a It’s Alright Ma di Bob Dylan.

Dopo un album con la Vanguard (Driftin’ Way Of Life) Walker torna alla Atco e nel 1970 pubblica Five Years Gone con la produzione di Elliot Mazer, che si farà poi un nome con Neil Young e Linda Ronstadt, e l’aiuto di un gruppo di “Nashville Cats” con personaggi del calibro di Norbert Putnam, Kenny Buttrey, David Briggs, Hargus “Pig” Robbins, Charlie McCoy, oltre al ritorno di Bromberg. Nonostante il disco sia inciso nella capitale mondiale del country, l’album presenta diversi stili, a partire dalla rockeggiante Help Me Now, con tanto di chitarra “fuzz”, per proseguire con Blues In Your Mind, dal chiaro sapore soul, e con la leggera psichedelia del country cosmico About Her Eyes.

Non mancano episodi di songwriting classico come le toccanti ballate Seasons Change e Janes Says, e tra i pochi brani mossi di un disco molto intimista segnalerei il bel country-rock Dead Men Got No Dreams, con il backing sound tipico dell’epoca (pensate a Nashville Skyline di Dylan), l’elettrica e godibilissima Happiness Is A Good Place To Visit, But It Was So Sad In Fayetteville e l’irresistibile country song dal tocco vaudeville Born To Sing A Dancin’ Song. C’è anche una ripresa acustica della sempre splendida Mr. Bojangles, registrata durante un broadcast radiofonico del 1967 e quindi antecedente al primo album.

Sempre nel 1970 Jerry Jeff concede il bis con Bein’ Free, che vede il ritorno di Dowd in consolle e con i Dixie Flyers in session, un gruppo collaudato che comprende Jim Dickinson e Mike Utley al piano, Charlie Freeman alle chitarre e Tommy McClure al basso. Si inizia in modo divertente con il contagioso honky-tonk corale I’m Gonna Tell On You e si prosegue con la limpida ballata Stoney e con l’ironico country-rock Where Is The D.A.R. When You Really Need Them?

In generale questo è il migliore dei tre dischi targati Atco, e lo dimostrano A Secret, che profuma di folk song irlandese, l’intenso slow But For The Time, con piano e chitarra a lavorare di fino, il rock’n’roll with a country touch Vince Triple-O Martin e la bella e toccante More Ofter Than Not, scritta da David Wiffen. Facciamo un salto di qualche anno per ritrovare nel quarto CD un Walker decisamente più “texano” ed in generale migliore come musicista anche se, come ho già accennato, si affida al 90% a brani non suoi.

Jerry Jeff (1978) è comunque un signor disco, un lavoro grintoso e molto più rock che country, con una band tostissima guidata dal chitarrista Bobby Rambo e dalla nostra vecchia conoscenza Reese Wynans alle tastiere. Jerry porta in dote solo una canzone, la solare e quasi caraibica Her Good Lovin’ Grace, mentre tra gli altri pezzi meritano un cenno lo splendido slow pianistico di Mike Reid Eastern Avenue River Railway Blues posto in apertura, la roccata e trascinante Lone Wolf di Lee Clayton, con assolo potente di Rambo (d’altronde con quel cognome…), il country-rock venato di errebi sudista Bad News di John D. Loudermilk (ma che JJW ha imparato da Johnny Cash), il coinvolgente rock’n’roll scritto da Rambo Boogie Mama e l’intensa ballata Comfort And Crazy dell’amico Guy Clark.

Nel 1979 Jerry pubblica Too Old To Change, altro ottimo disco composto esclusivamente da canzoni scritte da altri, prodotto dallo stesso Jeff e con più o meno gli stessi musicisti del precedente lavoro. A parte belle versioni di un classico assoluto (Me And Bobby McGee di Kris Kristofferson) e di un brano che lo diventerà (I Ain’t Living Long Like This di Rodney Crowell), sono da segnalare anche lo strepitoso honky-tonk I’ll Be Your San Antone Rose, scritto da Susanna Clark (moglie di Guy) e cantato dal nostro in duetto con Carole King, l’acustica Hands On The Wheel, il puro Texas country Cross The Borderline e la profonda Then Came The Children di Paul Siebel.

L’invasione di ristampe, antologie e cofanetti tipica della stagione natalizia potrebbe far passare inosservato questo Mr. Bojangles: The Atco/Elektra Years, ma sono sicuro che gli appassionati del buon vecchio country-rock texano lo avranno già inserito nella loro “wish list”.

Marco Verdi

Gli Anni Migliori Di Un Grandissimo Songwriter. John Prine – Crooked Piece Of Time

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John Prine – Crooked Piece Of Time: The Atlantic And Asylum Albums – Rhino/Warner 7CD Box Set

Una delle perdite più gravi di questo maledetto 2020 è stata certamente quella di John Prine, grandissimo singer-songwriter che al suo esordio era stato indicato come uno dei tanti “nuovi Dylan”, ma che in poco tempo riuscì ad affermarsi come uno dei più lucidi e talentuosi artisti in circolazione arrivando quasi al livello del grande Bob (che tra parentesi è sempre stato un suo sincero ammiratore). Oggi non sono qui per commemorare la figura di Prine (a tal proposito vi rimando al mio post di aprile https://discoclub.myblog.it/2020/04/08/uno-dei-piu-grandi-cantautori-di-tutti-i-tempi-a-73-anni-ci-ha-lasciato-anche-john-prine-ed-un-ricordo-di-hal-willner/ ), ma per parlare nel dettaglio del cofanetto da poco uscito Crooked Piece Of Time, un pratico box in formato “clamshell” che include i primi sette album del cantautore di Chicago, quattro pubblicati in origine dalla Atlantic e tre dalla Asylum, che vanno a formare il suo periodo sicuramente migliore e più fertile. I sette dischetti sono stati opportunamente rimasterizzati e sono presentati in pratiche confezioni simil-LP, con all’interno tutti i testi (tranne che nell’album Pink Cadillac) e con accluso un libretto che comprende le tracklist disco per disco (ma non i musicisti) ed un bel saggio dell’ormai onnipresente David Fricke, oltre ad un bellissimo ritratto di John in copertina realizzato appositamente per questo box dal pittore Joshua Petker.

Ma veniamo nel dettaglio al contenuto musicale del cofanetto (che ha anche un prezzo interessante, circa 40 euro).

