E’ Sempre Il Buon Vecchio Joe Bonamassa, Ma “Diverso” E In Incognito! Sleep Eazys – Easy To Buy – Hard To Sell

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Sleep Eazys – Easy To Buy – Hard To Sell – Mascot/Provogue

Ultimamente il chitarrista newyorchese ha rallentato di molto la frequenza delle sue uscite, nel corso dello scorso anno è uscito solo un disco dal vivo https://discoclub.myblog.it/2019/10/23/sia-pure-in-ritardo-ma-non-poteva-mancare-un-suo-nuovo-album-nel-2019-joe-bonamassa-live-at-the-sydney-opera-house/ , mentre per trovare un album di studio bisogna risalire a quasi due anni fa https://discoclub.myblog.it/2018/09/17/ormai-e-una-garanzia-prolifico-ma-sempre-valido-ha-fatto-tredici-joe-bonamassa-redemption/  : questo significa che il buon Joe Bonamassa ha messo la testa a posto, almeno rispetto alla sua nota “bulimia” discografica? Vedremo, per il momento gustiamoci questo nuovo album che esce sotto lo pseudonimo di Sleep Eazys, un disco completamente strumentale, qualcuno ha detto il primo per lui, ma in effetti ci sono stati in questi anni anche i quattro album, tre in studio e uno dal vivo, a nome Rock Candy Funky Party, dove la chitarra di Bonamassa, diciamolo chiaramente, era nettamente lo strumento principale, per quanto in un ambito sonoro decisamente diverso e con musicisti diversi dal suo gruppo abituale, come esplicato dal nome della band.

Mentre per gli Sleep Eazys Joe si è avvalso del lavoro dei suoi collaboratori abituali, e come era stato per il disco di https://discoclub.myblog.it/2019/03/05/anche-lui-per-un-grande-disco-si-fa-dare-un-piccolo-aiuto-dai-suoi-amici-reese-wynans-and-friends-sweet-release/  ha curato lui stesso la produzione: quindi nell’album troviamo proprio Reese Wynans alle tastiere, Anton Fig alla batteria, Michael Rhodes al basso, Lee Thornburg alla tromba e Paulie Cerra al sax, più l’ex leader dei Wet Willie Jimmy Hall, e un altro grande chitarrista come John Jorgenson. Come era cosa nota, tutto era nato per essere un tributo alla musica di Danny Gatton, con Roy Buchanan, uno degli “unsung heroes” della chitarra, musicista amatissimo dai suoi colleghi, ma poco conosciuto dal grande pubblico che era in grado di spaziare con tecnica sopraffina e raro gusto tra blues, jazz, country, rockabilly, con una varietà di temi sonori veramente superba. Poi il discorso si è allargato perché Bonamassa ha colto l’occasione per rendere omaggio anche a personaggi diversi che lo hanno influenzato, al di fuori delle sue note propensioni per il blues-rock della triade del british blues, ovvero Page, Beck e Clapton,e anche Peter Green, ovviamente Jimi Hendrix e il suo discepolo Stevie Ray Vaugahn, e nel blues i tre King, Freddie, B.B e Albert.

Quindi nell’album non vengono ripresi esclusivamente brani di chitarristi, o non solo, ma anche personaggi abbastanza ai confini della musica rock: Fun House, non quella degli Stooges, è un pezzo di Danny Gatton, una sorta di brano a cavallo tra jazz per “big band” ristretta (se così si può dire), oppure organ trio allargato, grazie all’eccellente lavoro alla tastiera di Wynans e dei fiati e quei temi da telefilm americani anni ’60, tutto molto elegante, tra assoli di sax e Joe che parte piano con la sua chitarra, ma poi si lascia andare con un assolo dei suoi. Anche Move di Hank Garland si muove tra jazz e rock delle origini, con la sinuosa solista di Bonamassa, che si muove veloce e felpata tra le pieghe di organo, vibrafono e della batteria di Fig impegnata in un breve assolo.Ace Of Spades è l’omaggio ad un altro dei grandi precursori della chitarra rock, quel Link Wray che con Rumble è stato uno dei primi a portare la distorsione nei suoni del R&R, qui il nostro amico può alzare il volume dell’ampli e scatenare la sua potenza di fuoco, ben sostenuto sempre da Wynans e dai fiati, con i brani che rimangono sempre confinati nell’ambito dei tre/quattro minuti di durata.

