Tutti Bravi Ma…La Voce Dov’è? Dale Watson – Presents: The Memphians

dale watson presents the memphians

Dale Watson – Presents: The Memphians – BFD CD

Dale Watson, prolifico countryman nativo dell’Alabama ma texano d’adozione, è fermo discograficamente a Call Me Lucky del 2019, ma non è che nel frattempo se ne sia stato con le mani in mano. Al contrario, ha apportato alla sua vita un paio di cambiamenti piuttosto importanti: si è trasferito da Austin a Memphis (dove ha aperto anche un ristorante, Hernando’s Hideaway, ed uno studio di registrazione) e si è sposato con la singer-songwriter Celine Lee. Ma il passaggio a Memphis ha portato in Dale anche un mutamento dal punto di vista musicale, in quanto il suo nuovo lavoro The Memphians è in tutto e per tutto un tributo alla sua nuova città ed alle origini del rock’n’roll, un album in cui il nostro mostra influenze alternative a quelle dei suoi “honky-tonk heroes”: Elvis Presley, Carl Perkins, i dischi della Sun Records e, essendo Dale anche un valido chitarrista, gente come Scotty Moore, Hank Marvin, Duane Eddy e lo stesso Perkins. The Memphians è quindi un disco molto meno country del solito, ma che presenta un range sonoro che va dal rock’n’roll allo swing, dal rockabilly alla ballata anni 50 e che, soprattutto, non ci fa sentire la bella voce baritonale di Watson in quanto è un lavoro al 100% strumentale.

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A dire il vero quando ho letto questa notizia ho storto un po’ il naso, nello stesso modo in cui l’avevo storto nel 1999 (facendo le debite proporzioni tra i due artisti) quando Willie Nelson aveva pubblicato lo strumentale Night And Day: ad ascolto ultimato però devo ammettere che The Memphians risulta essere un dischetto godibile e ben fatto, che regala all’ascoltatore mezz’oretta indubbiamente piacevole, anche se io al Dale Watson cantante non rinuncerei mai. C’è anche un po’ di Italia, in quanto il secondo chitarrista (e co-autore con Watson di quattro pezzi, mentre gli altri sono del solo Dale) è il catanese trapiantato a Memphis Mario Monterosso, affiancato dalla sezione ritmica di Carl Caspersen al basso e Danny Banks alla batteria, e soprattutto dal bravissimo pianista T. Jarrod Bonta, collaboratore di lungo corso del leader, e dall’ottimo sassofonista Jim Spake. L’iniziale Agent Elvis è un chiaro omaggio a Duane Eddy, un pezzo cadenzato con chitarrone twang in evidenza ed il sax che si prende il suo spazio mentre in sottofondo la band accompagna con discrezione guidata dal pianoforte spazzolato da Bonta https://www.youtube.com/watch?v=5YMhC-Clr0k . Dalynn Grace, languida ballata d’altri tempi che fa venire in mente gli episodi più melodici di Elvis (ma la voce, come ho già detto, non c’è), con una chitarra vagamente hawaiana ed un ritmo da bossa nova https://www.youtube.com/watch?v=xX4jZ04UL38 , si contrappone alla spedita Alone Ranger, brano di stampo quasi western che riprende il sound degli Shadows, con sax ed organo che si ritagliano entrambi una parte da solisti https://www.youtube.com/watch?v=Xy81bQmz16s .

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Standin’ In Line è una gradevolissima canzone ritmata e ricca di swing, tra country e rockabilly con una spruzzata di jazz, Serene Lee riporta il CD su languide atmosfere da ballo della mattonella (mi aspetto di sentire arrivare Chris Isaak da un momento all’altro), Deep Eddy è un altro suggestivo pezzo che profuma di Shadows lontano un miglio, con un approccio raffinato ed una delle migliori performance chitarristiche del disco. Hernando’s Swang è ispirata al locale aperto da Dale a Memphis, ed è un coinvolgente brano a tutto swing con i soliti eccellenti spunti di piano e sax https://www.youtube.com/watch?v=JR3X_JYyXSM , Mi Scusi (avete letto bene) è puro rock’n’roll dal ritmo decisamente sostenuto https://www.youtube.com/watch?v=pKWrs3G_DpE , mentre 2020 riavvicina il nostro al country con una veloce canzone influenzata da Chet Atkins, e la conclusiva Remembering Gary vede Dale lasciarci con uno slow suadente e dall’aria nostalgica. Dopo anni di ottimo honky-tonk texano ci sta che Dale Watson possa cambiare genere, ma la scelta di non usare la voce ha reso The Memphians niente più di un piacevole divertissement.

Marco Verdi

Brava, Ma Non Sempre Chi Fa Da Sé Fa Per Tre! Ghalia Volt – One Woman Band

ghalia volt one woman band

Ghalia Volt – One Woman Band – Ruf Records

Questa ci mancava, una blueswoman che viene dal Belgio: a seconda dei dischi si presenta come Ghalia & Mama’s Boys, semplicemente Ghalia, ed ora Ghalia Volt, ma il suo vero nome all’anagrafe è Ghalia Vauthier e viene da Bruxelles, non esattamente la capitale del mondo per le 12 battute. Ovviamente poteva metterla sotto contratto solo la Ruf, che ha un roster di artiste femminili che gravitano intorno al blues, provenienti da tutte le latitudini (e anche le longitudini) del mondo: come certo saprete ci sono americane, inglesi, canadesi, finlandesi, serbe, italiane (la Cargnelutti), austriache, croate, alcune non incidono più per l’etichetta tedesca, ma ne arrivano sempre di nuove, non tutte sono allo stesso livello, ma quasi tutte interessanti. Ghalia ha un passato, ad inizio carriera, magari anche prima, da busker, tra Europa ed America, poi una passione per R&B e R&R con forti venature punk ed infine è arrivato il blues. Dopo due album full band questa volta la signorina, come da titolo One Woman Band, ha deciso di fare tutto da sola, anche se nel disco, registrato ai famosi Royal Sound Studios di Memphis, con la produzione di Boo Mitchell (degno nipote di Willie, quello dei dischi da Al Green) , sono apparsi come ospiti Dean Zucchero al basso e “Monster” Mike Welch alla chitarra.

