Purtroppo E’ Arrivato “Quel Tempo”, Da Venerdì Scorso Il Texas E’ Un Po’ Più Povero. A 78 Anni Se Ne E’ Andato Mr. Bojangles Jerry Jeff Walker.

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Oggi purtroppo devo dare la notizia di un altro lutto nel mondo della “nostra” musica, e cioè della scomparsa avvenuta venerdì 23 ottobre all’età di 78 anni del grande Jerry Jeff Walker, dovuta alle complicazioni causate da un cancro alla gola diagnosticatogli nel 2017. Pensavi a Walker e pensavi al Texas, in quanto il nostro è stato fin dalla fine degli anni sessanta uno dei più importanti ed influenti singer-songwriters di stampo country del Lone Star State, e facente parte di un immaginario club esclusivo i cui altri soci sono (ed erano) Willie Nelson, Waylon Jennings, Kris Kristofferson, Billy Joe Shaver, Guy Clark e Townes Van Zandt. Autore e performer estremamente divertente e coinvolgente, Walker è stato l’inventore e massimo esponente del cosiddetto “gonzo country”, un tipo di musica assolutamente scanzonata e spesso associata a colossali bevute in compagnia, proposta dal nostro sempre con il sorriso sulle labbra ma che dietro una maschera di disimpegno celava una solida capacità nel songwriting, ed i suoi pezzi venivano eseguiti sempre con l’aiuto di musicisti preparatissimi.

Walker era anche un cantautore atipico, dal momento che alcuni dei suoi brani più noti erano stati scritti da altri artisti all’epoca non ancora famosi (come L.A. Freeway di Clark, Up Against The Wall Redneck Mother di Ray Wylie Hubbard e London Homesick Blues di Gary P. Nunn), mentre la sua canzone più famosa in assoluto, ovvero la splendida Mr. Bojangles (che parlava di un ex ballerino di tip-tap alcolista e galeotto, non si sa se inventato o ispirato ad una persona reale), era stata portata al successo nel 1970 dalla Nitty Gritty Dirt Band. Due cose che molti non sanno sono che Walker in realtà si chiamava Ronald Clyde Crosby e che era texano solo d’adozione, essendo di origini newyorkesi. Nella Grande Mela il giovane Crosby (il nome d’arte lo prenderà solo nel 1966) mosse anche i primi passi artistici dopo una breve parentesi a Philadelphia con un gruppo chiamato The Tones, esibendosi nel Greenwich Village prima come folksinger e poi a capo di una band chiamata Circus Maximus, con la quale pubblicò anche due album.

Stabilistosi ad Austin dopo un pellegrinare che lo aveva portato anche a New Orleans ed in Florida, JJW pubblicò nel 1968 il suo debut album Mr. Bojangles con l’aiuto di David Bromberg ed altri sessionmen di nome, disco che lo fece subito notare come autore di estremo interesse grazie anche alla title track che, oltre che della Nitty Gritty, attirerà le attenzioni anche di un certo Bob Dylan che la inciderà durante le sessions di Self Portrait (e la Columbia la pubblicherà nel 1973 all’interno dell’album-rappresaglia Dylan). In pochi anni Walker divenne una leggenda texana, in parte grazie alle sue imperdibili esibizioni dal vivo con la Lost Gonzo Band (il live Viva Terlingua! del 1973 è ancora oggi il suo disco più famoso) ed in parte per merito di album splendidi come Jerry Jeff Walker, Ridin’ High, A Man Must Carry On, It’s A Good Night For Singin’ e Contrary To Ordinary, tutti usciti all’epoca per la MCA e ristampati di recente dall’australiana Raven.

Dopo un paio di buoni lavori per la Elektra (Jerry Jeff, 1978, e Too Old To Change, 1979) ed il ritorno alla MCA, a metà anni ottanta Jerry fondò una sua etichetta, la Tried & True, mettendo a capo la moglie Susan Streit. Diventato ormai un artista di riferimento per molti musicisti venuti dopo di lui (Todd Snider, che ha pure inciso un intero album con le sue canzoni, credo che abbia una sua foto sul comodino vicino al letto https://www.youtube.com/watch?v=5QdWpab_kFg ), Walker continuerà a pubblicare ottimi dischi di puro country-rock texano, titoli come Viva Lukenbach (1994, seguito ideale di Viva Terlingua ed altro splendido live), Night After Night, Scamp, Gonzo Stew, Jerry Jeff Jazz, il solare e “buffettiano” Cowboy Boots And Bathing Suits (concepito dal nostro nella sua casa di villeggiatura in Belize), fino all’inatteso ritorno It’s About Time di due anni fa, a ben nove anni dall’album precedente https://discoclub.myblog.it/2018/07/21/come-da-titolo-era-ora-jerry-jeff-walker-its-about-time/ .

Il prossimo disco di Jerry Jeff Walker sarà quindi ad esclusivo beneficio di angeli e santi, anche se ho già idea di quale sarà il titolo: Gonzo’s Paradise.

Marco Verdi

John Prine – Crooked Piece Of Time: The Atlantic And Asylum Albums 1971-1980. Un Cofanetto Doveroso Per Uno Dei Più Grandi Cantautori Americani, Esce il 23 Ottobre

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John Prine – Crooked Piece Of Time: The Atlantic And Asylum Albums 1971-1980 – ltd. ed. 7CD box set – Rhino

Quest’anno ad aprile ci ha lasciato John Prine, proprio a causa del Coronavirus che ha colpito un organismo già indebolito da varie altre problematiche di salute. Aveva 73 anni e il “Singing Mailman”, come era affettuosamente chiamato per i suoi trascorsi come postino (o anche il Mark Twain dei cantautori), era stato uno dei vari “Nuovi Dylan” ad affacciarsi sulla scena cantautorale americana dei primi anni ’70, e a differenza di un altro “nuovo Dylan” come Springsteen, lo è stato effettivamente, non un suo erede, ma per certi versi quasi un suo pari, con una gloriosa carriera ultracinquantennale, con una ventina di album di studio e cinque dal vivo, dal 1984 tutti pubblicati dalla sua etichetta Oh Boy.

Ma prima c’erano stati gli anni delle major, quattro dischi con l’Atlantic e tre con la Asylum : tutti molto belli, con due o tre capolavori, il primo omonimo, Sweet Orange e Bruised Orange, poi ognuno ha i suoi preferiti. I CD del periodo anni ’70 si trovano ancora in circolazione più o meno con facilità, ma non erano mai stati rimasterizzati in precedenza, per cui questo Crooked Piece Of Time (che era il titolo di una canzone di Bruised Orange), curato dagli specialisti della Rhino, cade a fagiuolo: il prezzo, al solito molto indicativo e variabile a seconda dei paesi, dovrebbe essere tra i 40 e i 50 euro. Si tratta pari pari dei sette album originali senza bonus, in una confezione arricchita da poster inserts (qualsiasi cosa voglia dire) più un libretto di 24 pagine a cura del giornalista David Fricke.

Come di consueto ecco la lista completa dei contenuti.