John Prine (1971). Messo sotto contratto dalla Atlantic, che lo ha notato come opening act dei concerti di Kris Kristofferson, Prine entra in studio con il famoso produttore Arif Mardin (che sarà presente anche nei due album seguenti) e con musicisti del giro di Elvis (Reggie Young, Bobby Emmons, Bobby Wood e Gene Chrisman), oltre all’amico e collega Steve Goodman. John Prine è uno dei debutti più fulminanti della storia della nostra musica, il classico album da cinque stelle che a posteriori sembra più un greatest hits che un disco nuovo. Un vero capolavoro, con canzoni formidabili come Illegal Smile, Hello In There (il brano più bello di sempre sulle persone anziane), Sam Stone (pezzo del quale Roger Waters, grande fan di John, ha ripreso la melodia pari pari per la sua The Post War Dream, che apriva The Final Cut dei Pink Floyd), Paradise, Far From Me, Angel From Montgomery e Donald And Lydia: una sequenza impressionante, canzoni che molti autori non scrivono in una carriera intera.

Ma nel disco ci sono altri brani strepitosi come l’irresistibile country song Spanish Pipedream, l’elettrica Pretty Good (questa sì dylaniana), la divertente Your Flag Decal Won’t Get You Into Heaven Anymore, la prima di una lunga serie di canzoni dal testo esilarante, la vivace e swingata Flashback Blues.

Diamonds In The Rough (1972). Album diverso nelle sonorità rispetto al precedente, in quanto John si presenta con un ristretto gruppo di musicisti (tra i quali figura anche David Bromberg) e mette a punto un album influenzato dalla musica folk, country e bluegrass delle origini, nel suono più che nelle canzoni che sono tutte sue tranne la title track che è della Carter Family.

Anche qui i pezzi da novanta non mancano, come il puro country della limpida Everybody, la classica Souvenirs, una delle sue ballate più note, il scintillante folk tune The Late John Garfield Blues, le graffianti bluegrass songs The Frying Pan e Yes I Guess They Oughta Name A Drink After You, la deliziosa Billy The Bum, solo voce, chitarra e dobro ma un mare di feeling e l’intensa The Great Compromise, con John in completa solitudine.

Sweet Revenge (1973). Prine torna a sonorità più elettriche con un altro splendido disco, il migliore della decade dopo l’inarrivabile esordio, con sessionmen di Nashville non famosissimi ma che cuciono intorno alla voce del nostro un accompagnamento perfetto. L’album parte alla grande con il rock-soul-gospel della title track e poi mette in fila una serie di canzoni di primissima qualità: Please Don’t Bury Me e Grandpa Was A Carpenter sono due country-rock irresistibili, Dear Abby, acustica e dal vivo (a New York) fa morire dal ridere, Christmas In Prison è una delle sue migliori ballate di sempre.

Ma poi c’è l’ariosa Blue Umbrella che è una country song semplicemente sublime, il rock’n’roll di Onomatopeia, il delizioso valzerone The Accident, la pura e cristallina Mexican Home, per concludere con una trascinante cover del classico di Merle Travis Nine Pound Hammer.

Common Sense (1975). Registrato tra Memphis e Los Angeles con la produzione del grande Steve Cropper, questo album non contiene superclassici ma è sempre stato uno dei miei preferiti grazie ad una qualità compositiva media decisamente alta e ad un suono più rock del solito, merito anche degli interventi dello stesso Cropper, del bassista suo compagno negli MG’s Donald “Duck” Dunn, di Rick Vito alle chitarre, di una sezione fiati e con il contributo alle backing vocals da parte di Jackson Browne, Glenn Frey, J.D. Souther e Bonnie Raitt.

Gli highlights sono il rockin’ country con fiati dal sapore sudista Middleman, la squisita e solare ballata che intitola il disco, dal mood californiano (non per nulla partecipano Browne, Frey e Souther), l’honky-tonk Come Back To Us Barbara Lewis Hare Krishna Beauregard, dallo strepitoso ritornello con la Raitt alla seconda voce, le vibranti rock ballads Wedding Day In Funeralville e My Own Best Friend, quest’ultima con un godurioso intreccio di chitarre elettriche e slide, la caraibica e scoppiettante Forbidden Jimmy, l’errebi rockeggiante della notevole Saddle In The Rain e la stupenda ballata He Was In Heaven Before He Died, degna di stare sul primo album del nostro. Finale a tutto rock’n’roll con una travolgente cover di You Never Can Tell, classico di Chuck Berry.

Bruised Orange (1978). Prine, scontento di come la Atlantic gestisce la sua figura, si accasa alla Asylum per tre dischi (e le cose non andranno meglio), tentando senza successo di fare un disco con la produzione di Cowboy Jack Clement. Un po’ sfiduciato dall’esperienza John torna a Chicago e chiede aiuto all’amico Steve Goodman, che gli produce questo Bruised Orange che si rivela un altro grande lavoro, solo di poco inferiore a Sweet Revenge.

Si inizia alla grande con lo strepitoso country-rock cadenzato di Fish And Whistle ed il livello si mantiene alto anche alla distanza. There She Goes è un western swing decisamente gustoso, If You Don’t Want My Love, scritta insieme a Phil Spector, una languida ballata che svela il lato romantico di John, mentre le splendide That’s The Way The World Goes ‘Round, Bruised Orange e Sabu Visits The Twin Cities Alone sono giustamente entrate a far parte dei suoi classici. Infine, un cenno al brano che intitola questo cofanetto, che sembra Dylan con alle spalle The Band, ed alla deliziosa folk song The Hobo Song, con un maestoso coro che comprende ancora Browne ed anche Ramblin’ Jack Elliott.

Pink Cadillac (1979). Prine torna a Memphis e si fa produrre dai figli del mitico Sam Phillips, Jerry e Knox (ma due pezzi vedono alla consolle proprio il vecchio Sam): il problema però è che John questa volta non ha abbastanza materiale valido (ed anche quello che porta non è al livello solito), con il risultato che su dieci brani totali la metà sono cover.

Tra i pezzi originali segnalo la potente Chinatown, con chitarre e piano in evidenza, il rockabilly Automobile, l’elettrica e sanguigna Saigon e la ballata dal sapore soul Down By The Side Of The Road, forse il brano migliore del disco. Tra le cover spiccano i classici rock’n’roll Baby Let’s Play House e Ubangi Stomp e l’honky-tonk song di Floyd Tillman Cold War (This Cold War With You).

Storm Windows (1980). Ultimo album di John per una major prima di fondare la Oh Boy Records, Storm Windows è un altro disco splendido, registrato ai mitici Muscle Shoals Sound Studios di Sheffield, Alabama, sotto la produzione di Barry Beckett.

