Un Altro “Grosso” Protetto Di Mike Zito. Kevin Burt – Stone Crazy

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Kevin Burt – Stone Crazy – Gulf Coast Records

Il famoso detto recita “una ne fa e cento ne pensa”, ma nel caso di Mike Zito dovremmo modificarlo in “cento ne pensa e cento ne fa”, in quanto il nostro texano preferito è sempre impegnatissimo con nuovi progetti. Certo aiuta molto il fatto che avere una studio casalingo vicino a casa, soprattutto in questo periodo di pandemia durante il quale i musicisti non possono andare in giro in tour e quindi si occupano delle loro cose: nel caso di Zito anche il fatto di avere una propria etichetta è ulteriore stimolo. E quindi in questi mesi di quarantena ha “prodotto” molto: andando a ritroso troviamo nuovi album di Kat Riggins, il ritorno dei Louisiana’s Le Roux, l’ottimo disco della Mark May Band, quello dei Proven Ones, lo stesso Zito con Quarantine Blues. Il comune denominatore è che sono tutti belli: ora si aggiunge anche questo CD di Kevin Burt, registrato a giugno ai Marz Studios di Nederland. Texas, dove vive il buon Mike.

Come si rileva facilmente dalla foto di copertina Burt è una “personcina” più o meno delle dimensioni di Popa Chubby, e che brandisce la sua Gibson come fosse uno stuzzicadenti: alla registrazione di Stone Crazy hanno partecipato alcuni dei fedelissimi di Zito, ovvero l’ottimo Lewis Stephens a piano e organo, e la sezione ritmica formata da Doug Byrkit al basso e Matthew Johnson alla batteria, con lo stesso Zito che aggiunge anche le sue chitarre a profusione. Burt scrive tutte le canzoni, con l’eccezione della cover di Better Off Dead di Bill Withers. Ah dimenticavo, Mr. Burt, che suona anche l’armonica nel disco, è uno di quelli bravi, ottimo strumentista e voce potente, ma anche duttile, influenzata sia dal blues come dal soul, forgiata in 25 anni di musica on the road, che lo ha portato in giro in tour per gli States, a registrare un paio di CD precedenti autogestiti e a vincere alcuni premi nelle consuete classifiche blues.

Si parte subito forte con il blues di I Ain’t Got No Problem With It, dove l’armonica guida le volute di un brano fortemente influenzato da funky e R&B, mentre Kevin canta con brio, nella successiva Purdy Lil Thang si viaggia su territori cari allo swamp rock di Tony Joe White o al sound dei Creedence, chitarre acustiche ed elettriche in bella vista, l’ottima voce sempre in evidenza, mentre Rain Keeps Comin’ Down, con slide ed armonica a guidare le danze ha forti elementi sudisti nella costruzione del brano, ed un ottimo lavoro al bottleneck; la title track è una bella soul ballad, calda e suadente, sempre con la voce espressiva di Kevin in primo piano, per un sound che non è giocato su un lavoro da axeman, ma più da musicista raffinato, quale e è il nostro amico. In Busting Out entra in azione l’organo di Stephens e il suono si fa più pressante ed incisivo, sempre con derive funky e southern vintage anni ‘70 e un bel groove della band, mentre la chitarra inizia a lavorare di fino con un bel assolo.

Same Old Thing è un’altra piacevole ballata mid-tempo più influenzata dal blues, con Kevin che canta con fervore e lascia andare la solista con classe e feeling, You Get What You See è un boogie-shuffle dal bel drive, dove appare anche un sassofono non accreditato e un sound che richiama alla Marshall Tucker Band, con il plus della voce di Burt che è veramente un cantante espressivo. La musica sudista classica torna anche nella elettroacustica Something Special About You un rock got soul in crescendo di grande fascino, ottima anche Should Have Never Left Me Alone, un blues con uso R&B, che grazie anche alla presenza costante dell’armonica mi ha ricordato i non dimenticati Wet Willie di Jimmy Hall, ed eccellente anche la cover di Better Off Dead di Withers, dove il soul dell’artista nero viene coniugato con il rock in modo impeccabile, con la conclusiva Got To Make A Change dove una slide minacciosa ed incombente caratterizza un altro brano di ottima fattura dove la band e Kevin Burt hanno modo di mettere in evidenza con personalità la loro bravura. Ottimo ed abbondante.

Bruno Conti

Un Irruente Fulmine Di Guerra Della Chitarra, Anche Troppo! Tyler Morris – Living In The Shadows

tyler morris living in the shadows

Tyler Morris – Living In The Shadows – VizzTone Label Group

Sono passati circa due anni dal precedente Next In Line, attribuito alla Tyler Morris Band e prodotto da Paul Nelson, che era comunque il terzo album del musicista di Boston https://discoclub.myblog.it/2018/04/10/avanti-il-prossimo-chitarrista-tyler-morris-band-next-in-line/ : nella copertina del nuovo album sembra un po’ meno giovane, mantenendo comunque un che di fanciullesco nelle fattezze. La sua etichetta, sempre la VizzTone, gli ha affiancato un nuovo produttore, il grande Mike Zito, specializzato nel trattare con talenti vecchi e nuovi del blues e dei dintorni più vicini al rock, tra gli ospiti, accanto a Joe Louis Walker, che appariva anche nell’album precedente, oltre a Zito, troviamo anche un altro acclamato specialista della chitarra come Ronnie Earl, e la vocalist Amanda Fish (sorella maggiore della più nota Samantha).

Come al solito, a maggior ragione in questi tempi di virus e pandemie, recensendo l’album in netto anticipo e non avendo quindi molte informazioni, neanche quella se verrà mantenuta la data di uscita (confermata in questi giorni), vado un po’ a occhio, anzi a orecchio, regolandomi solo con quello che ascolto, sempre una buona pratica comunque da applicare e quindi vado a descrivervi ciò che sto ascoltando, che mi sembra valido. Il giovane Tyler è rimasto un irruento fulmine di guerra della chitarra, anche se la produzione di Zito cerca di mettere in luce anche altri aspetti della musica: rispetto al precedente album Morris ha accantonato una buona abitudine che avevo sottolineato con favore, ovvero ha deciso di essere lui la voce solista nella quasi totalità delle canzoni, uhm, mah! Il suono è sempre “duretto” anziché no, la chitarra viaggia al solito che è un piacere, la sezione ritmica ci dà dentro, un organo, Lewis Stephens, agisce sullo sfondo e il risultato in Movin’ On è classico rock-blues di buona fattura, dal repertorio di Gary Moore, altro musicista di riferimento per il giovane Tyler https://www.youtube.com/watch?v=SxRo-o2ml2k Everybody Wants To Go To Heaven è un robusto slow blues, dal repertorio di Albert King, la solista è fluida e con un tocco più raffinato, Zito si occupa della seconda chitarra e l’insieme è godibile, anche se la voce mi sembra appena adeguata.

Polk Salad Annie è il classico swamp rock di Tony Joe White, Mike Zito e Joe Louis Walker sono della partita e qui si comincia a ragionare, un vocione potente e rabbioso, una slide che taglia il brano in due, un groove gagliardo; la title track, di nuovo tirata e “cattiva”, con le chitarre che imperversano su un bel giro di basso, suonato da Terry Dry, quasi alla Free, e un tempo scandito con grande energia, non è per niente male, ma la voce, per fortuna poco presente, continua a non piacermi troppo https://www.youtube.com/watch?v=tcfG8DRWtyg . Altra hard ballad è Temptation, diciamo che si scorge l’impeto e il vigore del primo Jeff Healey, ma la classe è un’altra, però gli amanti delle sonorità diciamo robuste apprezzeranno. Amanda Fish, ottima cantante, chitarrista e multistrumentista, rende il favore a Morris (che era apparso come ospite in Free, il secondo album della cantante di Kansas City per la VizzTone) canta in Better Than You, un altro roboante brano rock a tutto riff vagamente stonesiano, dove non si prendono ostaggi e la Fish sembra una novella Beth Hart o Dana Fuchs prima maniera, mentre le chitarre ruggiscono e c’è persino un pianino sullo sfondo.