[CD1: John Prine]
1. Illegal Smile
2. Spanish Pipedream
3. Hello In There
4. Sam Stone
5. Paradise
6. Pretty Good
7. Your Flag Decal Won’t Get You Into Heaven Anymore
8. Far From Me
9. Angel From Montgomery
10. Quiet Man
11. Donald and Lydia
12. Six O’Clock News
13. Flashback Blues

[CD2: Diamonds In The Rough]
1. Everybody
2. The Torch Singer
3. Souvenirs
4. The Late John Garfield Blues
5. Sour Grapes
6. Billy the Bum
7. The Frying Pan
8. Yes I Guess They Oughta Name A Drink After You
9. Take The Star Out Of The Window
10. The Great Compromise
11. Clocks And Spoons
12. Rocky Mountain Time
13. Diamonds In The Rough

[CD3: Sweet Revenge]
1. Sweet Revenge
2. Please Don’t Bury Me
3. Christmas In Prison
4. Dear Abby
5. Blue Umbrella
6. Often Is A Word I Seldom Use
7. Onomatopoeia
8. Grandpa Was A Carpenter
9. The Accident (Things Could Be Worse)
10. Mexican Home
11. A Good Time
12. Nine Pound Hammer

[CD4: Common Sense]
1. Middle Man
2. Common Sense
3. Come Back To Us Barbara Lewis Hare Krishna Beauregard
4. Wedding Day In Funeralville
5. Way Down
6. My Own Best Friend
7. Forbidden Jimmy
8. Saddle In The Rain
9. That Close To You
10. He Was In Heaven Before He Died
11. You Never Can Tell

[CD5: Bruised Orange]
1. Fish And Whistle
2. There She Goes
3. If You Don’t Want My Love
4. That’s The Way That The World Goes ’Round
5. Bruised Orange (Chain Of Sorrow)
6. Sabu Visits The Twin Cities Alone
7. Aw Heck
8. Crooked Piece Of Time
9. Iron Ore Betty
10. The Hobo Song

[CD6: Pink Cadillac]
1. Chinatown
2. Automobile
3. Killing The Blues
4. No Name Girl
5. Saigon
6. Cold War (This Cold War With You)
7. Baby Let’s Play House
8. Down By The Side Of The Road
9. How Lucky
10. Ubangi Stomp

[CD7: Storm Windows]
1. Shop Talk
2. Living In The Future
3. It’s Happening To You
4. Sleepy Eyed Boy
5. All Night Blue
6. Just Wanna Be With You
7. Storm Windows
8. Baby Ruth
9. One Red Rose
10. I Had A Dream

Per gli appronfondimenti ed una disamina dei contenuti vi rimando dopo l’uscita prevista per il 23 ottobre.

Bruno Conti

Folk Elegante E Classico, Begli Intrecci Vocali, Da Sentire. The Other Favorites – Live In London

the other favorites live in london

The Other Favorites – Live In London – Last Triumph   

The Other Favorites sono un duo folk basato a Brooklyn, New York, formato da Josh Turner (che cura anche la parte tecnica delle registrazioni) e Carson McKee, autori di un paio di album autogestiti, e molto popolari su YouTube, tanto che questo Live In London, registrato il 20/8/2019 alla Bush Hall di Londra, è integralmente disponibile anche in video gratuito, appunto su YouTube. Se però siete amanti del supporto fisico il concerto è stato pubblicato pure in CD. I due sono entrambi eccellenti chitarristi e le loro armonizzazioni vocali sono godibilissime nei vari brani, che sono un giusto mix di composizioni originali e cover molto celebri o inconsuete. Turner in particolare ha portato in Tour anche uno spettacolo basato su Graceland di Paul Simon, e in passato aveva già lavorato anche sul repertorio di Simon & Garfunkel, che come si intuisce facilmente sono tra le maggiori influenze a livello stilistico degli Other Favorites: nel 2019 Turner ha anche pubblicato il suo primo album solista As Good A Place As Any. In due brani dell’album appaiono anche le brave vocalist Reina Del Cid e Toni Lindgren, entrambe provenienti dal Minnesota, che si esibiscono insieme e spesso anche con Turner e McKee, anche loro appassionate di Simon & Garfunkel.

A questo punto vi aspetterete che tra le cover del CD ci sia qualche brano di Simon, e invece troviamo una sorprendente rilettura in chiave country-bluegrass della splendida 1952 Vincent Black Lightning di Richard Thompson con Mckee che passa al banjo, per intricati interscambi strumentali con il pard,  Don’t Think Twice, It’s Alright di Dylan è abbastanza fedele all’originale, benché più suadente di quella di Bob, con Turner che è sempre la voce solista, con il suo timbro caldo e carezzevole su cui si innestano comunque le armonizzazioni dei due. The Tennesse Waltz è un classico della musica country ed è uno dei due pezzi dove appaiono la Del Cid e la Lindgren che elevano ulteriormente la qualità vocale della esibizione, con Reina che ha un timbro vocale veramente squisito, mentre The Parting Glass è un brano tradizionale irlandese cantato a cappella che alcune volte è apparso anche nel repertorio live di Ed Sheeran.

Non manca neppure una vibrante versione di Folsom Prison Blues di Johnny Cash, sempre con in evidenza la risonante voce di Joshua Turner che invece fisicamente ricorda Marcus Mumford, e per completare le cover, come ultimo brano arriva una sorta di competizione tra i quattro in una frenetica versione bluegrass di Dooley dei non dimenticati (?) Dillards. Anche il materiale originale non è affatto male: l’intricato strumentale iniziale di MKee confluisce nella delicata Angelina, mentre la mossa Solid Ground mi ha ricordato molto le prime e migliori canzoni più acustiche degli America, The Ballad of John McCrae è, ehm, una intensa ballata, inserita nella grande tradizione del country-folk, con intrecci ed interscambi vocali e strumentali tra i due veramente interessanti. Flawed Recording è più dolce e sognante, ma sempre godibile, con The Levee, l’ultimo brano originale, che è una incantevole canzone di stampo cantautorale. Nell’insieme un disco molto piacevole, se vi piacciono i Milk Carton Kids, magari meno raffinati e complessi e comunque quel tipo di folk elegante e classico questi The Other Favorites potrebbero fare per voi.

Bruno Conti

Un Futuro Fuorilegge Alle Prime Armi. Waylon Jennings – White Lightnin’

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Waylon Jennings – White Lightnin’ – Goldenlane/Cleopatra CD

Non sono un fan delle produzioni discografiche targate Cleopatra, etichetta indipendente californiana che si occupa di materiale d’archivio più o meno inedito: qualche buon prodotto negli anni lo ha pubblicato, ma anche ricicli di cose già uscite e spacciate per nuove o vere e proprie ciofeche, come il recente Joint Effort degli Humble Pie, compilato con materiale di scarto degli anni settanta non esattamente di prima qualità. Questo album intestato al grande countryman texano Waylon Jennings ed intitolato White Lightnin’ non è da considerarsi una fregatura, ma l’assenza di note nella confezione interna lascia (volutamente?) in sospeso l’ascoltatore occasionale sulla provenienza delle canzoni contenute. Alla fine White Lightnin’ è il classico segreto di Pulcinella, in quanto altro non è che la ristampa del primo album in assoluto del nostro, Waylon At JD’s del 1964 (che nonostante il titolo non è un disco dal vivo), al quale sono state aggiunte due canzoni che facevano parte di un raro singolo del 1959: diciamo quindi che questa volta la Cleopatra si è salvata dal giudizio del severo critico, in quanto comunque stiamo parlando di incisioni da tempo fuori catalogo e quindi difficilmente reperibili (ma la “cleopatrata” non manca neanche qui, in quanto sulla confezione vengono riportati dodici titoli invece dei quattordici che ci sono in realtà).

