Lo Springsteen Della Domenica: Il Broadcast “Perso”…E Ritrovato! Bruce Springsteen & The E Street Band – Atlanta, September 30 1978

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Bruce Springsteen & The E Street Band – Fox Theatre, Atlanta, GA 9/30/78 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

L’escalation di Bruce Springsteen come performer dal vivo si può riassumere brutalmente come segue: nel 1975 comincia a farsi notare come uno degli acts più coinvolgenti in circolazione, nel 1978 si crea la leggenda, che viene consolidata nel tour 1980-81 (forse il suo migliore di sempre), mentre nel 1984-85 il Boss “passa alla cassa” per riscuotere una popolarità ormai allargata a livello mondiale. E’ indubbio però che l’anno chiave della carriera live di Bruce sia il 1978, quello del tour di Darkness On The Edge Of Town, che vede il nostro e la sua E Street Band letteralmente, come avrebbe detto il grande Gianni Brera, in “erezione agonistica” durante tutto l’anno. La serie mensile di CD e download live del Boss finora ha dato parecchio spazio a questo fantastico tour con ben sette pubblicazioni, alle quali si aggiunge ora lo show del 30 settembre al Fox Theatre di Atlanta, che va anche a completare un’ideale collezione dei broadcast radiofonici usciti all’epoca, cinque in tutto (insieme ai mitici Roxy Theatre di Hollywood, Agora Ballroom di Cleveland e Capitol Theatre di Passaic, ed al leggermente meno noto show al Winterland di San Francisco).

Questa serata nel capoluogo della Georgia è abbastanza particolare, in quanto per anni è stata considerata come “the lost broadcast”, non perché i nastri fossero andati persi ma per uno stranamente scarso utilizzo e diffusione come bootleg, sia in vinile prima che in CD dopo. E’ quindi con particolare piacere che mi occupo oggi di questo show, dal momento che pure essendo meno famoso di quelli a Cleveland e Passaic non ha nulla da invidiare a loro in termini di intensità della performance, coinvolgimento di chi ascolta e perfezione nel suono (ed anche il missaggio, all’epoca affidato per il broadcast al noto produttore Jimmy Iovine, è perfetto). Quasi tre ore di grandissimo rock’n’roll e ballate sontuose quindi, come spesso è capitato in questa benemerita serie i cui responsabili vanno a scegliere i concerti migliori del Boss già negli anni meno “leggendari”, figuriamoci quando tocca al 1978 o 1980-81, che da qualunque parte scegli non sbagli. L’uno-due iniziale, formato da due travolgenti versioni del classico rock’n’roll Good Rockin’ Tonight e di Badlands, ci fa subito capire che la serata è di quelle giuste, ma Bruce mantiene alta la tensione con una vibrante Spirit In The Night di nove minuti e due ottime riletture di Darkness On The Edge Of Town e The Promised Land, inframezzate dall’allora inedita Independence Day in anticipo di due anni su The River ma già profonda e toccante.

A questo punto c’è forse la sequenza migliore della serata, formata da Prove It All Night (dodici minuti fantastici, con la strepitosa introduzione per piano e chitarra esclusiva di questo tour), Racing In The Street, Thunder Road e Jungleland, quattro canzoni magnifiche ulteriormente nobilitate dallo straordinario pianoforte di Roy Bittan, il cui tocco inconfondibile è in grado di innalzare qualsiasi brano e che quella sera è in particolare stato di grazia. Dopo un’inattesa Santa Claus Is Coming To Town (al 30 settembre…) i nostri improvvisano una breve e decisamente swingata, cover di Night Train di James Brown (figlio “adottivo” di Atlanta), qui nell’unica esecuzione della loro carriera; Fire è più sintetica e con meno cazzeggio del solito, Candy’s Room non mi ha mai fatto impazzire (ma è un mio problema), ma Because The Night è proposta in una maniera che definire trascinante è dire poco.

Dopo un’altra anteprima da The River, la drammatica Point Blank, Bruce improvvisa un notevole medley fra Not Fade Away di Buddy Holly, Gloria di Van Morrison e la sua She’s The One, ed a seguire ci delizia con un altro uno-due micidiale formato dalla sempre maestosa Backstreets e da una roboante Rosalita di 16 minuti. I bis di Born To Run e Tenth Avenue Freeze-Out sono preparatori al gran finale, con un Detroit Medley da favola, altri dieci minuti che da soli valgono gran parte del prezzo richiesto per il triplo CD; a chiudere abbiamo Raise Your Hand (Eddie Floyd), suonata quasi in souplesse dal momento che il pubblico non si è ancora ripreso dal medley precedente. Con la prossima uscita faremo un salto in avanti di ben trent’anni, uno Springsteen più maturo e forse appagato, ma sul palco sempre un numero uno.

