Tutti Bravi Ma…La Voce Dov’è? Dale Watson – Presents: The Memphians

dale watson presents the memphians

Dale Watson – Presents: The Memphians – BFD CD

Dale Watson, prolifico countryman nativo dell’Alabama ma texano d’adozione, è fermo discograficamente a Call Me Lucky del 2019, ma non è che nel frattempo se ne sia stato con le mani in mano. Al contrario, ha apportato alla sua vita un paio di cambiamenti piuttosto importanti: si è trasferito da Austin a Memphis (dove ha aperto anche un ristorante, Hernando’s Hideaway, ed uno studio di registrazione) e si è sposato con la singer-songwriter Celine Lee. Ma il passaggio a Memphis ha portato in Dale anche un mutamento dal punto di vista musicale, in quanto il suo nuovo lavoro The Memphians è in tutto e per tutto un tributo alla sua nuova città ed alle origini del rock’n’roll, un album in cui il nostro mostra influenze alternative a quelle dei suoi “honky-tonk heroes”: Elvis Presley, Carl Perkins, i dischi della Sun Records e, essendo Dale anche un valido chitarrista, gente come Scotty Moore, Hank Marvin, Duane Eddy e lo stesso Perkins. The Memphians è quindi un disco molto meno country del solito, ma che presenta un range sonoro che va dal rock’n’roll allo swing, dal rockabilly alla ballata anni 50 e che, soprattutto, non ci fa sentire la bella voce baritonale di Watson in quanto è un lavoro al 100% strumentale.

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A dire il vero quando ho letto questa notizia ho storto un po’ il naso, nello stesso modo in cui l’avevo storto nel 1999 (facendo le debite proporzioni tra i due artisti) quando Willie Nelson aveva pubblicato lo strumentale Night And Day: ad ascolto ultimato però devo ammettere che The Memphians risulta essere un dischetto godibile e ben fatto, che regala all’ascoltatore mezz’oretta indubbiamente piacevole, anche se io al Dale Watson cantante non rinuncerei mai. C’è anche un po’ di Italia, in quanto il secondo chitarrista (e co-autore con Watson di quattro pezzi, mentre gli altri sono del solo Dale) è il catanese trapiantato a Memphis Mario Monterosso, affiancato dalla sezione ritmica di Carl Caspersen al basso e Danny Banks alla batteria, e soprattutto dal bravissimo pianista T. Jarrod Bonta, collaboratore di lungo corso del leader, e dall’ottimo sassofonista Jim Spake. L’iniziale Agent Elvis è un chiaro omaggio a Duane Eddy, un pezzo cadenzato con chitarrone twang in evidenza ed il sax che si prende il suo spazio mentre in sottofondo la band accompagna con discrezione guidata dal pianoforte spazzolato da Bonta https://www.youtube.com/watch?v=5YMhC-Clr0k . Dalynn Grace, languida ballata d’altri tempi che fa venire in mente gli episodi più melodici di Elvis (ma la voce, come ho già detto, non c’è), con una chitarra vagamente hawaiana ed un ritmo da bossa nova https://www.youtube.com/watch?v=xX4jZ04UL38 , si contrappone alla spedita Alone Ranger, brano di stampo quasi western che riprende il sound degli Shadows, con sax ed organo che si ritagliano entrambi una parte da solisti https://www.youtube.com/watch?v=Xy81bQmz16s .

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Standin’ In Line è una gradevolissima canzone ritmata e ricca di swing, tra country e rockabilly con una spruzzata di jazz, Serene Lee riporta il CD su languide atmosfere da ballo della mattonella (mi aspetto di sentire arrivare Chris Isaak da un momento all’altro), Deep Eddy è un altro suggestivo pezzo che profuma di Shadows lontano un miglio, con un approccio raffinato ed una delle migliori performance chitarristiche del disco. Hernando’s Swang è ispirata al locale aperto da Dale a Memphis, ed è un coinvolgente brano a tutto swing con i soliti eccellenti spunti di piano e sax https://www.youtube.com/watch?v=JR3X_JYyXSM , Mi Scusi (avete letto bene) è puro rock’n’roll dal ritmo decisamente sostenuto https://www.youtube.com/watch?v=pKWrs3G_DpE , mentre 2020 riavvicina il nostro al country con una veloce canzone influenzata da Chet Atkins, e la conclusiva Remembering Gary vede Dale lasciarci con uno slow suadente e dall’aria nostalgica. Dopo anni di ottimo honky-tonk texano ci sta che Dale Watson possa cambiare genere, ma la scelta di non usare la voce ha reso The Memphians niente più di un piacevole divertissement.

Marco Verdi

George Thorogood: Mr. Bad To The Bone! Parte II

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(MANDATORY CREDIT Ebet Roberts/Getty Images) UNITED STATES - JULY 13: Photo of LIVE AID and Bo DIDDLEY and George THOROGOOD; w/ Bo Diddley at Live Aid (Photo by Ebet Roberts/Redferns)

(MANDATORY CREDIT Ebet Roberts/Getty Images) UNITED STATES – JULY 13: Photo of LIVE AID and Bo DIDDLEY and George THOROGOOD; w/ Bo Diddley at Live Aid (Photo by Ebet Roberts/Redferns)

Seconda Parte.

Gli Anni Della Consacrazione Commerciale E La Conseguente Discesa 1985-1999

Dopo tre anni di concerti infiniti ( ne parliamo a fine articolo) si arriva al nuovo album di studio, nell’anno della partecipazione al Live Aid esce

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Maverick – 1985 Emi America – ***1/2 Dove arriva il nuovo produttore Terry Manning, partito con il soul Stax e poi passato anche per i Led Zeppelin fino ad approdare agli ZZ Top, un’altra band che di boogie e blues se ne intendeva, il suono si fa un più duro e mainstream, ma i nostri ci danno dentro comunque, come dimostra l’uno-due iniziale di Gear Jammer che va di slide, e I Drink Alone, un altro dei grandi cavalli di battaglia di Thorogood, che complessivamente firma ben quattro canzoni https://www.youtube.com/watch?v=4E9ydw_aDMg , notevole anche la famosa Willie And The Hand Jive di Johnny Otis, l’unico singolo che in carriera entrerà nella Top 100, forse perché sembra in tutto e per tutto un brano alla Bo Diddley https://www.youtube.com/watch?v=AuNOkGnEme8 . Insomma la qualità dei dischi comincia a diminuire, benché il tocco country di What A Price di Fats Domino e ldela conclusiva The Ballad Of Maverick e il rockabilly di Dixie Fried di Carl Perkins non sono per niente male, e una minacciosa e sospesa Crawling King Snake di Sor John Lee Hooker, e ben due Chuck Berry il medley Memphis/Little Marie e Go Go Go, dimostrano che il tocco magico non è scomparso. Dopo altri tre anni, e il primo disco ufficiale dal vivo arriva

George Thorogood BornToBeBad

Born To Be Bad – 1988 EMI *** Ancora Terry Manning in cabina di regia, suono sempre troppo secco e anni ‘80, anche se alcuni brani tirano di brutto, come l’iniziale Shake Your Money Maker dell’amato Elmore James dove Thorogood va di bottleneck con libidine  https://www.youtube.com/watch?v=pNKFePZk3rQ , come pure in Highway 49 di Big Joe Williams, rock’n’roll per You Can’t Catch Me e I’m Ready quella di Fats Domino, un po’ di R&B scatenato in Treat Her Right a tutto sax, blues nella “cattiva” e ululante Smokestack Lightning e nel train time di I’m Movin’ On, successo di vendite e fama sempre stabili. Dopo altri tre anni si entra nella nuova decade, con l’arrivo di un nuovo chitarrista Steve Chrismar che appare in

George Thorogood BoogiePeople

Boogie People – 1991 EMI ***1/2, con un suono decisamente più grintoso e sul versante blues-rock e classic rock, come testimonia l’iniziale If You Don’t Start Drinkin’, molto buona Long Distance Lover a tutta slide, il classico boogie Mad Man Blues di John Lee Hooker, come pure la cover acustica di I Can’t Be Satisfied di Muddy Waters, solo voce e chitarra con bottleneck, non un granché la title track, ottima la “lupesca” No Place To Go di Howlin’ Wolf https://www.youtube.com/watch?v=7burMF7K-Lk  , seguita da una gagliarda Six Days On The Road e dalla tirata Born In Chicago, con ottimo lavoro della solista, un tuffo nel country con la piacevole Oklahoma Sweetheart e l’omaggio R&R all’amato Chuck Berry con la riffatissima Hello Little Girl. Quindi un buon disco, che però non ha successo e segnala un declino del successo di Thorogood, che procede anche con il successivo

George Thorogood -Haircut

Haircut – 1993 Capitol *** Un solo pezzo firmato da George, su, indovinato, i canonici dieci: produce ancora Manning, Get A Haircut è un brano divertente ma non essenziale, questa volta ci sono tre canzoni a firma Wiilie Dixon, due per Howlin’ Wolf, tra cui la classica Howlin’ For My Baby, oltre a I’m Ready che ogni tanto Thorogood incide in studio, bene anche Cops And Robbers con il tipico drive sonoro del suo autore Bo Diddley https://www.youtube.com/watch?v=l7QKNP-C-CU , l’immancabile John Lee Hooker di Want Ad Blues e una “strana” Gone Dead Train, un pezzo cantato in origine da Randy Newman nella colonna sonora di Performance, il film con Mick Jagger https://www.youtube.com/watch?v=dSgWQSVGgig . Anche questo disco non rientra nella categoria degli indispensabili. Dopo quattro anni arriva l’ultimo CD per la Capitol, anche questo, per usare un eufemismo, non particolarmente brillante, parliamo di

George Thorogood RockinMyLifeAway

Rockin’ My Life Away – 1997 Capitol **1/2 Prodotto dalla band insieme a Waddy Wachtel(!), variazione sul tema ci sono 12 brani, alcuni anche inconsueti: Trouble Every Day di Frank Zappa, che in questa versione sembra un brano della J.Geils Band, anche vocalmente https://www.youtube.com/watch?v=UT6DRjA8k7s , mentre in Night Rider si va di slide, ma il brano è moscio, anche in The Usual, una bella canzone di John Hiatt il suono non sembra particolarmente brillante, e così via, anche il country Living With the Shades Pulled Down di Merle Haggard non acchiappa più di tanto, si salvano, a fatica, Manhattan Slide di Elmore James, il R&R della title track, e la cadenzata Blues Hangover di Slim Harpo. Non un brutto disco, ma manca la grinte e per un disco di Thorogood è una eresia: per il successivo album, l’ultimo del millennio

George Thorogood Half_a_BoyHalf_a_Man

Half a Boy/Half a Man – 1999 CMC *** torna Terry Manning alla produzione, un po’ meglio, ma niente di che. C’è anche una nuova etichetta del gruppo BMG, ma la collaborazione durerà per un solo album, più un Live: per confondere le idee si prova con 11 canzoni, solo un Chuck Berry e un Fats Domino, poi brani abbastanza oscuri di Keith Sykes B.I.G.T.I.M.E., la title track di Nick Lowe, un pezzo poco noto di Solomon Burke come Be Bop Grandma https://www.youtube.com/watch?v=gawgzsAqL4I  , ma anche due canzoni firmate da Willie Dixon, una per Little Walter e una per Magic Sam, in quota Blues, e Double Shot, tra R&R e R&B. Dopo una pausa di quattro anni, nuovo secolo, nuova casa discografica, nuovo produttore

george thorogood 2000's

Gli Anni 2000, Con Colpo Di Coda Finale.