Why Is Love So Blue va di boogie duro alla ZZ Top, sempre con chitarre arrotatissime, con il nostro che si conferma comunque solista di vaglia; Nine To Five direi che non è decisamente quella di Dolly Parton e ci si avvicina pericolosamente all’hard rock “esagerato” https://www.youtube.com/watch?v=0evxmRHuVu4 , mentre Young Man’s Blues, il duetto con Ronnie Earl, che come sapete non canta neppure sotto minaccia armata, non è quella di Mose Allison, resa celebre anche dagli Who, c’è un genitivo sassone in più, ma è un blues tirato anziché no in cui Morris sciorina tutti i suoi idoli, e dove Earl si adatta allo stile del giovane amico, con un assolo però che fa risaltare la differenza tecnica tra i due, uno in punta di dita, l’altro impegnato a cercare di sfondare gli ampli. Anche Taken From Me è sempre violentissima, con Zito che comunque risponde colpo su colpo alle bordate del suo nuovo protetto https://www.youtube.com/watch?v=NyFnah9Go_k , e anche la conclusiva I’m On To You non molla la presa, sempre con un rock-blues ad alta densità chitarristica, forse persino troppo.

Bravo è bravo, ma calmatelo un po’, per il momento la parola d’ordine è “viuulenza”!

Bruno Conti

 

 

E’ Sempre Il Buon Vecchio Joe Bonamassa, Ma “Diverso” E In Incognito! Sleep Eazys – Easy To Buy – Hard To Sell

sleep eazys easy to buy hard to sell

Sleep Eazys – Easy To Buy – Hard To Sell – Mascot/Provogue

Ultimamente il chitarrista newyorchese ha rallentato di molto la frequenza delle sue uscite, nel corso dello scorso anno è uscito solo un disco dal vivo https://discoclub.myblog.it/2019/10/23/sia-pure-in-ritardo-ma-non-poteva-mancare-un-suo-nuovo-album-nel-2019-joe-bonamassa-live-at-the-sydney-opera-house/ , mentre per trovare un album di studio bisogna risalire a quasi due anni fa https://discoclub.myblog.it/2018/09/17/ormai-e-una-garanzia-prolifico-ma-sempre-valido-ha-fatto-tredici-joe-bonamassa-redemption/  : questo significa che il buon Joe Bonamassa ha messo la testa a posto, almeno rispetto alla sua nota “bulimia” discografica? Vedremo, per il momento gustiamoci questo nuovo album che esce sotto lo pseudonimo di Sleep Eazys, un disco completamente strumentale, qualcuno ha detto il primo per lui, ma in effetti ci sono stati in questi anni anche i quattro album, tre in studio e uno dal vivo, a nome Rock Candy Funky Party, dove la chitarra di Bonamassa, diciamolo chiaramente, era nettamente lo strumento principale, per quanto in un ambito sonoro decisamente diverso e con musicisti diversi dal suo gruppo abituale, come esplicato dal nome della band.

Mentre per gli Sleep Eazys Joe si è avvalso del lavoro dei suoi collaboratori abituali, e come era stato per il disco di https://discoclub.myblog.it/2019/03/05/anche-lui-per-un-grande-disco-si-fa-dare-un-piccolo-aiuto-dai-suoi-amici-reese-wynans-and-friends-sweet-release/  ha curato lui stesso la produzione: quindi nell’album troviamo proprio Reese Wynans alle tastiere, Anton Fig alla batteria, Michael Rhodes al basso, Lee Thornburg alla tromba e Paulie Cerra al sax, più l’ex leader dei Wet Willie Jimmy Hall, e un altro grande chitarrista come John Jorgenson. Come era cosa nota, tutto era nato per essere un tributo alla musica di Danny Gatton, con Roy Buchanan, uno degli “unsung heroes” della chitarra, musicista amatissimo dai suoi colleghi, ma poco conosciuto dal grande pubblico che era in grado di spaziare con tecnica sopraffina e raro gusto tra blues, jazz, country, rockabilly, con una varietà di temi sonori veramente superba. Poi il discorso si è allargato perché Bonamassa ha colto l’occasione per rendere omaggio anche a personaggi diversi che lo hanno influenzato, al di fuori delle sue note propensioni per il blues-rock della triade del british blues, ovvero Page, Beck e Clapton,e anche Peter Green, ovviamente Jimi Hendrix e il suo discepolo Stevie Ray Vaugahn, e nel blues i tre King, Freddie, B.B e Albert.

Quindi nell’album non vengono ripresi esclusivamente brani di chitarristi, o non solo, ma anche personaggi abbastanza ai confini della musica rock: Fun House, non quella degli Stooges, è un pezzo di Danny Gatton, una sorta di brano a cavallo tra jazz per “big band” ristretta (se così si può dire), oppure organ trio allargato, grazie all’eccellente lavoro alla tastiera di Wynans e dei fiati e quei temi da telefilm americani anni ’60, tutto molto elegante, tra assoli di sax e Joe che parte piano con la sua chitarra, ma poi si lascia andare con un assolo dei suoi. Anche Move di Hank Garland si muove tra jazz e rock delle origini, con la sinuosa solista di Bonamassa, che si muove veloce e felpata tra le pieghe di organo, vibrafono e della batteria di Fig impegnata in un breve assolo.Ace Of Spades è l’omaggio ad un altro dei grandi precursori della chitarra rock, quel Link Wray che con Rumble è stato uno dei primi a portare la distorsione nei suoni del R&R, qui il nostro amico può alzare il volume dell’ampli e scatenare la sua potenza di fuoco, ben sostenuto sempre da Wynans e dai fiati, con i brani che rimangono sempre confinati nell’ambito dei tre/quattro minuti di durata.

Jimmy Bryant è uno di quei chitarristi che partendo dal country poi ha sviluppato uno stile “inconsueto” dove si potevano trovare influenze orientali, surf, quel “chicken picking” country praticato da Gatton e poi da John Jorgenson degli Hellecasters, che infatti appare in questa vorticosa e divertente Ha So a duettare a tutta velocità con Joe. Anche Hawaiian Eye appartiene a questo catalogo di “stranezze”, sigla di una serie di telefilm di inizio anni ’60, che nelle mani di Bonamassa e soci assume un suono contemporaneo e vibrante che consiglierei ai produttori delle attuali serie TV di (ri)pescare perché farebbe un figurone sui titoli di testa e di coda, o magari in qualche film di Tarantino. Pure il tema di Bond (On Her Majesty’s Secret Service) è delizioso, con Bonamassa che si sbizzarisce alla chitarra con un assolo di grande tecnica e varietà che di nuovo consiglierei ai curatori delle colonne sonore dei nuovi film di 007, invece di quelle tavanate pseudo-moderno-elettroniche che sentiamo ai giorni nostri.

L’ultimo terzetto di canzoni ci presenta Polk Salad Annie, il classico swamp rock di Tony Joe White riletto in una chiave molto personale, decisamente più accelerata e bluesy, con l’armonica di Jimmy Hall a fare da contrappunto alla chitarra scatenata di Joe, tra Creedence e Blasters, con fiati e organo a spingere una sezione ritmica che pompa di brutto, anche con uso di armonie vocali sullo sfondo, e un assolo pimpante e complesso di quelli che avrebbe fatto piacere a Danny Gatton. Che stilisticamente viene citato anche nella versione epica di un brano Blue Nocturne del repertorio di King Curtis, grande sassofonista e anche collaboratore di Duane Allman, un blues lento che però si anima in un crescendo continuo per un assolo lancinante di Bonamassa che presenta punti di contatto anche con lo stile di Roy Buchanan (e in tempi recenti di Ronnie Earl, altro grande stilista della chitarra). L”ultima canzone è un brano di Frank Sinatra, ebbene sì, It Was A Very Good Year, che mantiene la melodia del brano originale, ma in questa versione strumentale si tramuta in un pezzo intimo e sognante, prima sulle ali di una chitarra acustica e poi con un approccio para orchestrale e classico, con l’elettrica quasi impiegata come un violino in una romanza classica.

Tutto molto interessante, indirizzato e consigliato non solo ai fans del Bonamassa più ruvido e caciarone, ultimamente molte meno, ma anche di chi vuole provare ad ascoltare qualcosa di diverso.

