E’ Sempre Il Buon Vecchio Joe Bonamassa, Ma “Diverso” E In Incognito! Sleep Eazys – Easy To Buy – Hard To Sell

sleep eazys easy to buy hard to sell

Sleep Eazys – Easy To Buy – Hard To Sell – Mascot/Provogue

Ultimamente il chitarrista newyorchese ha rallentato di molto la frequenza delle sue uscite, nel corso dello scorso anno è uscito solo un disco dal vivo https://discoclub.myblog.it/2019/10/23/sia-pure-in-ritardo-ma-non-poteva-mancare-un-suo-nuovo-album-nel-2019-joe-bonamassa-live-at-the-sydney-opera-house/ , mentre per trovare un album di studio bisogna risalire a quasi due anni fa https://discoclub.myblog.it/2018/09/17/ormai-e-una-garanzia-prolifico-ma-sempre-valido-ha-fatto-tredici-joe-bonamassa-redemption/  : questo significa che il buon Joe Bonamassa ha messo la testa a posto, almeno rispetto alla sua nota “bulimia” discografica? Vedremo, per il momento gustiamoci questo nuovo album che esce sotto lo pseudonimo di Sleep Eazys, un disco completamente strumentale, qualcuno ha detto il primo per lui, ma in effetti ci sono stati in questi anni anche i quattro album, tre in studio e uno dal vivo, a nome Rock Candy Funky Party, dove la chitarra di Bonamassa, diciamolo chiaramente, era nettamente lo strumento principale, per quanto in un ambito sonoro decisamente diverso e con musicisti diversi dal suo gruppo abituale, come esplicato dal nome della band.

Mentre per gli Sleep Eazys Joe si è avvalso del lavoro dei suoi collaboratori abituali, e come era stato per il disco di https://discoclub.myblog.it/2019/03/05/anche-lui-per-un-grande-disco-si-fa-dare-un-piccolo-aiuto-dai-suoi-amici-reese-wynans-and-friends-sweet-release/  ha curato lui stesso la produzione: quindi nell’album troviamo proprio Reese Wynans alle tastiere, Anton Fig alla batteria, Michael Rhodes al basso, Lee Thornburg alla tromba e Paulie Cerra al sax, più l’ex leader dei Wet Willie Jimmy Hall, e un altro grande chitarrista come John Jorgenson. Come era cosa nota, tutto era nato per essere un tributo alla musica di Danny Gatton, con Roy Buchanan, uno degli “unsung heroes” della chitarra, musicista amatissimo dai suoi colleghi, ma poco conosciuto dal grande pubblico che era in grado di spaziare con tecnica sopraffina e raro gusto tra blues, jazz, country, rockabilly, con una varietà di temi sonori veramente superba. Poi il discorso si è allargato perché Bonamassa ha colto l’occasione per rendere omaggio anche a personaggi diversi che lo hanno influenzato, al di fuori delle sue note propensioni per il blues-rock della triade del british blues, ovvero Page, Beck e Clapton,e anche Peter Green, ovviamente Jimi Hendrix e il suo discepolo Stevie Ray Vaugahn, e nel blues i tre King, Freddie, B.B e Albert.

Quindi nell’album non vengono ripresi esclusivamente brani di chitarristi, o non solo, ma anche personaggi abbastanza ai confini della musica rock: Fun House, non quella degli Stooges, è un pezzo di Danny Gatton, una sorta di brano a cavallo tra jazz per “big band” ristretta (se così si può dire), oppure organ trio allargato, grazie all’eccellente lavoro alla tastiera di Wynans e dei fiati e quei temi da telefilm americani anni ’60, tutto molto elegante, tra assoli di sax e Joe che parte piano con la sua chitarra, ma poi si lascia andare con un assolo dei suoi. Anche Move di Hank Garland si muove tra jazz e rock delle origini, con la sinuosa solista di Bonamassa, che si muove veloce e felpata tra le pieghe di organo, vibrafono e della batteria di Fig impegnata in un breve assolo.Ace Of Spades è l’omaggio ad un altro dei grandi precursori della chitarra rock, quel Link Wray che con Rumble è stato uno dei primi a portare la distorsione nei suoni del R&R, qui il nostro amico può alzare il volume dell’ampli e scatenare la sua potenza di fuoco, ben sostenuto sempre da Wynans e dai fiati, con i brani che rimangono sempre confinati nell’ambito dei tre/quattro minuti di durata.

Jimmy Bryant è uno di quei chitarristi che partendo dal country poi ha sviluppato uno stile “inconsueto” dove si potevano trovare influenze orientali, surf, quel “chicken picking” country praticato da Gatton e poi da John Jorgenson degli Hellecasters, che infatti appare in questa vorticosa e divertente Ha So a duettare a tutta velocità con Joe. Anche Hawaiian Eye appartiene a questo catalogo di “stranezze”, sigla di una serie di telefilm di inizio anni ’60, che nelle mani di Bonamassa e soci assume un suono contemporaneo e vibrante che consiglierei ai produttori delle attuali serie TV di (ri)pescare perché farebbe un figurone sui titoli di testa e di coda, o magari in qualche film di Tarantino. Pure il tema di Bond (On Her Majesty’s Secret Service) è delizioso, con Bonamassa che si sbizzarisce alla chitarra con un assolo di grande tecnica e varietà che di nuovo consiglierei ai curatori delle colonne sonore dei nuovi film di 007, invece di quelle tavanate pseudo-moderno-elettroniche che sentiamo ai giorni nostri.

L’ultimo terzetto di canzoni ci presenta Polk Salad Annie, il classico swamp rock di Tony Joe White riletto in una chiave molto personale, decisamente più accelerata e bluesy, con l’armonica di Jimmy Hall a fare da contrappunto alla chitarra scatenata di Joe, tra Creedence e Blasters, con fiati e organo a spingere una sezione ritmica che pompa di brutto, anche con uso di armonie vocali sullo sfondo, e un assolo pimpante e complesso di quelli che avrebbe fatto piacere a Danny Gatton. Che stilisticamente viene citato anche nella versione epica di un brano Blue Nocturne del repertorio di King Curtis, grande sassofonista e anche collaboratore di Duane Allman, un blues lento che però si anima in un crescendo continuo per un assolo lancinante di Bonamassa che presenta punti di contatto anche con lo stile di Roy Buchanan (e in tempi recenti di Ronnie Earl, altro grande stilista della chitarra). L”ultima canzone è un brano di Frank Sinatra, ebbene sì, It Was A Very Good Year, che mantiene la melodia del brano originale, ma in questa versione strumentale si tramuta in un pezzo intimo e sognante, prima sulle ali di una chitarra acustica e poi con un approccio para orchestrale e classico, con l’elettrica quasi impiegata come un violino in una romanza classica.