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Ride ‘Til I Die – 2003 Eagle Records***1/2 Dietro la consolle c’è Jim Gaines, uno che di solito di blues ne capisce (ma non sempre), però questa volta ci siamo, anche l’arrivo di Jim Suhler, altro chitarrista coi fiocchi, controfiocchi e pappafico, alza il livello, forse non tutte le canzoni sono all’altezza, però: Greedy Man, scritta dal sassofonista jazz Woody Shaw è un ottima partenza, con la slide di George che si confronta con il sax di Hank Carter alla ultima apparizione con i Destroyers https://www.youtube.com/watch?v=y-ZyrDQpAu4 , Sweet Little Lady è un buon pezzo rock dove Thorogood e Suhler che sono anche gli autori se le suonano di gusto, Don’t Let The Bossman Get You Down è un gagliardo blues elettrico di Elvin Bishop del 1991, mentre anche il pezzo di JJ Cale Devil In Disguise subisce il trattamento boogie à la Destroyers, poi ripetuto nella ruvida She’s Gone di Hound Dog Taylor https://www.youtube.com/watch?v=0c7H3mWWwK8 , The Fixer è un robusto rock-blues scritto da Tom Hambridge il batterista/produttore. You Don’t Love Me, You Don’t Care, un brano di Bo Didley, sembra La Grange parte 2, veramente potente, poi si va di R&R con My Way di Eddie Cochran, e niente male anche That’s It I Quit, un tipico pezzo di Nick Lowe, e pure come country ci siamo, I Washed My Hands In Muddy Water, un pezzo che anche Elvis Presley incise in Elvis Country è veramente delizioso https://www.youtube.com/watch?v=QfofoLFQLhU , Move It di Chuck Berry è una garanzia, come pure la title track, un pezzo di John Lee Hooker, in versione acustica ma trascinante. Tre anni dopo arriva

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The Hard Stuff – 2006 Eagle Records ***1/2 Altro buon album, il 13° in studio prodotto nuovamente da Gaines, addirittura ben 15 brani (e nel precedente ce ne erano 13): con il nuovo sassofonista Buddy Leach, che è tuttora con i Destroyers, e una scelta del materiale interessante, grazie anche alla presenza di Rick Steff, alla fisarmonica e piano, e dell’aggiunta di Tom Hambridge, come co-produttore e autore di quattro canzoni, tra cui la esplosiva title-track https://www.youtube.com/watch?v=j1lCNtLQ1mM , la riffatissima I Did’t Know e Any Town U.S.A che sembra un brano del Mellencamp più rock https://www.youtube.com/watch?v=2THiY8mV148 . Ottime Hello Josephine di Fats Domino, che grazie alla fisa sembra, un pezzo cajun https://www.youtube.com/watch?v=3mxdw8j8iOI , Little Rain Falling una bella blues ballad con uso sax, scritta da Jimmy Reed, Dynaflow Blues di Johnny Shines dove George si esibisce alla acustica con bottleneck, una scatenata Rock Party scritta dal musicista contemporaneo texano Holland K. Smith, che sembra un pezzo dei migliori Rockpile o Blasters. Eccellente anche una rispettosa cover di Drifter’s Escape di Bob Dylan, la turbolenta Give Me Back My Wig del vate Hound Tog Taylor, la magnifica Taking Care Of Business, con profumi di Louisiana, grazie al suo autore Rudy Toombs, e un superbo lavoro del nostro alla slide https://www.youtube.com/watch?v=uEi2CN-KbfA , che poi si ripete nella vorticosa Huckle Up Baby di John Lee Hooker. Questo è il Thorogood che ci piace, che poi torna alla Capitol per l’ultimo album pubblicato nella decade

George Thorogood TheDirtyDozen

The Dirty Dozen – 2009 Capitol *** Anche se è una mezza fregatura, perché a fianco di sei brani nuovi tutti belli, ci sono sei canzoni tratte dai vecchi dischi della EMI. Il produttore è ancora Jim Gaines: le sei canzoni nuove sono tutte cover, Tail Dragger, Willie Dixon per Howlin’ Wolf, solita formula dei Destroyers, ovvero sano rock-blues tirato https://www.youtube.com/watch?v=beGfipR1mIY , Drop Down Mama è di Sleepy John Estes, un boogie con slide, una sorta di southern rock nordista, vista l’origine del nostro, Run Myself Out Of Townè un pezzo degli Holmes Brothers, un bel roots-rock, Born Lover di Muddy Waters, sempre con bottleneck a manetta, è un boogie rock travolgente, Twenty Dollar Gig tra R&R e R&B, con sax in evidenza e Let Me Pass di Ellas McDaniel completano il CD a tempo di robusto Bo Diddley beat.

george thorogood live in boston 1982 first edition

La nuova decade parte con il botto: intanto nel 2010 viene pubblicato il Live In Boston 1982 ****, dalla Rounder, la vecchia etichetta di George,che è stato diciamo la causa scatenante per questo articolo. All’inizio dell’anno successivo esce un altro eccellente album della discografia del musicista di Wilmington, ovvero l’ottimo

George Thorogood 2120_South_Michigan_Ave.

2120 South Michigan Avenue – 2011 Capitol **** Stiamo parlando dell’indirizzo dei famosi Chess Studios a Chicago, una delle mecche del blues, dove anche i Rolling Stones registrarono negli anni ‘60. Il produttore è di nuovo Tom Hardbridge, e come ospiti appaiono Buddy Guy, in una strepitosa rilettura di Hi-Heel Sneakers, un brano di Tommy Tucker dove i due chitarristi, soprattutto Guy, se le “suonano” di santa ragione https://www.youtube.com/watch?v=rhQtXHN8TvM , e anche Charlie Musselwhite è presente in due brani, prima una vibrante My Babe e poi nella title track, attribuita a Nanker Phelge, che era lo pseudonimo che usavano i Rolling Stones per le composizioni collettive, a piano ed organo per questo strumentale molto sixties anche Kevin McKendree, che insieme a Tommy McDonald e Hambridge, suona in alcuni brani del CD, quando non appaiono i Destroyers https://www.youtube.com/watch?v=SYMQQzIOFyg . Ottimi anche i due brani dell’accoppiata Thorogood/Hambridge, la potentissima Going Back a tutta slide e Willie Dixon’s Gone, altra blues song tosta e poi una sequenza di classici del blues, Seventh Son, Spoonful, Two Trains Running, Mama Talk To Your Daughter, Help Me, Chicago Bound e del rock and roll, Let It Rock e Bo Diddley, tutti eseguiti in modo brillantissimo con Thorogood in grande spolvero https://www.youtube.com/watch?v=u7UlDyUcV4I . Sembrava essere un ritorno di George ai livelli della prima parte di carriera, e invece cala il silenzio. Concerti dal vivo ne escono un paio, uno del 2013 e uno registrato nel 1980, ma per un nuovo album di studio, dobbiamo attendere fino all’uscita dell’unico album solo di George Thorogood

george thorogood party of one

Party Of One – 2017 Rounder/Spinefarm ***1/2 che esce 40 anni dopo il debutto omonimo, un album principalmente acustico, anche se il nostro amico non resiste ed in alcuni brani tira fuori la sua Gibson elettrica: produce di nuovo Jim Gaines ed il disco è proprio bello, anche se il titolo è “rubato” da un disco di Nick Lowe del 1990, I’m A Steady Rollin’ Man di Robert Johnson, apre le procedure, acustica con bottleneck e grande intensità https://www.youtube.com/watch?v=zKhgnxbsGlw , Soft Spot di Gary Nicholson è una via di mezzo tra Cash e il Presley ‘68 in modalità unplugged, Talahassee Women è un pezzo anni ‘30 che assomiglia a certe cose del primo Rory Gallagher, Wang Dang Doodle di Willie Dixon regge anche in versione acustica, come pure una delicata Boogie Chillen di John Lee Hooker. Eccellente anche No Expectations degli Stones, solo voce e acustica con bottleneck https://www.youtube.com/watch?v=qSyh5tC94l8 , Bad News di John D. Loudermilk sembra nuovamente un pezzo del Johnny Cash anni ‘60, mentre Down The Highway era su The Freewheelin’ Dylan, anche questa fatta molto bene, e Got To Move di Elmore James non si può fare senza una elettrica, ma The Sky Is Crying evidentemente sì, sempre in modalità slide. Dal lato tradizionale anche un Brownie McGhee e un Hank Williams, altre due canzoni del vecchio Hook, tra cui una One Bourbon, One Scotch, One Beer, dal vivo in solitaria e a chiudere una Dynaflow Blues dylaniana, alla faccia di chi pensa che i dischi di Thorogood siano tutti uguali  , saltiamo le sette antologie e veniamo ai dischi dal vivo.

george thorogood livegeorge thorogood live let's work together

Il primo, l’omonimo Live – 1986 EMI *** non è però rappresentativo della vera forza dei concerti del nostro, un po’ come era stato per Springsteen con il suo cofanetto ufficiale dal vivo, questa data registrata in Ohio, pur contenendo molti classici non soddisfa a fondo, intendiamoci non parliamo di un brutto album, d’altronde Who Do You Love? https://www.youtube.com/watch?v=mYcob11rKHc , Bottom Of The Sea di Muddy Waters, Night Time, I Drink Alone, One Bourbon, One Scotch, One Beer, Madison Blues, una attesissima Bad To The Bone, The Sky Is Crying e Reelin’ And Rockin’ danno l’idea del suo carisma di performer, e neppure Live: Let’s Work Together – 1995 Capitol *** registrato in due date del 1994 a Saint Louis e Atlanta, pur essendo più che rispettabile, soddisfa del tutto: non ci sono brani in comune con il Live del 1986, il pubblico è comunque entusiasta già da prima che inizi il concerto, il suono è più brillante e presente, ma come detto non convince a fondo, ottime No Particular Place To Go di Chuck Berry e Ride On Josphine con il classico Diddley Beat, il country-boogie di Cocaine Blues, una galoppante I’m Ready, Get A Haircut molto stonesiana  , la pimpante Move It On Over e la dirompente Let’s Work Together, oltre alla conclusiva Johnny B. Goode, presentata come inno nazionale del R&R e che se la batte con la versione di Johnny Winter https://www.youtube.com/watch?v=xZYcBFqaca0 .

george thorogood live in '99george thorogood live 30th anniversay

Anche Live In ‘99 – 1999 CMC *** è un disco dal vivo di discreta qualità (parliamo sempre del prodotto discografico, il perfomer non si discute), con punte di eccellenza nelle “solite” Who Do You Love?, una colossale anche se spezzettata One Bourbon, One Scotch, One Beer, l’uno-due di Get A Haircut/Bad To The Bone e la conclusiva You Talk To Much. Finalmente con Live 30TH Anniversary Tour – 2004 Capitol ***1/2 ci siamo, suono potente e presente, preceduto dal suo solito saluto al pubblico “How Sweet It Is”, vengono presentate, a fianco delle immancabili Who Do You Love, One Bourbon…, The Sky Is Cryng e Bad The Bone, anche I Drink Alone, lo slow blues Don’t Let The Bossman Get You Down, una scatenata Sweet Little Lady https://www.youtube.com/watch?v=cH3Twc55od8  e nella parte finale Greedy Man, The Fixer molto garage, That’s It I Quit e Rockin’ My Life Away.