Bruno Conti

Un Altro Bel Disco, Anche Se Fa Sempre Parte Della Serie “Ah, Trovarlo”! Gurf Morlix – Impossible Blue

gurf morlix impossible blue

Gurf Morlix – Impossible Blue – Rootball Records              

Come ricordavo parlando del precedente album di Gurf Morlix The Soul And The Heal (tra l’altro registrato prima, ma pubblicato dopo, un attacco di cuore quasi fatale avvenuto nel 2016) https://discoclub.myblog.it/2017/03/24/un-altro-gregario-di-lusso-gurf-morlix-the-soul-and-the-heal/ ), il musicista residente da molti anni a Austin, Texas ma nativo di Buffalo, si è sempre considerato un “gregario”, magari di lusso, uno che scrive, suona e produce per altri (Lucinda Williams, Blaze Foley, Ray Wylie Hubbard, Mary Gauthier, Slaid Cleaves, Robert Earl Keen, solo per citarne alcuni), ma approda comunque con questo Impossible Blue al suo decimo album di studio, in una carriera solista iniziata nel 2000. Morlix propone questo suo “blues” personale, dai testi spesso basati su esperienze personali, storie di amore e di vita ancor più rafforzate dal suo incontro ravvicinato con la morte, ma presenti da sempre nelle proprie canzoni, brutalmente oneste, buie e dure, con rare aperture ad un ottimismo dolente ed espresso a fatica: del nuovo album ha detto che secondo lui è il suo migliore di sempre (ma d’altronde non ho ancora sentito un artista dire che la sua ultima opera è la peggiore che abbia mai realizzato), però nel caso di questo album sembra essere vero.

Accompagnato come di consueto dal fedele batterista Rick Richards e per l’occasione dalla leggenda texana dell’organo Hammond B3 Red Young, oltre che dalle leggiadre armonie vocali femminili della brava Jaimee Harris, Gurf Morlix canta, suona le chitarre, il basso, le percussioni e le altre tastiere, produce, fa da ingegnere del suono e tecnico, il tutto nello studio di registrazione Rootball che dà anche il nome alla propria etichetta. E ovviamente scrive tutte le nove canzoni: la voce come al solito è roca, spezzata, dolente, molto vissuta, per certi versi vicina a quella di un paio di sue illustre clienti  e colleghe come la Williams e la Gauthier, ma riesce a convogliare questo spirito del blues according to Gurf. Turpentine apre su un riff che è un incrocio tra Green Onions e il suono “paludoso” dell’ultimo Tony Joe White, con la solista di Morlix che poi si intreccia con l’organo sinuoso di Red Young, abrasiva come l’acquaragia che vorrebbe usare per pulire una amante fastidiosa e petulante. 2 Hearts Beatin’ In Time è una sognante, pigra e delicata ballata, quasi sussurrata da Morlix che si avvale della voce dolce e suadente della Harris per impreziosire questa ode all’amore https://www.youtube.com/watch?v=Of0BDK1vrag , dove l’accompagnamento scarno e il suono secco della sezione ritmica evidenziano la melodia che ricorda molto certi “blues” personali di Lucinda Williiams.

My Heart Keeps Poundin’ è quasi una constatazione meravigliata sul fatto che il suo cuore, nonostante tutto, continui a funzionare, e il ritmo incalzante del brano, con il basso che pulsa e la batteria più indaffarata del solito, vive anche di essenziali sferzate di chitarra e organo. I’m A Ghost torna al suo innato pessimismo e all’oscurità che abita spesso nelle sue canzoni, benché la forma sonora prescelta sia quella di una ballata soffusa e quasi carezzevole, sempre grazie all’uso essenziale della voce elegante di Jaimee Harris, mente le schegge di luce presenti appunto in Sliver Of Light cercano di squarciare queste tenebre che abitano le sue composizioni, in questo caso una sorta di ode alla vita “on the road” da un concerto all’altro, in cui la musica cerca di animarsi più del solito a tempo moderato di blues-rock e un principio di ritornello con coretto, ma si torna subito alle “allegre” vicende di Bottom Of The Musquash River che narra del rimpianto, del lutto, di un uomo per la propria amante trovata annegata in fondo al  fiume, una ballata intensa e accorata che ricorda nuovamente il songbook della Williams, comunque molto bella, con Spinnin Planet Blues dove le 12 battute sono classiche come raramente accade nei suoi brani e sul tappeto dell’organo di Young Gurf Morlix si concede un lungo assolo ricco di feeling https://www.youtube.com/watch?v=fW_gMrK3EpQ .

I Saw You narra di un cuore spezzato e geloso con la partecipazione distaccata ma sentita tipica dei personaggi delle canzoni del nostro, che poi ci congeda con un brano scritto in ricordo di un vecchio amico (come aveva già fatto in passato per Blaze Foley), il batterista ed amico d’infanzia a Buffalo Michael Bannister, un pezzo quasi elegiaco e trasognato che mi ha ricordato certe ballate agrodolci del compianto Calvin Russell, dove risaltano nuovamente la voce flessuosa di Jaimee Harris e le languide mosse dell’organo di Young, per uno splendido brano che conclude degnamente questo ennesimo riuscito lavoro di Morlix. Un altro bel disco quindi, anche se fa sempre parte della serie “ah, trovarlo”, senza svenarsi.

Bruno Conti

Meno Peggio Del Previsto, Anzi! Eric Church – Desperate Man

eric church desperate man

Eric Church – Desperate Man – EMI Nashville CD

Eric Church non è di certo il mio countryman preferito, anzi non si avvicina neppure alle zone di medio-alta classifica, ma devo riconoscere che nel variegato panorama musicale americano ha saputo, fin dal suo debutto Sinners Like Me del 2006, ritagliarsi una fetta piuttosto grossa di popolarità, il tutto senza ricorrere a sonorità becere come fanno ad esempio Keith Urban e Jason Aldean. Certo, la sua musica non arriverà forse mai a livelli per i quali noi del Blog ci strapperemmo i capelli (almeno chi li ha ancora), ma se non altro i suoi CD si lasciano ascoltare senza far venire voglia di spegnere il lettore dopo tre canzoni https://discoclub.myblog.it/2017/07/21/lui-non-mi-fa-impazzire-ma-stavolta-non-e-malaccio-eric-church-mr-misunderstood-on-the-rocks/ . Desperate Man, il suo nuovo lavoro (il sesto in assoluto), conferma la tendenza di Eric di fare musica abbastanza gradevole, pur mantenendo un’aura di commercialità che lo allontana non poco dagli appassionati di vero country: d’altronde il suo produttore è Jay Joyce, molto noto a Nashville, uno che sa anche produrre artisti di qualità (Emmylou Harris, The Wallflowers, Brandy Clark, Patty Griffin), ma spesso ha la mano pesante e non va tanto per il sottile.

Comunque Church è un uomo del Sud (e nato infatti in North Carolina) nonché un amante del movimento Outlaw degli anni settanta, e quindi la sua musica ha una decisa componente rock, poco presente peraltro in Desperate Man: infatti questa ultima fatica di Eric si rivela essere un disco composto prevalentemente da ballate, anche se lo zucchero stratificato tipico di Nashville è fortunatamente tenuto a bada, e la durata limitata dell’album, 36 minuti, evita che la noia possa affiorare. Il CD in realtà si apre con Tha Snake, un brano di pura swamp music: un lungo arpeggio di chitarra acustica introduce la canzone, poi dopo un minuto il ritmo sale e ci troviamo immersi in un’atmosfera tesa ed inquietante, con un suono paludoso, cupo e profondamente annerito, chiaramente ispirato da uno come Tony Joe White. Un pezzo niente male. Hangin’ Around è molto meno scura, ma è anche la meno riuscita del disco: ritmica scattante e nervosa, una chitarrina funkeggiante ed uno stile un po’ confuso (ma non esattamente country), ed Eric che canta con una strana voce stridula, un deciso downgrade rispetto al brano iniziale; Heart Like A Wheel è una ballata elettrica dal sapore southern soul, abbastanza riuscita sia per il refrain che per l’uso delle voci femminili, anche se la sezione ritmica sembra faticare non poco a “trovare” la canzone.