Tutto molto interessante, indirizzato e consigliato non solo ai fans del Bonamassa più ruvido e caciarone, ultimamente molte meno, ma anche di chi vuole provare ad ascoltare qualcosa di diverso.

Bruno Conti

Uno Dei Migliori Dischi Di Sempre Del “Duca”! Duke Robillard Band – Ear Worms

duke robillard band ear worms

Duke Robillard Band  – Ear Worms – Stony Plain

Il nostro amico Michael John, detto” Duke”,  Robillard, lo scorso anno ha raggiunto la rispettabile età di 70 anni, in una annata, il 2018, dove per la prima volta da moltissimo tempo non aveva pubblicato il canonico album annuale. Comunque ecco che, con leggero ritardo, esce questo Ear Worms, che dovrebbe essere il capitolo n°33 di una lunga carriera, e fa seguito all’ottimo …And His Dames Of Rhytm, un album collaborativo insieme ad alcune voci femminili https://discoclub.myblog.it/2017/12/18/beato-tra-le-donne-duke-robillard-and-his-dames-of-rhythm/ , che a sua volta seguiva Blues Full Circle, altro disco con la presenza di diversi ospiti https://discoclub.myblog.it/2016/11/04/anche-potrebbe-il-disco-blues-del-mese-duke-robillard-and-his-all-star-combo-blues-full-circle/ . Anche nel nuovo CD, come di consueto, non mancano le collaborazioni: Chris Cote, Sunny Crownover, Mark Cutler, Julie Grant, Dave Howard e Klem Klimek, sono i vari vocalist aggiunti che affiancano Robillard e la sua band, ovvero gli immancabili partner dell’All-Star Combo che da qualche anno lo accompagna, Bruce Bears (piano, organo Hammond); Brad Hallen ( basso e contrabbasso) e Mark Teixeira (batteria).

Se il disco precedente era andato a pescare nel repertorio anni ’20 e ’30, questa volta Duke ha rispolverato vecchie canzoni ascoltate quando era un teenager, ovvero nei mitici anni ’60. Don’t Bother Trying To Steal Her Love che apre l’album, è però l’unico brano originale firmato da Robillard, una delle sue classiche cavalcate tra blues e rock and roll, che sembra  quasi qualche traccia perduta del songbook di Chuck Berry, una specie di gemello diverso di You Never Can Tell, cantata e suonata con un impeto invidiabile e di cui è quasi impossibile non apprezzare il buon umore e la gioia che trasmette, con la chitarra da subito in grande spolvero; On This Side Of Goodbye era un pezzo di Goffin e King, scritta per i Righteous Brothers, una deliziosa e raffinata ballata di impianto pop, quelle canzoni splendide che negli anni ’60 uscivano a ogni piè sospinto, suonata alla grande come al solito dal Duke e soci, con fiati e voci di supporto a renderla ancora più piacevole e con un paio di assoli di chitarra da urlo di grande gusto. Living With The Animals era una incantevole blues ballad dall’omonimo disco dei Mother Earth, la misconosciuta band della grande Tracy Nelson, un album del 1968 in cui suonava anche Mike Bloomfield.

Nel disco ci sono anche quattro tracce strumentali, la prima è Careless Love, un vecchio pezzo strumentale tradizionale veramente godurioso nell’interscambio felpato tra chitarra e organo. Everyday I Have To Cry Some è un piccolo gioiellino perduto, scritto da Arthur Alexander, ma che Duke, come ricorda lui stesso, conosceva nella versione di Julie Grant, una giovane cantante inglese di stampo pop che nell’epoca di Beatles e Stones era un po’ una controparte di Dusty Springfield e Cilla Black: Robillard la conosceva perché quando si era ritirata dalla musica era andata a vivere e lavorare in un casinò nel Connecticut e i due avevano parlato spesso del passato diventando amici, e per l’occasione l’ha convinta a cantarla di nuovo per questo album, in coppia con Sunny Crownover, e il risultato è assolutamente affascinante, sembra quasi di sentire un brano di Phil Spector cantato dalle Shirelles, puro divertimento assicurato; I Am A Lonesome Hobo è il personale tributo di Robillard a Bob Dylan, di cui è stato chitarrista per alcuni mesi nel 2013, una intensa  ed atmosferica versione abbastanza rispettosa dell’originale, che sembra quasi un pezzo di Bruce Springsteen https://www.youtube.com/watch?v=bfjz4p5izjg , Sweet Nothin’s il vecchio pezzo di Brenda Lee è il veicolo ideale per apprezzare la voce cristallina della Crownover e la strumentale Soldier Of Love è un altro divertito e raffinato tuffo nelle atmosfere spensierate degli anni ’60.

Dear Dad è un vorticoso R&R con chitarre e piano impazziti che si trovava su Chuck Berry In London, seguito da una lunga versione super funky di Yes We Can di Lee Dorsey, dove Duke sfodera un potentissimo e micidiale wah-wah, con Yellow Moon, proprio quella dei Neville Brothers, una rara concessione ad un brano più recente, in un’altra versione dove la quota soul e R&B è di grana finissima https://www.youtube.com/watch?v=TWt4mP29rD8 . Nel finale arrivano gli ultimi due strumentali, una Rawhide di una potenza devastante che rivaleggia con quella di uno dei maestri  riconosciuti di Robillard, quel Link Wray che non ha mai ricevuto i giusti riconoscimenti che meritava https://www.youtube.com/watch?v=DLi9ww0A3js . E infine You Belong To Me, altro squisito strumentale che sta all’intersezione tra Santo & Johnny, Roy Buchanan e il Santana più melodico e conclude degnamente uno degli album più belli della discografia di Duke Robillard, suonato con una classe al solito inimitabile. Esce oggi 17 maggio.

Bruno Conti

Lo Springsteen Del 1° Aprile, Non E’ Uno Scherzo: Acustico E Ricco Di Sorprese! Bruce Springsteen – Trenton 2005

bruce springsteen live trenton 2005

Bruce Springsteen – Sovereign Bank Arena, Trenton NJ 2005 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 2CD – Download

Quello che al momento è l’ultimo episodio della serie di concerti live pubblicati mensilmente da Bruce Springsteen (mentre scrivo queste righe il prossimo volume è ancora ignoto) ci vede proiettati per la terza volta nell’anno 2005, con il Boss che si esibiva in perfetta solitudine a supporto dell’album Devils And Dust (che era però un disco elettrico, pur senza la E Street Band, ma con sonorità decisamente “roots”). A differenza degli altri due concerti già pubblicati questa serata del 22 Novembre a Trenton, in New Jersey (quindi a pochi chilometri da casa Springsteen), è davvero speciale, e non solo perché è l’ultima della parte americana del tour, ma soprattutto per il fatto che Bruce delizia il pubblico con una scaletta piena di scelte sorprendenti. E’ risaputo che lo Springsteen folksinger e storyteller è decisamente meno apprezzato di quello più prettamente rocker, ma Bruce sopperisce alla mancanza di una band con una performance di grandissima forza e vitalità (che è una costante per lui nelle serate finali di una tournée), ed interagisce parecchio con il pubblico dialogando a più riprese ed introducendo diverse canzoni ora scherzosamente ora più seriamente.