Marco Verdi

Lo Springsteen Della Domenica: Lo Show Più Leggendario Del Boss, Finalmente Ufficiale! Bruce Springsteen & The E Street Band – Passaic, NJ September 19, 1978

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Bruce Springsteen & The E Street Band – Passaic, NJ September 19, 1978 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Credo che non ci siano discussioni sul fatto che il bootleg più famoso della storia, oltre che il primo in assoluto ad essere pubblicato, sia Great White Wonder di Bob Dylan, uscito nel 1969 e con all’interno outtakes dei primi album di Bob unite a pezzi degli allora inediti Basement Tapes. Penso però ci siano ancora meno dubbi su quello che viene subito dopo in termini di popolarità, e cioè Piece De Resistance di Bruce Springsteen, un triplo LP che documentava il fantastico concerto che il Boss e la sua E Street Band tennero il 19 Settembre del 1978 al Capitol Theatre di Passaic, nel New Jersey, la prima di tre serate consecutive nella location situata a poche miglia dalla hometown di Bruce. All’epoca non c’era internet, e siccome il nostro non pubblicò un album dal vivo ufficiale fino al box del 1986 Live 1975-85 (peraltro abbastanza deludente), l’unico modo per capire com’era un suo concerto era andarlo a vedere dal vivo oppure comprare un bootleg (anche se qualche show veniva trasmesso per radio, ed uno fu proprio questo di Passaic), e Piece De Resistance è a tutt’oggi il disco pirata più venduto di sempre per quanto riguarda Springsteen.

Ma il concerto in questione non riveste un’importanza fondamentale solo per questo, ma bensì perché è a detta un po’ di tutti lo show più leggendario di sempre del nostro, più ancora per esempio di quelli comunque mitici al Roxy nel 1975 o all’Agora Ballroom sempre del 1978. Il Boss nel corso della sua lunga carriera ha tenuto centinaia di concerti formidabili, ma la perfezione assoluta della serata del 19 Settembre 1978 forse non è stata mai toccata né prima né in seguito, ed è quindi con grande giubilo che ho accolto questa ultima uscita degli archivi live ufficiali di Bruce, che ripropone proprio la prima data di Passaic con una pulizia sonora che i precedenti bootleg non avevano mai avuto (il mio giubilo è dovuto anche al fatto che non ho mai volutamente comprato il bootleg di questo show, confidando appunto nel fatto che prima o poi sarebbe stato pubblicato in forma ufficiale, e quindi lo ascolto ora per la prima volta). Un antipasto ci era già stato dato con una delle uscite precedenti della serie https://discoclub.myblog.it/2018/02/25/lo-springsteen-della-domenica-una-delle-serate-che-hanno-creato-la-leggenda-del-boss-bruce-springsteen-the-e-street-band-capitol-theatre-passaic-nj-september-20th-1978/ , che documentava la serata del 20 Settembre, anch’essa grandissima ma che non raggiungeva i vertici di perfezione del 19: uno spettacolo da brividi, di assoluta potenza e con i nostri che intrattengono il pubblico per tre ore filate di rock’n’roll come poche altre volte si è sentito su di un palco, senza una benché minima sbavatura e con un’urgenza ed una rabbia agonistica da pelle d’oca.

La scaletta non riserva molte sorprese, ma è l’intensità della performance a fare la differenza e, credetemi, è molto difficile trasmettere a parole le sensazioni che si provano ascoltando questo triplo CD. L’album nuovo all’epoca era Darkness On The Edge Of Town, dal quale vengono suonati sette pezzi su dieci, tra cui i due che aprono il concerto: la più bella Badlands mai sentita, decisamente trascinante e potente, ed una sanguigna Streets Of Fire con annesso micidiale assolo chitarristico. La title track e The Promised Land non potevano mancare , così come una vibrante Candy’s Room e la splendida e toccante Racing In The Street. Ma uno degli highlights della serata è senz’altro una strepitosa Prove It All Night dalla lunga introduzione strumentale dominata da piano e chitarra, con una tensione elettrica che cresce in maniera incredibile fino al famoso riff che introduce la canzone vera e propria. Da Born To Run ne vengono proposte addirittura otto su nove (manca solo Night), con la particolarità di una She’s The One unita in medley con Not Fade Away di Buddy Holly, un’intensissima Jungleland e soprattutto una straordinaria Backstreets, che è già di suo una grande canzone ma qui forse trova la sua versione definitiva.

E poi c’è Thunder Road che è quasi meglio che in studio, e risulta sempre commovente. Quattro brani vengono dai primi due album di Bruce, a partire da una Spirit In The Night molto energica e piuttosto sintetica (ma sono pur sempre sette minuti), la struggente 4th Of July, Asbury Park (Sandy), da lucciconi agli occhi, una lunga ed esplosiva Rosalita di un quarto d’ora e specialmente una grandiosa Kitty’s Back di uguale durata, assolutamente un altro dei tanti momenti magici di una serata speciale, con un formidabile Roy Bittan. Detto della sempre divertente Fire e della grandissima Because The Night (in quel periodo molto popolare dato che la versione di Patti Smith era uscita da pochi mesi), troviamo anche due pezzi in anticipo di due anni su The River, e cioè l’intensa Independence Day ed una Point Blank già drammatica e dal pathos considerevole. Finale con un Detroit Medley travolgente come non mai, nove minuti di rock’n’roll all’ennesima potenza che dà il colpo di grazia a quelli del pubblico ancora in piedi, e con una festosa rilettura del classico di Eddie Floyd Raise Your Hand.

Mi rendo conto di avere usato quasi tutti gli aggettivi presenti sul vocabolario, ma dovete credermi se vi dico che concerti come questo in cento anni si contano sulle dita di una mano (vabbé facciamo due).