Il disco è dunque piacevole ed offre un interessante ritratto di gioventù di un musicista che negli anni settanta sarebbe diventato un grande del country ed uno degli esponenti di punta del movimento Outlaw. Qui Waylon non ha ancora uno stile ben preciso, alterna brani di classico country ad altri più rock’n’roll, ed in più si affida unicamente a materiale già noto in versioni altrui: il risultato finale è comunque piacevole ed interessante, ed in tutta onestà non mi sento di sconsigliarne l’acquisto, specie per quanto riguarda i fan del nostro. L’album inizia proprio con i due pezzi del singolo del ‘59, il primo in assoluto per Waylon, entrambi con la chitarra e la produzione del mitico Buddy Holly (non dimentichiamo che Jennings all’epoca era uno stretto collaboratore di Buddy, e per puro caso non salì su quel maledetto aereo la sera di quel tragico 3 Febbraio 1959): When Sin Stops è un incrocio tra pop e doo-wop tipico per l’epoca, molto diversa dallo stile futuro del nostro anche se il vocione è già quello, mentre Jole Blon è una versione lenta del noto standard, con il sax strumento solista. Le altre dodici canzoni fanno parte come ho già scritto di Waylon At JD’s, e vedono il nostro a capo di un quartetto che comprende lui stesso alla chitarra solista (Waylon è sempre stato un ottimo chitarrista), Gerald W. Gropp alla ritmica, Paul Foster al basso e Richard Albright alla batteria.

Come già detto si tratta di un disco di cover, con ben due omaggi a Roy Orbison, Crying e Dream Baby, più essenziali nel suono e senza gli arrangiamenti orchestrali tipici di The Big O, con Waylon che pur non avendo l’estensione vocale dell’occhialuto cantante suo conterraneo se la cava egregiamente. Deliziosa invece Don’t Think Twice, It’s Alright, il classico di Bob Dylan ripreso in una spedita rilettura country alla Johnny Cash, e decisamente piacevole anche White Lightnin’, divertente rilettura del noto successo di George Jones (scritta da J.P. Richardson, ovvero il Big Bopper che morì insieme a Holly e Ritchie Valens nel tragico incidente), con un arrangiamento elettrico tra country e rockabilly. Ci sono poi brani che in altre mani erano già delle hit country, come la squisita Sally Was A Good Old Girl (lanciata da Hank Cochran due anni prima), molto rock’n’roll in questa versione, un’ottima Love’s Gonna Live Here di Buck Owens ripresa in puro Bakersfield style, l’honky-tonk Burning Memories di Mel Tillis e la trascinante Big Mamou di Link Davis, dal ritmo molto sostenuto. Detto di un breve omaggio al vecchio amico Buddy con una It’s So Easy riveduta ma non corretta, il CD si chiude con il puro country di Abilene (di George Hamilton IV), una roccata Money (That’s What I Want) di Barrett Strong, ma più nota per la versione dei Beatles e la dolce ballata Lorena: tre brani che hanno in comune il fatto di non essere cantati da Waylon ma bensì da Gropp e Foster.

Temevo l’imbroglio, invece mi sono trovato tra le mani un dischetto piacevole ed interessante, anche se non certo imperdibile.

Marco Verdi

Non So Se Il Rock Sia Morto O Meno, Ma Di Certo Il Folk Sta Benissimo! Joe Purdy & Amber Rubarth – American Folk

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Joe Purdy & Amber Rubarth – American Folk Soundtrack – American Folk/Thirty Tigers CD

Il titolo del post è chiaramente ironico, il rock è vivo e vegeto, pur avendo vissuto giorni migliori in passato, nonostante qualcuno periodicamente si ostini a volergli fare il funerale; anche la musica folk in ogni caso non se la passa male, dato che negli ultimi anni si è notato un risveglio di interesse verso questo genere. Andando a memoria mi viene in mente il bel film dei fratelli Coen Inside Llewyn Davis del 2013 (e relativa colonna sonora), che celebrava i giorni del folk revival nel Village di New York, l’ottimo Shine A Light di due anni fa ad opera di Joe Henry e Billy Bragg, che giravano l’America in treno incidendo nelle varie stazioni diversi classici del songbook americano, ed il sontuoso tributo a Woody Guthrie Roll Columbia dello scorso anno, affidato perlopiù ad artisti semisconosciuti (senza dimenticare, a proposito di Woody, l’eccezionale cofanetto della Bear Family dedicato ai due storici concerti tributo del 1968 e 1970) http://discoclub.myblog.it/2017/12/09/torna-finalmente-il-padre-di-tutti-i-tributi-vv-aa-woody-guthrie-the-tribute-concerts/ .

Oggi invece vi voglio parlare del progetto American Folk (già il titolo è tutto un programma), un film indipendente scritto e diretto da David Heinz e che vede protagonisti i due songwriters Joe Purdy (già abbastanza noto, giovane ma con una bella serie di dischi alle spalle http://discoclub.myblog.it/2014/06/24/cantautore-nicchia-joe-purdy-eagle-rock-fire/ ) ed Amber Rubarth (che, sono sincero, non conoscevo): American Folk non è un documentario, ma un vero film recitato ed ambientato nel Settembre del 2001, e precisamente nel periodo degli attentati avvenuti il giorno 11, un lungometraggio che narra la storia di Elliott e Joni (Joe e Amber), due cantanti folk che, in viaggio aereo per New York da Los Angeles, vengono fatti atterrare poco dopo la partenza per questioni di sicurezza. I due si conoscono per caso e decidono, aiutati da un amico di lei, di proseguire il viaggio in auto, scoprendo via via di avere parecchie affinità. Un road movie che è anche un pretesto per omaggiare la musica folk popolare americana, attraverso l’interpretazione da parte dei due di una bella serie di classici, con l’aggiunta di quattro canzoni scritte per l’occasione. Ed il disco che fa da colonna sonora, intitolato anch’esso American Folk, è davvero bellissimo, un album di folk music interpretata in purezza, ma con grande rispetto ed un trasporto notevole, un lavoro che si ascolta con immenso piacere anche slegato dalle immagini di film. I due artisti si amalgamano alla perfezione, a volte cantano da soli altre in duetto, spesso si accompagnano con le sole chitarre (Amber anche al piano), e solo occasionalmente intervengono Matt DelVecchio al basso ed Adam Levy alla chitarra aggiunta.