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L’intento, in risposta alla crisi da Covid, era quello di creare una sorta di resilienza, con un disco, dove canta, suona la chitarra slide, e con i due piedi contemporaneamente kick drum, snare drum, tamburino e piatti https://www.youtube.com/watch?v=q8A2dlDo0-o . Naturalmente il risultato è molto ruspante, a tratti fin troppo. L’energia e la grinta ogni tanto debordano oltre il limite, e quindi il disco non mi ha convinto del tutto, ma è un parere personale, va bene il DIY, ma non sempre ci siamo: l’iniziale Last Minute Packer è un boogie/rock’n’roll con ritmo scandito, voce pimpante, chitarra leggermente distorta e qualche eco di juke joint blues https://www.youtube.com/watch?v=qQX6XvzK0zc , Esperitu Papago, con bottleneck in bella vista e Zucchero al basso, ritmi ripetuti alla John Lee Hooker, qualche tocco di leggero psych-garage rock con la voce trattata nel finale, non sempre decolla, Can’t Escape vira decisamente sul rock, grintoso e tirato, minimale ma deciso e vibrante. Evil Thoughts è uno shuffle quasi classico, divertente e divertito, anche se al solito un filo irrisolto, benché questa volta la chitarra è più in evidenza, ma sarà perché è quella di Mike Welch https://www.youtube.com/watch?v=WDud4wN6T9k ? Meet Me In My Dreams è più convinta ed immersa nelle paludi blues del Mississippi, ma quello che pare essere il suo modello come sound, ovvero RL Burnside, è pur sempre di un’altra categoria https://www.youtube.com/watch?v=343lZp98kyI .

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Reap What You Saw è una delle canzoni più riuscite, slide ascendente e discendente che mulina di gusto, influenzata dalla opera omnia di Elmore James, cantato partecipe e convinto e omaggio riuscito al re del bottleneck, poi ci si sposta verso le traiettorie sonore del Chicago Blues di Muddy Waters, con una sanguigna e scandita Loving Me Is A Full Time Job, che poi accelera nel corso del brano, anche se alcune immaginifiche recensioni mi paiono un filo esagerate nel tessere le lodi di Ghalia. It Hurts Me Too, di nuovo Elmore James, è un sapido lentone con uso bottleneck, che dimostra che volendo la stoffa c’è https://www.youtube.com/watch?v=-Hvkzl-GE0Q , non manca pure del sano R&R come nella divertente It’ Ain’t Bad https://www.youtube.com/watch?v=VWQyzVGscsc  e un’altra cavalcata slide, che dimostra la sua buona tecnica, nella tirata e “lavorata” Bad Apple, prima della chiusura affidata alla cover di un vecchissimo brano anni ‘50 di Ike Turner Just One More Time dove tornano per aiutarla Zucchero e Welch, tra swing e piacevole rockabilly https://www.youtube.com/watch?v=-S74GoKuEZ4 . Alla fine un disco godibile, vediamo per il futuro.

Bruno Conti

Grande Rock & Roll, Da Parte Di Uno Che Sa Come Farlo! Robert Gordon – Rockabilly For Life

robert gordon rockabilly for life

Robert Gordon – Rockabilly For Life – Cleopatra CD

Robert Gordon alla bella età di 73 anni non ha ancora perso la voglia di fare musica, ed a più di un lustro dal suo ultimo lavoro (I’m Coming Home, 2014) si rifà vivo con uno dei dischi più importanti della sua carriera. Rockabilly For Life è un titolo che racchiude perfettamente la visione musicale di Gordon, che a parte un breve periodo punk-rock negli anni settanta ha sempre avuto nel rock’n’roll degli anni cinquanta il suo genere di riferimento. Anzi, Gordon è un personaggio per il quale il tempo si è davvero fermato alla seconda metà dei fifties, sia per il suo look da eterno “teddy boy” sia soprattutto per la musica che ha sempre proposto con alterne fortune ma con un’invidiabile coerenza artistica, collaborando spesso con grandi chitarristi (Link Wray https://discoclub.myblog.it/2014/10/25/peccato-la-qualita-sonora-perfetta-il-concerto-fantastico-robert-gordon-link-wray-cleveland-78/  e Danny Gatton, tanto per citarne due) e facendo la musica che lo divertiva di più.

Rockabilly For Life, pubblicato dalla controversa etichetta californiana Cleopatra (che però questa volta non sembra avere fatto danni fatto danni), è un viaggio da parte del rocker del Maryland attraverso quindici canzoni del bel tempo che fu, una serie di brani che però non sono classici assodati del rock’n’roll bensì pezzi piuttosto oscuri appartenenti al repertorio di artisti che molto spesso non vengono neppure citati nelle enciclopedie specializzate, nomi come Benny Joy, Billy Eldridge, Bobby Lord, Wynn Stewart, Bob Luman, Tony Orlando, Roy Hall e Johnny Burnette (forse il più “famoso” di tutti). Inciso ad Austin tra gennaio e febbraio del 2019 con la produzione di Danny B. Harvey e la collaborazione della Reference Mix Band (lo stesso Harvey alla chitarra, Pierre Pelegrin al basso e Paul Vezelis alla batteria), l’album presenta quindici pezzi che vedono la presenza di un ospite diverso in ogni canzone, con diversi nomi a noi molto noti e perfino qualche vera e propria leggenda vivente della nostra musica. Un disco importante fin dalla sua presentazione quindi, ma una volta ascoltato devo fare un plauso allo stesso Gordon che nonostante gli anni e la non più assidua attività è ancora un rocker coi fiocchi, capace di intrattenere e coinvolgere senza problemi l’ascoltatore (ospiti o non ospiti), e tuttora in possesso di una grinta che musicisti che potrebbero essere suoi nipoti si sognano.

Il CD si apre subito in maniera trascinante con Steady With Betty, un movimentato boogie con un uso del basso molto pronunciato ed un assolo tagliente da parte di James Williamson (ex Stooges), un brano tra punk, surf e rockabilly. Chris Spedding è stato per anni partner di Gordon, e qui torna a fianco del suo amico di lunga data per una Let’s Go Baby saltellante ed assolutamente godibile, sullo stile di pionieri come Gene Vincent e Eddie Cochran; il grande Albert Lee lo si riconosce dopo due note, e qui mette il suo “chicken pickin’ style” al servizio della limpida Everybody’s Rockin’ But Me, un country’n’roll perfetto per il vocione del nostro, mentre Linda Gail Lewis, sorella mai troppo considerata del leggendario Jerry Lee, ci fa ascoltare il suo pianismo debordante e la sua voce grintosa nella cadenzata She Will Come Back, altro pezzo giusto a metà tra rock’n’roll e country. Paul Shaffer è stato per decenni il direttore della house band del Late Show With David Letterman, un musicista ed arrangiatore formidabile che in Try Me si “limita” a suonare il pianoforte (ma sentite il suo assolo, da paura), mentre Gordon rockeggia che è un piacere in mezzo a chitarre a manetta e ritmo forsennato: strepitosa.