Jimmy Bryant è uno di quei chitarristi che partendo dal country poi ha sviluppato uno stile “inconsueto” dove si potevano trovare influenze orientali, surf, quel “chicken picking” country praticato da Gatton e poi da John Jorgenson degli Hellecasters, che infatti appare in questa vorticosa e divertente Ha So a duettare a tutta velocità con Joe. Anche Hawaiian Eye appartiene a questo catalogo di “stranezze”, sigla di una serie di telefilm di inizio anni ’60, che nelle mani di Bonamassa e soci assume un suono contemporaneo e vibrante che consiglierei ai produttori delle attuali serie TV di (ri)pescare perché farebbe un figurone sui titoli di testa e di coda, o magari in qualche film di Tarantino. Pure il tema di Bond (On Her Majesty’s Secret Service) è delizioso, con Bonamassa che si sbizzarisce alla chitarra con un assolo di grande tecnica e varietà che di nuovo consiglierei ai curatori delle colonne sonore dei nuovi film di 007, invece di quelle tavanate pseudo-moderno-elettroniche che sentiamo ai giorni nostri.

L’ultimo terzetto di canzoni ci presenta Polk Salad Annie, il classico swamp rock di Tony Joe White riletto in una chiave molto personale, decisamente più accelerata e bluesy, con l’armonica di Jimmy Hall a fare da contrappunto alla chitarra scatenata di Joe, tra Creedence e Blasters, con fiati e organo a spingere una sezione ritmica che pompa di brutto, anche con uso di armonie vocali sullo sfondo, e un assolo pimpante e complesso di quelli che avrebbe fatto piacere a Danny Gatton. Che stilisticamente viene citato anche nella versione epica di un brano Blue Nocturne del repertorio di King Curtis, grande sassofonista e anche collaboratore di Duane Allman, un blues lento che però si anima in un crescendo continuo per un assolo lancinante di Bonamassa che presenta punti di contatto anche con lo stile di Roy Buchanan (e in tempi recenti di Ronnie Earl, altro grande stilista della chitarra). L”ultima canzone è un brano di Frank Sinatra, ebbene sì, It Was A Very Good Year, che mantiene la melodia del brano originale, ma in questa versione strumentale si tramuta in un pezzo intimo e sognante, prima sulle ali di una chitarra acustica e poi con un approccio para orchestrale e classico, con l’elettrica quasi impiegata come un violino in una romanza classica.

Tutto molto interessante, indirizzato e consigliato non solo ai fans del Bonamassa più ruvido e caciarone, ultimamente molte meno, ma anche di chi vuole provare ad ascoltare qualcosa di diverso.

Bruno Conti

E Costui Da Dove Sbuca? Ma Che Chitarrista Ragazzi! Kevin Breit – Johnny Goldtooth and The Chevy Casanovas

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Kevin Breit – Johnny Goldtooth and The Chevy Casanovas – Stony Plain

Kevin Breit, chi è costui, e soprattutto da dove sbuca, vi chiederete voi? Viene da McKerrow, un piccolo paesino dell’Ontario, quindi canadese, e già questo depone a suo favore: ha vinto svariati premi, soprattutto per album strumentali (e ne ha incisi almeno una decina, poi trovarli è un altro paio di maniche) in Canada, tra cui un paio di Juno Awards, ma come musicista ha partecipato a dischi che complessivamente hanno ricevuto 13 Grammy, e il suo nome lo trovate nei credits di album di Norah Jones, Rosanne Cash, k.d. Lang, Hugh Laurie, Cassandra Wilson, Holly Cole, Jane Siberry, Serena Ryder, Taj Mahal, Irma Thomas e tantissimi altri. Ah dimenticavo: suona la chitarra, ed è uno dei più bravi in circolazione, ma se serve se la cava egregiamente pure a bass clarinet, contrabbasso, vibrafono, melodica e organo, e in questo Johnny Goldtooth & The Chevy Casanovas li suona tutti (volendo canta anche ed è un anche virtuoso del mandolino. Genere musicale praticato? Boh. Pensate ad un incrocio tra Danny Gatton, Buddy Miller, James Burton, per fare i primi nomi che mi vengono in mente, dotato di tecnica ovviamente mostruosa, ma anche una propensione al “cazzeggio” musicale per stemperare il suo virtuosismo debordante, quindi ascoltando i brani di questo CD non ci si annoia di sicuro.