La ballata pianistica che intitola l’album è un mezzo capolavoro, ma poi abbiamo le due rock’n’roll songs Shop Talk e Just Wanna Be With You, una più coinvolgente dell’altra, la fulgida Living In The Future, brano rock tipico di Prine (quindi bello), la tersa ed incantevole country ballad It’s Happening To You, la cristallina Sleepy Eyed Boy, splendida anche questa, e la gentile One Red Rose.

Se non conoscete John Prine (ne dubito, se siete su questo blog) o più semplicemente non possedete tutti i suoi album, Crooked Piece Of Time è un cofanetto da non perdere.

Marco Verdi

Purtroppo E’ Arrivato “Quel Tempo”, Da Venerdì Scorso Il Texas E’ Un Po’ Più Povero. A 78 Anni Se Ne E’ Andato Mr. Bojangles Jerry Jeff Walker.

Jerry+Jeff+Walker+jerryjeff - Copyjerry jeff walker

Oggi purtroppo devo dare la notizia di un altro lutto nel mondo della “nostra” musica, e cioè della scomparsa avvenuta venerdì 23 ottobre all’età di 78 anni del grande Jerry Jeff Walker, dovuta alle complicazioni causate da un cancro alla gola diagnosticatogli nel 2017. Pensavi a Walker e pensavi al Texas, in quanto il nostro è stato fin dalla fine degli anni sessanta uno dei più importanti ed influenti singer-songwriters di stampo country del Lone Star State, e facente parte di un immaginario club esclusivo i cui altri soci sono (ed erano) Willie Nelson, Waylon Jennings, Kris Kristofferson, Billy Joe Shaver, Guy Clark e Townes Van Zandt. Autore e performer estremamente divertente e coinvolgente, Walker è stato l’inventore e massimo esponente del cosiddetto “gonzo country”, un tipo di musica assolutamente scanzonata e spesso associata a colossali bevute in compagnia, proposta dal nostro sempre con il sorriso sulle labbra ma che dietro una maschera di disimpegno celava una solida capacità nel songwriting, ed i suoi pezzi venivano eseguiti sempre con l’aiuto di musicisti preparatissimi.

Walker era anche un cantautore atipico, dal momento che alcuni dei suoi brani più noti erano stati scritti da altri artisti all’epoca non ancora famosi (come L.A. Freeway di Clark, Up Against The Wall Redneck Mother di Ray Wylie Hubbard e London Homesick Blues di Gary P. Nunn), mentre la sua canzone più famosa in assoluto, ovvero la splendida Mr. Bojangles (che parlava di un ex ballerino di tip-tap alcolista e galeotto, non si sa se inventato o ispirato ad una persona reale), era stata portata al successo nel 1970 dalla Nitty Gritty Dirt Band. Due cose che molti non sanno sono che Walker in realtà si chiamava Ronald Clyde Crosby e che era texano solo d’adozione, essendo di origini newyorkesi. Nella Grande Mela il giovane Crosby (il nome d’arte lo prenderà solo nel 1966) mosse anche i primi passi artistici dopo una breve parentesi a Philadelphia con un gruppo chiamato The Tones, esibendosi nel Greenwich Village prima come folksinger e poi a capo di una band chiamata Circus Maximus, con la quale pubblicò anche due album.

Stabilistosi ad Austin dopo un pellegrinare che lo aveva portato anche a New Orleans ed in Florida, JJW pubblicò nel 1968 il suo debut album Mr. Bojangles con l’aiuto di David Bromberg ed altri sessionmen di nome, disco che lo fece subito notare come autore di estremo interesse grazie anche alla title track che, oltre che della Nitty Gritty, attirerà le attenzioni anche di un certo Bob Dylan che la inciderà durante le sessions di Self Portrait (e la Columbia la pubblicherà nel 1973 all’interno dell’album-rappresaglia Dylan). In pochi anni Walker divenne una leggenda texana, in parte grazie alle sue imperdibili esibizioni dal vivo con la Lost Gonzo Band (il live Viva Terlingua! del 1973 è ancora oggi il suo disco più famoso) ed in parte per merito di album splendidi come Jerry Jeff Walker, Ridin’ High, A Man Must Carry On, It’s A Good Night For Singin’ e Contrary To Ordinary, tutti usciti all’epoca per la MCA e ristampati di recente dall’australiana Raven.

Dopo un paio di buoni lavori per la Elektra (Jerry Jeff, 1978, e Too Old To Change, 1979) ed il ritorno alla MCA, a metà anni ottanta Jerry fondò una sua etichetta, la Tried & True, mettendo a capo la moglie Susan Streit. Diventato ormai un artista di riferimento per molti musicisti venuti dopo di lui (Todd Snider, che ha pure inciso un intero album con le sue canzoni, credo che abbia una sua foto sul comodino vicino al letto https://www.youtube.com/watch?v=5QdWpab_kFg ), Walker continuerà a pubblicare ottimi dischi di puro country-rock texano, titoli come Viva Lukenbach (1994, seguito ideale di Viva Terlingua ed altro splendido live), Night After Night, Scamp, Gonzo Stew, Jerry Jeff Jazz, il solare e “buffettiano” Cowboy Boots And Bathing Suits (concepito dal nostro nella sua casa di villeggiatura in Belize), fino all’inatteso ritorno It’s About Time di due anni fa, a ben nove anni dall’album precedente https://discoclub.myblog.it/2018/07/21/come-da-titolo-era-ora-jerry-jeff-walker-its-about-time/ .

Il prossimo disco di Jerry Jeff Walker sarà quindi ad esclusivo beneficio di angeli e santi, anche se ho già idea di quale sarà il titolo: Gonzo’s Paradise.

Marco Verdi

Arriva Il Blues, Con Una Valanga Di Amici! Joe Louis Walker – Blues Comin’ On

joe louis walker blues comin' on

Joe Louis Walker – Blues Comin’ On – Cleopatra Blues

Anche se nell’ambito del blues, causa sempre tardivi debutti, si viene spesso considerati “giovani” anche in età matura, è pur vero che Joe Louis Walker ormai i 70 anni li ha raggiunti e anzi il giorno di Natale del 2020 ne compie 71, per cui possiamo inserirlo a diritto nella categoria veterani. Nativo di San Francisco, era già attivo nella scena musicale della Bay Area negli anni ‘60, insieme al suo compagno di stanza ed amico Mike Bloomfield, suonando sin da allora sul palco con i grandi, John Lee Hooker, Willie Dixon, Muddy Waters, anche Jimi Hendrix, poi dopo una lunga parentesi seguita al conseguimento della laurea, si è dedicato ad altre attività, pur mantenendo una passione per il gospel, fino al suo ritorno con il primo lavoro solista del 1986, il notevole Cold Is The Night. Da allora non si è più fermato e attraverso una ventina di album, spesso ottimi e alcuni che sfioravano l’eccellenza assoluta, si è costruito la reputazione di uno dei migliori chitarristi e vocalist della “nuova” scena blues, diciamo la terza generazione, quella più elettrica ed influenzata profondamente anche dal rock.