Dale Watson è un countryman tra i più bravi e la sua voce baritonale si integra benissimo con quella di Robert in I’m Glad My Baby’s Gone Away, un honky-tonk elettrico tutto da godere; Kathy Valentine era la chitarrista delle Go Go’s di Belinda Carlisle, e nel travolgente boogie-swamp Please Give Me Something dà dei punti a tanti maschietti con una performance da consumata axewoman, ed il ritmo non molla neppure nella seguente Black Cadillac, un jump-blues irresistibile dove alla batteria troviamo Clem Burke dei Blondie. Ed ecco il grande Dave Alvin, manco a dirlo l’avvincente Three Alley Cats sembra al 100% una outtake dei Blasters, mentre la cadenzata If You Want It Enough vede Jimmy Hall, cantante dei Wet Willie, doppiare all’armonica la voce del nostro con ottima perizia; la brava Rosie Flores porta un po’ di Texas rock’n’roll all’interno del disco, prestando la sua voce e chitarra solista nell’adrenalinica Hot Dog That Made Her Mad. Siamo quasi al termine, ma c’è ancora spazio per il granitico rock-blues One Cup Of Coffee che vede il grande Joe Louis Walker far cantare splendidamente la sua solista https://www.youtube.com/watch?v=RSbAn6kHQEM , a cui fanno seguito il rockabilly swingato I’ve Had Enough con il countryman Steve Wariner alla lead guitar ed il gradevole e ritmato country-rock Would Ja in cui Robert duetta con Emanuela Hutter, per concludere con una leggenda, Steve Cropper, che arrota da par suo nella guizzante rock ballad fifties-oriented Knock Three Times.

Come bonus abbiamo le stesse canzoni presentate come “reference mixes”, cioè Gordon e la house band senza gli ospiti, in pratica due volte di fila lo stesso album. Ma basta ed avanza la prima parte, quindici canzoni di puro intrattenimento rock’n’roll che vanno a formare uno dei dischi più divertenti degli ultimi mesi.

Marco Verdi

Passa Il Tempo: Sono 40+1. Stray Cats – Rocked This Town: From LA To London

stray cats rocked this town

Stray Cats – Rocked This Town – From LA To London – Surfdog/Mascot

L’anno scorso con 40 avevano festeggiato appunto il loro quarantesimo anniversario, con la reunion della formazione originale e il primo disco in studio di materiale nuovo dopo 26 anni: Brian Setzer, Slim Jim Phantom e Lee Rocker, gli Stray Cats originali, ormai tutti e tre vicini alla soglia dei 60 anni (anzi nel caso di Setzer superata), con Gretsch, contrabbasso e kit da batterista R&R pronti alla bisogna, si sono lanciati in un tour mondiale, che addirittura era partito nel 2018, per riproporre i loro classici, accanto anche ad alcuni dei brani nuovi, prima che arrivasse il ciclone Covid-19 a fermare la musica dal vivo in giro per il mondo. Quindi con ben 22 canzoni compattate in un CD singolo, dove la durata media raramente supera i 4 minuti (ma qualcuna ce n’è, non sono mica i Ramones), questo Rocked This Town: From LA To London, ancora una volta celebra il loro rockabilly revival con tanta grinta e anche classe, visto che Setzer in questi anni è diventato anche un apprezzato musicista in grado di spaziare tra swing e blues, con ottimi risultati.

La maggior parte delle canzoni è originale (più o meno, visto che l’ispirazione viene comunque dai gloriosi anni del R&R e del rockabilly) e qualche immancabile cover, ma se lo scopo dichiarato è quello di divertire i loro ascoltatori, anche non in presenza, ma su un CD, direi che il risultato è raggiunto. La musica quindi si gode anche da remoto, nella propria casa o in giro con cuffiette il piedino è subito pronto per tenere il tempo: qualità sonora ottima, e partenza con uno dei brani nuovi Cat Fight (Over A Dog Like Me) che comunque illustra perfettamente lo spirito R&R degli Stray Cats, eccellente assolo di chitarra di Setzer incluso https://www.youtube.com/watch?v=czwn7d_gEro , senza soluzioni di continuità si parte con il greatest hits, prima una brillante Runaways Boy, che era sull’omonimo album di debutto del 1981, e suona fresca oggi come allora, anzi la voce di Brian e la sua perizia alla solista sono aumentate dopo lunghi anni on the road, Too Hip Gotta Go era su Rant’n’Rave, brano preso sempre a grande velocità, ma più raffinato e meditato, con la chitarra ancora in grande spolvero, di nuovo dal 1° album una scoppiettante cover di Double Talkin’ Baby di Gene Vincent con le mani del nostro che volano sul manico della chitarra.

A seguire un altro dei brani del disco dello scorso anno, Three Time’s A Charm, dove il risultato è a tutto rockabilly https://www.youtube.com/watch?v=s39szCgOjYY , poi accolto da un boato arriva uno dei loro cavalli di battaglia, la sempre bellissima e felpata (manco a dirlo) Stray Cat Strut. Senza ricordare tutti i brani, comunque eccellenti a prescindere, vorrei ricordare la pimpante e di grande tecnica strumentale Mean Pickin’ Mama, l’omaggio a due degli idoli della band Gene And Eddie, con immancabili citazioni ad libitum, e ancora una rara ballata da crooner come la deliziosa I Won’t Stand In Your Way, un paio di cover strumentali come la countyreggiante Cannonball Rag di Merle Travis, eseguita dal solo Setzer alla elettrica e il celeberrimo e vorticoso surf di Dick Dale Misirlou, sempre con la maestria di Brian in bella evidenza https://www.youtube.com/watch?v=H7eFhKYO4P0 , come pure la divertente e sbarazzina (She’s) Sexy + 17, e anche l’altrettanto sexy Fishnet Stockings, un omaggio ad un altro dei grandi del rockabilly Dorsey Burnette con la sua My One Desire, presente solo nella versione in vinile.