E poi ci sono le canzoni, veri e propri evergreen della musica popolare americana (ma non solo), interpretate, ripeto, in maniera perfetta: qualcuno potrebbe dire che se sei bravo e hai a disposizione delle grandi canzoni non è difficile fare un bel disco, e forse è vero, ma alla fine quello che conta è che qui si passano tre quarti d’ora estremamente piacevoli. Non tutto è appannaggio di Joe ed Amber, ci sono anche due brani del passato che però si integrano benissimo, tanto da sembrare nuovi di zecca: la lenta e vibrante Some Humans Ain’t Human di John Prine, che pur essendo tratta da Fair And Square (l’ultimo album di canzoni originali del cantautore dell’Illinois, targato 2005) ha il sapore dei suoi primi dischi, ed una splendida fisarmonica sullo sfondo, ed una magistrale ripresa di Freight Train di Elizabeth Cotten ad opera di Jerry Garcia e David Grisman, presa dal loro disco del 1993 Not For Kids Only. Ma la parte centrale di American Folk è riservata ad alcuni tra i più noti traditionals del songbook americano, ripresi in maniera filologica ma non scolastica, in quanto sia Joe (che ha una voce perfetta, tra Prine e Dylan) che Amber ci mettono davvero l’anima, ed il feeling si può quasi toccare con mano: unico difetto, diversi pezzi sono appena accennati, ed altri finiscono dopo poco più di un minuto, ma alla fine va bene anche così, talmente unitario è il progetto.

Emblematica è la versione di Red River Valley, classico esempio di come si possa emozionare con solo due voci ed una chitarra, ma poi abbiamo anche una splendida Blackjack Davey, cantata all’unisono, l’altrettanto bella Swing Low, Sweet Chariot, dove c’è solo Amber (ed è troppo breve), due strumentali basati sulle melodie di Pretty Saro (per solo dobro) e della notissima Oh! Susanna, una vivace e spedita Hello Stranger (un classico della Carter Family), con il tamburello a scandire il ritmo, e due eccellenti riletture di Oh Shenandoah e Lonesome Valley, che purtroppo durano tra tutte e due poco più di un paio di minuti; c’è anche una cover di un pezzo contemporaneo, e cioè Moonlight, dello sfortunato songwriter Blaze Foley, che ha comunque una struttura folk che si incastra alla perfezione nel disco. Infine, i quattro brani originali: This Old Guitar, accennata all’inizio dal solo Joe e poi ripresa a due voci nel finale, un brano lento e meditato, dove anche le pause hanno la loro importanza, la scintillante Someone Singing With Me, puro folk, una grande canzone senza se e senza ma, con il piano ad impreziosire ulteriormente il suono, la gentile e limpida New York di Amber, che sembra uscita dal songbook di un qualsiasi artista del folk revival, e la conclusiva Townes, un sentito omaggio al grande Townes Van Zandt, dotata di una melodia cristallina e di un bellissimo ritornello.

Il 2018 si è aperto all’insegna del folk: dopo lo splendido Blood In The USA di Thom Chacon, ecco l’altrettanto valido American Folk. Entrambi da non perdere.

Marco Verdi

Eccone Un Altro Bravo, Questa Volta Dal Kentucky E Lo “Manda” Sturgill Simpson! Tyler Childers – Purgatory

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Tyler Childers  Purgatory – Hickman Holler CD

Ecco un altro musicista di talento spuntato dal fittissimo sottobosco musicale Americano: per la verità Tyler Childers, proveniente da Louisa, Kentucky (un paesino di poco più di duemila anime che si fa fatica anche a trovare sulle cartine), ha già esordito nel 2011 con l’autodistribuito Bottles & Bibles, seguito da un paio di EP dal vivo, Live On Red Barn Radio Vol. I & II, ma possiamo tranquillamente considerare questo Purgatory come il suo debutto vero e proprio. Dotato di una voce molto dylaniana (il Dylan degli esordi), Childers suona un misto di country, folk appalachiano e musica cantautorale, oltre a scrivere buone canzoni: il suo territorio è lo stesso di altri musicisti veri, che fanno musica lontana dal suono tipico di Nashville e, quando vanno in classifica è per puro caso, gente che risponde al nome di Chris Stapleton, Jamey Johnson, Whitey Morgan, Colter Wall (che lo ha indicato come suo cantante preferito del momento) e Sturgill Simpson. Proprio Simpson, che è tra i più creativi tra quelli che ho citato, è il produttore di Purgatory, e questo ha fatto solo del bene alle già belle canzoni di Tyler, oltre ad aver facilitato la possibilità di suonarle con un gruppo di gente che sa il fatto suo (Russ Pahl e Michael Henderon alle chitarre, lo specialista Stuart Duncan al violino, grande protagonista del disco, Charlie Cushman al banjo, Michael Bub al basso e Miles Miller alla batteria).

E poi naturalmente c’è Childers con le sue canzoni che profumano di musica d’altri tempi, quando i dischi si compravano e non si scaricavano. I Swear (To God) è un gustoso honky-tonk dal sapore vintage, con il violino che swinga che è un piacere ed una ritmica spedita, una via di mezzo tra Wayne Hancock e Dale Watson. Feathered Indians è un’intensa ballata tra folk degli Appalachi e country, tempo sostenuto ma leggero, melodia fluida e feeling a profusione, con il violino ancora come strumento centrale; Tattoos inizia lenta e spoglia (voce, chitarra e fiddle), poi entra il resto del gruppo ed il brano acquista corpo senza perdere intensità, anzi. Born Again è molto bella (non che le precedenti non lo fossero), con il suo mood western, motivo discorsivo e diretto, arrangiamento tra sixties e seventies (si sente il lavoro di Simpson) e grande uso di steel, Whitehouse Road è leggermente più elettrica, ha un’andatura da outlaw song alla Waylon Jennings, ed anche in questa veste Tyler fa la sua bella figura, mentre Banded Clovis, dylaniana anche nella melodia oltre che nella voce, è una folk song purissima con il banjo a guidare le danze. Ed eccoci alla title track, un bluegrass dal ritmo forsennato ma con la batteria appena sfiorata (d’altronde il Kentucky è noto come “The Bluegrass State”), altro pezzo che suona come un traditional, brano che porta a Honky Tonk Flame, che invece ha un non so che di John Prine nella struttura melodica, sempre roba buona comunque; il CD si chiude con Universal Sound, molto più moderna nel suono del resto delle canzoni, una country song elettrica e mossa, ma decisamente riuscita e gradevole, e con la pura e folkie Lady May, solo Tyler voce e chitarra.

Bel disco, forse non tra quelli da avere a tutti i costi, ma sicuramente meritevole se vi piacciono i nomi citati qua e là nella recensione.

Marco Verdi

Se Lo Dicono Tutti Sarà Veramente Così Bello? Questa Volta Direi Proprio Di Sì! Conor Oberst – Salutations

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Conor Oberst – Salutations – Nonensuch/Warner

Come sapete al sottoscritto non piace uniformarsi per forza ai giudizi critici (che comunque leggo per documentarmi) relativi ai nuovi dischi in uscita: preferisco sempre adottare l’infallibile metodo “San Tommaso”, o se preferite Guido Angeli, ovvero provare per credere, anzi meglio, ascoltare per credere. E quindi, se posso, compatibilmente con le qualità industriali di dischi che “devo” sentire ogni mese, cerco di ascoltare gli album che per vari motivi hanno stuzzicato la mia curiosità, anche se poi non sempre riesco a scrivere il resoconto delle mie impressioni: ma questa volta, come dico nel titolo, sì! Perché l’album in questione, nello specifico parliamo del nuovo Salutations, a firma Conor Oberst, mi pare proprio un ottimo album. Disco che nasce sulla scia della prova acustica Ruminations, pubblicata solo alcuni mesi or sono e che che conteneva dieci delle canzoni ora riproposte in versione elettrica nel CD, con l’aiuto del grande batterista Jim Keltner, che ha curato anche la co-produzione dell’album insieme a Oberst, e alla band roots-rock dei Felice Brothers, veri spiriti affini di Conor e di cui l’estate scorsa vi avevo segnalato l’eccellente Life In The Dark, un piccolo gioiellino http://discoclub.myblog.it/2016/07/06/antico-dylaniano-sempre-gradevole-felice-brothers-life-the-dark/, che si muoveva, come questo, su territori cari alla Band Bob Dylan, ma non solo. Quindi il solito retro-rock? Direi di sì, ma quando è fatto così bene è difficile resistere, e le 17 canzoni contenute in questo disco (le dieci di Ruminations più altre sette aggiunte per l’occasione) sono tutte veramente belle e non si riscontrano momenti di noia dovuti alla eccessiva lunghezza dell’album.