Blues Comin’ On è il secondo album che esce per la Cleopatra Blues (uhm!) dopo il DVD+CD dello scorso anno Viva Las Vegas Live: come è usanza della etichetta californiana Walker è stato circondato da un impressionante numero di ospiti per questo nuovo disco e perfino i miei amici della Cleopatra non sono riusciti a fare troppi danni. Non è tutto oro che cola quello che esce dai dodici brani del CD, ma si tratta di un album consistente e che conferma l’eclettico approccio del nostro alle 12 battute, con ampie concessioni al rock, al soul, al R&B e al funky, e magari non si raggiungono i livelli di Everybody Wants A Piece nominato ai Grammy nel 2016 https://discoclub.myblog.it/2015/10/13/il-solito-joe-louis-walker-quindi-bello-everybody-wants-piece/  o dei due precedenti usciti per la Alligator, ma siamo di fronte ad una prova più che soddisfacente. Non è dato di sapere quando e dove è stato registrato il tutto, ma visto che i nomi dei musicisti che suonano nei brani sono abbastanza ricorrenti, in particolare il bassista John Bradford e il batterista Dorian Randolph, con Eric Finland alle tastiere, si ha l’impressione che non si tratti dal solito materiale raffazzonato che spesso la Cleopatra assembla, ma di un progetto definito.

Certo la pletora di ospiti difficilmente si sarà trovata insieme per incidere lìalbum, ma il risultato finale, come detto, è sovente di ottima qualità: Walker in alcune interviste ha detto che il testo del brano di apertura Feed The Poor, che tocca temi sociali, era di Jorma Kaukonen, ma leggendo i credits sul CD vengono riportati come autori Gabe Jagger e Joe Louis Walker, comunque questo non inficia il livello del brano, uno dei migliori, tra rock, soul e derive psych. con il vecchio Hot Tuna sempre gagliardo alla solista, spesso in modalità wah-wah. Molto bella anche la title track, firmata da Dion Dimucci, in pieno trip creativo dopo il suo recente album https://discoclub.myblog.it/2020/06/17/un-altro-giovanotto-pubblica-uno-dei-suoi-migliori-album-di-sempre-dion-blues-with-friends/ , che divide anche la parte vocale con Walker, mentre alla chitarra solista troviamo un ispirato e pungente Eric Gales, aiutato da Waddy Wachtel, senza dimenticare Tom Hambridge alla batteria; Someday, Someway è una gradevole e melliflua gospel soul ballad cantata in duetto con Carla Cooke, la figlia del grande Sam, niente per cui stracciarsi le vesti, benché Lee Oskar dei War fa del suo meglio all’armonica.

E anche il super funky The Thang firmato dallo stesso JLW, al di là di alcune gagliarde evoluzioni chitarristiche di Jesse Johnson, vecchio chitarrista dei Time di Prince, non resterà negli annali, decisamente meglio l’elettroacustica Old Time Used To Be, dove il nostro unisce le forze con Keb’ Mo’ alla slide e John Sebastian all’armonica, in blues che profuma di blues delle radici, grazie anche al contributo di Bruce Katz al piano (pard di Joe nel recente Journeys To The Heart Of The Blues https://discoclub.myblog.it/2020/06/17/un-altro-giovanotto-pubblica-uno-dei-suoi-migliori-album-di-sempre-dion-blues-with-friends/ ). Anche Come Back Home è l’occasione per riascoltare il vecchio leone di Detroit Mitch Ryder, ancora in gran forma in un ficcante brano tra errebì e rock, non male anche il Chicago Blues di Bobby Rush Bowlegged Woman, Knock-Kneed Man dove Walker ci dà dentro di gusto con i colleghi Waddy Watchel, Rick Estrin e Bruce Katz, mentre non resto convinto a fondo neppure dal secondo contributo di Carla Cooke, una Wake Me, Shake Me, cantata bene, ma a tratti troppo “leccata”, al di là di un ottimo solo di JLW.

Lonely Weekends, il classico di Charlie Rich, prevede la presenza di David Bromberg, un country blues got gospel molto godibile anche se irrisolto, non si capisce perché dopo tre minuti l’ultima parte viene sfumata per oltre un minuto, misteri della Cleopatra; Seven More Steps è l’occasione per ascoltare una inedita accoppiata con Albert Lee, in un buon pezzo di impronta rock, e anche la pur sanguigna Uptown To Harlem, l’ospitata con l’altro ex componente dei Time Jellybean Johnson, non brilla per originalità. Temevo il peggio per la cover finale di 7 & 7 Is il classico dei Love, vista la presenza come vocalist aggiunto di Charlie Harper, il vecchio cantante del gruppo punk UK Subs, che francamente mi chiedevo cosa c’entrasse, e invece risulta uno dei brani migliori del disco, grazie anche alla presenza come secondo solista del grande Arlen Roth, e che conferma il buon livello complessivo del CD, a parte quei pochi piccoli passi falsi, avvalorando la statura di artista di culto di Joe Louis Walker.

Bruno Conti

Ma Allora Qualche Disco “Fisico” Esce Ancora…E Che Disco! David Bromberg Band – Big Road

david bromberg band big road

David Bromberg Band – Big Road – Red House CD/DVD

Il maledetto Covid-19 ha completamente stravolto, oltre alle nostre vite, anche il mercato discografico, con album che dovevano uscire a breve e che sono stati rimandati ad estate inoltrata o a data da destinarsi ed altri che sono stati anticipati ma solo in formato download. Per quanto riguarda le uscite “fisiche” (almeno quelle che interessano a noi) il mese di aprile è stata un’ecatombe, con i nuovi lavori di Joe Bonamassa e Lucinda Williams come uniche novità di un certo livello (oltre al CD di cui mi occupo tra poco), e maggio non si presenta sotto i migliori auspici, con Willie Nile, Steve Earle e Jimmy Buffett tra le poche “release” di rilievo al momento confermate (oltre ai già recensiti Dream Syndicate, usciti il primo del mese corrente) https://discoclub.myblog.it/2020/04/21/un-album-spiazzante-sicuramente-difficile-ma-affascinante-the-dream-syndicate-the-universe-inside/ , mentre negli anni passati il bimestre appena citato necessitava di un extra budget per gli acquisti. Tra gli album pubblicati in questo periodo c’è anche questo Big Road, nuovissimo lavoro del grande David Bromberg e della sua band, il quinto da quando l’esimio musicista e musicologo nativo di Philadelphia si è rimesso a fare musica dopo quasi due decadi di assenza durante i quali si era reinventato come produttore e venditore di strumenti musicali a corda.