E poi nel gran finale spettacolare, alcuni dei loro più grandi successi che mandano il visibilio il pubblico presente: quasi in sequenza ecco arrivare la potente Rock This Town, la recente e bluesata Rock It Off dove Setzer sembra un novello Thorogood, e naturalmente Built For Speed, fedele al suo titolo, per concludere con una colossale Rumble In Brighton, tra R&R e Clash. L’estate sarà anche finita, ma il divertimento ( si fa per dire) continua con questo ottimo Live che conferma che gli Stray Cats sono sempre un gran bel gruppo, anche 40, anzi quarantuno anni dopo i loro esordi.

Bruno Conti

Ecco Un Altro Che Di Dischi Ne Fa Pochini! Dale Watson – Under The Influence

dale watson under the influence

Dale Watson – Under The Influence – Red River CD

Dale Watson, countryman nato in Alabama ma texano al 100%, è sempre stato uno prolifico, ma ultimamente non si ferma più, in quanto si è ormai messo a viaggiare al ritmo di due dischi all’anno: lo avevamo da poco lasciato tra bingo ed escrementi di gallina nello strano live Chicken Shit Bingo http://discoclub.myblog.it/2016/10/24/cacca-gallina-vero-chitarre-dale-watson-his-lonestars-live-at-the-big-t-roadhouse/  che subito ci ritroviamo tra le mani questo Under The Influence, nel quale Dale, come suggerisce il titolo, paga il suo tributo ad artisti e canzoni importanti per la sua formazione musicale. Watson, nonostante la prolificità, è uno che raramente delude, magari non farà mai il capolavoro assoluto, ma quando si mette nel lettore uno dei suoi CD si può star certi di passare una quarantina di minuti in compagnia di ottimo country-rock texano, elettrico e pieno di ritmo, tra honky-tonk fulminanti, gustosi swing e ruspanti boogie e rockabilly, con il vocione del nostro a dominare ed il preciso accompagnamento dei fidi Lone Stars (Chris Crepps al basso, Mike Bernal alla batteria, l’ottimo Don Pawlak alla steel, vero strumento protagonista nell’economia del suono della band, oltre a Earl Poole Ball e T Jarod Bonta al piano).

Under The Influence è un disco decisamente più serio del live da poco pubblicato, e ci fa ritrovare il Watson che più apprezziamo, che, alle prese con un repertorio di grandi canzoni come quelle da lui scelte per questo progetto, non può che fare faville: in più, oltre ad indicare come da prassi i titoli dei brani ed i loro autori, Dale specifica anche a quale versione si è ispirato per la sua cover. Ed il risultato è, come potete intuire, decisamente riuscito. Lonely Blue Boy, un successo di Conway Twitty, ha un delizioso sapore retrò, con tanto di cori doo-wop, gran voce di Dale ed un piacevole alone nostalgico https://www.youtube.com/watch?v=6Dxe0gVPu6U ; You’re Humbuggin’ Me, resa nota da Lefty Frizzell, è puro rockabilly texano, fresco, ritmato e coinvolgente, con un ottimo uso del piano, mentre Lucille, il noto brano di Little Richard, è però riproposto basandosi sulla versione di Waylon Jennings, e Watson mantiene intatta l’atmosfera tipica dello scomparso outlaw, voce tonante, suono potente ed un’aria southern che non guasta. Made In Japan (Buck Owens) è country puro e scintillante, con una splendida steel, melodia classica e grande feeling, That’s What I Like About The South appartiene invece al repertorio di Bob Wills ed è, manco a dirlo, un guizzante western swing dal ritmo acceso ed assoli continui, un elemento in cui il nostro si trova particolarmente a suo agio, mentre Here In Frisco è il primo di due tributi a Merle Haggard, un bellissimo slow in puro Bakersfield style, con la voce di Dale che evoca quella del grande Hag.

Ancora country puro con Pretty Red Wine, di Mel Tillis, un brano saltellante, cadenzato e godibilissimo, con gustosi intrecci tra la chitarra di Watson e la steel di Pawlak; Pure Love è un pezzo scritto da Eddie Rabbitt ma reso popolare da Ronnie Milsap, un brano mosso, anch’esso caratterizzato da un motivo molto classico, ma non intriso di pop come ha spesso fatto il famoso cantante non vedente; I Don’t Wanna Go Home è un giusto omaggio a Doug Sahm con una languida ballata, non male ma io avrei preferito un bel tex-mex, o qualcosa che comunque identificasse meglio l’ex Texas Tornado. Il CD si chiude con il ritmato honky-tonk Most Wanted Woman (Roy Head), un tipo di canzone che Dale canta anche sotto la doccia, la ruspante e roccata If You Want To Be My Woman, ancora Haggard, e con il superclassico Long Black Veil, un brano che hanno rifatto in mille (ricordo splendide versioni di The Band, Joan Baez, Mick Jagger con i Chieftains ed anche di Nick Cave), ma Watson si ispira alla famosa rilettura di Johnny Cash, anche se il confronto con l’Uomo in Nero è assai arduo per chiunque.  Un’altra buona prova per Dale Watson: adesso speriamo che si prenda almeno sei mesi di pausa prima di un altro disco.

Marco Verdi

Per Completare La Storia! Roy Buchanan – The Genius Of The Guitar His Early Recordings

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Roy Buchanan – The Genius Of The Guitar His Early Recordings – 2 CD Jasmine Records

In un documentario del 1971 Roy Buchanan venne definito “il più grande chitarrista sconosciuto del mondo”, quando non aveva ancora inciso un disco a nome suo, ma anche lui doveva avere avuto un passato ancora più da sconosciuto, e questa doppia antologia della Jazmine va a esaminare gli anni dal 1957 al 1962, quando il nostro era un giovanotto di belle speranze e negli anni del primo R&R, rockabilly e blues muoveva i primi passi come “guitar for hire”, suonando nei dischi di Dale Hawkins (quello di Susie Q per intenderci), Jerry Hawkins, e nel 1960 era il chitarrista della band di Ronnie Hawkins (il cugino di Dale), che poi sarebbe diventata The Band, e il cui bassista era Robbie Robertson, che studiò con attenzione lo stile di questo chitarrista dalla tecnica già allora fenomenale, che avrebbe suonato anche nei dischi di Merle Kilgore e Freddy Cannon, e di vari altri carneadi molto meno noti.