Oltre ai Felice Brothers e Keltner nell’album appaiono parecchi altri musicisti di pregio: dall’ottimo Jim James Blake Mills, Gillian Welch Maria Taylor alle armonie vocali, nonché M. Ward e il quasi immancabile, in un disco di questo tipo, Jonathan Wilson, a chitarre e tastiere in due dei brani più belli del disco, uno dei due, Anytime Soon, dove è anche coautore del pezzo, con lo stesso Oberst, Taylor Goldsmith dei Dawes, Johnathan Rice, frequente collaboratore di Jenny Lewis, in una sorta di meeting di alcuni dei “nuovi” talenti del suono westcoastiano, considerando pure che il tutto è stato registrato ai famosi Shangri-La Studios di Malibu. Quindi Dylan+Band+California, risultato: ottimo disco, che lo riporta ai fasti dei migliori album fatti con i Bright Eyes. Partiamo proprio con la citata Anytime Soon, un bel pezzo rock di impianto californiano, con la slide pungente di Wilson, che ricorda quella di David Lindley, a percorrerla e una melodia solare che si rifà al sound dei Dawes o del loro mentore Jackson Browne, ma anche con spunti beatlesiani.

Comunque fin dall’apertura deliziosa della valzerata Too Late For Fixate, con in evidenza il violino di Greg Farley e la fisarmonica di James Felice, che uniti all’armonica dello stesso Oberst, crea subito immediati rimandi alla musica del Dylan anni ’70 ( e anche la Band, ovviamente, grazie all’uso della doppia tastiera, affidata spesso a Felice); contribuiscono ampiamente alla riuscita anche i testi visionari e surreali, sentite che incipit: “Tried Some Bad Meditation/ Sittin’ Up In The Dark/They Say To Picture An Island/Cuz That’s One Place To Start/I Guess I Could Count My Blessings/I Don’t Sleep In The Park/With All My Earthly Possessions/In One Old Shopping Cart”, e ditemi chi vi ricorda. Anche la seconda canzone Gossamer Thin mantiene questa atmosfera sonora, con il riff circolare a tempo di valzer, sempre impreziosito dall’uso di violino, fisa ed armonica, oltre alle armonie vocali di Jim James, che rimane poi anche per la successiva Overdue, dove si apprezza il lavoro delle chitarre elettriche e quello di un piano Wurlitzer, molto alla Neil Young anni ’70, con il ritornello che ti rimane subito in testa.

Afterthought in veste full band acquisisce ulteriore fascino, anche grazie al lavoro preciso e variegato di Jim Keltner, uno dei più grandi batteristi della storia del rock, ancora splendide le armonie vocali corali dei Felice Brothers assortiti, il violino guizzante di Farley e l’armonica insinuante di Conor, sembra quasi di essere capitati in qualche outtake di Blonde On Blonde. Molto coinvolgente anche la delicata ballata Next Of Kin, già presente in Ruminations, che rimanda ai pezzi più belli di un altro cantautore che quando viene colto dall’ispirazione può regalare canzoni stupende, penso a Ryan Adams, e pure in questo testo ci sono deliziose citazioni d’epoca:  “Yeah I met Lou Reed and Patti Smith/It didn’t make me feel different/I guess I lost all my innocence/Way too long ago”. In Napalm il ritmo si fa più incalzante e bluesy, per continuare il parallelo con Dylan ci tuffiamo in Highway 61 con l’organo di Felice e le chitarre di Oberst a ricreare il sound dell’accoppiata Kooper/Bloomfield, con i dovuti distinguo, e senza dimenticare Farley che si dà sempre da fare con il suo violino.

Blake Mills aggiunge il suo guitaron e la baritone guitar per una intima e raccolta Mamah Borthwick (A Sketch), dove si apprezza anche la voce di Gillian Welch, splendida. Mentre nelle successive Till St. Dymphna Kicks Us Out e Barbary Coast (Later) appare anche un quartetto di archi e il pianoforte assurge a ruolo di protagonista, nel primo brano, a fianco degli immancabili violino, fisarmonica e armonica, senza dimenticare la chitarra elettrica di Ian Felice, sempre presente, con un lavoro sia di raccordo quanto solista; Barbary Coast addirittura mi ha ricordato certe cose del primo Van Morrison, quello californiano, con il prezioso apporto della voce di Maria Taylor. Tachycardia è un’altra ballata di ampio respiro, con doppia tastiera e armonica sempre in evidenza (ma è difficile trovare un brano non dico scarso, ma poco riuscito), mentre Conor Oberst canta sempre con grande trasporto e convinzione, mentre il violino e la chitarra di Mills ricamano sullo sfondo. Serena ed avvolgente anche la dolcissima Empty Hotel By The Sea, con mille particolari sonori gettati nel calderone sonoro di una ennesima riuscita canzone, con gli strumenti sempre usati con una precisione quasi matematica.

Del pezzo con Jonathan Wilson abbiamo detto. Counting Sheep è una ulteriore variazione sul tema sonoro dell’album, e nonostante il titolo è meno “sognante” di altri episodi, con le chitarre elettriche più graffianti e la bella voce della Taylor che ben supporta il nostro. Rain Follows The Plows, di nuovo con la presenza del quartetto di archi, assume un carattere quasi più barocco e complesso, grazie all’uso del piano elettrico e della chitarra elettrica di Blake Mills, presente per l’ultima volta, a fianco di violino,, armonica e tastiere, che, l’avrete ormai capito, sono gli strumenti più caratterizzanti dell’album. Di nuovo Gillian Welch a duettare con Oberst in You All Loved Him Once, altra love ballad di elevata qualità e delicatezza, con armonica e chitarra elettrica che deliziano i nostri padiglioni auricolari ancora una volta, una delle più belle canzoni del disco.

A Little Uncanny, con video prodotto dal bassista del disco (e dei Felice Brothers) Josh Rawson è uno dei pezzi più rock e mossi di questo Salutations, chitarristico ed incalzante, prima del commiato, Salutations appunto, dove ritornano il piano, la chitarra ed il synth di Jonathan Wilson, per un altro tuffo nel sound da singer songwriter californiano degli anni ’70, a conferma della qualità di questo lavoro che si candida fin d’ora tra le migliori prove di questo inizio 2017, e che vi consiglio caldamente!