C’è del jazz, del country con tanto di twangy guitar in azione, l’immancabile Americana sound (quando non si sa esattamente il genere, citare sempre), qualche escursione nelle eccentriche traiettorie musicali di un Marc Ribot o di un Bill Frisell, quindi anche un pizzico di Tom Waits ma senza la voce, dei brani che ricordano degli Hellecasters schizzati (avete presente? Will Ray, John Jorgenson e Jerry Donahue), per esempio in un pezzo come Zing Zong Song, oppure il Waits blues e “wordless” in una quasi maniacale The Goldtooth Shuffle, per delle 12 battute molto futuribili e stravaganti, con la chitarra che parte per la tangente con sonorità veramente sghembe e non usuali, anche con slide. Nel disco appaiono con lui Davide Direnzo, il batterista di Cassandra Wilson, che suona in tutti pezzi, Michael Ward Bergman ( che suona nel Silk Road Ensemble di Yo Yo Ma), alla fisarmonica in un brano vorticoso intitolato I Got ‘Em Too, tra country, cajun e musica da festa di paese, ma dalle parti del confine messicano, giuro. Nell’iniziale Chevy Casanova appare Vincent Henry a sax e flauto, uno che ha suonato con Waits (appunto) e Amy Winehouse, e siamo dalle parti di uno strano R&B, misto a musica per colonne sonore, una traccia con continui cambi di tempo e variazioni, dove si apprezza il virtuosismo sopra (e sotto) le righe del pentagramma di Kevin Breit, che assume connotati ancora più inusuali nella non etichettabile C’Mon Let’s Go, dove il clarinetto basso di Breit si intreccia con una chitarra che sta tra i riff del rock e delle sonorità trasversali e quasi acide che sfociano in un assolo incredibile, ma non è facile da descrivere la musica di questo signore, bisogna sentirla e vi consiglio vivamente di farlo per convertirvi al suo approccio inconsueto ma eccitante.

The Knee High Fizzle sembra quasi un esperimento di Danny Gatton nei ritmi del country, con una twangy guitar impazzita sul solito tappeto ritmico complesso dove si annidano anche il vibrafono e il clarinetto di Breit, impegnato vieppiù a sconcertare l’ascoltatore con suoni e timbriche eccentriche ma affascinanti. Cozy With Rosy (divertenti anche i titoli) si avvale, come pure altri brani, della tromba del compatriota Gary Diggins, in un incontro tra musica hawaiiana (la chitarra di Kevin assume quel vibrato particolare della slack-key) e un mezzo valzer dissonante, io ci provo a descriverla questa musica, ma forse è più semplice lasciarsi trasportare dalla genialità di questo vero asso della chitarra, libero nei suoi dischi solisti di dare libero sfogo ad una inventiva sfrenata. Anche Crime Holler ha un arrangiamento curatissimo, ma spiazzante, dove avanguardia e voglia di divertire ricordano per certi versi il compianto Frank Zappa, che era uno che amava una musica complessa ma ricca anche di spunti divertenti e che sorprendessero chi l’ascoltava, con la chitarra che folleggia sempre in modo splendido, diciamo in un approccio non convenzionale. A Horse By Another Stripe è una sorta di desert song tra Calexico e Morricone, che viene omaggiato (penso, almeno nel titolo, ma non solo) anche nella conclusiva Dr. Lee Van Cleef, aggiunta per confondere ancora di più le acque, o forse perché i dischi di Kevin Breit devono avere comunque 11 canzoni. Ma prima ci sarebbe anche One Mo Bo, dove l’urticante solista del nostro si pone su un intricato tappeto di organo e batteria e dimostra una volta ancora che la sua musica non si può catalogare, ma è solo da godere, maneggiare con cura, in tutti i sensi: il mio nuovo “eroe”!