Abbiamo detto che il Boss è sul palco da solo (c’è solo Alan Fitzgerald alle tastiere, ma off-stage), ma il suono è decisamente variegato, in quanto il nostro si accompagna non solo con la chitarra acustica, ma anche con l’elettrica, l’armonica a bocca, l’ukulele, il pianoforte sia acustico che elettrico ed anche l’organo a pompa. E poi ci sono le canzoni, che in questa versione spoglia vengono anche arrangiate in maniera molto diversa, come una Born In The U.S.A. dura e bluesata (solo armonica e voce pesantemente filtrata), una The Promised Land cantautorale e quasi irriconoscibile, l’antica It’s Hard To Be A Saint In The City che diventa un brano quasi cooderiano con tanto di slide, Growin’ Up che invece vede Bruce all’ukulele ed una bella rilettura pianistica di All That Heaven Will Allow. Devils And Dust la fa ovviamente da padrone, con ben sette canzoni (ma stranamente nessuna da Tom Joad), con punte come la splendida Long Time Comin’ e le toccanti Leah e Matamoros Banks. Il nostro suona anche molto spesso il pianoforte, sia prevedibilmente nella splendida Backstreets (non è Roy Bittan, ma si difende) che nella struggente ed intensissima Drive All Night (suonata in questo tour per la prima volta dai tempi di The River), ma anche nella rara Thundercrack, che mantiene ugualmente la sua forza anche senza chitarre, mentre la poco nota My Beautiful Reward (era su Lucky Town) risulta addirittura migliorata dal maestoso arrangiamento a base di organo a pompa e con la fisarmonica di Fitzgerald.

E poi ci sono le già annunciate sorprese, siano esse relative (Empty Sky e Fire, due brani non inusuali ma suonati per la prima volta in questo tour, l’ultima delle due ancora con voce filtrata da vecchio bluesman degli anni trenta) che assolute, a partire dal pezzo che apre lo show, e cioè una vibrante versione del famoso strumentale di Link Wray Rumble, con cui il Boss fa capire da subito il suo stato di forma. Ma le altre due rarità sono ancora più inattese: la vecchissima e commovente Zero And Blind Terry, eseguita per la prima volta addirittura dal 1974 (e mai prima al pianoforte) e soprattutto l’inedita Song For Orphans, un intenso brano di inizio carriera che il Boss non era mai riuscito a pubblicare e che non aveva mai suonato in pubblico prima di questa serata, una vera chicca (ricorda leggermente My Back Pages di Bob Dylan). Dopo una festosa Santa Claus Is Coming To Town, eseguita con Patti Scialfa ed altri membri della sua famiglia (Patti era già salita sul palco per accompagnare il marito in una bellissima e toccante Mansion On The Hill) e la già citata The Promised Land, lo spettacolo si chiude in linea con gli altri concerti del tour, cioè con Bruce che si accomoda all’organo per una lucida rilettura di Dream Baby Dream dei Suicide.

Gran bel concerto, anche senza E Street Band.

Marco Verdi

Quando Il Vintage Diventa Alternativo! JD McPherson – Undivided Heart And Soul

jd mcpherson undivided heart & soul

JD McPherson – Undivided Heart And Soul – New West CD

Terzo album con incluso cambio d’etichetta (la New West, dopo i primi due lavori targati Rounder) per JD McPherson, giovane musicista originario dell’Oklahoma ma da tempo residente a Nashville. Nonostante risieda nella capitale del Tennessee, e sia anche andato ad incidere il suo nuovo album nel leggendario RCA Studio B (un pezzo di storia, dentro ci sono passati tra gli altri Chet Atkins, Ernest Tubb, Don Gibson, Jim Reeves, Porter Wagoner, Willie Nelson e, last but nor least, Elvis Presley), McPherson non fa country, non ne è neppure lontanamente influenzato. Infatti la sua musica è una originalissima miscela di sonorità rock’n’roll anni cinquanta, surf music, pop in perfetto stile sixties ed anche garage music, il tutto mescolato ad arte e condito con melodie di stampo moderno. JD (che sta per Jonathan David) non assomiglia a nessuno, fa la sua musica ed album dopo album è riuscito nell’intento di far parlare di sé: Undivided Heart And Soul è il suo nuovo disco, un lavoro che riunisce in undici canzoni tutte le caratteristiche del nostro, con la produzione di Dan Molad, da tempo collaboratore dei Lucius (e metà del gruppo di Brooklyn è presente, nelle persone di Jess Wolfe e Holly Laessig).

Un album fresco, pimpante, creativo e, per una volta, originale, anche se fa un po’ di tristezza dover constatare che per essere fuori dal coro bisogna tornare alla musica di cinquanta e passa anni fa. JD può inoltre contare su di una band molto solida che ha i suoi punti di forza nella chitarra di Doug Corcoran e nelle tastiere di Raynier Jacildo, ma anche la sezione ritmica formata da Jimmy Sutton e Jason Smay non si tira certo indietro. Il disco inizia con la roccata Desperate Love, un brano coinvolgente, ritmato e con un feeling da garage band anni sessanta, voce sicura ed attenzione dell’ascoltatore già catturata fin dal principio. Crying’s Just A Thing You Do è più elettroacustica, ma il ritmo è comunque sostenuto, forse il brano è un po’ ripetitivo ma JD compensa con energia e feeling, e poi c’è un assolo molto particolare di una chitarra twang alquanto distorta. Lucky Penny è il singolo (esiste anche un video), ma il pezzo non è per nulla commerciale, anzi mantiene quelle caratteristiche da canzone underground d’altri tempi, elettrica, grintosa e molto diretta, mentre Hunting For Sugar, sempre restando a cavallo tra sessanta e settanta, ha un’atmosfera eterea, cosmica, al limite del psichedelico, ma con un’anima pop niente male.