In questo doppio CD sono raccolti ben 44 brani (ma le durate dei pezzi dell’epoca difficilmente superavano i due minuti) che sicuramente non mancheranno di interessare i numerosi appassionati di Buchanan sparsi per il mondo, che dal 1988 della sua tragica scomparsa sono sempre alla ricerca di materiale nuovo od inedito, soprattutto dal vivo, che possa tenere viva la leggenda di questo grande virtuoso della chitarra, uno dei veri geni assoluti, per quanto misconosciuti, dello strumento. Ah, e per completare la saga degli Hawkins, che avevo letto ma non ricordavo, Jerry era il fratello di Dale, e pure il babbo era uno dei Sons Of The Pioneers originali. Tornando al loro chitarrista di fiducia, senza andare a spulciare brano per brano i contenuti di questo doppio (che comune potete leggere sotto), diciamo che ci sono anche molti motivi di interessi per gli appassionati della musica pre-Beatles, ben serviti anche da un libretto per una volta ricco di particolari sia sulla carriera di Buchanan che sui brani contenuti nei dischetti.

Disc 1

1. HOT TODDY – THE SECRETS
2. TWIN EXHAUST – THE SECRETS
3. THE JAM PART ONE – BOBBY GREGG AND HIS FRIENDS
4. THE JAM PART TWO – BOBBY GREGG AND HIS FRIENDS
5. MY BABE – DALE HAWKINS
6. SOMEDAY ONE DAY – DALE HAWKINS
7. TAKE MY HEART – DALE HAWKINS
8. CLASS OF 59 – BOB LUMAN
9. MY BABY WALKS ALL OVER ME – BOB LUMAN
10. HE WILL COME BACK TO ME – ALIS LESLEY
11. MY BLUE HEAVEN – FREDDY CANNON
12. I GOT A HEART – JERRY HAWKINS
13. SWING DADDY SWING – JERRY HAWKINS
14. I WANT TO LOVE YOU – DALE HAWKINS
15. GRANDMA’S HOUSE – DALE HAWKINS
16. BUTTERCUP – BOB LUMAN
17. DREAMY DOLL – BOB LUMAN
18. I TAKE A TRIP TO THE MOON – MERLE KILGORE
19. IT’LL BE MY FIRST TIME – MERLE KILGORE
20. WILD, WILD WORLD – DALE HAWKINS
21. CHA CHA CHU – JERRY HAWKINS
22. LUCKY JOHNNY – JERRY HAWKINS

Disc 2

ROY BUCHANAN
1. MULE TRAIN STOMP – ROY BUCHANAN
2. PRETTY PLEASE – ROY BUCHANAN
3. RUBY BABY – CODY BRENNAN & THE TEMPS
4. AM I THE ONE – CODY BRENNAN & THE TEMPS
5. SHAKE THE HAND OF A FOOL – CODY BRENNAN & THE TEMPS
6. LONELY NIGHTS – JERRY HAWKINS
7. NEED YOUR LOVIN’ – JERRY HAWKINS
8. AFTER HOURS – ROY BUCHANAN
9. WHISKERS – ROY BUCHANAN
10. THE KICK STEP – PERRY MATES
11. GOTTA GO – PERRY MATES
12. BLUE SKIES – FREDDY CANNON
13. THE BLACKSMITH BLUES – FREDDY CANNON
14. ROUTE 66 – PAUL CURRY
15. HONEYSUCKLE ROSE – PAUL CURRY
16. THE SHUFFLE – BOBBY & THE TEMPS
17. MARY LOU – BOBBY & THE TEMPS
18. TEEN QUEEN OF THE WEEK – FREDDY CANNON
19. WILD GUY – FREDDY CANNON
20. THE TWIST/MOTHER’S CLUB TWIST – DANNY AND THE JUNIORS
21. WHEN THE SAINTS GO TWISTIN’ IN – DANNY AND THE JUNIORS
22. POTATO PEELER – BOBBY GREGG

Diciamo che, a grandi linee, nel primo CD ci sono brani dove Roy Buchanan era la chitarra solista in canzoni anche di particolare pregio storico, per esempio la versione di My Babe di Dale Hawkins, mentre nel secondo CD ci sono alcune delle prime tracce soliste su 45 giri del musicista dell’ Arkansas, ma la divisione è “molto” sottile. Ci sono due strumentali dei The Secrets del 1962, di cui in Twin Exhaust si apprezza la solista di Roy, sempre dal 1962 The Jam Part One & Two di Bobby Gregg & His Friends, in cui già si intuisce perché Buchanan sarebbe stato uno dei grandi dello strumento, pur se sommerso tra sax e organi vari; la versione di My Babe, il celebre brano di Willie Dixon scritto per Little Walter, nella versione di Dale Hawkins, sempre la Chess, diventa un aggressivo R&R con la twangy guitar di Buchanan.

Nel repertorio di Dale Hawkins c’era anche doo wop bianco come la divertente Someday One Day, o pezzi aggressivi alla Elvis come la bella Take My Heart. Bob Luman, tra country e rockabilly aveva una gran voce, mentre Freddy Cannon è stato uno che è entrato varie volte nei Top 10 delle classifiche. Jerry Hawkins, come il fratello, aveva grinta e ritmo, ma la chitarra si sentiva soprattutto nei pezzi di Dale, vedi I Want To Love You o Wild Wild World, comunque spesso in questi brani è comunque una presenza di contorno.

Ma nel disco 2, Mule Train Stomp, a nome Buchanan, del 1961, è uno strumentale del tutto degno di pezzi come The Rumble o simili, con la chitarra già selvaggia, e pure il lato B Pretty Please non scherza. E formazioni come Cody Brennan & The Temps già sparavano R&R come facevano Johnny Kidd & The Pirates sull’altro lato dell’oceano, con Mick Green alla chitarra, sentire Ruby Please per credere, o The Shuflle, prodotta da Leiber & Stoller. Tra i pezzi da ricordare anche una bluesata Lonely Nights, con Jerry Hawkins, del 1958, e una prima versione del suo classico After Hours, che poi re-inciderà per Second Album, già nel 1961 un lancinante slow blues degno della sua fama. E ancora una elegante Blue Skies per Freddy Cannon, una scatenata Route 66 con Paul Curry e una forsennata The Twist con Danny & The Juniors, e la conclusiva Potato Peeler un pezzo degno di Booker T& Mg’s. Sono i piccoli particolari che fanno la storia del rock, e qui ce ne sono tanti. L’inizio di una leggenda!