george thorogood live in boston 1982george thorogood live at montreux 2013

Nella seconda parte della decade escono forse i due Live mgliori in assoluto, insieme alla recente strepitosa ristampa potenziata di Live In Boston 1982 – 2020 2 CD Rounder/Universal **** https://www.youtube.com/playlist?list=OLAK5uy_n-_3nWNtXXXuc083M4gGHqJL1fvbOy13M , ovvero Live At Montreux 2013 – CD DVD e Blu-ray Eagle Records **** con qualità audio/audio superba e qui mi cito: “anche i “malcapitati” (o fortunati) del Festival di Montreux dopo lo “Smoke On The Water” dei tempi che furono vedono di nuovo il fumo alzarsi dai locali del casinò, ma è quello dell’energia che sprigiona da questo uomo, sempre uguale ma sempre diverso nei sentimenti che ti ispira. Sarà solo Rock’n’roll ma minchia (scusate), che grinta, non ha nulla da invidiare a quella delle origini, voce e chitarra sono ancora oggi incredibili, la bandana non manca mai e lui è sempre una forza della natura https://www.youtube.com/watch?v=wZwHXdUVBuQ , il “solito” George Thorogood, grazie di esistere!” I brani sono più o meno quelli abituali, forse troviamo le inconsuete Rock Party e Tail Dragger, ma confermo quanto detto sette anni fa.”

george thorogood live at rockpalast

Anche per il successivo Live At Rockpalast – Dortmund 1980 – MIG Made In Germany 2CD+DVD ****, ma pubblicato nel 2017, rispolvero quanto scritto nella recensione originale, faccio una cover di me stesso: “per l’occasione siamo a Dortmund, quindi in “trasferta” rispetto alla più famosa location della Grugahalle di Essen, ma comunque anch’essa teatro di memorabili serate dal vivo, preservate per i posteri dalla emittente radiotelevisiva WDR, nella serie Rockpalast. Per la precisione è il 26 novembre del 1980, il nostro amico aveva appena pubblicato quello che sarebbe stato il suo terzo e ultimo album per la Rounder, More George Thorogood And The Destroyers. La prima cosa che colpisce l’occhio è la scelta del repertorio: su 15 brani (sia nella versione DVD, immagini un po’ buie, ma efficaci, come nel doppio CD https://www.youtube.com/watch?v=1zHsAyyS1_Y ), uno solo porta la firma di Thorogood, il resto è una scorribanda nelle pieghe del miglior blues e R&R d’annata, suonato a velocità supersonica, ma quando e dove serve, capace anche di momenti di finezza e abbandono (non molti, ma ci sono)! Chuck Berry, John Lee Hooker e Elmore James sono i più “saccheggiati”, ma tutto il Gotha della grande musica viene omaggiato.” Quindi da allora ad oggi poco è cambiato, se non la forza e la consistenza del suo repertorio. Dopo la lunga pausa dai concerti a causa del Covid il nostro amico è pronto a ripartire non appena la situazione lo consentirà. Direi che è tutto, leggete con attenzione e poi se volete approfondire, con il classico “celo manca” scegliete con cura.

Bruno Conti

George Thorogood: Mr. Bad To The Bone! Parte I

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Anche se, a quanto dicono alcuni dei suoi detrattori, “…i dischi di George Thorogood sono tutti uguali e non c’è mai un vero assolo di chitarra”, il nostro amico, soprannome Lonesome George, oltre che Mr. Bad To The Bone, in effetti è uno degli axemen più travolgenti in circolazione, con quel suo stile che coniuga blues, rock and roll, boogie e rock classico, ed un altro nickname con il quale viene ricordata la sua tecnica prepotente al bottleneck è “The Satan Of Slide”. La maggior parte delle biografie riportano come luogo di nascita Wilmington, nel Delaware, ma il nostro amico dovrebbe invece essere nato a Baton Rouge, in Louisiana, dalla quale si trasferì con la famiglia per essere cresciuto poi appunto nel Delaware: la certezza è la data di nascita, il 24 febbraio del 1950, quindi pure lui ha tagliato il traguardo dei 70 anni nel 2020. Nell’anno 1970 ci fu l’evento discriminante che trasformò un fervente praticante e appassionato del baseball, nel quale forse vedeva anche una futura carriera, in un bluesman a tutto tondo (benché per alcuni anni, anche se era già quasi una rock star, continuò a livello semi-professionale a frequentare i campi di baseball), grazie alla musica che era la sua altra grande passione, quando assistette a NY ad un concerto di John Hammond Jr, e pure lui, come Jake Joliet Blues a.k.a. John Belushi, ricevette l’illuminazione divina che lo portò su quella strada, dove tuttora si trova, a cinquanta anni di distanza dagli esordi.

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Esordi con una bella gavetta, anche come roadie di Hound Dog Taylor, che era uno dei suoi eroi, insieme a Chuck Berry, John Lee Hooker, Bo Diddley, Howlin’ Wolf, Muddy Waters, Elmore James, tutta gente della quale nel corso degli anni ha saccheggiato il repertorio (insieme a quello di molti altri, in quanto il repertorio del nostro è composto per la quasi totalità di cover): già intorno al 1973, tra un concerto e l’altro, forma la prima edizione dei Destroyers, agli inizi Delaware Destroyers, con il fedele compagno Jeff Simon, il batterista che ancora oggi divide con lui i palchi (e le sale di registrazione). Comunque con la prima line-up in essere, si spostano in quel di Boston, dove cominciano ad infiammare la scena dei club locali e già nel 1974 registrano un primo demo, che poi verrà pubblicato anni dopo dalla MCA come Better Than The Rest, ma ne parliamo nella disamina della discografia.

Gli Inizi 1974-1980

Nel 1976 arriva al basso Billy Blough, anche lui ancora oggi nella formazione dei Destroyers, che hanno eliminato il Delaware dalla ragione sociale, e messi sotto contratto dalla Rounder entrano in studio per registrare il primo album.

George Thorogood And The Destroyers

George Thorogood and the Destroyers – 1977 Rounder **** con la produzione di Ken Irwin, nei Dimension Sound Studios di Boston: dieci brani, con due soli originali di George, una vera schioppettata di energia, che esce a fine 1977 in piena esplosione punk, tanto che vista la potenza e la ruvidità del suono venne addirittura accostato ai tempi proprio al punk che nasceva in quel periodo, anche se la foto di copertina con Gibson di ordinanza, ed un repertorio che per autocitarmi da una vecchia recensione “è la reincarnazione dello spirito della trinità del rock’n’roll e del blues di Chuck Berry, Bo Diddley e John Lee Hooker che da sempre vivono in lui”: l’apertura è affidata ad un pezzo di un altro Hooker, Earl, You Got To Loes riff insistito e sound che ricorda i primi Stones, che a loro volta prendevano a piene mani da Chuck Berry, ottima Madison Blues un brano di Elmore James, altro mito, dove George va di bottleneck alla grande https://www.youtube.com/watch?v=LIh6I_0bmNw , seguito da una versione travolgente di One Bourbon, One Scotch, One Beer di Mastro “Hook”, con il tipico incalzante stile boogie del grande bluesmen del Mississippi, e l’assolo, al contrario di quanto dicono i suoi detrattori, c’è, mentre Blough pompa alla grande con il basso, per quanto aggiunto in seguito alla registrazione https://www.youtube.com/watch?v=obJpegVB5zk . Kind Hearted Woman di Robert Johnson, con acustica slide in bella mostra, ricorda di nuovo certe sonorità degli Stones tipo Love In Vain, Cant Stop Lovin’ è il secondo brano di Elmore James, anche questo tipico dello stile impetuoso di George, che per certi versi impugnava la chitarra come una clava o, appunto, una mazza da baseball, colpire precisi e con forza.

george thorogood and the delaware destroyers

Non manca ovviamente un brano dell’amato Ellas McDaniel a.k.a Bo Diddley, boogie, riff e ritmo, tre elementi immancabili del nostro, che vengono esplicati in una rutilante Ride On Josephine https://www.youtube.com/watch?v=A_FD3bvjfDs , che poi nelle volute di bottleneck di Homesick Boy, dimostra che volendo, raramente e con parsimonia, era in grado anche di attingere al proprio songbook, comunque sempre stretto parente di quello dei suoi ispiratori, e all’occorrenza anche ricorrere al patrimonio tradizionale della grande canzone popolare, come in John Hardy, un pezzo dai profumi folk solo per chitarra acustica, voce e armonica, prima di tentare anche la strada della ballatona blues in I’ll Change My Style dal repertorio di Jimmy Reed. Ma in chiusura scatena tutta la potenza dei suoi Destroyers nell’autoctona Delaware Slide, un nome, un programma https://www.youtube.com/watch?v=Z30ArnxgD4o . *NDB Nel 2015 il primo album viene ripubblicato come George Thorogood And The Delaware Destroyers ****, come era stato registrato in origine, senza le parti di basso, aggiunte in fase di mixaggio, quasi un disco nuovo. Esattamente un anno dopo, esce

George Thorogood MoveItonOver

Move It On Over – 1978 Rounder ****, degno successore del formidabile esordio, due dischi che per molti sono i migliori della sua carriera. Di nuovo dieci brani, tutte cover, perché evidentemente George era spossato dopo avere composto ben due canzoni per il disco precedente: ma non importa, materiale da cui scegliere ce n’è a iosa, e la band prende d’infilata prima la title track, un pezzo di Hank Williams, che subisce il classico trattamento à la Thorogood, poi una fenomenale Who Do You Love? di Bo Diddley, a tutto riff https://www.youtube.com/watch?v=k6fGcpp3KzE , e ancora una formidabile The Sky Is Crying con il bottleneck che scivola, scivola, scivola…  https://www.youtube.com/watch?v=qGBbsQ6QTsc Cocaine Blues è uno standard della canzone americana, Thorogood goes country, in una canzone che si ricorda soprattutto in diverse versioni di Johnny Cash, alle quali si è sicuramente ispirato il nostro. Chuck Berry mancava ancora all’appello, ma anche senza leggere il nome dell’autore It Wasn’t Me è R&R all’ennesima potenza e George e soci ci danno dentro alla grande e pure That Same Thing di Willie Dixon per Muddy Waters, viene “thorogoodizzata”.

george thorogood 1978

So Much Trouble di Brownie McGhee conferma l’assunto del suo autore, “the blues had a baby and they called it rock and roll”, con la solista che impazza, poi una pausa di riflessione per la splendida I’m Just Your Good Thing di Slim Harpo, sempre con influenze stonesiane. Si torna a rollare e roccare in Baby Please Set A Date di Homesick James, di nuovo con la slide in azione, che poi accelera ulteriormente in New Hawaiian Boogie, il titolo dice tutto, un altro brano d’annata di Elmore James https://www.youtube.com/watch?v=dlZXnG8RgCg . Il disco entra nella Top 40 americana e vende mezzo milione di copie (alla faccia di chi dice che Thorogood è un musicista di culto poco conosciuto al di fuori della cerchia degli appassionati , ma che nella sua carriera ha venduto più di 15 milioni di dischi) e a questo punto sbuca la MCA che pubblica

George Thorogood BetterThantheRest

Better Than The Rest – 1979/1974 MCA *** Diciamo un episodio minore, registrato nel 1974 quando GT era un illustre sconosciuto: le solite dieci canzoni, ma per complessivi 27 minuti, il suono è molto più ruspante, comunque abbastanza già ben definito: In The Night Time un pezzo garage sbucato da Nuggets, e anche I’m Ready un R&R frenetico, Howlin’ For My Darlin’ non può competere con l’originale di Howlin’ Wolf, fin troppo sguaiata e poco rifinita, You’re Gonna Miss Me non è quella dei 13th Floor Elevators ma un blues acustico di Memphis Slim, solo slide e voce, mentre Worried About My Baby è un’altra canzone di Howlin’ Wolf che riceve il trattamento Garage/R&R grintoso ma embrionale, con Huckle Up Baby di John Lee Hooker, qui in veste acustica, con un eccellente lavoro di Thorogood alla chitarra. Nel corso del 1980 Thorogood registra, e pubblica a fine anno, quello che sarà il suo ultimo album per la Rounder