Con On The Lips andiamo ancora più indietro nel tempo, l’accompagnamento è quasi surf, con reminiscenze degli Shadows o del Link Wray più “tranquillo”, il tutto in contrasto con la voce e la melodia, indubbiamente contemporanee; la title track, sempre cadenzata, ha un deciso e limpido gusto pop-rock che la avvicina a certe cose di Dave Edmunds, Bloodhound Rock inizia come uno strumentale ancora molto sixties, la voce entra solo a metà canzone e le chitarre, ben doppiate dall’organo, suonano con grinta. Style (Is A Losing Game) ricorda i primi Kinks, quelli più rock’n’roll, Jubilee è una squisita pop ballad che sembra uscita da un disco del 1967/68, ancora piacevole nel suo voluto citazionismo, Under The Spell Of City Lights è giusto a metà tra pop e rock, anzi sembra quasi il pezzo di un oscuro gruppo beat; il CD si chiude con Let’s Get Out Of Here While We’re Young (bel titolo), già vintage fin dalle prime note d’organo, e pure nel prosieguo a base di riff di chitarra in puro stile garage, degno finale per un album molto piacevole, fresco e perfino innovativo nel suo voler essere insistentemente retro.

Marco Verdi

Un’Abbondante Ed Ottima Colazione A Base Di Uova E Musica! Eggs Over Easy – Good’n’Cheap: The Eggs Over Easy Story

Eggs Over Easy Good 'N' Cheap The Story

Eggs Over Easy – Good’n’Cheap: The Eggs Over Easy Story – Yep Rock 2CD

Il mondo della musica rock è pieno di solisti o gruppi sconosciuti al grande pubblico o che non hanno mai neppure minimamente assaporato il successo, i classici artisti di culto, ma tra questi credo che un posto molto in alto in un’ideale classifica spetti senz’altro agli Eggs Over Easy, combo americano attivo perlopiù in Inghilterra all’inizio degli anni settanta, che, pur avendo di fatto inventato un genere e quindi influenzato una lunga serie di musicisti in gran parte britannici, ha inciso molto poco e venduto ancora meno, sebbene il loro album di debutto sia ancora oggi considerato un disco di riferimento. Ma andiamo con ordine: gli Eggs Over Easy (termine che sta a significare l’uovo fritto in padella da entrambi i lati, in contrapposizione con il sunny side up che è fritto da un lato solo, e quindi con i tuorli in bella vista) si formarono nel 1969 a New York per iniziativa del chitarrista Jack O’Hara e del pianista Austin De Lone (che si erano conosciuti a Berkeley), ai quali si unì presto il polistrumentista Brien Hopkins; il trio cominciò a farsi le ossa nei bar e club di New York e dintorni, fino a quando non furono notati da tale Peter Kauff che li spedì a Londra a registrare sotto la supervisione nientemeno che di Chas Chandler, ex bassista degli Animals e produttore/manager di Jimi Hendrix, con alla batteria prima Les Sampson e poi John Steel (un altro ex Animals), che divenne membro aggiunto del gruppo. Qualcosa però andò storto, più che altro per problemi legati alla casa di produzione cinematografica Cannon Films che patrocinava le sessions (dato che voleva entrare anche nel mondo della musica), ed il disco non vide mai la luce.

Nonostante la delusione, gli EOE restarono un altro po’ a Londra, esibendosi con regolarità nei pub della città e suonando il loro repertorio fatto di cover ma anche di un gran numero di brani originali, in uno stile molto diretto che mischiava rock, pop, country e soul, attirando le attenzioni di giovani che poi sarebbero diventati musicisti famosi come Nick Lowe, Brinsley Schwarz, Elvis Costello e Graham Parker, ed inventando di fatto il “pub rock”. Tornati a New York, i tre (questa volta con Bill Franz alla batteria) ci ritentarono, incidendo un intero LP con canzoni diverse da quelle di Londra, sotto la produzione di un’altra leggenda, Link Wray, ed il disco che ne uscì, Good’n’Cheap, venne finalmente pubblicato dalla A&M nel 1972, purtroppo di nuovo nell’indifferenza generale. Ma chi doveva notarlo lo fece, e Good’n’Cheap diventò presto un disco di culto e considerato una pietra miliare del pub rock, influenzando non solo i quattro musicisti che ho citato prima, ma anche Dave Edmunds, i Dr. Feelgood di Wilko Johnson ed anche l’americano Huey Lewis (* NDB. Tramite i Clover di Alex Call, altra band da riscoprire, all’opera anche nel primo disco di Costello, My Aim Is True). Ma si sa, l’insuccesso è una brutta bestia, e dopo aver passato il 1973 a supportare in tour gruppi come Eagles e Yes (un po’ distanti dalla loro filosofia, specie i secondi), gli EOE di fatto restarono inattivi per il resto della decade, pubblicando solo un singolo nel 1976 per un’etichetta, la Buffalo Records, che fallì nello stesso momento in cui il 45 giri venne immesso sul mercato.

eggs over easy fear of frying

Poi, dal nulla, nel 1981 (stavolta alla batteria c’era Greg Dewey) i tre fecero uscire il loro secondo album, Fear Of Frying, prodotto stavolta dal noto tastierista e cantante Lee Michaels, un buon disco anche se inferiore al predecessore, e che ebbe ancor minore impatto, convincendoli definitivamente che forse non era il caso di proseguire (e anche qui la casa discografica, la Squish Records, fallì poco dopo, pure sfigati i ragazzi). In seguito, De Lone rimase quello più attivo musicalmente (si fa per dire), con un solo album da solista nel 1991, De Lone At Last, peraltro bellissimo e con una strepitosa cover di Visions Of Johanna di Bob Dylan  , ed un altro disco in coppia con Bill Kirchen, ex chitarrista dei Commander Cody (oltre a fare il sessionman per Bonnie Raitt, Elvis Costello ed altri), mentre sia O’Hara che Hopkins (il quale passò a miglior vita nel 2007) rimasero piuttosto ai margini dell’industria musicale. Industria che oggi (nello specifico la Yep Roc, con distribuzione Universal negli USA), e direi finalmente, paga il proprio debito verso una delle band più sottovalutate della storia, pubblicando questo Good’Cheap: The Eggs Over Easy Story (per il titolo non si sono spremuti molto), un doppio CD che ha il solo difetto di costare parecchio, ma che ci presenta in un colpo solo tutto ciò che il gruppo ha inciso nella sua breve carriera, comprese le mitiche sessions londinesi. Chiaramente la parte del leone la fa Good’n’Cheap (rimasterizzato benissimo), un disco che ancora oggi suona fresco ed attuale, una miscela davvero superlativa di rock, country, blues, soul e pop, suonato con la tecnica e la raffinatezza di un gruppo di veterani ma con l’energia di una garage band. Undici canzoni che spaziano a largo raggio nei meandri della musica americana, un album che da solo, per chi ancora non ce l’ha, vale l’acquisto di questa antologia (ed era bella pure la copertina, un adattamento del capolavoro di Edward Hopper Nighthawks, quadro che ha ispirato anche Tom Waits per il suo Nighthawks At The Diner), a cominciare dalla splendida Party Party, una canzone pianistica dalla melodia anni sessanta, ritmo acceso ed ottime armonie vocali, subito seguita da Arkansas, una country song un po’ sbilenca ma di grande fascino, e dalla bellissima Henry Morgan, che in tutto e per tutto sembra un brano di The Band, ancora con il magnifico pianoforte di De Lone a condurre le danze.