Marco Verdi

Un Futuro Fuorilegge Alle Prime Armi. Waylon Jennings – White Lightnin’

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Waylon Jennings – White Lightnin’ – Goldenlane/Cleopatra CD

Non sono un fan delle produzioni discografiche targate Cleopatra, etichetta indipendente californiana che si occupa di materiale d’archivio più o meno inedito: qualche buon prodotto negli anni lo ha pubblicato, ma anche ricicli di cose già uscite e spacciate per nuove o vere e proprie ciofeche, come il recente Joint Effort degli Humble Pie, compilato con materiale di scarto degli anni settanta non esattamente di prima qualità. Questo album intestato al grande countryman texano Waylon Jennings ed intitolato White Lightnin’ non è da considerarsi una fregatura, ma l’assenza di note nella confezione interna lascia (volutamente?) in sospeso l’ascoltatore occasionale sulla provenienza delle canzoni contenute. Alla fine White Lightnin’ è il classico segreto di Pulcinella, in quanto altro non è che la ristampa del primo album in assoluto del nostro, Waylon At JD’s del 1964 (che nonostante il titolo non è un disco dal vivo), al quale sono state aggiunte due canzoni che facevano parte di un raro singolo del 1959: diciamo quindi che questa volta la Cleopatra si è salvata dal giudizio del severo critico, in quanto comunque stiamo parlando di incisioni da tempo fuori catalogo e quindi difficilmente reperibili (ma la “cleopatrata” non manca neanche qui, in quanto sulla confezione vengono riportati dodici titoli invece dei quattordici che ci sono in realtà).

Il disco è dunque piacevole ed offre un interessante ritratto di gioventù di un musicista che negli anni settanta sarebbe diventato un grande del country ed uno degli esponenti di punta del movimento Outlaw. Qui Waylon non ha ancora uno stile ben preciso, alterna brani di classico country ad altri più rock’n’roll, ed in più si affida unicamente a materiale già noto in versioni altrui: il risultato finale è comunque piacevole ed interessante, ed in tutta onestà non mi sento di sconsigliarne l’acquisto, specie per quanto riguarda i fan del nostro. L’album inizia proprio con i due pezzi del singolo del ‘59, il primo in assoluto per Waylon, entrambi con la chitarra e la produzione del mitico Buddy Holly (non dimentichiamo che Jennings all’epoca era uno stretto collaboratore di Buddy, e per puro caso non salì su quel maledetto aereo la sera di quel tragico 3 Febbraio 1959): When Sin Stops è un incrocio tra pop e doo-wop tipico per l’epoca, molto diversa dallo stile futuro del nostro anche se il vocione è già quello, mentre Jole Blon è una versione lenta del noto standard, con il sax strumento solista. Le altre dodici canzoni fanno parte come ho già scritto di Waylon At JD’s, e vedono il nostro a capo di un quartetto che comprende lui stesso alla chitarra solista (Waylon è sempre stato un ottimo chitarrista), Gerald W. Gropp alla ritmica, Paul Foster al basso e Richard Albright alla batteria.

Come già detto si tratta di un disco di cover, con ben due omaggi a Roy Orbison, Crying e Dream Baby, più essenziali nel suono e senza gli arrangiamenti orchestrali tipici di The Big O, con Waylon che pur non avendo l’estensione vocale dell’occhialuto cantante suo conterraneo se la cava egregiamente. Deliziosa invece Don’t Think Twice, It’s Alright, il classico di Bob Dylan ripreso in una spedita rilettura country alla Johnny Cash, e decisamente piacevole anche White Lightnin’, divertente rilettura del noto successo di George Jones (scritta da J.P. Richardson, ovvero il Big Bopper che morì insieme a Holly e Ritchie Valens nel tragico incidente), con un arrangiamento elettrico tra country e rockabilly. Ci sono poi brani che in altre mani erano già delle hit country, come la squisita Sally Was A Good Old Girl (lanciata da Hank Cochran due anni prima), molto rock’n’roll in questa versione, un’ottima Love’s Gonna Live Here di Buck Owens ripresa in puro Bakersfield style, l’honky-tonk Burning Memories di Mel Tillis e la trascinante Big Mamou di Link Davis, dal ritmo molto sostenuto. Detto di un breve omaggio al vecchio amico Buddy con una It’s So Easy riveduta ma non corretta, il CD si chiude con il puro country di Abilene (di George Hamilton IV), una roccata Money (That’s What I Want) di Barrett Strong, ma più nota per la versione dei Beatles e la dolce ballata Lorena: tre brani che hanno in comune il fatto di non essere cantati da Waylon ma bensì da Gropp e Foster.

Temevo l’imbroglio, invece mi sono trovato tra le mani un dischetto piacevole ed interessante, anche se non certo imperdibile.