Bruno Conti

E Anche Questi Sono Bravi.Tra Blues E Rock, Una Nuova Promessa! The Record Company – Give It Back To You

the record company give it back to you

The Record Company – Give It Back To You – Concord/Universal 

E anche questi sono bravi! Sembra che le majors, stimolate da un mercato che è diventato strano, tornino a darsi da fare non solo con vincitori e partecipanti a talent vari, ma anche con musicisti di talento vero, se mi passate il piccolo bisticcio di parole, spesso con lunghe gavette alle spalle (ultimamente sembra che si ritorni in parte al vecchio periodo d’oro in cui si pubblicava tutto quello che si trovava e nel mucchio, spesso, si trovano piccole pepite d’oro). Come è il caso di questi The Record Company (visto che di case discografiche si parla): un trio di stanza a Los Angeles, dove operano e registrano la loro musica, ma le cui origini, almeno per Chris Vos, il leader, chitarrista, voce solista, armonicista, si fanno risalire ad una gioventù trascorsa in una fattoria di proprietà della sua famiglia nel Wisconsin, dove tra una mungitura di mucca, una raccolta di fieno e qualche giretto in trattore, il nostro indulge alla sua passione per la musica: blues classico, con un predilezione per Muddy Waters, John Lee Hooker, Jimmy Reed, ma anche per il rock di Stooges e Rolling Stones.

Nel 2010 si trasferisce a LA, dove non conoscendo nessuno, comincia a fare jam sessions con tutti quelli che incontra, finché non trova Alex Stiff, il futuro bassista dei Record Company, da Loz Feliz,  e dopo una notte di epifania passata ascoltando il disco di John Lee Hooker con i Canned Heat, decidono che è quello che vogliono fare e cominciano a registrare la loro versione di ciò che hanno sentito: il risultato viene spedito in giro a tutti quelli che hanno buone orecchie per sentire, e vengono subito invitati al Montreal Jazz Festival e ad un altro Festival in Canada, iniziano ad incidere i primi EP, tre, più un paio di singoli fino ad ora https://www.youtube.com/watch?v=iin9nxjpbpc , oltre ad avere i loro pezzi utilizzati in pubblicità varie e in alcune serie televisive, la più nota CSI: Scena Del Crimine, ma il colpo di fortuna arriva quando Off The Ground diventa la pubblicità della birra Miller Lite nel marzo del 2015.

A questo punto è fatta, la Concord li mette sotto contratto, li spedisce anche in tour come band di supporto dei Blackberry Smoke e questo Give It Back To You è il risultato finale: un esordio eccellente che non ha ceduto neppure una briciola dell’immediatezza delle prime registrazioni, Marc Cazorla, il batterista che nel frattempo si è unito al gruppo, se la cava anche al piano, Vos, ha un armamentario di chitarre, acustiche, elettriche, dobro, lap e pedal steel, spesso usate anche in modalità slide, Stiff ha una ottima padronanza del basso, sia acustico che elettrico, dove a tratti sembra di ascoltare proprio il mitico Larry Taylor dei primi Canned Heat. I due non hanno paura di sperimentare soluzioni sonore semplici ma anche geniali, per esempio nella iniziale Off The Ground, il brano che li ha fatti conoscere, Alex suona il suo basso elettrico in modalità slide, come il suo amico Chris Vos, anche lui impegnato al bottleneck, è il risultato è un brano dal groove ipnotico, dove rock e blues si fondono senza sforzo, con grande potenza, ma anche raffinatezza, grazie alle complesse armonie vocali, con Vos che si lancia anche in arditi falsetti prima di scoccare una serie di riff che ricordano quelli di Hound Dog Taylor, altro nume tutelare della band.

Schioccare di dita e un giro di contrabbasso sono l’abbrivio di Don’t Let Me Get Lonely, un pezzo che mette in luce il loro amore anche per il rockabilly, ma quello primigenio, anni ’50, con chitarre acustiche ed armonica a sostenere il tema della canzone. Una batteria marziale e un basso insinuante e poderoso sono anche gli elementi portanti di Rita Mae Young, dove la slide di Vos ci porta sulle rive del Mississippi per un tuffo nel blues più canonico. L’armonica è lo strumento guida di On The Move, ma Stiff con il suo basso, quasi solista e Cazorla con la batteria,  sono micidiali nel dare grinta e sostanza ad un brano che ti colpisce dritto nel plesso solare. Hard Day, dalla costruzione elettroacustica, sempre con un handclapping quasi arcano a dare il ritmo, ha una struttura più rock, ma di quello sano delle radici, con l’armonica a legarla ai ritmi del R&R e del Blues.

Feels So Good accelera vorticosamente i ritmi verso il boogie, ma siamo sempre in quel mood alla John Lee Hooker, suonato da Thorogood o dai Canned Heat, con call and response dei vari componenti della band e la chitarra che sferraglia alla grande, alla fine stai proprio bene! A proposito del grande Hook, Turn Me Loose potrebbe essere qualche perla perduta del suo repertorio, ipnotica e ripetitiva come richiede il suo canone sonoro, mentre Give It Back To You, di nuovo con il basso micidiale di Stiff pare rievocare certe fucilate di giri armonici del giovane Andy Fraser nei primi Free, perché, nonostante le chitarre acustiche e l’armonica, questo è Rock’n’Roll, con Vos che canta come un disperato. Il momento Rolling Stones è riservato ad una sontuosa ballata come This Crooked City, che tra pedal steel, piano, chitarre acustiche e cori femminili avvolgenti ricorda gli Stones americani di Sticky Fingers, grande brano. Per concludere manca In The Mood, l’anello mancante tra gli Stooges di Iggy Pop, grazie alla voce volutamente distorta e ai ritmi sghembi, sguaiati ma incalzanti, e la quota blues, fornita dall’armonica spesso presente nei loro brani. Ripeto: questi sono bravi! Esce oggi.

Bruno Conti

Peccato Per La Qualità Sonora Non Perfetta, Ma Il Concerto E’ Fantastico! Robert Gordon & Link Wray – Cleveland ’78

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Robert Gordon-Link Wray – Cleveland ’78 – Rockabilly Records/Cleopatra

Agli inizi del 1977, sulla carta, l’idea dell’unione di due musicisti come Robert Gordon (presentato come il possibile “erede” di Elvis Presley, ma allora cantante di una sconosciuta band punk newyorkese come i Tuff Darts, presenti nella doppia leggendaria compilation Live At CBGB’s) e Link Wray (mezzosangue nativo pellerossa, ma anche uno dei veri “inventori” della chitarra elettrica, con il suo brano Rumble), poteva venire solo ad un geniaccio come il produttore Richard Gottehrer (fondatore della Sire Records, ma già in azione nel 1966 con i McCoys di Hang On Sloopy). Non dimentichiamo che quelli erano gli anni del primo punk e della Disco, il R&R e il rockabilly erano delle arti quasi desuete. Ma non dimentichiamo neppure che questi signori erano due talenti naturali: un cantante come Robert Gordon, dalla bella voce baritonale, appassionato di Elvis, ma anche di Gene Vincent, Eddie Cochran, Billy Lee Riley, Jack Scott, uno che aveva saltato la british invasion a piè pari e il cui maggior “successo” con i Tuff Darts fu un brano intitolato All For The Love Of Rock And Roll. E un chitarrista come Link Wray, uno dei primi, se non il primo in assoluto ad usare il feedback in un brano come Rumble (e in questo concerto ce n’è una versione che definire “selvaggia” vuole dire minimizzare le cose), grande successo nel 1958, con un brano che usava anche distorsione e i cosiddetti power chords secoli prima che venissero inventati.