Bruno Conti

Un Disco “Anomalo”, Acustico, Per Il Chitarrista Di Washington, D.C. Tom Principato & Steve Wolf – The Long Way Home

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Tom Principato & Steve Wolf – The Long Way Home – Powerhouse Records 

Un disco acustico di Tom Principato? Ebbene sì, registrato in duo con Steve Wolf, bassista con cui Principato ha spesso condiviso in passato palchi e dischi, per l’occasione impegnato al contrabbasso. Un disco particolare, raffinato, notturno, forse ancor di più direi autunnale (vista la stagione verso cui ci avviamo), composto da otto tracce strumentali, una sorta di “vacanza” fuori stagione dal consueto blues-rock degli album di Principato, non ultimo l’ottimo CD+DVD Live And Still Kickin’ uscito all’incirca un paio di anni or sono http://discoclub.myblog.it/2016/01/15/studio-o-dal-vivo-sempre-gran-chitarrista-tom-principato-live-and-still-kickin/ . E anche il mood musicale è molto differente, niente travolgenti cavalcate a colpi di chitarra elettrica, a metà strada tra il miglior Clapton e Roy Buchanan, ma un disco felpato, minimale, molto jazzato, dove emergono anche le influenze del Danny Gatton più intimista, quello per cui Wolf aveva suonato e prodotto anche uno dei suoi dischi più famosi Redneck Jazz Explosion.

tom principalo & steve wolf the long way home back

Ma questa volta, come detto, il mood è molto più rilassato ed acustico, Principato abbandona la sua Fender elettrica per suonare una Gibson hollow-body con corde di nylon e Steve lo segue con il suo contrabbasso dal suono caldo ed avvolgente, ogni tanto rispondendo con delle cascate di note in libertà al continuo lavoro della solista di Tom. In alcuni brani vengono utilizzate anche delle piccole percussioni per dare una maggiore coloritura e corposità all’atmosfera sonora, ad esempio nell’iniziale Thought Of You, per il resto limpida e dalla dolcissima melodia, dove il contrabbasso risponde anche a livello solista agli interventi ricchi di tecnica e feeling della chitarra del nostro amico, oppure nella più mossa Midnight Groove, dove lo stile molto laidback dei due protagonisti si anima in alcune progressioni dove si apprezza ancor di più la tecnica sopraffina dei due musicisti americani. E’ chiaramente un disco di jazz, non aspettatevi digressioni rock o blues (forse appena un filo), per fare un richiamo per i non jazzofili potrebbe rimandare a certe cose acustiche e raccolte di Pat Metheny (che ha spesso elogiato Principato), o a gente come Kevin Eubanks o Earl Klugh, che però sfocia quasi nell’easy listening, ovviamente Django Reinhardt è un altro nome di riferimento, anche se lo swing non sembra rientrare negli ingredienti di questo The Long Way Home.

Forse si potrebbero ricordare pure certe cose dei trii di McLaughlin, Al Di Meola, Larry Coryell, ma senza l’elemento flamenco di Paco De Lucia, e comunque in quel caso e in quei dischi il virtuosismo corale e l’interscambio tra i musicisti raggiunge livelli strepitosi e frenetici, qui neppure sfiorati, quindi diciamo che è solo per inquadrare l’atmosfera dell’album; Tres Dias Mas, forse qualche elemento latino lo aggiunge, ma è appena accennato, mentre Very Blue potrebbe rimandare ad uno standard come Goodbye Pork Pie Hat, trasposto per una chitarra acustica ed un contrabbasso e Mi Solea con un uso più accentuato delle percussioni evidenzia di nuovo elementi latineggianti quasi alla Santana, nei suoi brani strumentali più melodici. Tango’d Up In The Blues gioca sul titolo di un brano di Dylan per ammiccare più alla malinconia e alla tristezza del tango, che alle 12 battute classiche con Wolf impegnato in un breve solo di contrabbasso; la vivace Back Again And Gone invece qualche elemento di blues e di un rock molto morbido lo inserisce, con la conclusiva Nancy che sfiora anche lo stile di gente come Davy Graham o il Bert Jansch dei Pentangle. Quindi occhio alla penna, qui Robert Johnson o Eric “Manolenta” non c’entrano per nulla, vi dovete rivolgere al live o ai dischi precedenti per ritrovare il Master of the Telecaster!