Marco Verdi

L’Eccezione Che Conferma La Regola: Non Tutte Le Orchestre Vengono Per Nuocere! Buddy Holly With The Royal Philarmonic Orchestra – True Love Ways

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Buddy Holly With The Royal Philarmonic Orchestra – True Love Ways – Decca/Universal CD

Sono sempre stato parecchio critico verso le operazioni di “lifting musicale”, in particolare quando vengono prese le tracce vocali di un artista scomparso alle quali viene aggiunto un accompagnamento strumentale inciso ex novo. Qualche eccezione la faccio anch’io, tipo quando si vuole in un certo modo omaggiare il proprio passato (come i Beatles con Free As A Bird e Real Love, costruite intorno a due nastri casalinghi di John Lennon) o quando un gruppo di canzoni viene lasciato in eredità (come nel caso dell’album postumo di Pops Staples Don’t Lose This uscito nel 2015 e formato da canzoni che il grande musicista aveva consegnato prima di morire alla figlia Mavis, con la raccomandazione di pubblicarle); già nel caso dei Queen, sia per l’album Made In Heaven che per i tre brani “inediti” usciti sulla compilation Queen Forever, siamo giusto a metà tra il tributo all’amico Freddie Mercury e la furba operazione commerciale. L’ultima moda in fatto di restauro musicale è prendere le registrazioni originali di grandi del passato, meglio se stelle del rock’n’roll, ed appiccicargli addosso nuove registrazioni a cura della Royal Philarmonic Orchestra: ha inaugurato il nuovo “trend”, tanto per cambiare, Elvis Presley con il terribile If I Can Dream, del quale mi sono sincerato di far sapere il mio pensiero su questo blog https://discoclub.myblog.it/2015/11/05/questanno-natale-bella-seduta-spiritica-elvis-presley-with-the-royal-philarmonic-orchestra-if-i-can-dream/ .

Eppure incredibilmente quel lavoro ha avuto anche successo, dato che sono poi usciti due seguiti (uno dei quali dedicato alle canzoni di Natale), e la moda si è estesa anche ad altri, come Roy Orbison, con ben due volumi a lui accreditati, secondo me sbagliando ancora di più in quanto la voce di Roy, già potente ed “operistica” di suo, il meglio lo ha sempre dato con arrangiamenti piuttosto sobri, e non seppellita da orchestrazioni ridondanti. Come se non bastasse, si è cominciato a pubblicare dei CD usando incisioni di artisti in quel momento ancora in vita (Aretha Franklin) o più o meno in attività (i Beach Boys), ma i risultati dal punto di vista artistico non sono migliorati granché, ed un certo sapore kitsch è sempre venuto prepotentemente a galla. Inizialmente non ero dunque propenso a considerare neanche questo True Love Ways, nuovo episodio della serie e dedicato stavolta al grande Buddy Holly, ma mi ci sono avvicinato dopo aver letto più di un commento positivo, e considerando anche il fatto che l’immagine del rocker texano scomparso tragicamente nel 1959 negli anni è stata gestita sempre in maniera molto rispettosa. E, dopo averlo ascoltato, posso infatti confermare che True Love Ways è un capitolo a parte, in quanto il lavoro di restauro è stato fatto con grande gusto e misura, e l’orchestra è sempre un passo indietro rispetto alla voce di Buddy e all’accompagnamento dei Crickets (Joe B. Mauldin e Jerry Allison).

Alle registrazioni originali sono state aggiunte anche nuove chitarre (John Parricelli e Kenny Vaughan), è stata rinforzata la sezione ritmica (con l’ausilio di Don Richardson e Steve Pierce al basso e Neal Wilkinson alla batteria) e si sono uniti anche interventi di pianoforte e sassofono. Ma il tutto è stato fatto con il massimo rispetto (dietro il progetto c’è l’ex moglie di Buddy, Maria Elena Holly) e cercando di non rovinare le sonorità originali, rendendo il risultato finale estremamente gradevole. La voce gentile di Holly viene anche valorizzata da questo restyling, al punto che in alcuni momenti sembra di ascoltare un disco inciso da poco, ed i brani contenuti nel CD brillano di una luce nuova: non è il caso di recensire le canzoni, i titoli fanno parte della storia della musica, pezzi che rispondono ai nomi di It Doesn’t Matter Anymore, Everyday, Raining In My Heart, la stessa True Love Ways, Words Of Love, Rave On, la stupenda Peggy Sue. Anche i pezzi più rock’n’roll, come That’ll Be The Day, Oh Boy e Maybe Baby, non perdono un’oncia della loro antica bellezza (e l’orchestra, ripeto, lavora di fino). D’altronde Holly era un grandissimo, e Dio solo sa cosa avrebbe potuto regalarci in seguito se solo non fosse salito su quel maledetto aereo: sono pronto a giurare (tanto non c’è la controprova) che negli anni sessanta avrebbe potuto essere tranquillamente un numero uno, dato che Elvis diventerà la parodia di sé stesso in film assurdi, Orbison calerà disco dopo disco fino a scomparire dai radar per tutti gli anni settanta, Jerry Lee Lewis avrà la carriera stroncata a causa del matrimonio con la cugina minorenne, e pure Chuck Berry a poco a poco si perderà. Se questa compilation servirà a far conoscere l’arte di Buddy Holly a generazioni più giovani (dato che, pur essendo una leggenda, per certi versi la sua figura è sempre stata un po’ di nicchia), l’operazione oltre che riuscita dal punto di vista artistico si potrà definire anche meritoria.

Un disco fatto bene non basta comunque a far cambiare idea al sottoscritto circa questo genere di iniziative, e sarò sempre pronto a “bastonare” futuri album non al livello di questo True Love Ways.