Anche Some Of It è uno slow, più nello stile country-pop del nostro, ma è suonato con gli strumenti giusti e non sfigura, così come la tenue e gentile Monsters, che non è originalissima ma se non altro ha una buona melodia di fondo e si lascia ascoltare con piacere, mentre con Hippie Radio restiamo in tema di ballate, per un brano elettroacustico prodotto in maniera intelligente, ben suonato e con Church che canta con misura. Higher Wire ha ancora il passo lento ma è più rock, anche se Eric le costruisce intorno un arrangiamento discutibile, meglio la title track (scritta con Ray Wylie Hubbard), che sembra ispirata dai Rolling Stones, con le dovute proporzioni ovviamente, e ha un tiro discreto (peccato per il coretto idiota); Solid, che invece è composta insieme ad Anders Osborne, è uno slow disteso e con un bell’intro di chitarra quasi pinkfloydiano (!), ma poi il brano cambia registro quasi subito per diventare un country-rock ancora con diversi debiti verso il sound della Louisiana. Il CD si chiude con Jukebox And A Bar, gradevole country ballad (forse la più country del disco), e con Drowning Man, solido pezzo elettrico di nuovo con agganci al suono del Sud.

Un album di livello più che accettabile questo di Eric Church, non scevro da imperfezioni ed al quale un po’ più di brio avrebbe sicuramente giovato, ma di certo non quella ciofeca che sarebbe stato legittimo paventare.

Marco Verdi

La Louisiana Da Oggi E’ Un Po’ Più Povera: A 75 Anni Si E’ Spento Anche Tony Joe White.

tony joe white death

Quando di recente ho recensito per questo blog il (bel) disco nuovo di Tony Joe White, Bad Mouthin’ https://discoclub.myblog.it/2018/10/11/bluesmen-a-tempo-determinato-parte-2-tony-joe-white-bad-mouthin/ , non avrei mai pensato di avere per le mani il suo canto del cigno, e men che meno in tempi così brevi. Nato nel 1943 ad Oak Grove, in Louisiana, Tony si è spento due giorni fa, il 24 Ottobre (a Nashville) per un attacco cardiaco, andandosene con discrezione ed in punta di piedi, esattamente nello stesso modo in cui aveva vissuto e fatto musica per tutta la sua esistenza. Dopo essersi esibito in gioventù in vari club tra Louisiana e Texas, White esordisce nel 1969 per la Monument con l’album Black And White, continuando ad incidere con regolarità per tutti gli anni settanta e diradando notevolmente la produzione negli ottanta. Titolare di un sound tra rock, blues e swamp, di un’abilità chitarristica non comune e di uno stile decisamente “laidback”, Tony non ha mai ottenuto un grandissimo successo, ma è stato uno dei maggiori artisti di culto in circolazione, attirando la stima di molti colleghi anche più blasonati di lui, come Carl Perkins, Eric Clapton e Joe Cocker.

Tra l’altro i suoi brani più noti lo sono diventati grazie ad interpretazioni di altri artisti, a partire da Polk Salad Annie, un classico per Elvis Presley nei primi anni settanta, passando per Rainy Night In Georgia, che fu una hit per Brook Benton e fu incisa anche da Ray Charles, Tennessee Ernie Ford e Johnny Rivers, per finire con Tina Turner che negli anni ottanta avrà un successo planetario con Steamy Windows. Nel 1991 Tony torna agli antichi fasti artistici con l’eccellente Closer To The Truth, disco che lo riporterà prepotentemente sulle scene, dove resterà con regolarità fino appunto al recente Bad Mouthin’, nel quale finalmente il nostro è riuscito a pubblicare un disco di puro blues alla John Lee Hooker (uno dei suoi idoli di gioventù). Alcuni album del nostro a mio giudizio da avere, almeno tra quelli più recenti, sono Snakey (2002), The Heroines (2004, un CD di duetti con voci femminili, tra cui Emmylou Harris, Lucinda Williams, Jessi Colter e Shelby Lynne), Hoodoo (2013) e Rain Crow (2016) https://discoclub.myblog.it/2016/07/05/sempre-la-solita-zuppa-si-ottimo-saporito-gumbo-tony-joe-white-rain-crow/ , tutti ottimi lavori all’insegna del suo tipico swamp-rock, un vero marchio di fabbrica.

Ora mi immagino Elvis (o Johnny Cash) intonare da lassù per l’ennesima volta Polk Salad Annie, ma questa volta avrà l’onore di avere il suo autore ad accompagnarlo alla chitarra.

Marco Verdi

*NDB

tony joe white that on the road look Live

Vorrei aggiungere anch’io qualche pensiero in libertà sulla scomparsa di Tony Joe White. Questo che leggete sotto è un Post che gli ho dedicato otto anni fa, in occasione della pubblicazione di That On The Road Look “Live”, e serve anche da riepilogo, insieme soprattutto ai video che trovate sparsi in tutto l’articolo, della sua personalità di incredibile performer.

Tony Joe White – That On The Road Look “Live” – Rhino Handmade

Questo signore è stato un altro dei “Grandi Vecchi” (era del 1943) della canzone americana. Uno degli inventori dello swamp rock o swamp music che dir si voglia, la sua musica si potrebbe sintetizzare come “Country got soul, soul got blues, blues got swamp” che è un po’ lungo ma efficace. Se siete amanti di quelle musiche che si nutrono da varie “radici” della musica americana, Tony Joe White è sicuramente un numero uno in questo stile: in possesso di una voce profonda e risonante, quasi glabra (pensate a Chris Rea senza quella patina di orecchiabilità o al grandissimo cantautore Greg Brown in un ambito più country-folk, per chi non lo conosce già, ovviamente!), grande chitarrista sia all’elettrica come all’acustica e compositore di spicco con una lunga carriera alle spalle e un futuro davanti. Il 28 settembre esce anche il suo nuovo album The Shine (su etichetta Swamp Records, giustamente) che si spera proseguirà l’ottima serie di dischi degli anni 2000, dove brillano The Heroines del 2004 (un disco di duetti con voci femminili, Jessi Colter, Shelby Lynne, Emmylou Harris, Lucinda Williams) e Uncovered del 2008 (con Mark Knopfler, Eric Clapton, JJ Cale e Michael McDonald).

La Rhino records gli aveva già dedicato un cofanetto quadruplo intitolato Swamp Music – The Complete Monument Years dedicato al periodo 1968-1970, qui siamo in un imprecisato mese e giorno del 1971, in una imprecisata località del globo terracqueo, Tony Joe White azzarda che possa trattarsi della Royal Albert Hall di Londra come gruppo di apertura dei Creedence Clearwater Revival. E questo disco è “The Real Deal” in tutti i sensi: il vero articolo, perché White era un nativo originale della Louisiana e come scherzando (ma non troppo) ricordava al suo “rivale” – Vedi Fogerty, non ci sono alligatori a Berkeley, California – prima di cercare di cancellarlo dal palco con la sua formidabile band. Perché in effetti ogni serata era una vera battaglia tra due dei migliori gruppi live di quel periodo: nel gruppo di Tony Joe White c’erano l’ottimo batterista Sammy Creason, il grande tastierista Michael Utley e il maestro Donald “Duck” Dunn, il fantastico bassista di Booker T & The MG’s, futuro Blues Brothers e collaboratore di Clapton. Una formazione che era una vera forza della natura ma il vero protagonista rimaneva sempre il vocione incredibile di White (e le sue basette che rivaleggiavano all’epoca con quelle di Fogerty e Presley).