Bruno Conti  

Sempre Più Raro, Formidabile E “Sconosciuto”, Anche A Quasi 30 Anni Dalla Morte! Roy Buchanan – Telemaster Live in ’75

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Roy Buchanan – Telemaster Live in ‘75 – Powerhouse Records

E’ stato detto mille volte, spesso anche dal sottoscritto http://discoclub.myblog.it/2016/01/02/dal-vivo-raro-formidabile-roy-buchanan-lonely-nights-my-fathers-place-1977/ , ma ripeterlo giova: Roy Buchanan è stato uno dei più grandi chitarristi della storia del rock (e del blues), tanto da venire definito “the world’s greatest unknown guitarist”, in possesso di una tecnica mostruosa, che prevedeva il “chicken picking”, l’uso del plettro, ma anche delle dita, del pollice persino, tecniche mutuate dall’uso della lap steel, senza entrare troppo in tecnicismi diciamo che spesso usava queste tecniche contemporaneamente, e nel tempo ci sono stati chitarristi, professionisti e non, che hanno provato a cimentarsi con il suo stile, e sono tuttora inestricabilmente legati alle corde della propria chitarra. Ma Buchanan aveva anche un “tone”, un suono, unico, con lo strumento che sembrava piangere, strepitare, ululare, miagolare, uno dei pochi in grado, non dico di migliorare, ma di replicare gli assoli di Jimi Hendrix, pure quelli col wah-wah, oppure del suo grandissimo ammiratore Jeff Beck. Roy è morto suicida in prigione nel 1988, a Fairfax in Virgina, dopo una lite domestica: ma la sua eredità, il suo retaggio musicale è stato mantenuto vivo da una serie di pubblicazioni d’archivio Live e in studio http://discoclub.myblog.it/2016/08/24/completare-la-storia-roy-buchanan-the-genius-of-the-guitar-his-early-recordings/ , a volte non molto legali, per quanto spesso ben incise, e comunque sempre splendide nei contenuti, ma anche da alcuni dischi approvati dalla famiglia, e in particolare dalla moglie Judy, ancora in vita, o forse da qualcuno dei sette figli e innumerevoli nipoti.

Buchanan, come è noto, ma forse no, per cui diciamolo, aveva rischiato di entrare anche negli Stones, nell’era di Mick Taylor, ma purtroppo non aveva il “physique du role”, per quanto lo avrei visto bene accanto a Keith Richards. Ci ha lasciato una splendida serie di album, soprattutto quelli pubblicati dalla Polydor, dove Roy ha deliziato diverse generazioni di aficionados della chitarra con i suoi assoli al limite del paranormale, ricchi di tecnica e feeling, dischi sia in studio che dal vivo. Proprio da quel periodo viene questo Telemaster Live in ’75, il terzo pubblicato dalla Powerhouse Records, l’etichetta di Tom Principato, grande fan e discepolo di Roy Buchanan e anche di Danny Gatton, altro “mostro sacro” della chitarra elettrica: il primo, uscito nel 2003 era intitolato American Axe, l’altro Live: Amazing Grace, nel 2009, entrambi formidabili. L’unico piccolo appunto che possiamo fare a questo nuovo titolo è la non eccessiva lunghezza, circa 40 minuti, aggiungendo 2 brani registrati nell’agosto del 1973 ai sei provenienti dal concerto del settembre 1975, sempre all’Agora Ballroom di Cleveland. Suonano con lui John Harrison, al basso, Byrd Foster alla batteria e Malcolm Lukens, a organo e piano: i pezzi del suo repertorio sono più o meno sempre quelli, ma come per i grandi della musica classica, ogni esecuzione è talmente diversa che va assaporata e centellinata.