Marco Verdi

Ed Anche Quest’Anno Si Conferma L’Equazione: Natale = Live Degli Stones! The Rolling Stones – Voodoo Lounge Uncut

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The Rolling Stones – Voodoo Lounge Uncut – Eagle Rock/Universal DVD – BluRay – 2CD/DVD – 2CD/BluRay

Per i primi trent’anni della loro inimitabile carriera, non è che la discografia live dei Rolling Stones rispecchiasse fedelmente la loro bravura dal vivo: a parte il fondamentale Get Yer Ya Ya’s Out del 1970, per anni i nostri non erano stati in grado di regalare ai fans un album dal vivo come Dio comandava (Got Live If You Want It era una mezza presa in giro, Love You Live era bello ma avrebbe potuto essere molto meglio, e sia Still Life che Flashpoint erano piuttosto deludenti). Poi, dallo splendido Stripped del 1995 in avanti, le Pietre si sono messe a pubblicare dischi live con una regolarità impressionante, abbinando quantità a qualità, e molti di essi sono stati messi in commercio nel periodo tardo autunnale, in tempo per lo shopping natalizio, sia per quanto riguarda i concerti d’archivio (fuori e dentro la serie From The Vault https://discoclub.myblog.it/2018/05/26/dagli-archivi-senza-fine-a-luglio-un-nuovo-capitolo-della-saga-rolling-stones-from-the-vault-no-security-san-jose-99/ ), sia per quelli “contemporanei” (Sweet Summer Sun, Havana Moon). Non si sottrae alla regola questo Voodoo Lounge Uncut, che esce nelle solite varie configurazioni audio e video, e che come suggerisce il titolo proviene dal tour intrapreso in supporto all’album Voodoo Lounge del 1994, lo stesso giro di spettacoli che aveva dato vita a Stripped (ed al suo monumentale ed imperdibile seguito, Totally Strippedhttps://discoclub.myblog.it/2016/06/24/21-anni-fa-era-imperdibile-ora-indispensabile-the-rolling-stones-totally-stripped/ .

Voodoo Lounge aveva segnato il ritorno alla forma ottimale per il gruppo di Mick Jagger, Keith Richards, Ronnie Wood e Charlie Watts (era infatti il primo lavoro senza il bassista Bill Wyman), un grande disco che vedeva all’opera una band ispirata e decisamente “sul pezzo” dopo una decade, gli anni ottanta, che aveva riservato a loro ed ai fans quasi solo delusioni (anche se Steel Wheels del 1989 mostrava qualche segnale di ripresa): un album quindi che si poteva tranquillamente definire come il loro migliore da Some Girls (Tattoo You, pur ottimo, era formato all’80% da outtakes rimaneggiate, alcune anche con dieci anni sulle spalle), e che si rivelerà più riuscito anche dei suoi due seguiti composti da materiale originale, Bridges To Babylon e A Bigger Bang. Anche la tournée seguente vedeva i nostri in forma eccellente, come se fossero ancora negli anni settanta, aiutati da una superband che li accompagnerà per molti anni, e che in molte individualità è con loro ancora oggi (Darryl Jones al basso, Chuck Leavell alle tastiere, la sezione fiati di quattro elementi guidata dall’ormai scomparso Bobby Keys, ed un trio di coristi formato da Lisa Fisher, Blondie Chaplin e Bernard Fowler): Voodoo Lounge Uncut ci presenta una splendida serata del 25 Novembre 1994 al Joe Robbie Stadium di Miami, che non è del tutto inedita in quanto all’epoca era uscita su VHS e su LaserDisc: qui però abbiamo per la prima volta il concerto anche in versione audio e, soprattutto, completo, dato che allora erano state “tagliate” ben dieci canzoni (da qui l’Uncut del titolo). E la serata è, manco a dirlo, strepitosa, con gli Stones in forma spettacolare e con una scaletta che riserva anche più di una sorpresa, non limitandosi soltanto a riproporre i loro successi (che comunque non mancano di certo).

Dopo un’introduzione da parte dell’attrice Whoopi Goldberg, il concerto inizia in maniera insolita, e cioè con la tambureggiante Not Fade Away, evergreen di Buddy Holly che i nostri incisero in gioventù. Poi però il rock’n’roll prende subito il sopravvento, con due classici da Exile On Main Street, la ruspante Tumbling Dice ed una Rocks Off più trascinante che mai, inframmezzate da uno dei brani all’epoca nuovi, cioè la potente You Got Me Rocking. A dire il vero i pezzi tratti da Voodoo Lounge non sono molti altri, solo la torrida I Go Wild, la graffiante Sparks Will Fly, puro rock’n’roll Stones-style, e la toccante The Worst, cantata da Richards con la consueta voce imperfetta ma piena di feeling (ed accoppiata alla guizzante Before They Make Me Run, sempre molto apprezzata). Come dicevo, le hits non mancano (Satisfaction, posta stranamente in settima posizione nella setlist, la ballatona Angie, Miss You, che fa ballare tutto lo stadio, Honky Tonk Women, Sympathy For The Devil), ma ci sono anche diverse chicche come lo splendido errebi Beast Of Burden (grande versione), la poco nota Doo Doo Doo Doo Doo (Heartbreaker) e, dagli anni sessanta, una scintillante It’s All Over Now e la quasi dimenticata Monkey Man. Ma il magic moment dello show, almeno secondo me, è un uno-due a tutto country-rock formato da Dead Flowers e Sweet Virginia, due canzoni meravigliose che in quella sera brillano ancor più di luce propria, una più bella dell’altra.