Bruno Conti 

Ancora “Italiani Per Caso”, Ma “Americani Dentro”, Questa Volta Tocca a Valter Gatti – Southland

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Valter Gatti – Southland – fonoBisanzio/Ird

Valter (con la V, credo per problemi all’anagrafe italiana) Gatti è l’ennesimo musicista italiano indipendente innamorato della musica degli Stati Uniti, anzi, come si deduce dal titolo del disco, Southland, quella del Sud degli States. Il nostro amico nasce, per mantenere l’analogia, nel Sud della Lombardia, nel lodigiano, ma opera, come giornalista e divulgatore nella zona di Padova (quindi una sorta di “collega”): questo disco è il suo esordio discografico, a quasi 60 anni, portati bene, decide di registrare un album per rendere omaggio alla musica che ha sempre ascoltato. E per realizzarlo si affida a una pattuglia di musicisti italiani: Paolo Costola, dobro, slide, chitarre elettriche ed acustiche, Valerio Gaffurini, Hammond, Fender Rhodes e piano, Larry Mancini, basso e Albert Pavesi, batteria, oltre alle armonie vocali di Raffaella Zago e alla viola e violino di Michele Gazich, che cura anche la produzione del disco, sempre citare i nomi, lo meritano. Non contento di tutto ciò contatta anche alcuni musicisti americani di “culto” per suonare nel CD: Greg Martin dei Kentucky Headhunters http://discoclub.myblog.it/tag/kentucky-headhunters/ , Chris Hicks, attuale chitarrista della Marshall Tucker Band e Greg Koch, grande chitarrista, testimonial della Fender per il modello Telecaster http://discoclub.myblog.it/2013/11/03/c-e-sempre-qualcuno-bravo-che-sfugge-greg-koch-band-plays-we/ .

E tutti gli rispondono di sì. Nel progetto viene coinvolto anche Massimo Priviero, per duettare in uno dei due brani cantati in italiano, nell’altro c’è Gazich. Il risultato è un disco di southern-folk-country-blues- rock, con un paio di cover di assoluto pregio, scelte con cura, All Along The Watchtower di Dylan e The Joker della Steve Miller Band. Se proprio devo fare un appunto (da appassionato ad appassionato) Gatti non ha una voce particolarmente memorabile, si affida ad uno stile vocale diciamo leggermente “laconico”, a tratti una sorta di parlar-cantando o viceversa, ma gli arrangiamenti curati di Gazich e la buona qualità delle canzoni e degli interventi solisti degli ospiti rendono il disco molto piacevole, per chi ama questa musica. E così scorrono l’iniziale Southland, un brano dall’atmosfera quasi celtica grazie alla viola di Gazich, ma anche derive “desertiche” americane; All Along The Watchtower viene proposta in una veste tra folk e rock, di nuovo grazie al guizzante violino di Michele sembra quasi una outtake di Desire, e ottimo anche il lavoro della slide di Costola.

Raffiche Di Vento, con il controcanto di Priviero e l’eccellente lavoro della tagliente chitarra solista di Chris Hicks, è un gagliardo pezzo rock, come pure la successiva In Your Town, una bella ballata sudista dalla melodia avvolgente con l’ottimo Greg Martin che colora il brano con la sua lirica chitarra. Lifelong Blues, come da titolo, illustra un’altra delle passioni di Valter, il blues, un altro pezzo percorso dalla chitarra di Martin e dal violino di Gazich, mentre Take Me As I Am è una delicata e struggente ballata pianistica. Nella cover di The Joker si cerca di ricreare l’atmosfera divertita e divertente del brano originale, sempre scanzonato e godibile; Gloomy Witness con l’ottima solista di Koch in evidenza, ha di nuovo quell’andatura ondeggiante del Dylan di Desire, miscelata al Knopfler più americano, ottima. E In My Boots alza ulteriormente l’asticella del southern rock classico, Greg Martin ci dà dentro con la sua solista e il brano galoppa. In chiusura il duetto folk con Gazich nella quasi parlata Dove Sei, intima e raccolta. Un bel dischetto.

Bruno Conti

Jimmy Ragazzon Intervista E Concerto: Una Valigia Piena Di Canzoni!

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Una veloce premessa, questa è una intervista che ho realizzato insieme a Jimmy per il Buscadero, e quindi la potete leggere anche sul numero di Febbraio della rivista, in edicola e nei punti vendita in questi giorni. Aggiungo anche che in virtù dell’amicizia (spero) che mi lega al musicista di Voghera gli ho chiesto se avrà voglia in futuro, tra un impegno e l’altro, di tornare a scrivere qualcosa per il Blog. Considerando che proprio per le sue collaborazioni avevo aperto una categoria specifica di Post sul Blog, ovvero “Da Musicista A Musicista”, mi ha dato la sua disponibilità senza impegno, per cui quando avrò qualche parto del suo inegegno ve la proporrò sul Blog ( e scrivendolo qui lo inchiodo alle sue responsabilità, scherzo!). Alla fine dell’intervista trovate anche il resoconto del concerto di Milano del 13 gennaio scorso. Quindi buona lettura!

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Quasi sul finire dell’anno scorso un paio di musicisti italiani dell’area pavese (l’altro è Ed Abbiati) hanno dato alle stampe dei dischi di musica chiaramente ispirati dalle loro passioni per il suono che siamo soliti definire Americana, roots music, ma anche i più tradizionali folk e country, senza dimenticare il blues ed il bluegrass, soprattutto nel caso del primo disco solista di Jimmy Ragazzon, quel Songbag che esce dopo oltre 35 anni (diciamo 37, quasi 38) di onorata carriera con la sua band dei Mandolin’ Brothers (ecco la recensione http://discoclub.myblog.it/2016/12/01/come-i-suoi-amati-bluesmen-un-pavese-americano-finalmente-esordisce-con-una-valigetta-piena-di-belle-canzoni-jimmy-ragazzon-songbag/. Visto che il prima lo conosciamo bene, siamo andati a chiedergli con alcune domande la genesi del disco e i futuri eventuali sviluppi.

Allora, Jimmy, immagino che il disco, molto bello, uno dei migliori di questo scorcio finale di anno, non sia nato come una improvvisa Epifania, ma venga da un desiderio di esplorare anche cammini contigui a quelli della musica del gruppo, cercando di usare un suono “più austero” ma sempre ricco di sonorità brillanti e ben definito nei particolari. Quale è stato , se c’è stato, il fattore scatenante, oppure si è trattato di un processo lento e ponderato? Insomma ti sei svegliato una mattina, e invece di farti una shampoo (come diceva Gaber) hai deciso di lanciarti in un disco solista o è stato un desiderio covato per anni e portato a compimento?

Pensavo ad un album totalmente acustico da molto tempo, che contenesse alcune canzoni nate per essere suonate in quel modo, senza troppe elucubrazioni ed arrangiate in modo scarno ma spontaneo. La mia idea era quella di suonare i pezzi, correggere eventuali pecche e poi registrare, senza pensarci troppo e senza rivedere gli arrangiamenti più volte. Volevo anche registrare ogni singolo brano con tutti, o quasi, i musicisti contemporaneamente in studio, per ottenere un feeling unico e seguire il flusso del momento. Il risultato finale è molto vicino a questa mia idea di base e ne sono contento.