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Comunque il primo album omonimo dei due usciva proprio nel 1977, accolto da ottime critiche e pochi mesi dopo, ad agosto, sarebbe scomparso The King of Rock, lasciando un vuoto che anche dischi come questo cercarono di colmare. https://www.youtube.com/watch?v=FfTAWZL2FIg  L’anno dopo i due fecero addirittura meglio, con un secondo disco, pubblicato sempre dalla Private Stock, Fresh Fish Special, che accanto ai soliti classici del R&R e del rockabilly presentava un brano inedito di Bruce Springsteen come Fire https://www.youtube.com/watch?v=_sVgfL3YFhA  (si dice scritto per Elvis e quando il Boss si poteva permettere di non pubblicare decine di canzoni per cui altri cantanti si sarebbero tagliati le vene, altri tempi). Entrambi i dischi si trovano in quel twofer CD, 2 in 1, edito dalla Ace, e che vedete sopra. Proprio pochi giorni dopo l’uscita di quel disco, il 25 marzo del ’78, i due si presentarono sul palco del celebre Agora di Cleveland per un concerto di una devastante potenza ed intensità. Però il dischetto esce per i tipi della Cleopatra, su una fantomatica nuova etichetta chiamata Rockabilly Records! Quindi secondo voi come è inciso? Come un bootleg, quale è e ha già circolato in questa forma. Per fortuna un bootleg di quelli buoni, registrazione cruda e diretta, tipo i migliori volumi della serie di Johnny Winter, ma i contenuti sono esplosivi, aiutati da una sezione ritmica fantastica come Jon Paris al basso (toh che caso, proprio quello che suonava con Winter!) e Anton Fig (oggi con Bonamassa) alla batteria, Robert Gordon e Link Wray dimostrano in meno di cinquanta devastanti minuti come distruggere e ricostruire dalle fondamenta gli elementi fondanti del R&R.

La chitarra fumante di Link Wray (n°45 tra i più grandi chitarristi all-time) emette riff da centrale atomica e, nonostante la registrazione, Gordon canta come se fosse posseduto dai fantasmi dei grandi degli anni ’50: una sequenza inarrestabile che parte con uno dei rari brani originali di Wray, If This Is Wrong, che è più Elvis di Elvis quando saliva per la prima volta sul palco dell’Ed Sullivan Show, se subito dopo non ci fosse Mystery Train che lo è ancora di più, con un assolo che sembra di un Jimmy Page in astinenza da chitarra. Fantastiche anche The Way I Walk https://www.youtube.com/watch?v=jFl2ocTPDpY  e The Fool, un rockabilly firmato da Lee Hazlewood, con i power chords di Link Wray che sembrano provenire da Pete Townshend incrociato con Cliff Gallup, il chitarrista di Gene Vincent.

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Proprio di Vincent è I Sure Miss You, uno dei rarissimi brani lenti del concerto, ma sempre con una chitarra che ti sega in due, per poi farti a pezzettini in una versione da esplosione termonucleare di Rumble, seguita da un altrettanto cattiva Rawhide, con il brano di Frankie Laine trattato come forse nemmeno gli Who avrebbero osato, in un’orgia di feedback. Red Hot, di uno dei preferiti di Gordon, quel Billy Lee Riley ricordato prima, è un’altra scarica di adrenalina pura https://www.youtube.com/watch?v=FfTAWZL2FIg , poi è di nuovo Elvis time, con una fantastica My Baby Left Me, seguita da una devastante Lonesome Train di Johnny Burnette. Summertime Blues https://www.youtube.com/watch?v=KyQGRx9V7mw  e Twenty Flight Rock in sequenza potrebbero abbattere un elefante, poi il pubblico dell’epoca, un po’ sorpreso, ascolta per una delle prime volte dal vivo il brano di Bruce Springsteen, una Fire proposta in medley con Let’s Play House e per finire un concerto fantastico, che se fosse inciso anche bene sarebbe indimenticabile (ma il sound è comunque più che accettabile), Endless Sleep, un brano in classifica nel 1958, lo stesso anno di Rumble!

Bruno Conti

Longevi E Prolifici, Però Non Ne Hanno Fatti Così Tanti! The Nighthawks – 444

nighthawks 444

The Nighthawks – 444 – Eller Soul Records

Visto che i 40 anni di carriera li hanno già festeggiati un paio di anni fa, vincendo il primo Blues Music Award della loro carriera (categoria album acustico del 2011!) con Last Train To Bluesville, un album che non mi pareva proprio completamente acustico, diciamo unplugged http://discoclub.myblog.it/2011/01/16/vecchie-glorie-5-the-nighthawks-last-train-to-bluesville/ e neppure il migliore di sempre per i Nighthawks, mentre meglio mi è sembrato il successivo Damn Good Time http://discoclub.myblog.it/2012/06/20/1000-e-non-piu-mille-vecchie-glorie-12-the-nighthawks-damn-g/ . Lo ripeto spesso, ma non essendo Paganini posso farlo, il vecchio gruppo era ben altra cosa: della formazione originale resiste Mark Wenner, grande armonicista e buon cantante, Mark Stutso, che ha condiviso anche 18 anni di carriera con i Drivers di Jimmy Thackery prima di passare alla concorrenza,  è un altro membro “anziano”, diciamo navigato, della band. Ma il problema, se di problema si tratta, è proprio Jimmy Thackery. Diciamocelo francamente, Paul Bell è un bravo chitarrista, molto eclettico, ma non ha la forza e il carisma che aveva (ed ha tuttora) uno come Thackery, una vera forza della natura, come solista, in grado di calarsi in profondità nelle radici del Blues in dischi come Jacks And Kings e Full House, dove c’erano anche Bob Margolin e Pinetop Perkins, o di rilasciare vere fucilate di energia R&R e blues-rock, in album come Rock And Roll, Open All Night, il Live At The Psichedelly, quindi tutto il periodo Adelphi, ma in ogni caso fino alla fuoriuscita del grande Jimmy, a metà anni ’80.