Can I Change My Mind è un delizioso brano tra soul e rock, con l’organo di Lukens che “scivola” sul groove della sezione ritmica, mentre l’assolo parte con una levità e una delicatezza incredibili, poi si sviluppa nel “solito” crescendo meraviglioso di note, prima di lasciare spazio a tutto il gruppo per questo splendido brano di Tyrone Davis. Poi parte Running Out, un brano che sarebbe uscito solo l’anno dopo su A Street Called Straight, quello con il bimbo in copertina con Roy, la dimostrazione lampante che Buchanan avrebbe potuto benissimo suonare rock con gli Stones, un pezzo ruvido e tirato con il nostro che inizia a strapazzare la sua Telecaster come solo lui sapeva fare, scale velocissime ed inconsuete scovate sul manico; segue una Further On Up The Road, leggermente più veloce di altre versioni conosciute, ma il momento topico è comunque sempre quello dell’assolo, in questo caso quasi canonico, quasi, perché dopo un minuto si stufa e cava dalla sua Tele un fiume di note, e pure Lukens fa la sua parte. Non vorrei dire una eresia, non credo però, ma a me il cantante (anche se non accreditato nelle note, al solito scarne) sembra proprio il grande Billy Price, voce storica della band e presente pure nel disco ufficiale del 1975 Live Stock, e di cui, detto per inciso, al 7 Aprile uscirà un nuovo album, Alive And Strange, per la VizzTone.

Ma ritorniamo al concerto, tocca a I Used To Have A Woman, uno di quei blues lancinanti dove Buchanan rivolta la sua chitarra come un calzino, creando un fiume di note che emoziona e stordisce l’ascoltatore grazie alla sua varietà di temi e tonalità, e fantastica pure la parte cantata (confermo può essere solo Price, canta troppo bene!). Non ci siamo ancora ripresi che arriva  una poderosa Sweet Home Chicago, mentre il concerto del ’75, senza soluzione di continuità, termina con lo strumentale classico The Messiah Will Come Again, la chitarra elettrica al limite del preternaturale e oltre. Se considerate che il tutto è inciso benissimo, questo disco è indispensabile. E alla fine ci sono pure i due brani del ’73: prima una travolgente Whole Lotta Shakin’ Goin’ On, dove il cantante è effettivamente “sconosciuto”, ma gli altri, soprattutto Roy, suonano, cazzo (scusate il francesismo) se suonano! E anche il finale, con la sua strepitosa versione strumentale del classico Sweet Dreams, è da sballo. Aspettiamo il prossimo della serie, magari prima di sette o otto anni.

Bruno Conti

roy buchanan rockpalast

P.s. Sempre il 7 aprile verrà (ri)stampato di Roy Buchanan anche questo Live At Rockpalast – Hamburg 1985, in versione CD+DVD, ma comunque le versioni divise del CD e del DVD sono regolarmente in produzione e si dovrebbero trovare con facilità, però per confondere le idee…

In Studio O Dal Vivo, Sempre un Gran Chitarrista! Tom Principato – Live And Still Kickin’

tom princpipato live and still kickin'