The Factory è un soul urbano diretto e roccato, suonato davvero da Dio, la liquida Face Down In The Meadow presenta echi di errebi bianco tipico di gruppi come Animals e Box Tops, la squisita Home To You è un pop-rock di gran classe, mentre la limpida Song Is Born Of Riff And Tongue è una toccante ballata country con una bella chitarra messicaneggiante. Per finire addirittura in crescendo con la scintillante Don’t Let Nobody, un rock tinto di errebi molto trascinante, lo stupendo country-rock Runnin’ Down To Memphis, ancora guidato da un piano fantastico, la nitida Pistol On A Shelf, uno slow coi controfiocchi (ancora con The Band in mente) ed il rock’n’roll Night Flight, con echi quasi bowiani. Poi abbiamo il rarissimo singolo del ’76, che comprende il rockabilly I’m Gonna Put A Bar In The Back Of My Car (And Drive Myself To Drink), bel titolo non c’è che dire, e ancora con un pianoforte da urlo, e la divertita Horny Old Lady, un honky-tonk d’altri tempi ma dal tasso alcolico elevato.

Chiudono il primo CD le undici canzoni di Fear Of Frying, un lavoro più che dignitoso, con alcune zampate ed altre canzoni più normali, e che comunque ci regala un’altra mezz’ora abbondante di piacevole ascolto. Tra gli highlights abbiamo la tesa Scene Of The Crime, l’orecchiabile folk-rock Forget About It, la bellissima e corale Louise, che non avrebbe sfigurato su Good’n’Cheap, l’ottimo soul annerito You Lied, la solare, alla Jimmy Buffett, Driftin’ e la ruspante Mover’s Lament, con Hopkins che sia vocalmente che come stile ricorda non poco Levon Helm. Il secondo CD dura molto meno, ha solo dodici canzoni, ma sono quelle del famoso disco prodotto da Chandler nel 1971 e mai pubblicato, un album fatto e finito che già faceva intravedere il talento dei ragazzi (ed i brani sono tutti inediti, nessuno di questi è mai stato ripreso in seguito), anche se, col senno di poi, forse questo LP non avrebbe avuto lo stesso impatto di Godd’n’Cheap, che era obiettivamente superiore. Comunque la buona musica non manca di certo, a partire dalla bellissima Goin’ To Canada, un country-rock dalla melodia corale strepitosa ed accompagnamento di prima qualità, seguita a ruota da I Can Call You, molto diversa, quasi interiore ma comunque degna di nota, e dalle vivaci Right On Roger e Country Waltz, entrambe quasi beatlesiane (la seconda molto di più). Give Me What’s Mine e Waiting For My Ship sono entrambe gradevoli ma un gradino sotto, mentre Across From Me ha ancora elementi del gruppo di Robbie Robertson, ed è valida; January è un po’ irrisolta, ma non disprezzabile, mentre la countreggiante e pianistica Give And Take è semplicemente deliziosa. Il CD termina con la robusta Funky But Clean, la tenue I’m Still The Same (che però ha più l’aspetto di un demo) e la jazzata e raffinata 111 Avenue C, tra le più interessanti.

Nonostante il costo non proprio basso, una ristampa che non dovrebbe mancare nella collezione di chiunque legga questo blog abitualmente (ma neanche in quella degli occasionali!), in quanto ha il merito di mettere finalmente sotto i riflettori un gruppo troppo a lungo ignorato.

Voi pensate al pane ed al succo d’arancia: le uova le portano loro!

Marco Verdi

Una Bella Dose Di Rock And Roll Non Fa Mai Male! Willie Nile – World War Willie

willie nile world war willie

Willie Nile – World War Willie – River House Records/Blue Rose/Ird

Partiamo da un fatto assodato: Willie Nile (nome d’arte di Robert Anthony Noonan), rocker di Buffalo, ma trapiantato a New York, nel corso di 36 anni di attività non ha mai sbagliato un disco, anche se ne ha incisi appena una decina, sebbene le premesse di inizio carriera fossero ben diverse dallo status di cult artist al quale è ormai ancorato. Infatti il suo omonimo esordio del 1980, un disco di pura poesia rock’n’roll tra Byrds, Bob Dylan, punk e Lou Reed, era una vera e propria bomba, un album che personalmente avrei giudicato il migliore di quell’anno se un certo rocker del New Jersey non avesse pubblicato un doppio intitolato The River: il suo seguito, Golden Down (uscito l’anno seguente), non aveva la stessa forza, ma era comunque un gran bel lavoro, e lasciava presagire l’ingresso di Willie nell’olimpo dei grandi.

Poi, all’improvviso, ben dieci anni di silenzio, pare dovuti a beghe contrattuali con l’Arista e problemi personali, un’assenza che in buona fine gli ha stroncato la carriera (almeno a certi livelli): il ritorno nel 1991 con l’eccellente Places I Have Never Been, uno scintillante album con almeno una mezza dozzina di grandi canzoni ed una produzione di lusso, prima di ricadere nell’oblio per altri otto lunghi anni (in mezzo solo un EP, Hard Times In America, oggi introvabile), quando Willie pubblica il buon Beautiful Wreck Of The World, che ci mostra un artista un po’ disilluso ma sempre in grado di fare grande musica. Ancora sette anni di nulla, poi dal 2006 Nile si mette finalmente a fare sul serio, facendo uscire ben quattro lavori in otto anni (gli splendidi Streets Of New York e American Ride ed i discreti House Of A Thousand Guitars e The Innocent Ones): in tutto questo tempo Willie non è cambiato, fa sempre la sua musica, un rock urbano con pezzi al fulmicotone e ballate di grande impatto, dimostrando una coerenza ed una rettitudine che gli fa onore (io gli ho parlato brevemente una sera del 2008 a Sesto Calende e ho trovato una persona modesta, gentile e disponibilissima, e stiamo parlando di uno che da del tu a Bruce Springsteen).