MoreGeorgeThorogood

More George Thorogood And The Destroyers – 1980 Rounder ***1/2 Ancora un ottimo album, con le classiche e canoniche dieci canzoni, nove cover ed una firmata dallo stesso George come Jorge Thoroscum, per non “farsi riconoscere”! Il disco nella versione in CD è uscito anche come I’m Wanted, ma sempre quello è: il menu è il solito, ma c’è una novità, l’ingresso di Hank Carter al sax, che poi rimarrà fino al 2003, nello stile di Thorogood, come per esempio nella iniziale I’m Wanted di Willie Dixon, sempre in veste rock and roll, con assolo di sax aggiunto, le note vengono allungate per creare quell’effetto che poi permetterà al nostro una sorta di rito, ovvero quello di “battezzare” i fans nelle prime file ai suoi concerti, pratica alla quale ho partecipato anch’io, quando l’anno successivo George è venuto in Italia per il suo primo concerto nel Belpaese https://www.youtube.com/watch?v=UpewYYtheB8 .

george thorogood i'm wanted

Tornando al disco Kids From Philly è uno strumentale frenetico, chi ha misurato dice 180 bpm, ma è comunque un bel sentire https://www.youtube.com/watch?v=Jwk0-oZH070 , One Way Ticket è il classico blues alla e di John Lee Hooker, declamato da Thorogood, Bottom To The Sea è un Muddy Waters d’annata, che evidenzia similitudini con un altro che praticava un blues ruspante sull’altro lato dell’oceano Rory Gallagher, anche la voce è tipicamente roca e vissuta, come chitarrista l’irlandese era decisamente superiore ma George si difende con onore. Night Time è proprio quella degli Strangeloves, un pezzo tra psych e garage, che diventa più R&R nelle mani di George, con il sax entrano anche elementi R&B nel sound dei Destroyers, vedi Tip On In di Slim Harpo, mentre Goodbye Baby è il classico lento in modalità slide di Elmore James, e una turbolenta House Of Blue Lights è puro Rock’n’Roll all’ennesima potenza https://www.youtube.com/watch?v=UenvtCLHIbQ , con Just Can’t Make It che rende omaggio al maestro Hound Dog Taylor e la vertiginosa Restless a Carl Perkins.

Gli Anni Della Consacrazione 1981-1999

george-thorogood-50-50-tour

Con questo disco finisce il trittico per la Rounder, forse i suoi dischi migliori ancora oggi, nel 1981 Thorogood realizza il 50/50 Tour dei record, ovvero 50 concerti in 50 giorni nei 50 Stati americani e in un giorno tenne pure due concerti nella stessa giornata. Lo stesso anno fece anche da supporto agli Stones nella loro tournée, e vennero anche in Europa, puntata a Milano compresa, come ricordato, tra l’altro il 13 aprile, due giorni dopo la storica data di Springsteen all’HallenStadion di Zurigo, all’Odissea 2001, locale basso e stretto, dove dopo il rito della “benedizione” ricordo che già in pochi minuti eravamo tutti schiacciati contro la parete opposta al palco, per essere lontani da una onda sonora micidiale con rischio tinnito, e comunque due giorni di fischi alle orecchie. Però gran concerto. Nel 1982 firma per la EMI, quindi una major, ed esce il “mitico”

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Bad To The Bone – 1982 Emi America Music ***1/2-**** La differenza nel giudizio verte sul fatto che riusciate a trovare o meno la versione Deluxe uscita nel 2007, con sette bonus tracks re-incise quell’anno, ma va bene anche quella normale. Il repertorio si fa più vario, George scrive “ben tre brani”, tra i quali la leggendaria title track, che nel corso degli anni è diventata la sua signature song, ma sin da allora è diventata una canzone di culto, senza vendite clamorose (come l’album, che arrivò comunque al 43°posto delle classifiche USA, con la rispettabile cifra di mezzo milione di copie vendute), ma prima, grazie al divertente video su MTV, dove giocava a biliardo con il suo idolo Bo Diddley, che però in Europa non è disponibile su YoTube, quindi https://www.youtube.com/watch?v=8KciRaANKmo. poi con l’utilizzo nella colonne sonore di Christine e Terminator 2, e nel corso degli anni in decine di altri film e spot pubblicitari, si è trasformata in un tormentone. Alla riuscita del disco contribuì sicuramente anche la presenza del “sesto” Rolling Stone, ovvero Ian Stewart, al pianoforte in tutto l’album: il repertorio è consistente, dall’iniziale Back To Wentzille, sempre firmata da Thorogood, con sax, pianino e chitarra scatenati, Blue Highway scritta da Nick Gravenites per Brewer & Shirley illustra il lato cantautorale del nostro amico.

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Nobody But You un pezzo soul tipo Shout degli Isley Brothers, diventa una volata R&R a rotta di collo, mentre It’s A Sin di Jimmy Reed è una ballata blues, seguita dal super classico di John Lee Hooker New Boogie Chillum, dove George insegna il boogie ai suoi seguaci https://www.youtube.com/watch?v=uVHJNdzZIhA , di Bad To The Bone abbiamo detto, Miss Luann il terzo originale di Thorogood, pesca dal R&B anni ‘50, As The Years Go Passing By è uno dei grandi blues lenti delle 12 battute, e dimostra che il musicista del Delaware sa essere anche raffinato con assolo d’ordinanza, ma quando può scatenare tutta la potenza dei suoi Destroyers in una devastante No Particular Place To Go di Chuck Berry non ce n’è per nessuno, sentire anche Stewart please https://www.youtube.com/watch?v=hFyCxJuhEB0 , in chiusura una fantastica e trascinante ripresa di Wanted Man di Bob Dylan https://www.youtube.com/watch?v=4tbSbzCwrvU , per un album che rivaleggia con i suoi migliori, anche grazie alle riprese di alcuni brani nelle bonus tracks.

Fine della prima parte, segue.

Bruno Conti

Pochi Ma Buoni! Kim Wilson – Take Me Back The Bigtone Sessions

kim wilson take me back

Kim Wilson – Take Me Back The Bigtone Sessions – M.C. Records

Kim Wilson a livello solista non è uno molto prolifico. L’ultimo album Blues And Boogie Vol.1, uscito per Severn nel 2017, faceva presagire che ci sarebbe stato un volume 2, e invece Kim torna alla M.C. Records che gli aveva pubblicato due CD tra il 2001 e il 2003 (in mezzo solo un disco in comproprietà con Mud Morganfield), ma andando a scorrere i credits degli album il suo nome appare in decine di uscite degli ultimi anni, inclusi un paio con i Fabulous Thunderbirds. Cambia il titolo ma non la formula per il nuovo Take Me Back, tutti insieme appassionatamente ai Bigtone Studios (quelli del sottotitolo dell’album), in presa diretta e registrati rigorosamente in mono, che è un po’ una fissa di Wilson ultimamente: Big John Atkinson, il boss degli studios, ha curato le sessions, oltre a suonare la chitarra come solista in 12 brani, poi della partita sono alcuni degli stessi musicisti del precedente CD (tanto da farmi pensare che i brani provengano dagli stessi nastri analogici), Billy Flynn, Barrelhouse Chuck, Rusty Zinn, mentre i “nuovi” Kid Andersen e Danny Michel, anche loro alle chitarre, i batteristi June Core, Al West, Ronnie Smith e il bassista Greg Roberts, oltre a Johnny Vlau ai fiati, completano le forze in campo, pe il pianista Barrelhouse Chuck è morto nel dicembre 2016, quindi…

Il repertorio e il suono pescano a piene mani dai classici del blues degli anni ‘50, ma nel caso di Wilson non possiamo parlare solo di cura filologica nella propria musica, quanto di passione pura per quel periodo, visto che tra le canzoni del CD ce ne sono anche parecchie “nuove” scritte dallo stesso Kim, che sono comunque molto simili alle vecchie. You’ve Been Goofing è un oscuro brano di Jimmy Nolen, il chitarrista di James Brown, tra R&B e Blues vintage, come i vecchi dischi Chess, Cobra, Vee-Jay, con chitarra e sax a fiancheggiare Wilson, che canta con impegno e piglio deciso, per poi iniziare a soffiare con forza nell’armonica nelle proprie Wingin’ It e Fine Little Woman, classici esempi di Chicago Blues primordiale, con Billy Flynn alla solista e Barrelhouse Chuck al piano che rispolverano vecchie atmosfere. Slow Down è proprio il vecchio brano di Larry Wlliams che Paul McCartney cantava come un ossesso in un 45 giri dei Beatles, qui riportato nel R&R del suo spirito originale, con qualche rimando meno elettrico al suono spiritato dei Fabulous Thunderbirds, grazie a Wilson e soci, che poi rivolgono la propria attenzione allo standard di Howlin’ Wolf No Place To Go, dove Kim Wilson mette in mostra la sua grande perizia all’armonica a bocca, con un approccio più intimo, chitarra acustica, contrabbasso e drum kit minimale per un tuffo nel blues primigenio.

Strange Things Happening di Percy Mayfield è un rovente blues lento, con il suono quasi “archeologico” che può risultare forse straniante per i non habituè del catalogo Chess, con Wilson che segue le tracce dei suoi maestri, da Little Walter in giù, anche nella propria Play Me o nella title track scritta da Walter Jacobs. If It Ain’t Me è un “bluesazzo” torrido scritto da James A. Lane, uno che come Jimmy Rogers ha diviso a lungo i palchi con Muddy Waters, sia come chitarrista che come armonicista, entrambe ben presenti in questa rilettura. Strollin’ è uno strumentale dello stesso Kim, The Last Time è un’altra intensa cover di un brano di Jimmy Rogers a tutta armonica, mouth harp sempre molto presente anche nel bel lento Money, Marbles And Chalk, uno dei brani originali di Wilson, che poi affronta Take Me Back, il pezzo di Little Walter, con piglio rigoroso e ottima resa anche vocale. In Rumblin’ un brano strumentale di Kim, quelli che finiscono in “in’’”, si apprezza una volta di più la sua perizia all’armonica, di nuovo Chicago Blues elettrico e vibrante in I’m Sorry, con Atkinson e Flynn che si dividono le parti di chitarra, molto rigorosa anche Goin’ Away Baby, la terza ed ultima cover di Jimmy Rogers, e lo shuffle sincopato dell’ultimo strumentale del nostro amico Out Of The Frying Pan. Se siete degli Indiana Jones del blues qui non troverete solo “mummie”, ma musica ancora fresca e vitale!

Bruno Conti

Commander Cody & His Lost Planet Airmen: Ballerine, Nani E Tanto Rock’n’Roll E Country! Parte II

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Parte seconda.

Per l’ultimo disco per la Paramount a novembre 1973 i Commander Cody si presentano a Austin, dove, in un tripudio di armadilli in copertina disegnati da Jim Franklin, registrano un grande disco dal vivo che esce a Marzo dell’anno dopo. Ed ecco

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Live from Deep in the Heart of Texas 1974 Paramount/MCA ****1/2, naturalmente siamo all’Armadillo World Headquarters, uno dei dischi classici in concerto degli anni ‘70, con il gruppo in forma strepitosa, di fronte ad una folla adorante (ma gli applausi sembrano mezzi fasulli visto che il locale teneva al massimo 1.500 persone) e l’ultimo disco per il momento con Black alla pedal steel, Una sequenza di brani formidabile che parte con lo strumentale Armadillo Stomp, con tutti gli strumentisti al proscenio, prosegue con Farlow che incanta il pubblico con Good Rockin’ Tonight, l’honky-tonk accelerato di I’m Coming Home di Johnny Horton, una variazione su un loro classico che per l’occasione diventa Down To Seeds and Stems Again Blues, ma rimane una splendida canzone, e molto bella anche la suggestiva cowboy song Sunset On The Sage.