In una serata speciale non possono mancare gli ospiti, a partire dalla bella Sheryl Crow (all’epoca molto in auge), alle prese con la vintage Live With Me (performance per la verità un po’ tirata via), e soprattutto con un doppio momento blues, prima con Robert Cray che canta e suona da par suo sulle note di Stop Breaking Down Blues di Robert Johnson, e poi con il leggendario Bo Diddley e la sua chitarra rettangolare con una infuocata Who Do You Love?, versione formidabile, tra le migliori prestazioni della serata. Infine, solita chiusura micidiale con cinque classici rock’n’roll uno di fila all’altro, Street Fighting Man, Start Me Up, It’s Only Rock’n’Roll (But I Like It), Brown Sugar e Jumpin’ Jack Flash, canzoni ascoltate mille volte ma che ogni sera i nostri suonano come se fossero ancora giovani ed affamati. Il DVD (o BluRay) offre anche cinque pezzi bonus, tratti da una serata al Giants Stadium in New Jersey, che però non ho ancora visto in quanto ho fatto questa recensione sulla parte audio (per la cronaca, i brani sono Shattered, Out Of Tears, All Down The Line, I Can’t Get Next To You dei Temptations e Happy).

Altro grande concerto ed altro documento prezioso quindi; l’anno prossimo i Rolling Stones porteranno il loro No Filter Tour negli Stati Uniti per tredici serate: scommettiamo che il prossimo live album sarà tratto da uno di questi concerti? Magari Chicago?

Marco Verdi

Lo Springsteen Della Domenica: Altra Storica Testimonianza Da Un Tour Leggendario! Bruce Springsteen & The E Street Band – The Roxy, July 7, 1978

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Bruce Springsteen & The E Street Band – The Roxy, July 7, 1978 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Se la tournée del 1975 aveva creato grande interesse dei media e del pubblico nei confronti della figura di Bruce Springsteen, quella lunghissima ed estenuante del 1978 fece entrare il nostro nel mito, insieme alla sua E Street Band, come performer dal vivo. Bruce aveva da poco pubblicato Darkness On The Edge Of Town, un album eccezionale (per molti il suo migliore) che risentiva delle tensioni accumulate in quegli anni a seguito dei problemi legali con Mike Appel che avevano rischiato di stroncargli la carriera. Ed il lungo tour era la logica conseguenza di quel disco sofferto, con performance interminabili ed infuocate, vere e proprie celebrazioni rock come non si erano mai viste fino a quel momento, ed alcune serate vennero tramandate ai posteri come leggendarie. La serie degli archivi live del Boss, che da qualche tempo viene aggiornata mensilmente, ha già all’attivo tre serate del 1978, il mitizzato show all’Agora Ballroom di Cleveland, quello altrettanto noto di Passaic, ed il meno famoso concerto di Houston di fine tour: l’altro spettacolo che tra i fans del Boss era sicuramente nella Top Ten assoluta era quello del 7 Luglio al mitico Roxy Theatre di West Hollywood, ed oggi possiamo gustarcelo in tutto il suo splendore, inciso alla grande e finalmente al completo.

Ho detto al completo in quanto otto pezzi di questa serata erano già usciti ufficialmente sul discusso box Live 1975-85, ma ora trovano posto nel loro contesto originale, ed è tutta un’altra cosa, anche se, istigati dal famoso  “All you bootleggers out there in Radioland, roll your tapes!”, lanciato proprio in occasione di questo broadcast radiofonico, di registrazioni, anche ottime, di questa data ne esistono a iosa. Un concerto magnifico quindi, potente  ed arso dal sacro fuoco che Bruce produceva in ogni serata, con la band che gira che è una meraviglia (all’epoca erano in sette incluso il leader: Roy Bittan, Little Steven, Garry Tallent, Danny Federici, Clarence Clemons e Max Weinberg) e quello che ancora più stupisce è la prova vocale del Boss, che nelle tre ore abbondanti di show non ha mai un cedimento o una sbavatura, quasi come se fosse stato inciso in studio, ed in varie sessioni. Dopo una breve introduzione parlata lo show inizia subito in maniera irresistibile con una strepitosa versione di Rave On di Buddy Holly, che dimostra che il gruppo è già bello caldo, a cui fanno seguito una potente Badlands, che fa saltare per aria il teatro, ed una fulgida Spirit In The Night, con il nostro che ha già la folla in pugno ed inizia a gigioneggiare alla sua maniera. Oltre alla citata Badlands, ci sono altre sei canzoni prese dall’allora recente Darkness On The Edge Of Town: se Candy’s Room non mi ha mai fatto impazzire, le altre sono magnifiche, dalla title track, un concentrato di potenza ed intensità, alle trascinanti The Promised Land e Prove It All Night (quest’ultima con la strepitosa introduzione strumentale dell’epoca), senza dimenticare una devastante Adam Raised A Cain, in cui le chitarre quasi urlano, ed una Racing In The Street mai così bella (e con uno straordinario Bittan).