Si capisce subito che la serata è di quelle da ricordare, l’apertura è affidata al groove irresistibile di Roosevelt and Ira Lee, con la sezione ritmica subito a mille, l’organo di Utley che colorisce il suono, l’armonica che dà il via alle operazioni e la chitarra di Tony Joe White che comincia ad estrarre il blues dalle sue corde prima di innestare un wah-wah micidiale (whomper stomper come lo chiama il nostro amico) e partire verso i paradisi del rock. Another Night in The Life Of A Swamp Fox sono altri sei minuti e mezzo di swamp rock non adulterato a tutta birra, con chitarra e organo in overdrive, mentre la batteria picchia di gusto e Duck Dunn pompa sul suo basso come pochi altri saprebbero fare, anche qui siamo al livello dei migliori Creedence, veramente una bella lotta, ma questi musicisti sono anche superiori tecnicamente, certo Fogerty aveva dalla sua una miriade di brani di livello memorabile e indimenticabili. A questo punto White introduce una delle sue grandi composizioni, Rainy Night In Georgia (scritta nel 1962, era stata un successo incredibile nel 1970 per Brook Benton, vendendo un milione di copie) una fantastica soul ballad a livello delle migliori cose scritte dai grandi della black music, qui interpretata con grandissima raffinatezza, non vola un mosca in sala, tutti ascoltano rapiti dalla bellezza della musica.

A questo punto parte l’intermezzo acustico introdotto da una stupenda Mississippi River, con la voce che scende, scende, scende verso tonalità caldissime, quasi alla Elvis. Lustful Carl And The Married Woman è una lussuriosa swamp song acustica che non perde nulla del suo fascino anche in versione acustica. Willie And Laura Mae Jones è un’altro dei suoi grandi cavalli di battaglia, anche in questa versione, solo voce, chitarra acustica e armonica non perde un briciolo del suo fascino. Finita la parte acustica riparte la festa con una trascinante Back To The Country, con Utley che passa al piano per un brano quasi rockabilly, dove il basso di Dunn duetta con la chitarra di Tony Joe White a velocità veramente supersoniche, prodigioso. Travellin’ Bone concede un attimo di respiro al pubblico con un altro intermezzo acustico, poi il concerto si avventura in lidi Blues con una bellissima versione di Stormy Monday piegata ai voleri sonori di questo grande musicista. My Kind Of Woman è un altro di quei brani che potrebbero figurare indifferentemente nel repertorio di White o dei Creedence, qui riaccende il wah-wah per un altro fantastico viaggio  nelle “Paludi”. Polk Salad Annie era stato il suo più grande successo (al n°8 nel 1969) e poi sarebbe diventato uno dei capisaldi della rinascita di Elvis apparendo sia in That’s The Way It Is che in On Stage come pure nel concerto del Madison Square Garden ma questa versione di Tony Joe White è insuperabile, oltre 10 minuti di pura libidine sonora con i musicisti che distillano l’essenza della grande musica dal vivo in questo brano dall’andatura ondeggiante tra boogie, country, soul e qualsiasi genere vi venga in mente, non si può resistere al crescendo strumentale nella parte centrale quando i musicisti iniziano ad improvvisare con una veemenza inusitata, in due parole, grandissima musica.

Si poteva anche terminare qui ma manca la coda affidata alla bella country-folk ballad che dà il titolo a questo album, That On The Road Look che non avrebbe sfigurato nel repertorio di Willie Nelson o Townes Van Zandt, bellissima. Così, detto per inciso, perché magari la conoscete, anche quella Steamy Windows che avrebbe contribuito al rilancio di Tina Turner ad inizio anni ’80 l’ha scritta lui! Si fa un po’ fatica a trovarlo (per usare un eufemismo) visto che è della Rhino Handmade ma è una delle Pietre di Rosetta per capire la musica di quegli anni. Eccolo, con le sue basette e con Johnny Cash, e guardate come si divertivano.

Bruno Conti

Bluesmen A Tempo Determinato. Parte 2: Tony Joe White – Bad Mouthin’

tony joe white bad mouthin' 28-9

Tony Joe White – Bad Mouthin’ – Yep Roc CD

Tony Joe White, noto cantautore e musicista originario della Louisiana e tra i massimi esponenti del cosiddetto swamp-rock, è uno di quelli che, se proprio non fa sempre lo stesso disco, di sicuro non abbandona mai del tutto il suo stile https://discoclub.myblog.it/2016/07/05/sempre-la-solita-zuppa-si-ottimo-saporito-gumbo-tony-joe-white-rain-crow/ . Quando però la qualità è sempre medio-alta questo fatto può essere indubbiamente positivo, dato che comunque stiamo parlando di uno che raramente tradisce. Nel corso di una lunga carriera iniziata alla fine degli anni sessanta, White ha inciso più di venti album di studio, dischi a cavallo tra rock e blues, ritagliandosi il ruolo di musicista di culto e creando uno stile “laidback” molto riconoscibile, che lo ha sempre fatto sembrare una sorta di J.J. Cale più paludoso https://discoclub.myblog.it/2010/09/20/lampi-dal-passato-tony-joe-white-that-on-the-road-look-live/ . Ho detto del blues, un genere che nella sua musica è sempre stato un elemento fondamentale, anche se fino ad oggi Tony un disco di solo blues non lo aveva mai registrato. Ebbene, con Bad Mouthin’ White ha fatto il suo primo “blues-based album”, ed alla bella età di 75 anni: un po’ come Billy Gibbons con The Big Bad Blues (di cui mi sono occupato nella prima parte di questo doppio post), ma a differenza del leader degli ZZ Top, che ha optato per sonorità vigorose e molto rock, Tony ha fatto un disco nel suo stile abituale, in maniera totalmente rilassata ed operando quasi per sottrazione.

Anche il gruppo che lo accompagna è ridotto all’osso: infatti, oltre alla chitarra ed armonica di Tony, abbiamo soltanto la sezione ritmica formata da Steve Forrest (basso) e Bryan Owings (batteria), ed anche la produzione di Jody White (suo figlio) è scarna ed essenziale. Ma Tony è questo, non cambia nemmeno se gli sparate, ma alla fine Bad Mouthin’ si lascia ascoltare tutto d’un fiato e ci consegna un musicista in ottima forma, oltre che pienamente credibile anche come bluesman. Il disco, dodici canzoni, si divide a metà tra cover e brani originali, alcuni dei quali sono stati scritti in gioventù da White e poi lasciati in un cassetto, ma suonano freschi come se fossero stati composti la settimana scorsa. Il CD inizia benissimo con la title track, un blues all’apparenza canonico che però viene nobilitato dalla performance del nostro, al solito rilassata (a volte sembra che si sia appena svegliato), ma puntuale e precisa negli spunti chitarristici e di armonica, un pezzo che ha molto in comune con il già citato J.J. Cale, altro maestro dello “scazzo” messo in musica. Baby Please Don’t Go, di Joseph Lee Williams e resa popolare dai Them, è molto diversa da quella di Van Morrison e soci, in quanto vede Tony in perfetta solitudine, solo voce, armonica e chitarra acustica, per uno stripped-down blues di notevole intensità, e lo stesso arrangiamento è riservato anche alla sua Cool Town Woman, che sembra la prosecuzione della precedente, con forse una partecipazione leggermente maggiore da parte del nostro.

Ecco due splendide cover di due classici assoluti: Boom Boom di John Lee Hooker è elettrica, cadenzata e più rallentata rispetto all’originale, ed assume un’aria quasi minacciosa (lo stile di White in questo disco è simile a quello dei primi dischi del grande Hook), e Big Boss Man di Jimmy Reed, ancora acustica ed essenziale (con questo tipo di approccio Tony potrebbe registrare un album al giorno). Poi abbiamo tre pezzi originali in fila: la strascicata Sundown Blues, elettrica ma suonata in maniera pacata e suadente, con gli ottimi fraseggi tipici del nostro, l’ironica Rich Woman Blues, di nuovo con Tony in “splendid isolation”, ed il breve strumentale Bad Dreams, che confluisce nella Awfyìul Dreams di Lightnin’ Hopkins, sempre con andatura sonnolenta e con la sezione ritmica che sembra registrata nella stanza accanto, ma in cui il feeling non è di certo estraneo. Down The Dirt Road Blues, un vecchio classico di Charley Patton, aumenta decisamente il ritmo, anche se White non è che si faccia prendere dalla frenesia (ma non sarebbe lui se lo facesse), Stockholm Blues è ancora un’oasi acustica, un blues piuttosto canonico che però Tony riesce a rendere non banale; finale sempre unplugged con Hearbreak Hotel, proprio l’evergreen di Elvis Presley (che nei primi anni settanta aveva inciso Polk Salad Annie di Tony), una canzone famosissima che il nostro reinventa da capo a piedi, trasformandola in un oscuro blues paludoso.