Si prosegue con una serie di canzoni estratte dal loro enorme repertorio, non presenti nei dischi di studio, come Little Sally Walker, dai profumi R&R, Git It che ricorda moltissimo le scorribande degli Sha Na Na, e ancora la sfrenata Oh Momma Momma, leggendaria nei loro concerti, con Frayne che va di barrelhouse e sul lato country la loro cover di Crying Time di Buck Owens, l’allegra Diggy Liggy Lo, con violino e steel sugli scudi, mentre gli altri armonizzano di gusto. Il divertimento continua con una trascinante Riot In Cell Block #9 e un altro dei loro cavalli di battaglia,una dirompente Too Much Fun, e per chiudere in gloria una fantasmagorica Mean Woman Blues.

Dal vivo erano veramente fantastici, confermo perché mi è capitato di vederli di persona ai tempi. A fine 1974, scaduto il contratto con la Paramount, firmano il contratto con la Warner Bros e durante l’anno successivo esce l’omonimo

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Commander Cody and His Lost Planet Airmen1975 Warner Bros ****

Prodotto da John Boylan è probabilmente il loro disco di studio più bello: copertina fantascientifica, e contenuto pure, nel senso che è talmente bello che quasi non ci si crede, uno dei primi esempi di Americana music. Ernie Hagar sostituisce Black alla pedal steel , arriva la sezione fiati dei Tower Of Power e la scelta dei brani è di prima qualità: si parte con Southbound di Hoyt Axton, un perfetto esempio di country-rock con il lavoro del nuovo produttore che evidenzia tutti i particolari sonori in modo superbo. Don’t Let Go è un’altra delle loro formidabili escursioni tra rock’n’roll e R&B, California Okie un sentito omaggio alla musica dello stato che li ospita, altro esempio di country-rock da manuale.

Un minuto di raccoglimento, anzi 3:38 minuti, tanto dura la cover di Willin’ dei Little Feat, a mio parere la più bella mai incisa, cantata a più voci, con delle armonizzazioni da lasciare senza fiato, la pedal steel che quasi ti abbraccia con calore, veramente un capolavoro, l’avrò sentita centinaia di volte nel corso degli anni ma non mi stanco mai, e comunque l’originale dei Feat non scherzava, ma questa è unica, l’epitome della country song per eccellenza. Il resto dell’album prevede The Boogie Man Boogie, un altro omaggio allo swing ed al jump blues, diretto discendente di Hey! Ba-Ba-Re-Bop di Lionel Hampton, con la band che viaggia come un treno, il Comandante Cody in testa con il suo piano fiammeggiante; la più rilassata Hawaii Blues è una deliziosa pillola tra steel scivolanti in mezzo a palme tropicali e western swing, ma è un attimo perché il boogie riprende subito fiato grazie ai fiati (scusate, mi è scappato) scatenati dei Tower Of Power che faticano a tenere testa agli 88 tasti di Frayne nella magnifica House Of Blue Lights.

Torna anche il country insaporito di western swing alla Asleep At The Wheel (ma anche Bob Wills, grande influenza su Frayne) di Keep On Lovin’ Her, con il violino scatenato di Andy Stein, e non manca neppure il romanticismo adorabile di una ballata come Devil & Me cantata in modo favoloso da John Tichy, con la pedal steel di Hagar che non fa rimpiangere Black, in grande evidenza anche nello swing sincopato e dai salaci doppi sensi di Four Or Five Times e rendere infine omaggio diretto a Bob Wills con la splendida e vorticosa That’s What I Like About the South, dove Stein ci delizia una volta di più con il suo violino, che conclude un album veramente superbo. Difficile fare meglio, ma il disco successivo ci va molto vicino, anzi direi che siamo alla pari con

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Tales From The Ozone – 1975 Warner Bros ****

Disco che vede il ritorno in formazione del figliol prodigo Bobby Black (ma Hagar aveva fatto più che bene) e una ulteriore serie di canzoni strepitose: produce Hoyt Axton, e tra gli ospiti, oltre ai Tower Of Power, troviamo David Bromberg al dobro, oltre ad una serie di backing vocalist tra cui spiccano Nicolette Larson, Mimi Farina e Ronee Blakley e lo stesso Axton. Si parte subito forte con una pimpante e corale versione, tra classico e “moderno” di Minnie The Moocher di Cab Calloway, seguita dal rockabilly rock di It’s Gonna Be One Of Those Nights dove ancora una volta i Planet Airmen eccellono, Connie è una delle due brillanti country tunes portate da Kevin “Blackie” Farrell, vecchio amico di Bill Kirchen e autore di altre canzoni nei dischi precedenti della band, molto bella anche Tina Louise, una sorta di ballata di frontiera, con mariachi ed atmosfere messicane.

Ma il country è lo stile prevalente in Tales, come sottolinea anche la bellissima cover di I Been to Georgia on a Fast Train di Billy Joe Shaver, e l’altrettanto emozionante cover di Honky Tonk Music dei Dusty Chaps (vi potrei fare il giochino di chi li ricorda alzi la mano? https://www.youtube.com/watch?v=GHa9k-UTaas ). Ottima anche la corale Lightning Bar Blues di Hoyt Axton, con un ritornello irresistibile e intrecci di violino e steel sempre impeccabili, Axton che firma anche il country’n’roll fiatistico di Paid In Advance, con tutte le ragazze a gorgheggiare sullo sfondo, di Tina Louise abbiamo detto,

ma prima troviamo anche una cover di Cajun Baby di Hank Williams Jr. che appartiene alla famiglia di Jambalaya e canzoni simili, e a seguire una delle tipiche canzoni di Leiber-Stoller come la divertente The Shadows Knows dove Frayne si può divertire con il suo vocione, l’allegra e scanzonata Roll Your Own di Mel McDaniel, con Bromberg al dobro a fronteggiare il piano dei Comandante, che lascia il proscenio finale a Andy Stein, ottimo violinista anche tra classico e tzigano nella conclusiva Gypsy Fiddle. Per dirla con Asterix SPQCC (Son Pazzi Questi Commander Cody): prima di sciogliere la band tutta la troupe parte per un tour europeo, dove tra gennaio e febbraio 1976 viene registrato in Inghilterra

Commander cody We've-Got-a-Live-One-Here!

We’ve Got a Live One Here! 1976 2LP Warner Bros ***1/2

Ci sono delle variazioni nella formazione, John Tichy non è più della partita, sostituito da Rick Higginbotham alla chitarra, mentre viene aggiunto alla line-up il veccgio amico Norton Buffalo, ad armonica, trombone e voce. Dal vivo sono sempre formidabili e nel loro elemento, ci mancherebbe, ma manca forse un po’ del fuoco del Live degli Armadilli. Comunque un commiato più che rispettabile per i Lost Planet Airmen: anche in questo tour appaiono, com’era loro usanza, molte canzoni non apparse su dischi precedenti, dall’apertura con la scintillante One Of Those Nights, che dà il via subito alle danze, fanno la prima apparizione anche Big Mamou, un valzerone in salsa New Orleans cajun che poi accelera come forse neanche Zachary Richard all’epoca, un altro classico è la soave San Antonio Rose dell’amato Bob Wills, il contributo di Norton Buffalo con la frenetica e bellissima 18 Wheels, visto che c’è un altro chitarrista in formazione, ogni tanto all’occorrenza Kirchen suona il trombone, come pure Norton Buffalo, l’ultima canzone che appare per la prima volta nel doppio è Milk Cow Blues, dove appunto i fiati sono in evidenza sempre con questo effetto Louisiana.

Le altre canzoni, comunque tutte suonate alla grande, già le conosciamo: Semi Truck dedicata a tutti i camionisti, con un florilegio di chitarre, Smoke!Smoke!Smoke!, con il Comandante che si “Ingigionisce” (si può dire!), la splendida Mama Hated Diesels dove armonizzano alla grande, come pure in Seeds And Stems, ma anche tanto boogie e R&R, Back To Tennessee, Rock That Boogie, Don’t Let Go, Too Much Fun, Hot Rod Lincoln e in ambito country Lost in The Ozone.

Da allora a oggi, tra quello di nuove Commander Cody Band, alla pubblicazione di molto materiale di archivio, è uscito parecchio a livello discografico, anche se poi quelli che contano sono i primi sette album in sei anni, comunque ecco un rapido

Best Of The Rest 1977-2020

Rock’N’Roll Again del 1977 è un buon album (su CD Wounded Bird): dei “vecchi” rimane solo Bobby Black, mentre la voce solista è sempre George Frayne, con un aiuto da Nicolette Larson, ma si sente la mancanza di un cantante vero, stesso discorso per Flying Dreams del 1978, con miriadi di ospiti, Jeff Baxter, Buzzy Feiten, Danny Gatton, Neil Larsen, il solito Bobby Black, vocalists a go-go, cover dei Beatles, della Band, ma non ci siamo proprio.

Vengono nel 1980 al Rockpalast di Essen, e nel 2009 esce postumo un CD o DVD, c’è Bill Kirchen alla chitarra e alla voce di tanto in tanto, buono ma non eccelso, 3 stellette e mezzo di stima, lo stesso anno esce anche il disco di studio Lose It Tonight, giudizio un bel bah! Nel 1986 esce Let’s Rock per la Blind Pig, un po’ meglio, con il ritorno di Bruce Barlow e Kirchen, che divide le parti vocali con Austin De Lone e Cody, qualche remake, un paio di brani di “Blackie” Farrell, per un disco discreto. A questo punto cominciano a uscire dei dischi con materiale d’archivio: la Relix ne pubblica un paio Aces High, con materiale live 1979-1989 e soprattutto Sleazy Roadside Stories con un concerto inedito del dicembre 1973 all’Armadillo World Headquarters, registrato il mese dopo Deep In The Heart Of Texas, ma temo non si trovino più.

Tra le cose d’archivio, sempre del periodo Lost Planet Airmen, uscite più di recente e quindi spero reperibili, vi segnalo Live In San Francisco 1971 della Sundazed, Live In The Ozone 1973 Usa Tour della Cleopatra/Purple Pyramid, e Live From Ebbetts Field, Denver Colorado Aug 11 1973, oltre allo strepitoso Found In the Ozone, ricordato all’inizio dell’articolo, tutti più o meno imperdibili e immancabili tasselli per ricordare una delle più grandi e sottovalutate band di culto della musica americana degli anni ‘70. Saluti al Comandante!

Bruno Conti

Commander Cody & His Lost Planet Airmen: Ballerine, Nani E Tanto Rock’n’Roll E Country! Parte I

commander cody 1970

La pubblicazione del recente doppio album Found In The Ozone della serie Bear’s Sonic Journals ha creato un rinnovato interesse per Commander Cody, soprattutto nel periodo d’oro in cui si accompagnava con i Lost Planet Airmen . Per cui abbiamo deciso di dedicargli una retrospettiva, incentrata soprattutto sugli anni dal 1967 al 1976, ma anche, in modo più succinto, su quanto successo in seguito. Riguardo al titolo dell’articolo, per le ballerine, il country e il R&R confermo, i nani ammetto che forse me li sono inventati, ma servono per inquadrare un’epoca in cui nel rock, anche a livello scenico, succedeva di tutto.