L’acustico Try Me One More Time del 2007 aveva sancito il ritorno di Bromberg a 18 anni da Sideman Serenade, ma la vera e propria rentrée David l’aveva fatta con gli elettrici e splendidi Use Me e Only Slightly Mad, due album ai livelli eccelsi dei primi anni settanta, mentre l’ultimo CD uscito nel 2016, The Blues, The Whole Blues And Nothing But The Blues, era come da titolo un’ottima full immersion nelle varie sfaccettature delle dodici battute https://discoclub.myblog.it/2016/10/25/il-titolo-dice-quasi-poi-ci-pensa-david-bromberg-band-the-blues-the-whole-blues-and-nothing-but-the-blues/ . Il nuovo Big Road vede invece il nostro alle prese con i vari generi con i quali ci ha abituato a trattare, essendo lui una vera e propria enciclopedia ambulante in materia di folk, blues, rock’n’roll, country, bluegrass, gospel, R&B e chi più ne ha più ne metta, in pratica un tesoro nazionale per quanto riguarda la musica americana, che andrebbe salvaguardato nella Biblioteca del Congresso: ai suoi livelli di cultura e competenza musicali ho sempre visto solo Ry Cooder, ed infatti uno dei miei sogni nel cassetto (che temo rimarrà tale) è sempre stato un album collaborativo tra i due. Nel frattempo quindi “accontentiamoci” di Big Road, ennesimo lavoro splendido di una carriera che non ha mai visto una pubblicazione sottotono, anche se qui siamo parecchio vicini ai suoi album più leggendari come Demon In Disguise, Wanted Dead Or Alive e Midnight On The Water, e come minimo sullo stesso piano sia di Use Me che di Only Slightly Mad se non addirittura un gradino più in alto.

Per la terza volta consecutiva la produzione è nelle sapienti mani di Larry Campbell, ormai un nome sul quale contare ad occhi chiusi per quanto riguarda un certo tipo di musica roots, ed il gruppo che accompagna David è formato dai soliti musicisti formidabili che rispondono ai nomi di Mark Cosgrove (chitarre e mandolino), Nate Growler (mandolino e violino), Josh Kanusky (batteria) e Suavek Zaniesienko (basso), mentre contribuiscono al suono anche lo stesso Campbell alla steel, il pianista e organista Don Walker ed una sezione fiati di quattro elementi. Ma il vero protagonista è chiaramente Bromberg, che ci delizia per quasi un’ora con la sua proverbiale abilità di polistrumentista e con il consueto mix di brani originali (pochi, solo due su dodici) e cover di brani che hanno diverse decadi sulle spalle, non molto noti ma riletti in maniera straordinaria e con gli interplay strumentali tra i vari musicisti che sono uno spettacolo nello spettacolo. Il disco si apre con la title track, un brano di Tommy Johnson che Bromberg aveva già inciso su Try Me One More Time ma che sentiva il bisogno di rifare con una band alle spalle: aveva ragione, in quanto ci troviamo davanti ad un blues potente che in un certo senso riprende il cammino interrotto con l’album precedente, con il leader che canta con voce grintosa e la sezione ritmica che non manca di pestare con una certa forza, mentre violino e fiati aggiungono un sapore di old time music.

Di tenore completamente diverso Lovin’ Of The Game (brano di Pat e Victoria Garvey già inciso in passato da Jerry Jeff Walker e Judy Collins), splendida canzone country & western dal ritmo sostenuto e melodia deliziosamente tipica, con goduriosi assoli di steel, mandolino e fisarmonica: Bromberg non ha mai fatto un disco totalmente country, ma sono convinto che se lo facesse il risultato finale si avvicinerebbe molto alle fatidiche cinque stelle. Just Because You Didn’t Answer, scritta da Thom Bishop, è un lentaccio romantico e malinconico in puro stile sixties, un genere atipico per David che però se la cava alla grande (sembra quasi che la voce migliori col passare degli anni), rilasciando anche uno squisito assolo chitarristico subito doppiato dal violino di Grower e dal pianoforte di Walker: davvero brillante. George, Merle & Conway, uno dei due brani firmati da Bromberg (e dedicato ovviamente a George Jones, Merle Haggard e Conway Twitty), è uno strepitoso honky-tonk classico suonato con un feeling incredibile dalla DBB, con la steel di Campbell che si unisce al giubilo generale e David che canta con tono da consumato countryman e ci regala anche un efficace assolo acustico: uno splendore; Mary Jane è un traditional poco noto che vede il nostro esibirsi in perfetta solitudine, voce e chitarra, per una folk tune delicata ed intensa, mentre la breve Standing In The Need Of Prayer è un vecchio gospel per sole voci con Bromberg leader e gli altri quattro membri del gruppo ai cori e battito di mani ritmico, e per un attimo siamo trasportati in una chiesa del profondo Mississippi.

The Hills Of Isle Au Haut è un capolavoro: si tratta di un’oscura folk song di Gordon Bok che David trasforma in un fantastico country-rock elettroacustico guidato da un motivo splendido ed un train sonoro formidabile (Campbell si è davvero superato alla produzione), ottenendo una delle canzoni più belle uscite quest’anno. E’ la volta di un medley strumentale nel quale i nostri passano da Maiden’s Prayer, uno squisito honky-tonk dall’andamento malinconico e con ottimi assoli di mandolino, violino e chitarra acustica, a Blackberry Blossom e Katy Hill, due fiddle tunes che aumentano notevolmente il ritmo e portano il CD su territori bluegrass, con la particolarità che in Katy Hill il violino è sostituito da un trio di mandolini suonati all’unisono. E veniamo al “piece de resistance” del disco (e secondo brano scritto da David), ovvero Diamond Lil, un pezzo epico della durata di dieci minuti che il nostro aveva già pubblicato nel 1972 su Demon In Disguise ma che qui trova la sua veste definitiva: una rock ballad dal motivo toccante con chitarre, piano e violino in evidenza ed uno sviluppo fluido e rilassato, dove si nota il piacere del gruppo nel suonare ed improvvisare insieme (piacere che ovviamente si trasmette alle nostre orecchie).