Bad Mouthin’ è quindi l’ennesimo disco riuscito della carriera di Tony Joe White, un omaggio al blues fatto con cuore e feeling, pur senza rinunciare al consueto approccio “rallentato”.

Marco Verdi

Vero Rockin’ Country, Molto Rockin’ E Poco Country! Jesse Dayton – The Outsider

jesse dayton the outsider

Jesse Dayton – The Outsider – Blue Elan CD

Jesse Dayton, texano di Beaumont, ha scelto un titolo perfetto per il suo nuovo CD. Stiamo parlando infatti di un musicista che ha iniziato ad incidere album a suo nome ben più di vent’anni fa, nel 1995, senza mai riuscire a far parlare di sé. Anzi, essendo un ottimo chitarrista, si è guadagnato da vivere più come axeman che come musicista in proprio: il suo curriculum comprende una lunga serie di artisti country e non, tra i quali John Doe ed i suoi X, i Supersuckers, ma soprattutto tre quarti degli Highwaymen, cioè Johnny Cash, Waylon Jennings e Kris Kristofferson, con i quali è talvolta andato anche in tour. Il disco che lo ha riportato alle cronache è stato The Revealer, uno degli album di rockin’ country più interessanti usciti nel 2016, pubblicato dopo diversi anni di silenzio, e che ci ha fatto conoscere un countryman dal pelo decisamente duro, che a violini e banjo preferisce nettamente le chitarre elettriche e sezioni ritmiche che pestano secco https://discoclub.myblog.it/2016/11/05/divertimento-purocosa-volete-piu-jesse-dayton-the-revealer/ .

Ora abbiamo tra le mani il seguito di quel lavoro, The Outsider, che dimostra che Jesse non è il tipo che si siede sugli allori e ripropone lo stesso disco all’infinito: infatti ci troviamo di fronte ad una serie di brani ancora più rock che in The Revealer, con le chitarre che arrotano che è un piacere, ed il nostro che ci mette tutta la grinta che ha in corpo, centrando ancora una volta il bersaglio, grazie anche ad una solida band che non va tanto per il sottile. Certo, il country non manca di certo, ma anch’esso viene suonato con il piglio del vero rocker. L’album inizia in maniera potente con May Have To Do It, un rock-blues grintoso e chitarristico, dal ritmo acceso e con un paio di assoli che di country hanno molto poco. Decisamente “cattiva” anche Jailhouse Religion, ritmica pulsante ed un’atmosfera paludosa ed annerita, come se Tony Joe White si fosse fatto un giro in Texas, ed anche qui non manca un’ottima prova del nostro con la chitarra (slide); con Changin’ My Ways iniziamo a sentire un po’ di country, una ballatona solida e comunque elettrica e vibrante, quasi come se a suonarla ci fosse un gruppo southern.

Hurtin’ Behind è pressante, roccata, vigorosa, con altri assoli lancinanti buttati lì con nonchalance, We Lost It è uno slow sontuoso, figlio delle sonorità degli outlaws degli anni settanta (soprattutto Waylon, ed anche qualcosa di Merle Haggard, che era un fuorilegge onorario), mentre Tried To Quit (But I Just Quit Tryin’) è un trascinante pezzo ad alto tasso elettrico, a metà tra rock’n’roll e honky-tonk texano, davvero irresistibile. L’elettroacustica Charlottesville è invece puro country, ancora dal ritmo elevato ed un sapore quasi bluegrass, anche se suonato alla maniera di un rocker, ed ancora ottimi interventi solisti (qui acustici), Belly Of The Beast rimanda invece a Cash, con tanto di ritmica boom-chicka-boom, mentre Burnin’ concede un momento di relax, un gustoso folk-blues acustico che sa di Mississippi. Il CD si chiude con la limpida Killer On The Lamb, un brano country & western dall’incedere epico e con un motivo di sicuro impatto, uno dei migliori del lavoro.

Sembra che Jesse Dayton sia tornato stabilmente tra noi, e pare con discreti risultati di critica e pubblico, anche perché su quelli artistici non avevo molti dubbi: per gli amanti del country-rock più elettrico, quelli per cui Nashville è soltanto la capitale del Tennessee.

Marco Verdi

Anticipazioni Della Settimana (Ferr)Agostana, Prossime Uscite Di Settembre: Parte V. Rod Stewart, Ian Gillan, Amy Helm, Tony Joe White, Muscle Shoals, Linda Thompson, Joe Strummer, Chuck Leavell.

rod stewart blood red roses 28-9

Quinta ed ultima parte dedicata alle novità di settembre, queste sono le uscite previste per il 28. Iniziamo con Rod Stewart che dopo il discreto https://discoclub.myblog.it/2015/11/02/tutta-la-buona-volonta-riesco-stroncarlo-rod-stewart-another-country/, pubblica il 30° album della sua carriera, ovvero Blood Red Roses, etichetta Republic/Decca, quindi sempre gruppo Universal, come il precedente che però era su Capitol. Il nostro amico Rod The Mod lo presenta come uno dei più caldi ed intimi della sua carriera (e ci mancherebbe): l’album contiene 13 nuove composizioni dell’artista nativo di Londra ma scozzese per elezione, nella versione standard, mentre nell’edizione Deluxe, singola (benché costerà come un doppio) altre 3 bonus tracks, tutte cover, per un totale di 16 brani. Si sa che il disco è stato co-prodotto dallo stesso Stewart e dal suo vecchio amico e collaboratore Kevin Savigar, con lui, sia pure non continuativamente, dalla fine degli anni ’70.

Non azzardo previsioni sulla qualità dei brani dell’album, mi limito a pubblicare la lista completa dei pezzi e il primo singolo estratto dal disco, Didn’t I, che trovate qui sopra, testo interessante ed intenso, canzone piacevole, ma niente per cui strapparsi i capelli e in cui la voce duettante è di tale Bridget Cady, di cui ignoravo l’esistenza. Delle tre cover presenti come bonus nella Deluxe edition, una, Who Designed The Snowflake è firmata da Paddy McAloon dei Prefab Sprout, It Was A Very Good Year è uno standard americano reso celebre da Frank Sinatra negli anni ’60 e I Don’t Want To Get Married dovrebbe sempre venire da quel periodo, ma ne esiste anche una scritta da Irving Berling, al momento non so dirvi di quale si tratti .

1. Look In Her Eyes
2. Hole In My Heart
3. Farewell
4. Didn’t I
5. Blood Red Roses
6. Grace
7. Give Me Love
8. Rest Of My Life
9. Rollin’ & Tumblin’
10. Julia
11. Honey Gold
12. Vegas Shuffle
13. Cold Old London
Deluxe Edition Bonus Tracks:
14. Who Designed The Snowflake (Paddy McAloon penned)
15. It Was A Very Good Year
16. I Don’t Want To Get Married

ian gillan and the javelins 28-9 ian gillan and the javelins open cd 28-9

Per quanto possa sembrare incredibile questa è la stessa band con cui Ian Gillan suonava e cantava cover più di 50 anni fa, agli inizi degli anni ’60, prima degli Epsode Six e ovviamente dei Deep Purple: si trattava di una band semiprofessionale, i Javelins (e tale sarebbe rimasta anche oggi, nelle parole dello stesso Gillan) che suonava nei locali nei dintorni di Londra e chi è sciolta già nel 1964. Il repertorio è quello pop, blues, soul e R&R dell’epoca, come si evince dal primo video che farebbe la gioia di Springsteen.

E dalla tracklist del CD, che verrà pubblicato dalla EarMusic il 28 settembre.