Ma gli highlights non sono certo finiti qui, in quanto il Boss ci delizia con una frizzante For You, che non ricordavo così bella, una magica Thunder Road messa a chiusura della prima parte, un’anteprima di The River con una emozionante Point Blank, già tesa e drammatica, ed un doppio omaggio ai suoi esordi con Growin’ Up e It’s Hard To Be A Saint In The City (con grande assolo chitarristico finale) una in fila all’altra. E come ciliegina una monumentale Backstreets di dodici minuti, considerata una delle più belle mai eseguite (e che è stata incredibilmente dimenticata nella tracklist stampata sul retro del CD). Detto di due omaggi a grandi del rock’n’roll come Bo Diddley (Mona, che si fonde con She’s The One) ed Elvis Presley (una sorprendente Heartbreak Hotel), il concerto volge al termine con le immancabili Rosalita e Born To Run, oltre che con un altro brano inedito che finirà su The River, e cioè una struggente Independence Day per piano solo, un momento di straordinario pathos che Bruce dedica a suo padre. Gran finale con la travolgente Because The Night, che all’epoca Patti Smith aveva appena pubblicato, ed una conclusione pirotecnica a tutto errebi (Raise Your Hand) e rock’n’roll (Twist And Shout, dopo una lunga attesa), un uno-due che non fa prigionieri.

Il tutto succedeva quarant’anni fa, ma ad ascolto ultimato vi sembrerà di esserci appena stati di persona.

Marco Verdi

Un Tedesco “Americano”. Markus Rill & The Troublemakers – Dream Anyway

markus rill dream anyway

Markus Rill & The Troublemakers – Dream Anyway – Blue Rose

Markus Rill è nato a Francoforte, Germania, nel 1970: non il primo posto dove uno può innamorarsi della musica “Americana”. Ma un viaggio di studio ad Austin, per completare gli studi, può sicuramente aiutare, anche a conoscere la musica di Guy Clark e Townes Van Zandt, che, uniti alla passione per l’immancabile Bob Dylan, forgiano i gusti del giovane Markus, che negli anni ’90 inizia a fare musica. E nel 1996 sarà l’opener del concerto di uno dei suoi idoli, Van Zandt, quando il texano passa dalla Germania per un concerto. Nel 1997 Rill pubblica a livello indipendente il suo primo album Gunslinger’s Tales, poi, nel corso degli anni, ne seguiranno parecchi altri, una decina in tutto, perlopiù su Blue Rose, di cui tre registrati a Nashville, con molti musicisti locali, e ristampati in un box quadruplo The Nashville Albums, che contiene anche un quarto album, dove molti colleghi di etichetta re-interpretano le sue canzoni in una sorta di omaggio.

Questo Dream Anyway è’ il secondo disco che registra con i Troublemakers, la sua band tedesca, e segue My Rocket Ship, che aveva avuto giudizi contrastanti, ancorché abbastanza positivi. Sin dalla foto di copertina, che lo vede di fronte ad un microfono vintage con ciuffo d’ordinanza, si capisce perché gente come Tom Waits e Bonnie Raitt ha espresso apprezzamento per il tuo lavoro, come pure Rosanne Cash, Gretchen Peters e Ray Wylie Hubbard, che, con ironia, si è spinto a dire, “se vi piacciono le boy bands probabilmente odierete Markus Rill”, che anche per chi scrive è un grandissimo complimento. I tredici brani del nuovo album hanno, a tratti, un’aria da heartland rock quasi alla Mellencamp o alla Springsteen vecchia scuola, per esempio la bellissima Something Great, che apre le operazioni con una verve ed una grinta che non sempre si riscontrano nei suoi dischi. Walk On Water, con i suoi intrecci di mandolini, bouzouki e chitarre acustiche, è un bel pezzo di folk-rock con una melodia ricorrente che ti rimane in testa, sicuramente aiutata dalla voce calda ed espressiva di Rill, che forse non è un grandissimo cantante, ma se la cava egregiamente, mentre The Pauper’s Daughter, con la voce di supporto della tastierista e suonatrice di fisarmonica Manuela Huber, è più intima e raccolta, ma sempre godibile nella sua semplicità. Caroline’s Confession, con banjo e fisa a fronteggiare le due chitarre elettriche ricorda la musica di certi cantautori irlandesi, ma di scuola americana, come Paul Brady o Luka Bloom, notevole il solo di chitarra di Marco Hohner nella lunga outro del brano.

Molto piacevole il country-folk della deliziosa Poor man’s set of wheels, che ricorda certe cose dei Lowlands dell’amico Ed Abbiati, tra America e Scozia come impronta sonora (qualcuno ha anche detto Waterboys?) In effetti anche Mike Scott potrebbe essere tra le influenze di questo musicista. Losing My Mind è la classica ballata da cantautore consumato, dolce ed avvolgente, grazie all’intreccio tra chitarre acustiche, elettriche e tastiere. Ovviamente avrete capito che il “country” di questo album è quello che arriva dall’Other Side Of Nashville, quello intriso di musica delle radici, che qualcuno chiama “americana” anche se non tutti apprezzano il termine. The Girls On The Polka Dot Dress con il suo riff alla Buddy Holly, torna a “roccare” decisa, con un bel drive di batteria e le armonie vocali di Manuela e Marco, che poi rilascia un breve assolo di slide. Over Long Ago, una storia di abuso sui bambini, si regge sul lavoro del piano, ben sostenuto da contrabbasso e batteria spazzolata, oltre ad una lap steel appena accennata, con Hands Of mercy, dalla costruzione sixties, grazie al jingle-jangle della chitarra, al suono dell’organo farfisa e alle delicate armonie vocali, ha un’aria più scanzonata. E Some Democracy è la folk song sugli inganni della “politica”, la canzone più impegnata del disco, anche se l’arrangiamento con banjo e armonica non ha forse la grinta che ci si aspetta, vagamente alla Cockburn, ma il canadese le fa molto meglio. Better, come dice il titolo, è decisamente meglio, un pezzo rock dall’appeal vagamente pettyano, con un bel apporto da parte delle chitarre elettriche, Roll Along ha un buon lavoro di Rill alla chitarra Resonator, ma non decolla, come altri brani dell’album, e questo è forse il difetto del disco, buono nell’insieme ma senza troppi picchi qualitativi, salvo, per esempio, proprio nella conclusiva Dream Anyway, di nuovo ricca di grinta rock’n’roll, con una bella armonica springsteeniana.