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 Della “tua” band appare solo Marco Rovino, che peraltro ha un ruolo decisivo, sia come autore che musicista nell’album. Gli altri ottimi musicisti italiani come li hai scelti?

Ho conosciuto Paolo Ercoli, Rino Garzia e Luca Bartolini, cioè i musicisti con cui suono dal vivo Songbag, nel corso degli anni. Conoscendo le loro indubbie qualità tecniche e la loro predilezione per la musica acustica, li ho coinvolti nel progetto, lasciando che ognuno di loro si esprimesse e portasse idee e suggerimenti. Il loro apporto è stato fondamentale, anche nei rapporti interpersonali, basati sull’amicizia ed il rispetto reciproco. Comunque in un paio di brani ci sono altri due Mandolins, cioè Joe Barreca e Riccardo Maccabruni. Senza dimenticare Chiara Giacobbe, Roberto Diana, Maurizio Gnola e tutti quelli che hanno collaborato, non ultimo Stefano Bertolotti, della Ultra Suond, che mi ha offerto la possibilità di realizzare questo mio progetto.

Ed al tuo fianco, anche questa volta c’è l’immancabile Jono Manson. Quale è stata questa volta la sua funzione nell’economia del disco?

Jono ha mixato e masterizzato l’album, dando anche preziosi suggerimenti, con tutta la sua esperienza e la sua cultura musicale. Ha evidenziato al meglio il suono del legno degli strumenti, che era quello che cercavo, rendendolo il più caldo e naturale possibile. Inoltre mi ha ancora una volta stupito, inserendo un banjo tenore in 24 Weeks, che trovo molto bello e diverso rispetto al suono del resto delle canzoni.

E ancora, come sei arrivato alla scelta delle due cover inserite nell’album? Due dei tuoi preferiti assoluti: Dylan quasi inevitabile, ma perché quella canzone e Guy Clark, immagino altro punto di riferimento anche nei tuoi ascolti come appassionato di musica?

Ho sempre amato Dylan, uno dei più grandi artisti di tutti i tempi. Ho pensato a come avrebbe potuto suonare Spanish Is The Loving Tongue, diciamo nel periodo inizio anni ‘70 e di conseguenza ho creato un arrangiamento che si potesse avvicinare a questa mia fantasticheria. Anche per Guy Clark ho sempre avuto una grande ammirazione e The Cape è una delle sue perfect songs, in cui testo e linea melodica si coniugano magistralmente. E poi che il ragazzino con il suo logoro mantello riuscisse finalmente a volare, malgrado la dura realtà e contro il parere di tutti…beh… è una gran bella storia.

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Torniamo alla creazione delle canzoni contenute nel disco. Sono tutte nuove, scritte in tempi recenti o ce ne sono alcune che “covavi” da tempo e non avevi mai utilizzato negli album dei Mandolin’ Brothers perché non le ritenevi adatte allo stile del gruppo?

Sono tutti brani nati nel corso di questi ultimi anni, diciamo post Far Out. Come MB abbiamo suonato parecchie volte con la line up acustica e certe sonorità, la rilassatezza delle esecuzioni, il loro soft mood, mi hanno definitivamente convinto ad iniziare il progetto Songbag, visti anche gli impegni personali del resto della band, che avrebbero comportato poco tempo a disposizione per pensare ad un nuovo disco dei MB. Comunque penso che certe canzoni e soprattutto certi testi, dovessero essere proposti in maniera più personale e diretta anche per i temi trattati, spesso autobiografici.

E, domanda collaterale, che si aggancia agli eventuali futuri sviluppi citati all’inizio: ne avete incise altre poi non usate nel disco, magari ci sono state altre cover papabili che poi non sono state utilizzate?

 Sono rimasti fuori sostanzialmente solo un paio di pezzo miei ed altrettante cover, come Friend Of The Devil dei Grateful Dead, che comunque eseguiamo in concerto.

 L’idea di fare un disco acustico era prevista fin dall’inizio oppure era solo una delle opzioni a disposizione? Magari un bel disco di blues elettrico o da cantautore “impegnato” non sarebbero stati male?

 No, doveva essere fin dall’inizio un disco acustico con le mie canzoni. Credo che Dirty Dark Hands, Sold (ispirata da una poesia di P. B. Shelley) e Evening Rain, si possano considerare canzoni impegnate a sfondo sociale e/o quantomeno piuttosto esplicite del mio modo di pensare, almeno nel testo. Di certo mi piacerebbe molto fare un album di blues elettrico rigorosamente old style, come il bellissimo ultimo Stones, con suoni sporchi e ruvidi. Non è detto che prima o poi non si riesca a realizzare anche questo progetto.

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Dicevi che alcuni testi dei brani contenuti nel disco hanno anche connotati autobiografici, vuoi elaborare questo tuo pensiero e raccontare di quali canzoni si tratta?

D Tox Song, che parla di un periodo oscuro e pesante della mia vita. 24 Weeks ovvero “della risoluzione del caso” cura & salute…In A Better Life, su quello che ci rimane verso la fine, nel mio caso la musica, la strada percorsa e le persone importanti che non posso assolutamente dimenticare. Ci sono comunque altri riferimenti in altri pezzi, ma sarebbero troppi da spiegare. Credo comunque che sia sempre meglio scrivere di quello che conosci, che provi o che pensi.

Ho visto una delle date del tuo tour solista a Milano e devo dire che suonate veramente in modo splendido, questo può voler dire che ci saranno altri sviluppi futuri anche in questa tua carriera come solista o i Mandolin’ Brothers rimangono comunque il progetto primario?

I MB rimangono ovviamente il mio progetto principale, con l’apertura del cantiere per il nuovo album a breve, anche se ci vorrà un bel po di tempo prima di chiuderlo. Per quanto riguarda Songbag e la collaborazione con The Rebels, intendo portarla avanti diciamo in parallelo, visti i riscontri molto positivi dell’album, dei primi concerti ed il fatto che stiamo bene insieme e ci divertiamo, soprattutto quando ci lanciamo in “inusuali” idee di arrangiamenti per brani nuovi o per cover non proprio ortodosse nel nostro genere musicale.

Tra l’altro chiacchierando fra di noi ad un certo punto era saltata fuori anche la faccenda che una canzone di Songbag “Evening Rain” era stata scelta come Track Of The Week della versione on line della rivista Classic Rock UK, in lizza anche contro i Rolling Stones. E poi la settimana successiva è stata scelta come prima classificata dal voto dei lettori. Quando hai visto che avevi battuto gli amati Stones cosa hai pensato?

Che c’era qualcosa che non andava, che non aveva alcun senso. Siamo sinceri: ma quando mai? Di certo molti amici mi avranno aiutato votandomi dall’Italia e diciamo che gli Stones o Iggy Pop non avessero tutto quell’interesse per questa classifica settimanale…per usare un eufemismo… Rimane comunque il piacere e la grande soddisfazione di aver vinto un contest di una delle riviste musicali più prestigiose d’Europa, non solo con un mio brano, ma anche tratto dal mio primo album solo.

E infine domanda classica: quali sono i tuoi dischi da isola deserta. Almeno quelli di oggi, perché poi si sa che le preferenze cambiano di continuo?