Meno di un anno e mezzo fa , un po’ a sorpresa, Willie ha pubblicato il bellissimo If I Was A River http://discoclub.myblog.it/2015/01/12/fiume-note-poetiche-notturne-willie-nile-if-i-was-river/ , un disco di ballate pianistiche, un lavoro molto diverso dai suoi soliti, ma di una profondità ed intensità notevole, che un po’ tutti hanno giudicato uno dei suoi migliori di sempre: oggi, esce World War Willie (titolo un po’ così così, ed anche la copertina non è il massimo), un album che ci riporta il Willie più rocker, quasi fosse la controparte del disco precedente. Prodotto da Willie insieme a Stewart Lerman, e suonato con una solida band formata da Matt Hogan alle chitarre, Johnny Pisano al basso ed Alex Alexander alla batteria (e con la partecipazione di Steuart Smith, chitarrista dal vivo degli Eagles, in tre pezzi, e della nostra vecchia conoscenza James Maddox ai cori, oltre che a Nile stesso a chitarre e piano), World War Willie ci mostra il lato rock del nostro, e meno quello cantautorale, un disco di chitarre e ritmo altro che palesa l’ottimo stato di forma del riccioluto musicista, anche se, forse, si pone un gradino sotto i suoi lavori migliori. Ma forse la cosa è voluta: dopo due dischi come American Ride (uno dei suoi più belli di sempre) e If I Was A River Willie ha deciso di divertirsi e di fare solo del sano rock’n’roll senza fronzoli…e chi siamo noi per disapprovare?

Forever Wild ha un inizio pianistico alla Roy Bittan, poi entrano le chitarre, la sezione ritmica e la voce riconoscibilissima del nostro ad intonare una tipica rock ballad delle sue, con un bel ritornello corale ed una generosa dose di elettricità. La discorsiva Let’s All Come Together è classico Willie, sembra uscita da uno dei suoi primi due album, con la voce che non ha perso smalto, altro chorus da singalong e feeling a profusione; l’energica Grandpa Rocks è a metà tra Clash e rock urbano della New York anni ’70 (CBGB e dintorni), forse poco originale ma di sicuro impatto adrenalinico, mentre con Runaway Girl Willie stempera un po’ gli animi con una canzone elettroacustica che rivela il suo lato più romantico.

La title track è un boogie frenetico che ha la freschezza del primo Link Wray ed il solito mix tra ironia ed amarezza nel testo, niente di nuovo dal punto di vista musicale, ma ormai è chiaro che in questo disco il Willie songwriter si è preso una piccola vacanza in favore del suo gemello rocker. L’annerita Bad Boy è un travolgente e ritmato swamp-rock con venature blues, meno tipico ma decisamente riuscito, anche qui con un ritornello killer; Hell Yeah non avrà un testo da dolce stil novo ma ha un tiro irresistibile, un boogie frenetico e tostissimo, mentre Beautiful You fa calare un po’ la tensione e si rivela forse la meno riuscita del CD, priva com’è di una vera e propria melodia.

Splendida per contro When Levon Sings, un sentito omaggio a Levon Helm, suonata e cantata con un’andatura quasi da country ballad, ritmo saltellante e motivo di prim’ordine: il miglior Willie (come spesso capita quando dedica una canzone a qualcuno, pensate alla stupenda On The Road To Calvary, scritta in memoria di Jeff Buckley). L’album si chiude in deciso crescendo con il bel rock’n’roll urbano di Trouble Down In Diamond Town, un brano scintillante che rivela echi di Springsteen, seguito dalla divertente Citibank Nile, costruita intorno ad un tipico giro di blues, e soprattutto da una rilettura potente del superclassico di Lou Reed (e dei Velvet Underground) Sweet Jane, un brano che già in passato aveva avuto cover di livello (ricordo in particolare quelle, molto diverse tra loro, dei Mott The Hoople e dei Cowboy Junkies): Willie preme l’acceleratore, lascia in primo piano il mitico riff e ci consegna una versione piena di feeling e di rispetto per lo scomparso Lou.

Fa sempre bene un po’ di rock’n’roll ogni tanto, e Willie Nile è uno che non ce lo fa mai mancare.

Marco Verdi

La Via Italiana Al Blues 3: Indipendente E “Alternativo”! Snake Oil Ltd – Back From Tijuana

snake oil ltd back from tijuana

Snake Oil Ltd – Back From Tijuana – Killer Bats/Riserva Sonora 

Sono un po’ in ritardo perché il CD è “uscito” da qualche mese ma sono qui a parlarvi di una nuova, allegra, rumorosa, divertente e preparata, brigata di musicisti che si dedicano alla divagazione del Blues Made In Italy. Nuovi, almeno per chi scrive e, presumo, per i lettori del Blog, esclusi i liguri, genovesi nello specifico. I quattro, classica formazione a tre più cantante, i cui nomi probabilmente non diranno molto ai più, ma che per rispetto di chi fa musica con passione ricordiamo: Andrea Caraffini e Zeno Lavagnino (che nel frattempo ha lasciato il gruppo) sono la sezione ritmica, mentre Stefano Espinoza è il chitarrista e last but not least Dario Gaggero, il cantante, nonché autore delle divertenti notizie che punteggiano il loro sito  http://snakeoillimited.altervista.org/, e, nelle proprie parole, “fondatore e Leader Massimo degli Snake Oil Ltd., laureato col massimo dei voti all’ Università della Terza Mano di Fatima, sommo conoscitore di filtri d’amore, rappresentante esclusivo per l’Europa dell’Olio di Serpente più efficace e miracoloso del Globo Terracqueo”. Ma i giovani (almeno all’apparenza delle foto, meno forse Gaggero che vanta pure una collaborazione più “seria” con i Big Fata Mama), sono anche preparati e quasi enciclopedici nella scelta del loro repertorio che, partendo dal blues, sconfina nel rockabilly, nel R&R, nel voodoo rock delle paludi della Louisiana, meno marcato di quello di Dr. John, forse più deferente verso Fats Domino, nume tutelare della band, insieme a Bo Diddley, Hound Dog Taylor, Howlin’ Wolf, con qualche reminiscenza di Tav Falco, a chi scrive (se no cosa sto qui a fare) ricordano anche il sound dei primi dischi di Robert Gordon con Link Wray, o dei primissimi Dr. Feelgood, quelli più deraglianti di Wilko Johnson.

Ma poi la scelta del repertorio cade anche su brani “oscurissimi” tratti da vecchi 45 giri anni ’50 o da compilation di etichette poco conosciute, pure se la grinta e la velocità con cui vengono porti sta a significare la passione, che rasenta la devozione, di questi allegri signori che probabilmente fanno musica per divertirsi e, ovviamente, finiscono per divertire i loro ascoltatori. Anche l’idea di esordire con un disco dal vivo non è peregrina: Back From Tijuana/Live From The Sea è stato registrato ai Bagni Liggia di Genova Sturla, che sono più rassicuranti, presumo, delle stradine di New Orleans e anche temo delle paludi della Louisiana, ma l’aria di festa collettiva che si respira nei solchi digitali di questo album è assolutamente contagiosa anche per chi non era presente all’evento. Loro orgogliosamente annunciano che la prima tiratura del CD è andata esaurita e ne stanno preparando uno nuovo in studio.