L’album non molla un attimo, e con Who Will The Next Fool Be? (di Charlie Rich) siamo in una terra di mezzo tra blues e jazz, una raffinata ballata suonata con grande classe e potenziata dai fiati che qui assumono il ruolo di co-protagonisti, mentre Take This Hammer è una prison song scritta da Leadbelly che i nostri tramutano in un irresistibile e ritmato bluegrass, dandoci uno dei pezzi più coinvolgenti del CD; chiusura con Roll On John (canzone del 1946 che Bromberg ha imparato da John Herald quando era membro dei Greenbriar Boys), un incantevole brano che mescola folk e country e presenta due deliziosi interventi di mandolino e fisarmonica. Big Road è più di un grande disco, è un viaggio imperdibile nel cuore della musica americana, con una guida come David Bromberg a rendere la gita ancora più magica: avete presente le cinque stelle di cui parlavo prima? Bene, qui non siamo molto distanti.

Marco Verdi

P.S: il CD esce con allegato un DVD che comprende un documentario sulle sessions e la performance live in studio di cinque brani del disco: anche l’occhio vuole la sua parte!

 

Per La Prima Volta In Versione Acustica. Bob Margolin – This Guitar And Tonight

bob margolin this guitar and tonight

Bob Margolin – This Guitar And Tonight – VizzTone Label Group

Bob Margolin ha anche lui tagliato quest’anno il traguardo dei 70 anni (come molti altri nel 2019, uno per tutti Bruce Springsteen) ma non dà segnali di voler rallentare la sua attività discografica, in questo aiutato dal fatto di essere uno dei manager e soci fondatori della VizzTone, quindi una etichetta che gli pubblica gli album sicuramente non gli manca. Non è che comunque il nostro se ne approfitti più di tanto, visto che questo è solo il quinto album della decade in corso, inclusi uno in coppia con Ann Rabson e un Live accompagnato dagli italiani della Mike Sponza Band. Ma dopo quasi i cinquant’anni trascorsi dalla sua lunga militanza come sideman di Muddy Waters e i circa trenta dal suo primo disco, questo This Guitar And Tonight è il primo album acustico della sua discografia: solo voce, la sua fedele Gibson L-00 degli anni ’30, dal suono cristallino e un paio di “aiutini” di Jimmy Vivino e Bob Corritore (con cui collabora nei Bobs Of The Blues).

Astutamente, nelle note dell’album, Margolin ricorda che Muddy Waters, quando gli chiese se preferiva le chitarre acustiche o quelle elettriche, gli rispose “Cue-Stick! Electric Is An Unfriendly Sound!”.  Cue-Stick, stecca da biliardo, è il termine gergale con cui si indica una chitarra acustica, peccato che comunque Waters abbia praticamente sempre suonato in modalità elettrica nel corso della sua carriera. Ma è come disquisire sul sesso degli angeli, considerando che alla fine This Guitar And Tonight è un ottimo album: la voce, con l’età, ha acquisito una autorevolezza ed una intensità che forse prima non aveva, e anche la parte strumentale, per quanto scarna e asciutta è estremamente efficace, tanto che qualcuno lo ha addirittura paragonato ai dischi di Son House. La title track apre le operazioni, si tratta del duetto con Jimmy Vivino, che suona una chitarra dalla strana accordatura che sembra quasi un mandolino, l’atmosfera sonora è quella dei dischi Blues classici degli anni ’20, ma senza i fruscii, i crepitii delle vecchie registrazioni, arcano ma “moderno” al contempo.

Tutte le canzoni sono state scritte da Bob per l’occasione, ma ovviamente seguono gli stilemi e i contenuti testuali delle 12 battute classiche, prendiamo Evil Walks In Our World, i pericoli oltre che dalle solite fonti vengono anche dalle fake news, dal riscaldamento globale e dalle diavolerie dell’epoca moderna, con quelle che sembrano due chitarre in azione, una in modalità slide; bottleneck in azione anche nella minacciosa Over Time, mentre Dancers Boogie è un intricato brano quasi a tempo di ragtime, con Blues Lover, direi una dichiarazione di intenti, scritta con Mark Kazanoff, e con Bob Corritore che aggiunge la sua armonica, in un brano che profuma di vecchi vinili di Sonny Terry e Brownie MCGhee. Good Driving Song, dall’andatura ondeggiante è uno strumentale dove Margolin dimostra tutta la sua tecnica sopraffina, ma anche un feeling innato per il blues acustico, come ribadisce l’approccio minimale alla materia profuso nel talking blues di I Can’t Take Those Blues Away, che con il suo cantato laconico ed ironico ricorda certe cose del collega David Bromberg. In Together forse la parte cantata è un po’ sforzata e sopra le righe, ma è un peccato veniale, prima della conclusione affidata alla lunga e vivace, almeno  a livello musicale Predator, che ha un riff che secondo me farebbe un figurone in veste elettrica, mentre ripercorre in un altro talking blues le vicende dell’epoca di JF Kennedy e poi il suo incontro con il suo mentore il grande Muddy Waters e le loro vicende intrecciate, che vengono ricordate con affetto quasi reverenziale.

Bruno Conti

Il Tassello Mancante (In CD) Di Una Splendida Carriera. David Bromberg – Long Way From Here

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David Bromberg – Long Way From Here – Wounded Bird/Concord CD

Negli anni dal 1971 ad oggi quasi tutti i dischi pubblicati da David Bromberg, uno dei più brillanti musicisti e musicologi americani di sempre, sono poi stati ristampati in CD, anche se non dovete aspettarvi di trovarli nel negozio sotto casa. Vi era però un’eccezione, e cioè l’album Long Way From Here, uscito originariamente nel 1986, mancanza alla quale la Wounded Bird ha finalmente riparato un paio di mesi fa, con una riedizione senza bonus tracks ma con una rimasterizzazione perfetta. Long Way From Here è sempre stato un episodio particolare nella discografia del musicista nato a Philadelphia, in quanto pubblicato in origine dalla Fantasy per concludere il contratto con David, ed utilizzando materiale inedito registrato tra il 1976 ed il 1979, e senza l’autorizzazione dell’artista stesso. Un lavoro quindi molto poco considerato da Bromberg, ma in generale anche dai suoi estimatori, che però si rivela essere in realtà un disco coi fiocchi, non di certo inferiore agli album pubblicati all’epoca di queste incisioni (Reckless Abandon, Bandit In A Bathing Suit e My Own House). La Fantasy non aveva voluto danneggiare l’artista (al contrario di quanto fatto ad esempio dalla Columbia nel 1973 con Bob Dylan, allorquando aveva pubblicato la raccolta di scarti Dylan come rappresaglia a seguito del passaggio di Bob alla Asylum), ma bensì omaggiarlo con un’ultima testimonianza della sua arte.