Bruno Conti

Testi Da Film Porno, Ma Musica Bellissima! Wheeler Walker Jr. – Redneck Shit

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Wheeler Walker Jr. – Redneck Shit – Pepper Hill/Thirty Tigers CD

Nel vasto panorama hard rock statunitense c’è una band chiamata Steel Panthers che ripropone il classico look e le sonorità del cosiddetto hair metal degli anni ottanta (per intenderci, band come Motley Crue, Poison, Cinderella, ecc.), abbinando il tutto ad un repertorio di canzoni talmente sboccate da sfiorare quasi la parodia (credo volutamente) di un certo stile di vita Sex, Drugs & Rock’N’Roll tipico di quegli anni. Si sa che però il pubblico di quel tipo di musica è aperto ad un certo tipo di testi, mentre è risaputo che viceversa i fruitori di musica country, anche qualora prediligenti il filone più progressista, hanno gusti ed abitudini molto più tradizionali. Immagino quindi lo sconquasso che provocherà l’album di debutto di Wheeler Walker Jr., musicista del Kentucky, che già dal titolo, Redneck Shit, lascia ben poco all’immaginazione: l’album è formato infatti da undici brani di una volgarità inaudita, con titoli inequivocabili e testi (non inclusi, ma si capiscono benissimo lo stesso) che farebbero arrossire anche il più rozzo dei camionisti texani. Chiaramente in America le recensioni ed i commenti saranno tutti per il linguaggio usato da Walker, ed è un vero peccato, in quanto la musica presente in Redneck Shit è quanto di meglio si possa trovare oggi in ambito country: innanzitutto va detto che il produttore è l’ormai nostro beniamino Dave Cobb (e comincio ormai a sospettare che le sue giornate siano formate da più di 24 ore), uno che è una garanzia di qualità, ma il merito principale va riconosciuto a Walker, un countryman davvero con le palle, che coniuga country elettrico, rock’n’roll e boogie in una miscela irresistibile e con un senso del ritmo e della melodia non da tutti.

I suoi eroi sono un po’ i soliti, da Waylon Jennings a Willie Nelson passando per Merle Haggard, ma Wheeler riesce a non essere derivativo per nulla, mettendo nei suoi pezzi una freschezza ed un feeling che non sentivo da tempo: Cobb poi ci mette il suo tocco, e la band che accompagna il nostro suona che è un piacere (oltre a Cobb stesso, ci sono i fratelli Leroy e Chris Powell rispettivamente alle chitarre e batteria, oltre a Bryan Allen al basso), pochi musicisti ma con un tiro notevole, tanto da farci spesso dimenticare i testi da censura. Apre la title track, veloce e spigolosa, con un riff ripetuto ed un ritornello scorrevole (anche se sboccatissimo), seguita a ruota da Beer, Weed, Cooches, molto più country (bella la steel), un ritmo saltellante, arrangiamento d’altri tempi ed un refrain decisamente orecchiabile: Wheeler dimostra di non essere un bluff, e la mano di Cobb inizia a sentirsi. La languida Family Tree è una malinconica ballad dallo splendido ritornello (con però un testo da censura pesante), mentre Can’t Fuck You Off My Mind è puro rockabilly, voce chiara, gran ritmo e due belle chitarrine che lavorano sullo sfondo.

Fuck You Bitch (non vi serve la traduzione, vero?) è una bellissima ballata in puro stile cosmic country, quasi un pezzo sullo stile di Gram Parsons, con Cobb che la veste alla perfezione: peccato per le parole, di una volgarità quasi fastidiosa (e ve lo dice uno che è tutto meno che moralista, anzi non li posso vedere) più che altro perché  rischiano di far passare in secondo piano un talento musicale non indifferente. Drop ‘Em Out è un breve divertissement con un irresistibile refrain corale, Eatin’ Pussy/Kickin’ Ass è un boogie tosto e granitico sullo stile di La Grange (giuro), con un’armonica tagliente sullo sfondo, una chitarrona pressante ed il nostro che mostra di sapersi muovere anche in territori diversi https://www.youtube.com/watch?v=vlq9UWWqe44 ; Fightin’, Fuckin’, Fartin’ è un’allegra country song molto Buddy Holly, davvero godibile anche se è meglio non parlare del testo. Better Off Beatin’ Off  ha un’ottima melodia ed un accompagnamento scintillante, una country ballad elettrica di notevole spessore, la guizzante Sit On My Face ha reminiscenze wayloniane, mentre Which One O’ You Queers Gonna Suck My Dick? (provo imbarazzo solo a scriverli certi titoli) è un altro boogie’n’roll scatenato, che chiude positivamente un piccolo grande disco.

Peccato per i testi volgarissimi, più che altro perché rischiano di mettere in cattiva luce sia Wheeler Walker Jr. che l’ottima musica da lui proposta.

Marco Verdi