1967-1970 Le origini di una “piccola leggenda”.

George Frayne assume il proprio alias di Commander Cody già nel 1967, ispirato dai film di Serie B o dai serial in più episodi: in uno di questi c’era un personaggio chiamato “Commando Cody”, mentre in una serie King Of The Rocket Man, un episodio si chiamava Lost Planet Airmen, fate 1+1 e con un po’ di fantasia ecco Commander Cody & His Lost Planet Airmen. A questo punto, come appena detto, siamo dunque nel 1967, e ci troviamo ancora ad Ann Arbor nel Michigan: l’anno in cui Andy Warhol operava a New York con la sua Factory che includeva anche i Velvet Underground. Per non essere da meno Frayne, che era arrivato in Michigan dalla natia Boise, Idaho, via Long Island, per studiare all’Università (ed in effetti poi si laureò in Belle Arti ed aveva già pronta anche una carriera come insegnante) studiò la sua contromossa: si sa che un’altra delle Arti che gli piaceva praticare era la musica, ed avendo incontrato nel biondo elegante John Tichy uno spirito affine, che poteva unire la sua chitarra al pianoforte di George, entrambi innamorati di country e R&R, trovano anche il violinista Andy Stein, l’unico studente di musica, in grado di suonare pure il sax e il nucleo della band era nato.

E siccome erano tutti anche dei pazzerelloni, trovato il nome si sarebbe dovuto trovare anche un genere, ma si pensò di farli tutti contemporaneamente e non solo: visto che la troupe che girava attorno a Warhol pareva esigua, nelle prime edizioni del gruppo c’erano 34 elementi, 5 suonatori di kazoo (e avrei voluto vederli), una ragazza (ballerina?) in reggiseno e slip, con stivaloni neri, una bella frusta, che però stava seduta e non faceva nulla (non so perché mi ricorda la TV italiana), una ragazza di quasi 100 chili avvolta nella bandiera americana che faceva capriole per il palco (!), mentre sullo sfondo scorrevano immagini di estrazioni dentali, e in tutto ciò, come ricorda lo stesso Frayne, “a nessuno fregava niente”. Però almeno i nostri amici ci credono, la band si crea un repertorio e quando arrivano nella terra promessa, almeno per la musica, ovvero la California, Bay Area, San Francisco, sono anche diventati “bravini”. Billy C. Farlow è la voce solista e all’occorrenza armonicista, Bill Kirchen, chitarra e voce, del Comandante e Stein abbiamo detto, Tichy rientrerà più avanti, a completare la formazione ci sono Steve Davis alla pedal steel, Bruce Barlow al basso e Lance Dickerson alla batteria, per un totale di sette elementi.

E cominciano ad aprire i concerti di chiunque li voglia, tra il Fillmore West di Bill Graham e il Family Dog del suo rivale Chet Helms. A questo punto andate a riprendervi la recensione dello splendido doppio CD Commander Cody & His Lost Planet Airmen – Bear’s Sonic Journals Found in the Ozone 1970 Owsley Stanley Foundation **** https://discoclub.myblog.it/2020/09/15/unaltra-succulenta-uscita-di-archivio-per-gli-amanti-della-buona-musica-commander-cody-his-lost-planet-airmen-bears-sonic-journals-found-in-the-ozone/  e vi saranno chiare le ragioni dell’inizio della leggenda della band: 41 brani formidabili, tra country, rock, western swing, rockabilly, jump, blues, cajun e la futura Americana, registrati da Owsley “Bear” Stanley, mitico soundman dei Grateful Dead. A questo punto la reputazione dei loro concerti dal vivo comincia a spargersi e vengono contattati dalla Paramount che li mette sotto contratto nel 1971 per realizzare il primo album. Integrando gli ascolti fatti per recensire il doppio, mi sono (ri)ascoltato bene il vecchio catalogo ed ecco il responso, naturalmente personale sui loro album.

1971-1974 Il Periodo Paramount.

Ad affiancare George Frayne come produttore c’è Bob Cohen (che negli anni successivi lavorerà, ma solo come musicista, con Lesley Duncan, Jesse Winchester e Tim Hardin. Il risultato è l’eccellente

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Lost In The Ozone – 1971 Paramount/MCA ***1/2

Rientrato in formazione anche John Tichy, che canta in due brani, il gruppo ha una formidabile serie di vocalist: Billy C. Farlow voce solista, Billy Kirchen in altri due pezzi, e anche Commander Cody ne canta una, ed insieme a Barlow creano delle splendide armonie vocali. Il grande successo dell’album è Hot Rod Lincoln, una cover affidata a Frayne che entra nella Top 10 dei singoli, e che rimarrà anche l’unica hit delle loro carriera, mentre l’album a fatica arriva al n°82 di quelle degli album, vendendo comunque un rispettabile numero di copie (erano altri tempi). La canzone è un boogie frenetico strepitoso, tra country e western swing, con il vocione recitante di Cody, e la chitarra elettrica, il violino e la pedal steel ad impazzare.

Nel disco ci sono anche tre brani dal vivo, da sempre uno dei loro punti di forza, a maggior ragione nel 1971, quando erano una delle migliori band in concerto: da Berkeley arrivano What’s The Matter Now?, una pigra country song old style, scritta da Farlow, che le canta deliziosamente, con piano, pedal steel, chitarra e violino perfetti, senza dimenticare le fantastiche armonizzazioni vocali, e poi il R&R devastante di Twenty Flight Rock di Mastro Eddie Cochran, e qui non ce n’è per nessuno, il sax di Stein in grande spolvero e la chitarra di Kirchen completano l’opera, niente male, per usare un eufemismo, il boogie woogie Beat Me Daddy, Eight to the Bar da Ann Arbor, con piano, pedal steel, sax e armonica a menare le danze, perfino Barlow va di basso, canta Tichy.

Tra i brani in studio la scatenata Back To Tennessee della coppia Frayne/Farlow è un altro ottimo esempio del loro stile inconfondibile, tra country e R&R, Wine Do Yer Stuff è un honky tonk a tutta steel e piano, grande Farlow alla voce. Mentre in Seeds And Stems (Again) cede il microfono a Kirchen per una ballatona country, che se non avessi letto il nome dell’autore avrei giurato fosse di Willie Nelson, Tichy si disbriga alla grande nel valzerone Family Bible, questa sì scritta da Willie benché accreditata ad altri. Daddy’s Gonna Treat You Right canta coralmente dalla band non ha nulla da invidiare alla Nitty Gritty o ai Flyng Burrito. Home In My Hand è un potente brano tra country e rockabilly, di nuovo affidato a Kirchen, mentre Lost In The Ozone è un western swing degno dei migliori Asleep The Wheel, loro grandi amici e protetti, manca Midnight Shift, con Farlow che va di Elvis prima maniera, come piace a lui.

Un solido esordio, doppiato l’anno dopo a maggio con

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Hot Licks, Cold Steel & Truckers’ Favorites – 1972 Paramount/MCA ***1/2

Altro grande album che conferma tutto quanto di buono mostrato nel primo album, ed introducendo in Bobby “Blue” Black uno dei più grandi suonatori di pedal steel della storia del country-rock, a livello di Sneaky Pete Kleinow, Rusty Young, Al Perkins, Buddy Cage, e via così. Solito misto di materiale originale e cover, in questo caso più le seconde: di inni dedicati ai guidatori di trucks ce ne sono ben tre, la corale e scoppiettante Truck Stop Rock, il super classico Truck Drivin’ Man, dove si inizia ad apprezzare la guizzante steel di Black, e la splendida Semi-Truck dell’accoppiata Farlow/Kirchen.

Ma non mancano devastanti escursioni nel “vero” R&R con una vorticosa Rip It Up, con Cody molto impegnato al piano, ma anche gli altri non scherzano, e pure in una Tutti Frutti registrata dal vivo non si risparmiano. Sul lato country brillano Cravin’ Your Love, Kentucky Hills Of Tennessee, Diggy Liggy Lo che faceva anche la Nitty Gritty, e una superba Mama Hated Diesels degna delle migliori canzoni di Merle Haggard. Non mancano un paio di escursioni tra blues e R&B con It Should’ve Been me e la divertente e super funky Watch My .38, definita Ozone Music.

Passa un altro anno ed esce

Commander Cody Country_Casanova

Country Casanova – 1973 Paramount/MCA ***1/2

Disponibile anche in Stereo 8 (particolare non trascurabile), visto il titolo l’album entra nelle classifiche country, anche se Everybody’s Doin’ It chissà perché venne censurato dalle radio di settore, inspiegabilmente, in fondo “fuckin” non lo ripeteranno in questa cover di western swing più di una trentina di volte.

Altro pezzo in cui Frayne impazza è in una grandiosa cover di Smoke! Smoke! Smoke! (That Cigarette), e boogie e western swing regnano, come da titolo, anche in Rock That Boogie. Eccellente anche il trattamento alla Commander Cody di Rave On di Buddy Holly, con squisiti siparietti sonori dei vari solisti. La quota country è assicurata dalla title track, uno strano ma efficace country funk con pedal steel d’ordinanza di Black e colossale groove di basso di Barlow; Shall We Meet (Beyond the River), cantata da John Tichy aggiunge forti elementi gospel al classico country della band, che riprende vigore nel western swing a tutta steel di My Window Faces The South, come pure in One Man’s Meat (Is Another Man’s Poison) e Sister Sue, sempre scritta da Tichy, ma decisamente più orientata verso il rock, con pianino caliente di Frayne, e ottima anche Honeysuckle Honey un’altra piccola perla di country & western swingato.

Fine della prima parte.

Bruno Conti

Un’Altra Succulenta Uscita Di Archivio Per Gli Amanti Della Buona Musica! Commander Cody & His Lost Planet Airmen – Bear’s Sonic Journals Found in the Ozone

commander cody found in the ozone

Commander Cody & His Lost Planet Airmen – Bear’s Sonic Journals Found in the Ozone – 2 CD Owsley Stanley Foundation

Come i lettori più attenti avranno notato, in questi ultimi tempi c’è stata una notevole attività discografica di Commander Cody, sia CD “nuovi”, che pubblicazioni di materiale di archivio, ufficiali (come il disco dal vivo del 1971 uscito per la Sundazed nel 2015 e i due titoli della RockBeat https://discoclub.myblog.it/2017/06/13/un-comandante-perduto-ritrovato-commander-cody-and-his-lost-planet-airmen-live-from-ebbets-field-denver-colorado-august-11-1973/ ), ma anche parecchie uscite (semi)legali di materiale radiofonico da etichette di dubbia provenienza, alcuni incisi anche bene e con contenuti interessanti. Sicuramente una etichetta “seria” (ed è strano dirlo parlando di un personaggio come Owsley Stanley, più noto come Bear, che ai tempi in cui era ingegnere del suono e fornitore di sostanze illegali per i Grateful Dead probabilmente era sempre “leggermente” fatto), gestita da moglie, figli, nipoti e pronipoti, che stanno amministrando il suo archivio in modo oculato

.Dopo le uscite dedicate a Doc & Merle Watson, Allman Brothers Band https://discoclub.myblog.it/2018/08/11/le-loro-prime-registrazioni-dal-vivo-di-nuovo-disponibili-allman-brothers-band-fillmore-east-february-1970/ , Jorma Kaukonen & Jack Casady pre Hot Tuna https://discoclub.myblog.it/2019/02/14/nuovi-dischi-live-dal-passato-6-prima-di-essere-gli-hot-tuna-erano-gia-formidabili-jorma-kaukonen-jack-casady-bears-sonic-journals-before-we-were-them-live-june-2/  e il quintuplo New Riders Of The Purple Sage https://discoclub.myblog.it/2020/03/23/anche-prima-di-diventare-una-vera-band-erano-gia-belli-pronti-new-riders-of-the-purple-sage-dawn-of-the-new-riders-of-the-purple-sage/ , questa volta tocca ad un doppio CD dedicato a Commander Cody & His Lost Planet Airmen. *NDB Non è facile da trovare e costa caro, ma cercatelo perché vale la pena.