In formazione poi è passata anche gente come Jimmy Nalls, Warren Haynes e James Solberg, ma è non più stata la stessa cosa, mentre spesso i dischi di Jimmy Thackery hanno recuperato la vecchia forza e il vigore dei tempi passati. Di tanto in tanto il gruppo centra l’obiettivo di rilasciare un buon album e, in ogni caso, i loro dischi sono sempre onesti manufatti di blues, destinati a soddisfare le aspettative degli appassionati del genere. Anche questo 444 (che non credo ricordi quasi 5 centurie di carriera, ma si riferisca, dal titolo di uno dei brani, ad uno specifico periodo della notte, 444 A.M.) si inserisce in questo filone: Walk That Walk è una cover di un brano di un gruppo minore di doo-wop degli anni ’50, i Du Droppers, con tutti i componenti che si cimentano con profitto in piacevoli armonie vocali che sostengono le evoluzioni all’armonica di Mr. Wenner.

Sempre efficace al canto e al “soffio” nelle classiche 12 battute di Livin’ The Blues, con le armonie che permangono, mentre la title-track è un rocker sulle tracce dei vecchi dischi Sun, con tanto di chitarra twangy di Bell, You’re gone ha sprazzi del vecchio vigore, con i “sapori” country che emergono, piacevoli e ben dosati, in una inconsueta, nel panorama musicale dei Nighthawks, Honky Tonk Queen, che tiene fede al proprio nome, spingendosi quasi in territori cari ai vecchi Commander Cody, con il valore aggiunto dell’armonica (però sono brani sentiti mille volte da altri gurppi, spesso in versioni anche migliori). Divertente il rockabilly boogie alla Elvis di Got A Lot Of Livin’, con Johnny Castle che pompa sul suo basso e Bell che fa il Link Wray o il Carl Perkins della situazione. Piacevolissima Crawfish, che era uno dei brani di Elvis preferiti da Joe Strummer, un nuovo tuffo negli anni ’50. E poi, finalmente, all’ottavo brano, in The Price Of Love, Paul Bell estrae il “collo di bottiglia” e con la sua slide ci permette di riassaporare il suono gagliardo e minaccioso dei primi anni del gruppo, con duetti chitarra-armonica di pregevole fattura.

High Snakes con vaghi sapori tra Texas e Messico, è un discreto slow d’atmosfera e Nothin’ But The Blues è qualcosa che dovrebbero fare più spesso, anche se l’energia, e il brano, stentano a decollare, a dispetto del buon lavoro di Bell e soprattutto di Wenner all’armonica https://www.youtube.com/watch?v=Po3xVKFVw38 . No secrets è un altro blues rocker che ha echi del vecchio splendore, con la slide sugli scudi e Louisiana Blues è proprio quella di Muddy Waters, in una bella versione elettro-acustica, prima di concludere con Roadside Cross, una delicata ballata folk acustica con Akira Otsuka (?!?) che aggiunge il suo mandolino. Bella, ma c’entra poco con il resto del disco, eclettico fin troppo nelle sue scelte sonore, ma in ultima analisi, sempre più che dignitoso.

Bruno Conti   

Dei Simpatici “Buontemponi” Del Rockabilly/Country In Versione Acustica, Bravi Però! Big Sandy And His Fly-Rites Boys – What A Dream It’s Been

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Big Sandy And His Fly-Rite Boys – What A Dream It’s Been – Cow Island Music

In vari anni di recensioni mi sembra di avere incrociato un paio di volte (vado a memoria) la musica di Big Sandy And His Fly-Rite Boys, revivalisti per eccellenza, prima soprattutto rockabilly, poi anche boogie, R&R, country e western swing, una musica sostenuta da energia ed elettricità da vendere, ma anche assai raffinata all’occorrenza. Per cui quando ho visto questo What A Dream It’s Been, con cui festeggiano 25 anni di carriera e dovrebbe essere il loro 14° album, 45, EP, 78 giri(!?!) e ristampe escluse, mi sono meravigliato. Ma come, un album acustico? Per un gruppo di questa fatta è una sorta di ossimoro musicale, una contraddizione in termini, o almeno così sembra sulla carta. E invece funziona: hanno preso dodici brani, pescando dal meglio della loro produzione, tutte canzoni scritte da Robert Williams ossia Big Sandy, e ne hanno completamente stravolto gli arrangiamenti per farne una sorta di unplugged ante (o post) litteram, visto il genere da cui pescano, anche se, ribadisco, il materiale, come composizione, è tutto originale, ma lo spirito è ovviamente quello degli anni ’50, al limite ’60, ma anche moolto prima.

Ci sono echi del primo Elvis, del Buddy Holly più riflessivo, soprattutto con questi arrangiamenti, naturalmente molto western swing, Bob Wills e Spade Cooley nei loro cuori. La loro traiettoria musicale, soprattutto nei primi anni, ha incrociato anche quella di un neo-tradizionalista per eccellenza della prima ora come Dave Alvin (peraltro musicista a tutto tondo) che nel 1994 ha prodotto il loro primo album ufficiale, in un periodo in cui giravano anche Dwight Yoakam ed altri innamorati dei suoni del passato, rivisti con un nuovo spirito. Per questo nuovo capitolo Big Sandy e soci hanno utilizzato un approccio acustico, ma c’è un po’ di tutto nei ritmi e negli stili, bluegrass, country, swing, il rock and roll dell’Elvis della Sun, tex-mex, anche reggae, brani romantici old fashioned e puntatine verso atmosfere più rigorose, ma divertenti sempre, con tocchi folk nella strumentazione molto “stringata”. Nella title-track conclusiva, What A Dream It’s Been, un bel duetto con la bravissima Grey De Lisle (sono anche riusciti a sbagliare il nome sulla copertina), attrice e cantante deliziosa, in grado di avventurarsi in mille generi, si respira quell’aria demodé e sexy dei tempi che furono, ma che in America ha sempre praticanti assai volonterosi e validi al tempo stesso, in grado di rinverdire stili musicali mai sopiti, tra una “spazzolata” e una rullata di batteria, una slappata di contrabbasso, un assolo di acustica o mandolino, tutto l’album scorre molto piacevolmente.

Bruno Conti