 1. Do You Love Me
2. Dream Baby (How Long Must I Dream)
3. Memphis, Tennessee
4. Little Egypt (Ying-Yang)
5. High School Confidential
6. It’s So Easy!
7. Save The Last Dance For Me
8. Rock and Roll Music
9. Chains
10. Another Saturday Night
11. You’re Gonna Ruin Me Baby
12. Smokestack Lightnin’
13. Hallelujah I Love Her So
14. Heartbeat
15. What I’d Say
16. Mona (I Need You Baby)

amy helm this too shall light 28-9

Al sottoscritto il precedente disco di Amy Helm era piaciuto moltissimo https://discoclub.myblog.it/2015/08/02/degna-figlia-tanto-padre-amy-helm-didnt-it-rain/. Questo nuovo si annuncia addirittura superiore dalla prime notizie che filtrano sul CD: d’altronde dalla figlia di Levon Helm e componente degli Ollabelle non mi aspetterei di meno. Registrato agli United Recording Studios di Los Angeles, quello dove i Beach Boys hanno registrato Pet Sounds, con la produzione di Joe Henry, che ha firmato anche alcuni nuovi brani con la stessa Amy, il disco pesca anche dal repertorio di Rod Stewart, T. Bone Burnett, Allen Toussaint, Robbie Robertson e dei Milk Carton Kids, ma contiene anche composizioni di MC Taylor ovvero Hiss Golden Messenger, Ted Pecchio dei Chris Robinson Brotherhood e della Tedeschi Trucks Band, oltre ad una rilettura del traditional Gloryland che il babbo Levon Helm aveva insegnato alla figlia.

La nuova etichetta per questo secondo disco solista della Helm This Too Shall Light è la Yep Rock, mentre la lista completa dei brani la trovate sotto, insieme ad un paio di estratti che confermano la bontà del disco.

1. This Too Shall Light
2. Odetta
3. Michigan
4. Freedom For The Stallion
5. Mandolin Wind
6. Long Daddy Green
7. The Stones I Throw
8. Heaven’s Holding Me
9. River Of Love
10. Gloryland

muscle shoals small town big sound 28-9

A proposito di studi di registrazione storici, sempre a fine settembre, su etichetta BMG, è in uscita anche questo Muscle Shoals Small Town Big Sound, che non è una compilation ma un nuovo disco tributo a quegli studios, ai grande musicisti che vi suonarono e ad alcune delle grandi canzoni che ne hanno fatto la storia.

Tutte nuove registrazioni, anche se non è ancora disponibile la lista completa dei musicisti che partecipano, tra quelli già noti alcuni sono interessanti, altri decisamente meno: Chris Stapleton, Willie Nelson, Lee Ann Womack, Jamey Johnson, Steven Tyler, Keb’ Mo’, Grace Potter, ma anche Demi Lovato e Aloe Blacc. Vedremo e soprattutto sentiremo.

1. Road of Love
2. I’d Rather Go Blind
3. Brown Sugar
4. Gotta Serve Somebody
5. I Never Loved A Man (The Way I Love You)
6. Snatching It Back
7. I’ll Take You There
8. Cry Like A Rainy Day
9. True Love
10. Come And Go Blues
11. Respect Yourself
12. Wild Horses
13. Mustang Sally
14. We’ve Got Tonight
15. Givin’ It Up For Your Love

tony joe white bad mouthin' 28-9

Sempre dal profondo Sud degli States, lui è della Louisiana, anche se tutti pensano venga dalla Georgia, arriva un nuovo album anche per Tony Joe White. Il nuovo disco, puree questo pubblicato dalla Yep Rock, è un misto di brani originali di White, cinque, che erano rimasti a lungo nel cassetto e da una serie di cover di blues dal repertorio di grandi artisti, tra gli altri Lightnin’ Hopkins, Muddy Waters, John Lee Hooker; quindi per l’occasione il classico swamp-rock del nostro si immerge profondamente nel blues. Voce sempre più vissuta e il classico sound indolente e pungente della chitarra di TJW, con qualche tocco aggiunto di armonica.

1. Bad Mouthin’
2. Baby Please Don’t Go
3. Cool Town Woman
4. Boom Boom
5. Big Boss Man
6. Sundown Blues
7. Rich Woman Blues
8. Bad Dreams
9. Awful Dreams
10. Down the Dirt Road Blues
11. Stockholm Blues
12. Heartbreak Hotel

linda thompson my mother doesn't know 28-9

Questo, come lascia intendere il titolo, non è un disco nuovo della ex moglie di Richard, nonché una delle più belle voci della scena musicale britannica: Linda Thompson Presents My Mother Doesn’t Know I’m On The Stage è un album che celebra il music hall inglese, attraverso una serie di registrazioni che verranno pubblicate dalla Omnivore Records, etichetta specializzata abitualmente soprattutto in ristampe. Quindi si tratta di brani che ruotano attraverso questo stile particolare che la Thompson ha sempre molto amato: Materiale registrato con famiglia e ospiti al seguito nel maggio del 2005 al Lyric Hammersmith di Londra, dove la nostra amica appare solo in due brani e quindi indirizzato a collezionisti incalliti o amanti del genere, per cui occhio. Interessante, ma molto di nicchia, anche se alcuni dei nomi presenti sono legati alla tradizione del folk britannico: da Bob Davenport Cara Dillon, Sam Lakeman e Jools Holland, anche James Walbourne, marito di Kami Thompson, la figlia più giovane di Richard e Linda, con cui milita nei Rails e anche l’altro fratello Teddy Thompson appare nel CD, come pure Martha Wainwright e il grande attore Colin Firth.

Ecco la lista completa delle canzoni e relativi interpreti:

1. I Might Learn To Love Him Later On (Tra-La-La-La) featuring Linda Thompson
2. Beautiful Dreamer featuring Martha Wainwright
3. My Mother Doesn’t Know I’m On The Stage featuring Colin Firth
4. London Heart featuring James Walbourne
5. Good-Bye Dolly Gray featuring Linda Thompson
6. I Wish You Were Here Again featuring Bob Davenport
7. A Good Man Is Hard To Find featuring Justin Vivian Bond
8. Here Am I Broken Hearted featuring Teddy Thompson
9. If It Wasn’t For The ‘ouses In Between (or The Cockney’s Garden) featuring John Foreman
10. Burlington Bertie From Bow featuring Teddy Thompson
11. The Lark In The Clear Air featuring Cara Dillon
12. Wotcher! (Knocked ‘Em In The Old Kent Road) featuring Roy Hudd
13. Brother, Can You Spare A Dime? featuring Teddy Thompson
14. Show Me The Way To Go Home Ensemble

joe strummer 001 28-9 joe strummer 001 deluxe 28-9

A dicembre saranno passati 16 anni dalla morte di Joe Strummer, quindi l’uscita di questo Joe Strummer 001 non pare commemorare nessun evento particolare, semplicemente sarà pubblicato il 28 settembre per la Ignition Records e raccoglierà, nelle intenzioni della etichetta, materiale estratto dalla carriera di Joe al di fuori dei Clash; quindi brani dei 101ers, dei Mescaleros, dagli album solisti, dalle colonne sonore e un album di materiale inedito. Ovviamente ci saranno vari formati: quella in doppio CD standard, che comunque conterrà tutte le canzoni, quella in 2 CD Deluxe, (molto) più costosa per via della confezione, con lo stesso libro formato A4 della Super Deluxe, ma con solo una piccola parte dei memorabilia della versione da ricchi, che costerà indicativamente oltre i 100 euro, e al cui interno troveranno posto anche un libro rilegato, 3 album in vinile, un singolo 7 pollici con 2 demo inediti e una musicassetta contenente l’U.S. North” – Basement Demo, due lyric sheets, la riproduzione della patente di guida californiana di Strummer e altre chicche varie.

Comunque ecco la lista completa dei brani delle varie edizioni, che nel doppio CD raccolgono in ogni caso le stesse canzoni.