Tom Principato – Live And Still Kickin’ – Powerhouse CD+DVD

Lo avevamo lasciato un paio di anni fa, nel 2013, con l’ottimo Robert Johnson Told Me So http://discoclub.myblog.it/2013/10/15/mi-manda-eric-clapton-tom-principato-robert-johnson-told-me/ , e quindi non vi tedierò di nuovo con vita, morte e miracoli del nostro: mi limito a confermarvi che questo signore è uno dei migliori chitarristi/cantanti attualmente in circolazione in quel ambito che sta fra blues e rock, a maggior ragione in una dimensione concertistica dove si possono godere le sue virtù di grande solista e portatore della memoria storica del passato, due fra tutti nel suo caso, Roy Buchanan e Danny Gatton, entrambi molto presenti nel DNA musicale di Tom Principato. Questo disco dal vivo è l’ideale prosecuzione di un Live And Kickin’ uscito nel lontano 2000 e presenta materiale registrato nel corso del tour che nel 2014 lo ha portato in Europa: infatti si tratta di estratti di due diversi concerti, il primo a Vienna al Barns Of Wolf Trap, con una formazione arricchita da una sezione fiati in alcuni pezzi, e il secondo a Les Escales St. Nazaire in Francia, dove è molto popolare, solo i tre brani finali. Il tutto, che è stato filmato anche per un DVD allegato al CD, viene pubblicato dalla etichetta personale di Principato, la Powerhouse.

E non posso che confermare, oltre alle influenze dei due musicisti ricordati (e di tutti i grandi del blues), una sorta di affinità con Eric Clapton, sin dalla postura con cui Tom si propone sia dal vivo che in foto, ma soprattutto a livello musicale, con questo stile che pesca da tutte le nuances del blues-rock e attraverso la penna e la sensibilità di Principato viene riversato con gusto, grinta e una notevole dose di tecnica sugli ascoltatori dei suoi concerti. Per intenderci, come nel caso di Manolenta, i brani sono costruiti per farci arrivare all’assolo che è il clou della canzone, ma nello stesso tempo, a differenza di quelli della categoria degli “esagerati”, l’assolo è un fine e non un mezzo per farci vedere quanto sono bravi, c’è tanto altro intorno. Tom Principato ovviamente non è il salvatore del blues-rock tout court, ma uno dei praticanti dell’arte di riproporre e reiterare una musica che abbiamo sentito mille volte ma che vive grazie alla capacità del musicista di farlo con i giusti riferimenti, cercando di metterci qualcosa di proprio, magari poco, soprattutto nella interpretazione.

E allora, pescando a caso dalla scaletta del repertorio, ecco scorrere il delizioso assolo con wah-wah che incornicia la ritmata e quasi reggata In the Middle Of Night, dove le tastiere di Tommy Lepson e le percussioni di Josh Howell, altrove anche alla armonica, provvedono a quel tocco caraibico che insaporisce il menu blues, o il r&r fiatistico e ad alta concentrazione boogie della iniziale Call Of The Law, sempre con l’organo a ben spalleggiare le mosse della solista di Principato, che poi fa la sua parte come si deve. O ancora le traiettorie santaneggianti della sinuosa Bo Bo’s Groove, uno strumentale che sembra uscire dai solchi di uno dei primi tre dischi dei Santana, quelli migliori. Hey Now Baby ha la giusta quota funky-soul, mentre Don’t Wanna Do It, sempre con la massiccia presenza dei fiati, è un altro esempio della bella calligrafia delle ri-scritture di Principato dei canoni blues-rock, con Helping Hand che propone il lato blues & soul revue. Cross Cut Saw, una delle rare cover della serata, viene dal repertorio di Albert King, quindi occasione peri indulgere in un lato più blues, anche grazie all’armonica di Howell. Molto piacevoli puree Sweet Angel e la tiratissima Return Of The Voodoo King (un omaggio a Jimi) https://www.youtube.com/watch?v=7lFv7AqBUCo  che chiudono la parte del concerto registrata a Vienna. Nei tre brani parigini non c’è la sezione fiati, e quindi lo spazio per la chitarra di Principato è ancora più evidente, a partire da un sontuoso lento come The Rain Came Pouring Down che evidenzia le influenze di Buchanan, con la solista che disegna traiettorie di grande fascino e tecnica. Le conclusive If Love Is Blind e Robert Johnson Told Me So (con uso di slide), uno dei due brani tratti dall’ultimo album, sono entrambe molto vicine allo spirito di Clapton e quindi estremamente godibili e ricchi di spunti chitarristici di gran classe. Che è quello che si chiede in fondo ad un disco come questo, uno dei migliori Live dell’anno appena concluso.

Bruno Conti