Eccone alcuni, ed è molto difficile che io possa cambiare idea su questi capolavori…

Bob Dylan: Highway 61 Revisited. Rolling Stones: Exile On Main Street

David Crosby: If I Could Only Remember My Name. The Beatles: White Album

The Clash: London Calling. Bob Dylan: The Freewheelin’. Muddy Waters: Hard Again.

Tom Waits: Rain Dogs. Mississippi John Hurt: The Best Of. Little Feat: Waiting For Columbus. Neil Young: Tonight’s The Night and so on…

Il Concerto

La sera del 13 gennaio al Nidaba di Via Gola 12 a Milano (un piccolo accogliente locale dove si ascolta musica gratis, spesso ottima, a due passi dai Navigli, di recente è stato insignito dell’Ambrogino D’Oro, benemerenza civica milanese, per vent’anni di onorata carriera nelle serate musicali della città meneghina) si tiene la prima data del 2017 del tour di Jimmy Ragazzon & The Rebels: per presentare l’album Songbag di cui si parla diffusamente nell’intervista. Gran bel concerto con una serie di ottimi “pickers” italiani che non hanno da invidiare ai migliori musicisti americani: a guidare le danze Jimmy Ragazzon, voce solista e armonica, con Marco Rovino, anche lui dei Mandolin’ Brothers, chitarra acustica, mandolino e armonie vocali (molto funzionali all’atmosfera musicale che si viene a creare), Paolo Ercoli al dobro, un vero virtuoso dello strumento che non ha nulla da invidiare (secondo me) a Mike Auldridge dei Seldom Scene o a Jerry Douglas, alla chitarra acustica e voce Luca Bartolini, al contrabbasso, con e senza archetto, Rino Garzia Ospiti speciali della serata Edward Abbiati dei Lowlands che duetta con Jimmy in una bellissima versione a due voci di Don’t Think Twice Is Alright dell’amato Bob Dylan e al mandolino aggiunto Paolo Monesi, vero protagonista, con gli altri, di una versione fantastica, lunga e molto improvvisata, di E.M.D. del David Grisman Quintet.

Tra le altre chicche della serata, in apertura, una rilettura acustica eccellente di Friend Of The Devil, che genera la gag del “presunto zio” di Garzia, Jerry Garcia, autore del pezzo, una Fortunate Son dei Creedence che diventa quasi un pezzo dei Dillards o dei Country Gazette, a tutto bluegrass. E ancora, sul lato blues, Bye Bye Blackbird di Sonny Boy Williamson II, solo voce, armonica e contrabbasso, una When I Paint My Masterpiece, il pezzo di Dylan interpretato dalla Band su Cahoots. Non mancano nei bis finali anche Swing ’42 di Django Reinhardt via David Grisman, ancora bluegrass “progressivo” o Dawg Music se preferite, con Monesi di nuovo aggiunto al mandolino, e un altro gagliardo blues Key To Highway di Big Bill Broonzy, che molti ricordano nelle versioni ripetute di Eric Clapton. In mezzo molte, forse tutte, meno una, le canzoni di Songbag, in eccellenti versioni, e anche riletture in questa veste brillante acustica di alcuni brani del repertorio dei Mandolin’ Brothers. Più di due ore di ottima musica eseguita con classe, nonchalance, sense of humor e grande partecipazione del pubblico, tra cui si aggiravano anche Mandolin’ Brothers assortiti, mogli e fidanzate. Se riuscite ad andare a vederli in concerto non fatevi sfuggire l’occasione, ci saranno ulteriori date dal vivo anche a febbraio, marzo ed aprile, inframmezzate a quelle con il gruppo.

Bruno Conti

Non Avete Nulla Da Fare Tra Il 20 E Il 23 Ottobre? Fate Un Pensierino Per Una Visita Al Books & Blues Di Casale Monferrato!

Manifesto B&B 2016

Nel prossimo fine settimana a Casale Monferrato, da govedì 20 a domenica 23 ottobre, come tutti gli anni si terrà la nuova edizione del B&B (occhio; non sta per Bed & Breakfast): parliamo del Books & Blues, Festival di Musica E Letteratura, giunto alla VII edizione, e che si svolgerà nei locali della Libreria Labirinto a Casale Monferrato (AL). Il direttore artistico è l’amico (un po’ di sana promozione non guasta mai) Paolo Bonfanti, musicista, bluesman e cantautore, grande appassionato di Bob Dylan: proprio nei giorni in cui è stato assegnato inaspettatamente al bardo di Duluth il Premio Nobel per la Letteratura, direi che è quasi d’uopo recarsi ad una manifestazione che coniuga musica e parole attraverso un programma diviso in quattro giornate.

Estraggo e personalizzo dal comunicato stampa i punti salienti delle varie giornate:

Carlo Massarini. Giovedì 20 ottobre alle ore 21.15 nei rinnovati locali della Libreria Labirinto di Casale Monferrato (AL), Massarini accompagnato musicalmente e non solo dallo stesso Bonfanti presenta “Absolute Beginners” (Ed. Hoepli), un viaggio in 280 racconti in cui s’incontrano brani ed artisti storici, ma anche episodi meno noti che hanno contribuito a creare la musica rock come la conosciamo ora.

Venerdì 21, alle 21.15 il viaggio non sarà più qualcosa di astratto o concettuale, ma diventa concreto con Wu Ming 2: l’autore fa parte fin dalle origini del collettivo di scrittori che ha esordito nel 1999 con il romanzo “Q” per poi pubblicare molti altri libri, racconti, romanzi solisti e oggetti narratori. Dopo il successo de “Il Sentiero degli Dei” Ed. Ediciclo, Gerolamo presenta il secondo episodio della trilogia “Il Sentiero Luminoso che vedrà l’autore tornare a camminare, zaino in spalla, per unire a forza di passi due grandi città italiane, lungo il tracciato dell’Alta Velocità: Bologna e Milano, da Piazza Maggiore a Piazza Duomo:  un libro sul territorio, un alfabeto dei luoghi, una scrittura collettiva di un ecosistema che si sposa perfettamente con le atmosfere ad hoc create dalla fisarmonica di Roberto Bongianino che evidenzierà, sottolineerà e commenterà musicalmente i passaggi cruciali del racconto e del viaggio.

La vera tappa musicale del viaggio sarà sabato 22 alle 21.15 con l’atteso concerto del gruppo Mamasuya (Nicola Bruno, Matteo Cerboncini e Stefano Resca) insieme con Joahnnes Faber, che presentano il nuovo lavoro “Mexican Standoff”, Ed. Inri,. a dimostrazione di che cosa può succedere quando un trio rock/jazz incontra un trombettista classico.

Il viaggio si conclude domenica alle 17.30 con un incontro davvero speciale, quello con Carlo Pestelli, che ci racconterà la storia di una canzone simbolo, narrata nel suo libro “Bella ciao. La canzone della libertà” ed. ADD, con prefazione di Moni Ovadia; “Bella Ciao” è un piccolo bene immateriale che agisce sulla coscienza come qualcosa che arriva da lontano, quasi a segnare il confine tra il buio della guerra e la primavera dei popoli: un’elegia del presente che è anche, e sempre, una continua rinascita della storia della libertà.

Qui trovate il solito http://www.booksandblues.com/ se volete altre informazioni. Direi che è tutto, a voi la scelta.

Bruno Conti