Si tratta di registrazioni effettuate tra il 27 febbraio e il 29 marzo del 1970, al Family Dog At The Great Highway (per dargli il suo nome completo) di San Francisco, California, di proprietà dell’impresario Chet Helms, grande rivale di Bill Graham con il suo Fillmore West: nei due locali si alternavano grandi serate con i Grateful Dead, che di volta in volta cambiavano i loro opening acts, e Owsley era sempre lì a registrare tutto su nastro, con una costanza ed una qualità che ancora oggi sorprendono all’ascolto. Come di consueto anche il libretto del CD (una ventina di pagine, comprese fronte e retro della copertina) sono ricchissime di notizie ed un vero piacere da leggere. Mi permetto di “rubare” pari pari l’incipit del lungo saggio scritto da Nicholas G. Meriwether, che racconta con grande dovizia di particolari la storia dei primi anni della band ed il contenuto del doppio CD (se proprio siete ricchi sono disponibili anche i download ad alta risoluzione dei sei concerti completi): “Nel 1969 il famoso critico musicale Ralph J. Gleason chiamò San Francisco “la Liverpool dell’Ovest”vedendo la risonanza tra la fonte britannica di un pop innovativo e la varia e vibrante scena che si stava sviluppando nella Bay Area. Il 1969 fu anche l’anno in cui George Frayne e gli altri membri della band arrivarono a Berkeley…”

Il gruppo si chiamava Commander Cody & His Lost Planet Airmen (ispirati da due serie televisive di culto) e veniva dalla zona di Detroit, anche se i componenti, a partire da Frayne, che era di Boise, Idaho, venivano in pratica da tutti gli States. Agli inizi George, che si era laureato in Scultura e Pittura (Belle Arti se preferite) all’Università del Michigan, aveva fatto anche l’insegnante, ma poi il richiamo della musica lo aveva travolto e tra le le prime incarnazioni degli Airmen, ancora a Detroit, ce n’era una di 34 elementi che faceva concorrenza alla visione di Andy Warhol per i Velvet Underground, con una sezione di 5 kazoo, una ragazza tutta vestita di nero, con una frusta, che stava sul palco e non faceva nulla, ed un’altra di oltre 90 chili, avvolta solo dalla bandiera americana pure, mentre sullo sfondo scorrevano filmati di estrazioni dentali. Poi le cose si sono normalizzate e quando Frayne e soci arrivano in California (precedendo di poco gli amici Asleep At The Wheel) in poco tempo acquisiscono la reputazione di favolosa (e unica) band dal vivo. George Frayne al piano, e occasionale voce solista, Billy C. Farlow, cantante ed armonicista, Bill Kirchen, chitarra e voce, Andy Stein, violino e sax, Steve Davis, pedal steel guitar, Bruce Barlow basso e Lance Dickerson batteria, completano la line-up, dove manca John Tichy, chitarra ritmica e voce, che rientrerà in formazione per la pubblicazione del primo album di studio alla fine del 1971. Genere musicale? Country, rock (and roll), western swing, rockabilly, americana, blues, zydeco, cajun, mi sa che ne ho dimenticato qualcuno: e tutto è perfettamente bilanciato.

I due CD contengono il concerto completo del 28 marzo 1970, il migliore dei sei, poi ci sono altre 26 canzoni, 41 brani in totale, estratti dalle varie serate, badando ad evitare doppioni e con moltissime canzoni mai più apparse in seguito negli album ufficiali della band, che permettono di apprezzare, con eccellente qualità sonora, i coinvolgenti e scoppiettanti set del gruppo. Si apre proprio in modo ruspante con il soundcheck in diretta di fronte al pubblico, che poi confluisce nel breve strumentale Cajun Fiddle, affidato al violino di Andy Stein e alla pedal steel di Davis, per gli amici “The West Virginia Creeper”.  seguito dal R&R scatenato Good Rockin’ Tonight, il secondo singolo di Elvis per la Sun, con Kirchen, di nuovo Stein e il Comandante che cominciano a scaldare i loro strumenti, mente Farlow mette in mostra la sua voce calda e sicura, a seguire una pimpante Jambalaya per il lato country, e poi il lato R&B, R&R e New Orleans con My Girl Josephine di Fats Domino, l’originale di Barlow What’s The Matter Now, di nuovo di impianto country, con Davis alla steel, non manca neppure il zydeco’n’roll della travolgente Bon Ton Roulet, degna dei futuri sviluppi di Zachary Richard, il rockabilly di Matchbox di Carl Perkins, con Frayne che può fare il Jerry Lee Lewis della situazione, una ballata country spezzacuori come Long Black Limousine, la vivace cover di Only Daddy That’ll Walk The Line che era stata la canzone country del 1968 da un album di Waylon Jennings, e anche Truck Drivin’ Man, loro futuro cavallo di battaglia per i truckers del mondo intero, non scherza quanto a brio, con la steel del “West Virgina Creeper” a.k.a. Steve Davis e Kirchen a scambiarsi licks, Back To Tennessee di Barlow e Frayne, tra boogie e country è un’altra divertente pillola del loro repertorio, e la rilettura melò di Sleepwalk di Santo & Johnny è l’occasione per sentire di nuovo la steel di Davis e fischiettata di Frayne.

Dai rumori di ambiente non sembra esserci molto pubblico, ma il Family Dog era un piccolo locale, che comunque si riscalda al rockabilly/western swing di Midnight Shift e con una trascinante Blue Suede Shoes, per chiudere con un altro country’n’roll di Farlow come la frenetica Lost In Ozone, title track del loro album di debutto, qui finisce il concerto della domenica 28. Senza stare a citare tutti i brani, vi segnalo nella selezione degli altri cinque concerti, il cajun blues di Sugar Bee, una perfetta Mama Tried di Merle Haggard, di nuovo rockabilly a go-go con Boppin’ The Blues, la loro unica futura Top 10, una sempre vorticosa Hot Rod Lincoln, e pure Rip It Up non scherza come ritmo, la pianistica Lawdy Miss Clawdy, la potente (I’m Gonna) Burn That Woman, un Johnny Cash d’annata come Big River, il divertente doo-wop Stranded In the Jungle, un’altra occasione per Farlow di sfoderare il suo miglior Elvis in Baby Let’s Play House, I’m Coming Home di Johnny Horton, puro country, e la loro migliore ballata, la suadente Seeds And Stems (Again), degna antesignana della loro cover di Willin’, la più bella mai sentita a parte quella dei Little Feat. E mi fermo, ma si potrebbe andare avanti per ore. Una fantastica “scoperta”! Nel frattempo sto preparando un bell’articolo (mi lodo da solo) retrospettivo sulla band che leggerete prossimamente.

Bruno Conti

Torna Il Rocker Del Mississippi Con Uno Dei Dischi Più Divertenti Dell’Anno. Webb Wilder – Night Without Love

webb wilder night without love

Webb Wilder – Night Without Love – Landslide CD

L’ultima volta che mi sono occupato di Webb Wilder (che a dirla tutta era anche la prima) è stato quando due anni fa ho recensito il divertentissimo Powerful Stuff, che non era un album nuovo ma una collezione di outtakes registrate tra il 1985 ed il 1993 https://discoclub.myblog.it/2018/06/08/unora-di-divertimento-assicurato-webb-wilder-the-beatnecks-powerful-stuff/ . Oggi però Wilder torna davvero tra noi a cinque anni di distanza dal suo ultimo lavoro (Mississippi Moderne) con questo Night Without Love, che fin dal primo ascolto si afferma come uno dei dischi più godibili ed “entertaining” (termine inglese intraducibile – intrattenevole? – ma che rende benissimo l’idea) del 2020. Se non avete mai sentito nominare Wilder non preoccupatevi, in quanto è uno dei tanti “signor nessuno” del mondo della musica mondiale: esordiente nel 1986 con l’album It Came From Nashville, Webb ha sempre tirato dritto infischiandosene del fatto che i suoi lavori non vendevano una cippa, proponendo la sua miscela spesso irresistibile di rock’n’roll, country, boogie e power pop al fulmicotone, che lo faceva sembrare una via di mezzo tra Commander Cody ed i Blasters.

Night Without Love dovrebbe essere il decimo album di Wilder, e posso affermare senza tema di smentita che è uno dei suoi migliori di sempre, undici canzoni divise tra cover e brani originali che ci fanno ritrovare un rocker che ha sempre fatto musica “just for fun”, riuscendoci peraltro perfettamente. Il disco (la cui copertina è disegnata da James Flournoy Holmes, l’uomo dietro alle copertine di Eat A Peach degli Allman, Fire On The Mountain della Charlie Daniels Band e In The Right Place di Dr. John) vede Webb accompagnato dal suo abituale collaboratore George Bradfute, che suona qualsiasi tipo di strumento oltre a produrre il lavoro, ma anche da Rick Schell alla batteria, Bob Williams alla steel ed il noto chitarrista Richard Bennett in un brano. Trentasette minuti di musica, non un secondo da buttare. Si parte alla grande con Tell Me What’s Wrong, trascinante rock’n’roll dalla ritmica potente cantato dal nostro con una voce alla Johnny Cash, per proseguire sullo stesso livello con la title track (scritta da R.S. Field, produttore dei primi album del nostro), energica ballata sfiorata dal country con un mood anni sessanta e tanta grinta, e con il rockin’ country a tutto ritmo e chitarre Hit The Nail On The Head, vigorosa cover di un pezzo dei quasi dimenticati Amazing Rhythm Aces.

Holdin’ On To Myself, scritta da Chip Taylor, è uno scintillante honky-tonk dominato dalla steel, ma il capolavoro del disco secondo me arriva con il brano seguente: per il sottoscritto Be Still era già nella sua versione originale uno dei migliori brani dei Los Lobos (lo trovate su The Neighborhood, 1990), ma questa rilettura di Webb è strepitosa, in quanto fa ancora di più uscire la splendida melodia non cancellando le radici messicane ma aggiungendo una patina malinconica da vero balladeer. In poche parole, una goduria. A questo punto abbiamo cinque canzoni consecutive scritte da Wilder da solo o in compagnia: la deliziosa e coinvolgente rock song “californiana” Illusion Of You, con uno stile che ricorda parecchio gli Heartbreakers di Tom Petty, la splendida Buried Our Love, country-rock bello come se ne sentono pochi, la squisita Sweetheart Deal, ballata guidata dall’organo con un sapore blue-eyed soul e scritta nientemeno che con Dan Penn, la contagiosa Ache And Flake, tra rock’n’roll e power pop con un refrain vincente, e la fluida folk-rock ballad The Big Deal. Chiusura con una travolgente rilettura del classico jump blues di Tommy Tucker (ma inciso tra gli altri anche da Elvis e Chuck Berry) Hi Heel Sneakers, nobilitata da un farfisa dal suono decisamente vintage ed un approccio che ricorda quello dei già citati Blasters.

Se dovessi fare una scommessa, forse Night Without Love non entrerà nella Top Ten dei migliori album del 2020, ma sono quasi certo che sarà uno dei CD che ascolterò di più.