Long Way From Here è in gran parte un album dal vivo, in quanto ben sette brani su dieci sono stati registrati tra Denver e San Francisco, ma si tratta comunque di canzoni che David non aveva mai messo su dischi precedenti (mentre i restanti tre pezzi sono inediti di studio): il disco funziona comunque alla grande, non suonando per nulla frammentario ma quasi come se fosse il prodotto di un’unica session. Ad accompagnare David c’è la sua band dell’epoca, che comprende vere e proprie eccellenze come Dick Fegy alla chitarra, George Kindler al violino, Hugh McDonald e Lance Dickerson rispettivamente al basso e batteria, oltre ad una splendida sezione fiati protagonista in gran parte dei brani, e che vede tra i vari componenti Peter Ecklund, John Firmin e Curtis Linberg. L’album parte con la trascinante The Viper, un movimentato pezzo scritto da Charles McPherson e suonato in puro stile jazz-swing, con i fiati sugli scudi, ritmo alto e deliziosi assoli di David all’acustica e Fegy all’elettrica (ma anche ogni altro strumento presente ha una parte solista): irresistibile. Loaded And Laid, di David McKenzie, è una country song dal deciso sapore vintage, alla quale i fiati donano un mood jazzato, con David che canta con la sua caratteristica voce modulata ed il gruppo che lo segue con classe sopraffina; Kitchen Girl è uno strumentale che vede all’opera solo Bromberg e Kindler entrambi al violino e Fegy al banjo, un bluegrass tradizionale che si muove a metà tra America ed Irlanda, un’altra notevole prova di bravura.

Long Afternoons è una delicata ballata di Paul Siebel, profonda e distesa, cantata dal nostro con voce confidenziale ed accompagnata in punta di dita dalla band, mentre Jelly Jaw Joe, primo brano firmato da David, è uno degli highlights del disco, una saltellante folk song in cui il leader più che cantare parla (e qui essere di madrelingua aiuterebbe), ma con una parte strumentale splendida che si trascina senza annoiare per quasi dieci minuti, in puro stile old-time music. Nashville Again, ancora di Siebel, è una limpida e toccante country ballad, ovviamente suonata benissimo, Suffer To Sing The Blues (seconda canzone originale) è come suggerisce il titolo un blues annerito e con i fiati ancora in prima fila, un pezzo decisamente godibile e dallo sviluppo disteso, con David che dice la sua anche alla chitarra elettrica in un coinvolgente botta e risposta con la tromba di Ecklund. Davvero squisita anche When I Was A Cowboy, country song dal bel ritornello corale (c’è anche la moglie di Bromberg, Nancy) ed ottimi assoli di chitarra elettrica, sia normale che slide; il disco si chiude con il noto standard folk-blues Make Me A Pallet On The Floor, riletto in maniera splendida e con un uso sensazionale dei fiati (sentire per credere), e con la gentile Trying To Get Home, una gentile ballata acustica che è anche l’ultimo dei tre pezzi scritti dal nostro.

Scommetto che scavando a fondo tra gli archivi di David Bromberg almeno un altro album del livello di Long Way From Here può sicuramente saltare fuori, ma al momento accontentiamoci di questo (ed è certamente un bel accontentarsi).

Marco Verdi

Una Chitarra (E Una Voce) Che Vivono Lo Spirito Del Blues! Tas Cru – Simmered And Stewed

tas cru simmered & stewed

Tas Cru – Simmered And Stewed – VizzTone

 All’incirca un annetto fa “usciva” You Keep The Money, l’ultimo album di Tas Cru, un veterano della scena blues dell’area di New York, anche se poi il disco, come vi riferivo nella recensione, era in effetti in faticosa circolazione da parecchio tempo. Ma ottime recensioni ne hanno incrementato le vendite, tanto da risultare uno dei dischi blues più venduti e con le migliori critiche nel 2016. Nel frattempo la VizzTone (l’etichetta di Bob Margolin che recentemente ha pubblicato anche le ottime prove di Austin Young e Nancy Wright) lo ha messo sotto contratto e questo Simmered And Stewed, il suo 7° disco di studio, è il risultato di questa alleanza per le 12 battute. Tas Cru nel nuovo CD privilegia, a tratti, pure un approccio più raccolto alla materia, ma in altri più ricco e corposo, impegnato oltre che alla elettrica, anche alle resonator e cigar box guitars, nonché  all’acustica. Quello che non gli manca, come sempre, è l’arguzia e l’ironia nei testi delle sue canzoni (un tratto che mi ricorda quello di David Bromberg): una delle migliori è Tired Of Bluesmen Cryin’ , un classico bluesaccio elettrico che parte lento e poi si scatena in tutti i sensi, con folate di resonator slide, ficcanti armonie vocali, l’uso dell’armonica dell’ottimo Dick Earl Ericksen e del piano di Chip Lamson, degni compari di Cru in questa divertente presa per i fondelli degli stereotipi dei bluesmen che devono piangere a tutti i costi nelle loro canzoni.