Se nel frattempo  vi volete sparare, ad alto volume, una carrellata nelle origini del rock, qui trovate un po’ di tutto: dal blues del Delta di Son House, con l’iniziale Grinnin’ On Your Face ad una Give Back My Wig che dai solchi dei dischi Alligator di Hound Dog Taylor plana sulle tavole di un locale genovese, con la grinta del pub-rock tinto punk dei Feelgood, mista a sonorità Gordon-Wray e persino Blues Brothers, The Greatest Lover In The World è un Bo Diddley “minore” fatto alla Elvis primo periodo, quindi bene, Ask Me No Questions faceva la sua porca figura in In Session, il disco postumo di Albert King con Stevie Ray Vaughan e la solista di Espinoza qui viaggia che è un piacere.This Just Can’t Be Puppy Love, Leopard Man, Going Down To Tijuana, Bow Wow, non nell’ordine in cui appaiono nel disco, appartengono alla categoria “da dove cacchio sono uscite?”, ma ci piacciono. Too Many Cooks apparterebbe alla categoria, ma visto che l’ha recuperata anche Mick Jagger per il suo Very Best, da una inedita session con Lennon, lo mettiamo nella sezione chicche. Dove si aggiunge ad  uno-due tra la trascinante Whole Lotta Loving del vate Fats Domino e la cattivissima Evil (is going on) di mastro Howlin’ Wolf. Aggiungete il divertente R&R di Wynonie Harris Bloodshot eyes, The Drag, un brano degli Isley Brothers che ha la stamina dei più famosi Shout e Twist & Shout, senza dimenticare la conclusiva Let The Four Wind Blows, altro classico di Domino, oltre otto minuti, uno di quei brani che non ne vogliono sapere di finire. Se lo riuscite a trovare (magari sul loro sito citato prima, vista la distribuzione difficoltosa) sono soldi spesi bene, veramente bravi, anche qui siamo nella categoria morfologica “italiani per caso”!

Bruno Conti

Discepoli Winteriani. Jay Willie Blues Band – Rumblin’ And Slidin’

jay willie blues band rumblin'

Jay Willie Blues Band – Rumblin’ And Slidin’ – Zoho Music

Nella nostra ricerca geografica in giro per gli Stati Uniti, alla ricerca di gruppi che fanno Blues, mi sembra che dalle parti del Connecticut non fossimo ancora passati: o almeno di una band ivi residente, in quanto poi la Jay Willie Blues Band dichiara di fare Texas Blues, e da quello che si ascolta si potrebbe forse credergli, vista anche la presenza in formazione di Bobby T Torello, uno dei batteristi storici di Johnny Winter, aggiunta ad una certa qual venerazione per la musica di quest’ultimo. Rumblin’ And Slidin’ è il terzo album di questo quartetto  https://www.youtube.com/watch?v=Jkm5q6fNdrw che vede le due chitarre di Jay Willie, anche alla slide e Bob Callahan, alla guida delle operazioni e un paio di ospiti di qualità a dare man forte, l’ottimo Jason Ricci all’armonica in alcuni brani e Suzanne Vick che canta Fly Away, uno dei brani più noti di Edgar Winter https://www.youtube.com/watch?v=vcFNzuKsBHY .

jay willie blues band new york minute jay willie blues band the reel deal

D’altronde un CD che parte con Rumble di Link Wray e si chiude con con For What It’s Worth di Stephen Stills, per definizione “dovrebbe” essere buono. Sono dieci brani, che spaziano in tutte le tematiche del Blues, quello “forte” e quattro bonus dal vivo poste in coda del dischetto. Loro lo hanno definito Texas Blues Music ma tra le influenze, oltre a Winter, citano anche la J Geils Band, Elvin Bishop, Canned Heat, Leslie West, che certo texani non sono, e tra i meno noti, James Montgomery e i Monkey Beat di Jim Suhler, oltre naturalmente ai grandi delle dodici battute, e per questo nelle note del libretto si parla anche di “electric post-Chicago rock-blues” (questa me la segno)! https://www.youtube.com/watch?v=3pTNhUvXUQA

jay willie 1 jay willie 2

In effetti, ricorda Torello, Johnny Winter gli disse più volte che non era capace di suonare il blues e come il suo stile venisse più dagli Allman Brothers che dal blues classico, più che un rimprovero un complimento, a mio modo di vedere, ma sono punti di vista. La recente aggiunta alla formazione è il bassista Steve Clarke https://www.youtube.com/watch?v=T33kDhvoirs , uno che ha suonato con Mike Stern, Yellow Jackets, Tower of Power, e quindi aumenta la quota funky-fusion della band. Ma si nota poco, almeno a giudicare dall’iniziale cover di Rumble https://www.youtube.com/watch?v=4RQK6JSPISk , dove il turbolento drumming di Torello si scontra con la fluentissima armonica di Ricci, un vero virtuoso dello strumento, più dalle parti di John Popper che dei nomi classici, con le chitarre che si limitano ad una coloritura del brano. Ma già in Dirty la slide di Jay Willie cerca di farsi largo, in un brano che però non pare memorabile, tra voci filtrate ed accenni di rap, molto meglio una lunga versione di Key To The Highway, dove i duelli tra le chitarre e l’armonica sono più pertinenti al genere, anche se il problema è quello solito, né Willie Callahan hanno una gran voce, quindi il paragone con la J Geils Band, dove c’era Peter Wolf o i Canned Heat, con Bob Hite e Alan Wilson, è francamente improponibile, ma livello musicale parzialmente ci siamo https://www.youtube.com/watch?v=vnrm-I3H4o8 .

jay willie 4

In Bad News di Callahan, più sul R&R, si aggiunge il sax di Ted Stakush in sostituzione dell’armonica, mentre Rotten Person, scritta e cantata da Torello, vira verso il Sud con una bella slide, ma quando arriva qualcuno che ha una bella voce, come Suzanne Vick, si sente la differenza, nella piacevole ballata di Edgar Winter, Fly Away, con l’armonica di nuovo in bella evidenza, magari poco blues ma godibile, ancorché non memorabile. Altri due brani di Bob Callahan, Come Back, una blues ballad e il funky di The Leetch, si salvano grazie agli interventi dei solisti ma non brillano https://www.youtube.com/watch?v=3NMaw-xHBN8 , più vitale il classico It Hurts Me Too, in una versione che peraltro non entrerà negli annali della musica. Caballo, finalmente, è quel Texas rock-blues di cui tanto si era parlato, grintoso ed energico, come sono i quattro brani finali dal vivo, registrazione meno brillante ma il suono si fa più sporco e vitale, prima in Hold Me Tight Talk Dirty, con le chitarre finalmente fumiganti, in una ottimaTore Down https://www.youtube.com/watch?v=8vd0PgMREHU , nel classico Rhythm & Blues della Mercy, Mercy, Mercy scritta da Joe Zawinul per Cannonball Adderley e che si avvale del sax di Stakush, e nella citata canzone di Stills, più rock dell’originale, ma che non turberà i sonni dell’autore.