[CD1]
1. Letsagetabitarockin (2005 Remastered Version) – The 101ers
2. Keys To Your Heart (Version 2) [2005 Remastered Version] – The 101ers
3. Love Kills – Joe Strummer
4. Tennessee Rain – Joe Strummer
5. Trash City – Joe Strummer & The Latino Rockabilly War
6. 15th Brigade – Joe Strummer
7. Ride Your Donkey – Joe Strummer
8. Burning Lights – Joe Strummer
9. Afro-Cuban Be-Bop – The Astro-Physicians
10. Sandpaper Blues – Radar
11. Generations – Electric Dog House
12. It’s A Rockin’ World – Joe Strummer
13. Yalla Yalla – Joe Strummer & The Mescaleros
14. X-Ray Style – Joe Strummer & The Mescaleros
15. Johnny Appleseed – Joe Strummer & The Mescaleros
16. Minstrel Boy – Joe Strummer & The Mescaleros
17. Redemption Song – Johnny Cash & Joe Strummer
18. Over The Border – Jimmy Cliff & Joe Strummer
19. Coma Girl – Joe Strummer & The Mescaleros
20. Silver & Gold / Before I Grow Too Old – Joe Strummer & The Mescaleros

[CD2]
1. Letsagetabitarockin’ – Joe Strummer
2. Czechoslovak Song / Where is England – Strummer, Simonon & Howard
3. Pouring Rain (1984) – Strummer, Simonon & Howard
4. Blues On The River – Joe Strummer
5. Crying On 23rd – The Soothsayers
6. 2 Bullets – Pearl Harbour
7. When Pigs Fly – Joe Strummer
8. Pouring Rain (1993) – Joe Strummer
9. Rose Of Erin – Joe Strummer
10. The Cool Impossible – Joe Strummer
11. London Is Burning – Joe Strummer & The Mescaleros
12. U.S.North – Joe Strummer & Mick Jones

[Seven-Inch Single]
1. This is England – 1984 July Demo – Previously Unreleased
2. Before We Go Forward – 1984 July Demo – Previously Unreleased

[Cassette: U.S. North Basement Demo]
1. Unreleased. Recorded 1986. Discovered in Joe’s cast cupboard.
2. Joe Strummer & Mick Jones: Vocals, Guitar, Drum Machine

chuck leavell chuck gets big 28-9

Ultima segnalazione scelta tra le tante uscite del mese di settembre (almeno quelle annunciate finora) è per il CD di Chuck Leavell With The Frankfurt Radio Big Band, già disponibile per il download digitale da giugno, verrò pubblicato su CD dalla BMG sempre il 28 settembre. Si tratta della registrazione di un concerto del 2011 tenuto in Germania, con una orchestra fiati, chitarra e sezione ritmica per un totale di 17 elementi sul palco: Chuck Gest Big rivisita il passato del grande tastierista americano andando a pescare nel repertorio di Allman Brothers, Sea Level Rolling Stones, oltre che dai suoi dischi solisti.

1. Route 66
2. King Grand
3. Losing Hand
4. Honky Tonk Woman
5. Living In A Dream
6. Blue Rose
7. Southbound
8. Tumbling Dice
9. Ashley
10. Statesboro Blues
11. Georgia On My Mind
12. Compared To What
Bonus Track:
13. Tomato Jam

Con questo è tutto, alla prossima.

Bruno Conti

Pillole Sempre Più “Robuste” Per La Cura Del Rock. Blues Pills – Lady In Gold – Live In Paris

blues pills lady in gold live in paris cd blues pills lady in gold live in paris cd+dvd

Blues Pills – Lady In Gold – Live In Paris – 2 CD 2CD+DVD Nuclear Blast/Warner

I Blues Pills sono in attività dal 2014: fino ad ora hanno pubblicato due album in studio, il primo omonimo e Lady In Gold dello scorso anno http://discoclub.myblog.it/2016/08/09/nuova-razione-pillole-rivigorenti-rock-blues-dal-nord-europa-blues-pills-lady-gold/ . Ma anche parecchi EP, e non dimentichiamo tutti i Live già usciti finora: questo Live In Paris viene presentato come primo disco dal vivo della band, ma allora il mini al Rockpalast di tre anni fa, il Blues Pills Live “limited” del 2015, la versione speciale del disco dello scorso anno che includeva anche un DVD Live In Berlin con 12 pezzi, e il mini Live At Deezer, sempre registrato a Parigi nel 2016 e in vendita sul loro sito, come li consideriamo? A questo punto Bonamassa diventa quasi un dilettante. Ok, questa volta i brani vertono principalmente sul repertorio tratto da Lady In Gold, il concerto è stato registrato al Trianon di Parigi il 30 ottobre dello scorso anno, ed esce sia come doppio CD che come CD/DVD, anche se dura comunque solo 75 minuti. Non avendo avuto il tempo di vedere il video, se non molto velocemente, questa recensione verterà sul supporto audio. Il quartetto svedese, così è stato deciso per la loro nazionalità, in effetti ruota soprattutto intorno alla personalità della frontwoman e cantante solista Elin Larsson, voce potente e carismatica, di chiara derivazione jopliniana, e l’avvenenza sicuramente non guasta, come molte sue controparti femminili in giro per il mondo, Beth Hart e Dana Fuchs, che però secondo me sono di un’altra categoria, e molto più eclettiche, o i No Sinner di Colleen Rennison,  etichettati, più o meno, come rock-blues, hard rock, rock psichedelico, quello piuttosto duro anziché no.

Il copione prevede anche un ottimo chitarrista, e loro ce l’hanno, nella figura del giovane francese Dorian Sorriaux, un buon bassista, l’unico americano rimasto in formazione Zach Anderson, co-autore dei brani con la Larsson, e un energico batterista, l’altro svedese André Kvarnström. Quindici brani in totale, con diverse fonti di “ispirazione” citate, oltre alla consueta Janis Joplin (ma direi che siamo siamo più dalle parti di Lynn Carey, detta Mama Lion, che aveva una voce della Madonna, e pochi la ricordano https://www.youtube.com/watch?v=oBEbc1rRteU ), Led Zeppelin, Free, Cream, i vecchi Fleetwood Mac di Peter Green, “coverizzati” in passato, Tony Joe White (di cui riprendono Element And Things a tutto wah-wah , come nell’ originale, che per quanto tirato era comunque un’altra cosa). E comunque i “baldi giovani” alla fine sono bravi, scrivono le loro canzoni, che per quanto derivative sono molto piacevoli, e dal vivo acquistano anche una verve maggiore: come si diceva, praticamente nove brani su dieci, compresa l’unica cover di TJW, vengono dal disco di studio.. La title track sprizza energia e potenza, con il quartetto ben spalleggiato anche da Rickard Nygren, tastierista e chitarrista aggiunto nei tour, lei Elin canta a pieni polmoni e Sorriaux inanella una bella serie di assoli, un sound che rimanda anche alle canadesi Heart, che quando erano in modalità rock non scherzavano.

Litte Boy Preacher è sempre piuttosto duretta, ma nella parte finale strumentale sempre con wah-wah a manetta si cerca di riprendere l’hard rock psych e progressivo delle band inglesi dei 70’s, Bad Talkers ha un riff tra Deep Purple e Thin Lizzy e non molla la presa e pure Won’t Go Back non rallenta i ritmi. Che invece nella successiva Black Smoke, uno dei loro cavalli di battaglia dal primo album, si stemperano per un attimo in una hard blues ballad, ma è un attimo, il ritmo cambia e accelera di continuo e la band tira sempre di brutto. E pure Bliss, uno dei brani contenuti nel primo EP del 2012, non concede requie agli ascoltatori, forse l’hard rock sta prendendo fin troppo il sopravvento nel sound del gruppo, le chitarre e la voce ruggiscono quasi di continuo. Little Sun, sempre dal primo album, illustra il loro lato più “gentile” e ricercato, una ballata in crescendo che gira attorno ad una melodia più composita, ma è un attimo, di Elements And Things, un’orgia wah-wah psichedelica con uso di organo, abbiamo detto; You Gotta Try è classico 70’s rock di buona fattura e anche la “riffatissima” High Class Woman dal primo album è potenza pura, mentre Ain’t No Change permette di gustare le eccellenti divagazioni solistiche del bravo Dorian Sorriaux e Devil Man è un altro dei brani portanti del 1° album, intenso e vigoroso, con il pubblico parigino in delirio. Il finale di concerto è affidato ad un trittico di brani tratti dal nuovo album: I Felt A Change, Rejection e Gone So Long, la prima una ballata solo voce e piano, che per una volta permette di apprezzare la voce “naturale” della Larsson, che poi si scatena con il resto del gruppo, soprattutto nell’antemica e dark Gone So Long. Un filo “esagerati”, ma gli estimatori apprezzeranno.

Bruno Conti