Anche Dat Maybe, posta in apertura, applica la stessa formula di un blues sanguigno e tirato, slide impazzita, le coriste pure, la ritmica picchia di gusto, l’armonica sottolinea e il nostro canta con forza, impeto e passione. Ma anche quando un insinuante pianino honky-tonk si prende il proscenio, come nella swingante Grizzle’n’Bone, Tas Cru ha sempre tutto sotto controllo, la sua band viaggia a cento all’ora, tra giri di blues forsennati, le solite coriste assatanate, chitarre acustiche ed elettriche gettate con misura nel sound d’assieme, dove anche l’organo hammond fa capolino all’occorrenza. Feel I’m Falling è un esempio di quel blues più raccolto, ma ricco di atmosfera, con la strumentazione meno in evidenza, però sempre con arrangiamenti di grande classe, comunque pronti ad ampliare a comando lo spettro sonoro dei brani, che in ogni caso anche in questo pezzo è complesso e di notevole impatto, qualcuno ha parlato di hill country blues per questo pezzo. Anche nell’elettroacustica Time And Time, una splendida blues ballad dal fascino incontaminato, si conferma l’abilità di Tas Cru come songwriter, uno che non scrive mai canzoni banali, ricche comunque di piccoli tocchi sonori geniali, come la vena gospel che viene utilizzata nel brano in questione, cantato con grande trasporto e con deliziosi attimi di finezza della sua chitarra. Road To My Obsession è una canzone autobiografica sulla sua passione per il blues, “play them blues, anytime, and most anywhere!”, un ritmo funky, le solite coriste impegnate e impregnate dal classico call and response, una solista guizzante e il gioco è fatto ancora una volta, mentre Biscuit che si apre per sola voce e armonica poi riparte sparata per un’altra sana razione di blues elettrico, incalzante e senza freni: bisogna dirlo, è proprio bravo questo signore.

In Cover My Love tutti in trasferta per un’altra dose di urgente blues urbano, da New York a Chicago senza sforzo apparente, divertimento e grinta sempre presenti; Woman Won’t You Love Me è un ondeggiante country-blues con tratti R&B e un flavor sonoro quasi alla New Orleans, grazie a piano e resonator, non so cosa ho detto, ma ha senso. Just Let It Happen è un altro dei brani che gioca sul lavoro di sottrazione per creare interesse, suono acustico, con chitarra, contrabbasso, piano e le immancabili armonie vocali che gli donano uno spirito molto old fashioned e chic; di Tired Of Bluesmen Crying abbiamo detto, per concludere rimane una bella versione del classico errebi di Jackie Wilson (Your Love Keeps Lifting Me) Higher And Higher, che perde parte del suo spirito giubilante e trascinante per trasformarsi in una sorta di blues del Delta, rallentato ad arte, ma sempre con elementi gospel grazie alle presenza delle voci femminili, musicalmente un lavoro di questo tipo avrebbe potuto farlo il miglior Ry Cooder, bellissima versione, affascinante ed inconsueta, anche se poi, giustamente, nel finale la canzone lentamente riacquista il suo spirito originale, grazie ad un crescendo splendido, dove Tas Cru distilla dalla sua chitarra lo spirito del Blues. Di cui, mi sento di dire, questo signore attualmente è una delle voci più interessanti in circolazione.

Bruno Conti

Dal Rock Al Blues E Oltre! Jonah Tolchin – Thousand Mile Night

jonah tolchin thousand mile night

Jonah Tolchin – Thousand Mile Night – Yep Roc CD

Jonah Tolchin, musicista originario del New Jersey, pur solo con due dischi alle spalle si può definire un artista completo. Il suo primo amore di gioventù è stato il blues, complice anche un’esperienza indimenticabile allorquando il grande Ronnie Earl lo vide esibirsi in un negozio di dischi e lo invitò con lui on stage, ma nei suoi primi due album (e tre EP) Jonah ha palesato anche influenze folk, rock e country, attirando l’attenzione anche di un esperto come Marvin Etzioni (ex bassista dei Lone Justice), che gli ha prodotto nel 2014 il secondo album, quel Clover Lane che ha incontrato i favori un po’ di tutti, e che vedeva ospiti del calibro di Steve Berlin, Mickey Raphael e John McCauley (leader dei Deer Tick). Thousand Mile Night, che vede ancora Etzioni in consolle, è il terzo e nuovo lavoro di Tolchin, e devo dire che le promesse fatte con Clover Lane sono state mantenute: Jonah ha messo infatti a punto un album molto coeso, con nove canzoni di buon valore ed una cover eccellente, un disco che, pure senza ospiti famosi (oltre ad Etzioni, solo Joachim Cooder, figlio di Ry, alla batteria in alcuni brani), fonde mirabilmente rock, folk ed anche un pizzico di blues, il tutto all’insegna di una strumentazione molto classica, con chitarre e organo spesso in primo piano, e della voce particolare del leader.

Un album serio e ben costruito, ma nello stesso tempo diretto e godibile, che prosegue in maniera logica e senza strattoni il percorso iniziato dal ragazzo nel 2011 con il suo primo EP, Eldawise. L’album tra l’altro è stato inciso ai mitici FAME Studios di Muscle Shoals, in Alabama, un luogo che fa tremare le gambe solo a nominarlo, ma Jonah ha assorbito bene tutte le vibrazioni positive della leggendaria  Beauty In The Ugliest Days dà il via, una ballata intensa e cantata con buon pathos da Jonah, che rivela una voce molto caratteristica: l’accompagnamento è classico, con Danny Roaman ottimo alla solista. La title track è invece un boogie elettroacustico un po’ stralunato ma assolutamente diretto, con il nostro che si dimostra bravo anche alla slide, mentre I Wonder è uno spedito e limpido folk-rock dylaniano di stampo tradizionale, un brano bello, godibile e vibrante: tre canzoni, tre stili diversi, il tutto senza risultare minimamente dispersivo. Completely è una ballata gentile, con un malinconico violino sullo sfondo https://www.youtube.com/watch?v=qHApGo1-SH0 , un intermezzo bucolico che prelude alla fluida Paint My Love, altro slow intenso, suonato con pochi strumenti (ma non ne servivano di più): un bell’esempio di cantautorato puro.

Bella anche Song About Home, ancora lenta, guidata da chitarra acustica, piano ed una leggera percussione, un arrangiamento che ricorda il Paul Simon meno contaminato, mentre Unless You Got Faith è più rock, con l’organo che le dona un sapore d’altri tempi. Niente male anche Where The Hell Are All Of My Friends, ancora tra folk e rock, un motivo denso e ben costruito, con Tolchin che se la cava ottimamente anche alla solista; Working Man Blues # 22 è invece un rock-blues elettrico e vigoroso, molto diverso da quanto proposto finora, ma di sicuro tra le tracce più riuscite. Il CD si chiude ancora all’insegna del blues, con la cover di Hard Time Killing Floor Blues di Skip James, ripresa da Jonah in maniera rigorosa, solo voce e chitarra, ma con il piglio del vero bluesman (come la farebbe uno del calibro di David Bromberg la cui voce ha tra l’altro dei punti in comune con quella di Tolchin). Se avete già Clover Lane e vi è piaciuto, questo Thousand Mile Night non potrà che confermare le vostre buone impressioni; se viceversa non avete ancora nulla di Jonah Tolchin, è il momento giusto per cominciare.

Marco Verdi