Bruno Conti

Peccato Per La Qualità Sonora Non Perfetta, Ma Il Concerto E’ Fantastico! Robert Gordon & Link Wray – Cleveland ’78

robert gordon link wray cleveland '78

Robert Gordon-Link Wray – Cleveland ’78 – Rockabilly Records/Cleopatra

Agli inizi del 1977, sulla carta, l’idea dell’unione di due musicisti come Robert Gordon (presentato come il possibile “erede” di Elvis Presley, ma allora cantante di una sconosciuta band punk newyorkese come i Tuff Darts, presenti nella doppia leggendaria compilation Live At CBGB’s) e Link Wray (mezzosangue nativo pellerossa, ma anche uno dei veri “inventori” della chitarra elettrica, con il suo brano Rumble), poteva venire solo ad un geniaccio come il produttore Richard Gottehrer (fondatore della Sire Records, ma già in azione nel 1966 con i McCoys di Hang On Sloopy). Non dimentichiamo che quelli erano gli anni del primo punk e della Disco, il R&R e il rockabilly erano delle arti quasi desuete. Ma non dimentichiamo neppure che questi signori erano due talenti naturali: un cantante come Robert Gordon, dalla bella voce baritonale, appassionato di Elvis, ma anche di Gene Vincent, Eddie Cochran, Billy Lee Riley, Jack Scott, uno che aveva saltato la british invasion a piè pari e il cui maggior “successo” con i Tuff Darts fu un brano intitolato All For The Love Of Rock And Roll. E un chitarrista come Link Wray, uno dei primi, se non il primo in assoluto ad usare il feedback in un brano come Rumble (e in questo concerto ce n’è una versione che definire “selvaggia” vuole dire minimizzare le cose), grande successo nel 1958, con un brano che usava anche distorsione e i cosiddetti power chords secoli prima che venissero inventati.

robert gordon with link wray cd bgo

Comunque il primo album omonimo dei due usciva proprio nel 1977, accolto da ottime critiche e pochi mesi dopo, ad agosto, sarebbe scomparso The King of Rock, lasciando un vuoto che anche dischi come questo cercarono di colmare. https://www.youtube.com/watch?v=FfTAWZL2FIg  L’anno dopo i due fecero addirittura meglio, con un secondo disco, pubblicato sempre dalla Private Stock, Fresh Fish Special, che accanto ai soliti classici del R&R e del rockabilly presentava un brano inedito di Bruce Springsteen come Fire https://www.youtube.com/watch?v=_sVgfL3YFhA  (si dice scritto per Elvis e quando il Boss si poteva permettere di non pubblicare decine di canzoni per cui altri cantanti si sarebbero tagliati le vene, altri tempi). Entrambi i dischi si trovano in quel twofer CD, 2 in 1, edito dalla Ace, e che vedete sopra. Proprio pochi giorni dopo l’uscita di quel disco, il 25 marzo del ’78, i due si presentarono sul palco del celebre Agora di Cleveland per un concerto di una devastante potenza ed intensità. Però il dischetto esce per i tipi della Cleopatra, su una fantomatica nuova etichetta chiamata Rockabilly Records! Quindi secondo voi come è inciso? Come un bootleg, quale è e ha già circolato in questa forma. Per fortuna un bootleg di quelli buoni, registrazione cruda e diretta, tipo i migliori volumi della serie di Johnny Winter, ma i contenuti sono esplosivi, aiutati da una sezione ritmica fantastica come Jon Paris al basso (toh che caso, proprio quello che suonava con Winter!) e Anton Fig (oggi con Bonamassa) alla batteria, Robert Gordon e Link Wray dimostrano in meno di cinquanta devastanti minuti come distruggere e ricostruire dalle fondamenta gli elementi fondanti del R&R.

La chitarra fumante di Link Wray (n°45 tra i più grandi chitarristi all-time) emette riff da centrale atomica e, nonostante la registrazione, Gordon canta come se fosse posseduto dai fantasmi dei grandi degli anni ’50: una sequenza inarrestabile che parte con uno dei rari brani originali di Wray, If This Is Wrong, che è più Elvis di Elvis quando saliva per la prima volta sul palco dell’Ed Sullivan Show, se subito dopo non ci fosse Mystery Train che lo è ancora di più, con un assolo che sembra di un Jimmy Page in astinenza da chitarra. Fantastiche anche The Way I Walk https://www.youtube.com/watch?v=jFl2ocTPDpY  e The Fool, un rockabilly firmato da Lee Hazlewood, con i power chords di Link Wray che sembrano provenire da Pete Townshend incrociato con Cliff Gallup, il chitarrista di Gene Vincent.

gordon wray bootleg robert gordon link wray 1

Proprio di Vincent è I Sure Miss You, uno dei rarissimi brani lenti del concerto, ma sempre con una chitarra che ti sega in due, per poi farti a pezzettini in una versione da esplosione termonucleare di Rumble, seguita da un altrettanto cattiva Rawhide, con il brano di Frankie Laine trattato come forse nemmeno gli Who avrebbero osato, in un’orgia di feedback. Red Hot, di uno dei preferiti di Gordon, quel Billy Lee Riley ricordato prima, è un’altra scarica di adrenalina pura https://www.youtube.com/watch?v=FfTAWZL2FIg , poi è di nuovo Elvis time, con una fantastica My Baby Left Me, seguita da una devastante Lonesome Train di Johnny Burnette. Summertime Blues https://www.youtube.com/watch?v=KyQGRx9V7mw  e Twenty Flight Rock in sequenza potrebbero abbattere un elefante, poi il pubblico dell’epoca, un po’ sorpreso, ascolta per una delle prime volte dal vivo il brano di Bruce Springsteen, una Fire proposta in medley con Let’s Play House e per finire un concerto fantastico, che se fosse inciso anche bene sarebbe indimenticabile (ma il sound è comunque più che accettabile), Endless Sleep, un brano in classifica nel 1958, lo stesso anno di Rumble!

Bruno Conti