Marco Verdi

Anche Mister Little “A-Wop-Bop-A-Loo-Bop-A-Wop-Bam-Boom” Richard Se Ne E’ Andato…Ora Rimane Soltanto Jerry Lee!

little richard screaming

Ieri, 9 maggio 2020, il rock’n’roll ha perso uno dei suoi pionieri più fondamentali: si è infatti spento a Nashville, a causa di un tumore osseo, il grande Richard Wayne Penniman, che tutto il mondo aveva imparato a conoscere come Little Richard. Figura importantissima per lo sviluppo del rock’n’roll nell’ambito della musica popolare (iniziò diversi anni prima di un certo Elvis Presley), Richard fu anche il solo esponente di colore del genere insieme a Chuck Berry (ci sarebbero anche Fats Domino e Bo Diddley, benché i loro nomi non sono sempre associati direttamente al rock’n’roll), ma mentre le radici del rocker di St. Louis affondavano nel blues, Penniman fu il primo a contaminare la sua musica con cospicue dosi di rhythm’n’blues, soul e gospel, il tutto unito ad esibizioni infuocate e ad un look stravagante e decisamente trasgressivo per l’epoca.

little richard with the beatles

Oggi la sua figura è poco citata (complice anche la lunga inattività discografica), ma Richard è considerato uno dei soggetti più influenti in assoluto nel mondo del rock, e parlo di gente come Beatles, Rolling Stones (Mick Jagger lo ha definito la sua massima fonte di ispirazione), Bob Dylan (che quando fu introdotto nella Hall Of Fame dichiarò che fu proprio per merito della figura di Little Richard a convincersi a diventare musicista, concetto ribadito ieri con un messaggio su Twitter), John Fogerty, Bob Seger, Jimi Hendrix (che ancora sconosciuto fu per quasi un anno il suo chitarrista), Rod Stewart e Freddie Mercury, ma anche suoi quasi contemporanei come Ray Charles e James Brown. Nato nel 1932 a Macon, in Georgia, Richard era il terzo di ben dodici figli, e ricevette dai suoi genitori un’educazione a forte carattere religioso, cosa che si rivelerà determinante per il suo futuro. La musica entrò presto nella vita del giovane Richard, che usava esibirsi nelle chiese locali insieme ai membri della sua famiglia con il nome di The Penniman Singers.

A scuola perse presto interesse per lo studio ed iniziò a suonare in gruppi giovanili (prima di spostarsi al pianoforte, il suo primo strumento fu il sassofono), essendo notato per la prima volta nel 1947 da Sister Rosetta Tharpe, che ne ammirava lo stile esuberante e la voce potente nonostante la giovanissima età. In seguito Richard conobbe il già affermato Billy Wright (jump blues singer che era anche uno dei suoi idoli giovanili), che tramite le sue conoscenze lo aiutò a fargli firmare un contratto con la RCA ed a farlo entrare in uno studio di registrazione nel 1951, dove incise il suo primo 45 giri Taxi Blues.

Durante i primi anni (funestati anche dal lutto per la tragica morte del padre, ucciso con un colpo di pistola all’inizio del 1952) Richard non ebbe alcun successo con i suoi singoli, neppure quando passò dalla RCA alla Peacock, ma le cose cambiarono quando fu notato dal noto produttore Robert “Bumps” Blackwell, che gli fece firmare un nuovo contratto con la Specialty Records. Inizialmente le cose non sembravano andare molto meglio, ma spesso nella storia del rock’n’roll gli eventi più importanti succedono quasi per caso: nel 1955, in una pausa tra una session e l’altra, Richard iniziò a strimpellare al piano l’abbozzo di una nuova canzone dal testo non esattamente “stilnovista” ed un titolo un po’ idiota, ma con un mood sonoro decisamente trascinante. Blackwell intravide subito il potenziale della canzone e la fece incidere al nostro pubblicandola in tempi stretti come singolo.

Sto parlando di Tutti Frutti, una delle cinque-sei rock’n’roll songs che tutto il mondo (ma proprio tutto) conosce, brano che balzò subito al secondo posto delle classifiche e l’anno seguente acquistò ancora maggior popolarità in quanto fu incisa da Elvis nel suo formidabile album di debutto. Il resto è storia: da lì in poi Richard incise una lunga serie di canzoni che hanno fatto la storia del rock’n’roll (molte delle quali scritte da lui o dalla coppia formata da Blackwell e John Marascalco), brani irresistibili e famosissimi che rispondono ai titoli di Lucille, Slippin’ And Slidin’, Rip It Up, Ready Teddy, Long Tall Sally, Send Me Some Lovin’, Jenny Jenny, Good Golly Miss Molly, Kansas City, Keep A-Knockin’,

mentre dal 1957 con Here’s Little Richard il nostro incominciò anche a pubblicare album, pubblicati dalla etichetta Specialty, che all’inizio degli anni sessanta presero anche un indirizzo gospel.

A tutto ciò, Richard affiancava travolgenti esibizioni dal vivo, durante le quali venivano in un certo senso oltrepassate le rigide barriere razziali che resistevano ben salde nell’America di quegli anni, in quanto bianchi e neri si ritrovavano a ballare insieme nei club al suono della musica del piccolo musicista della Georgia. L’educazione religiosa ricavuta da bambino incomiciò però a bussare alla sua porta, e proprio nel 1957 (quindi all’apice del successo) il nostro smise improvvisamente di esibirsi dal vivo per frequentare un corso universitario cristiano al fine di diventare predicatore, ma nel 1962 tornò sulle scene con un trionfale tour nel Regno Unito, con sia Beatles che Stones (entrambi i gruppi erano agli esordi) come band di supporto prima dei suoi spettacoli.

Gli anni sessanta però vedranno calare la stella di Richard (destino comune con tutte le altre star dei fifties), e lui contribuirà in prima persona a causa dell’uso di droghe e di atteggiamenti a sfondo sessuale per l’epoca scandalosi (in quel periodo l’omosessualità non era vista benissimo, specie nell’America perbenista della cosiddetta “Bible Belt”), anche se verso la fine della decade tentò una parziale risalita, pubblicando due buoni album per la Okeh (uno in studio ed un live), nel 1969 partecipò al Toronto Peace Festival, organizzato da John Lennon, che vedete sotto e nel 1970 un disco dal suono parzialmente country per la Reprise (The Rill Thing). Gli anni settanta però saranno ancora più avari di soddisfazioni per Richard, che rischierà di sprofondare ancora di più nel tunnel della droga ma troverà conforto ancora una volta nella religione, diventando un predicatore quasi a tempo pieno e diradando in maniera sempre maggiore gli impegni musicali.

Un solo album negli anni ottanta (Lifetime Friend, 1986) ed uno nei novanta, una raccolta uscita nel 1992 con vecchie hits reincise con il chitarrista giapponese (!) Masayoshi Takanaka: poi più nulla a livello discografico (se si esclude qualche ospitata su dischi altrui o partecipazioni a tribute albums e colonne sonore) e solo sporadiche esibizioni dal vivo fino al 2013. Ma non c’era bisogno d’altro, in quanto il lascito di Little Richard alla storia del rock’n’roll era già enorme per quanto fatto nella seconda metà degli anni cinquanta e per l’influenza avuta sulle generazioni di musicisti venute dopo di lui: io vorrei ricordarlo con la re-incisione di Good Golly Miss Molly nel 1991, uno dei suoi brani storici per la colonna sonora del film con John Goodman King Ralph, registrazione prodotta dal mio “amico” Jeff Lynne e con Ringo Starr alla batteria (e del cui rarissimo CD singolo possiedo orgogliosamente una copia).

Con la scomparsa di Mr. Penniman ora Jerry Lee Lewis è davvero rimasto “the last man standing” dell’epoca d’oro del rock’n’roll: tieni duro Killer!

Marco Verdi

Tra Pop E Rock’n’Roll, Una Volta Si Diceva Power Pop, Un Dischetto Frizzante E Divertente. The Rubinoos – From Home

rubinoos from home

The Rubinoos – From Home – Yep Roc CD

Alzi la mano chi si ricorda dei Rubinoos, band di San Francisco che nella seconda metà degli anni settanta ebbe qualche successo minore con la sua miscela fresca e diretta di pop e rock’n’roll, soprattutto con i singoli I Think We’re Alone Now e I Wanna Be Your Boyfriend, che entrarono nella classifica di Billboard pur restando ben lontani dalle prime posizioni. Formatisi nel 1970, il gruppo esordì solo nel 1977 con l’album omonimo, per sciogliersi nell’indifferenza generale a metà anni ottanta dopo aver pubblicato solo un altro disco ed un EP. Tornati una prima volta nel 1998 e poi in pianta stabile negli anni duemila, i Rubinoos sono stati paradossalmente più attivi in questo nuovo millennio che nel momento di maggior popolarità, con ben cinque album pubblicati tra il 2003 ed il 2015.

Tra i loro fans c’è anche un certo Chuck Prophet, ed è proprio l’ex chitarrista dei Green On Red a produrre From Home, il nuovo lavoro del quartetto (formato dai membri fondatori Tommy Dunbar e Jon Rubin, chitarre e voci, dal batterista Donn Spindt, con loro dal 1971, e dal bassista Al Chan, acquisito nel 1980), oltre a suonare la chitarra e addirittura a scrivere tutte le dodici canzoni insieme a Dunbar, rivestendo quasi il ruolo di quinto membro aggiunto. E From Home si posiziona agevolmente in prima posizione tra gli album pubblicati dal quartetto californiano dalla loro reunion in poi: un dischetto fresco, piacevole e decisamente divertente e spensierato, in cui pop e rock’n’roll vengono fusi in maniera mirabile con un attitudine ed una grinta non comuni. Musica just for fun, ma fatta a regola d’arte, per 34 minuti davvero piacevoli a base di chitarre, gran ritmo e melodie accattivanti: il classico disco che non avrà grandi pretese ma che si fa una fatica boia a levare dal lettore.

Si parte con Do You Remember, brano chitarristico dal ritmo elevato e contraddistinto da un motivo diretto e cori al posto giusto, suonato però con piglio da garage band; ancora chitarre in evidenza (ma è una costante in tutto il disco) nell’orecchiabile January, puro pop in stile British fatto da americani, mentre la solare Do I Love You è immediata, piacevole e con uno squisito sapore pop-errebi anni sessanta. Bellissima poi Phaedra, una canzone dal ritmo irresistibile, accompagnamento diretto e vibrante e ritornello splendido, un pezzo che 50 anni fa avrebbe potuto diventare una hit; la velocissima How Fast è puro “pop’n’roll” suonato con una grinta che li avvicina ai Flamin’ Groovies, e si distingue dalla lenta ed elettroacustica Heart For Sale, a dimostrazione che i nostri non sono solo ritmo ma hanno anche le ballate nelle loro corde.

Con Honey From The Honeycombs riparte il mood rocknrollistico, che si sposa alla grande con la melodia beatlesiana ed i coretti in stile Beach Boys, e che prosegue con la cadenzata Rocking In Spain, ennesimo brano che rende impossibile l’ascolto senza muovere almeno il piedino. Masochist Davey è limpida, leggera e godibilissima, così come la bella Miss Alternate Universe, una pop song di quelle che vorresti durassero almeno dieci minuti; chiusura con la fresca ed immediata Pretty Close, di nuovo contraddistinta da uno spiccato gusto beatlesiano, e con Watching The Sun Go Down, deliziosa ballatona ancora in odore sixties. Bentornati ai Rubinoos ed alla loro musica fatta per divertire senza troppi fronzoli o complicazioni di sorta, ed un plauso a Chuck Prophet per averli aiutati (o almeno per averci provato) a farli uscire dall’anonimato.

Marco Verdi