Se Volete Celebrare Ancora Il Natale (In Ritardo) Facendo Casino! Old 97’s – Love The Holidays

old 97's love the holidays

Old 97’s – Love The Holidays – ATO CD

I texani Old 97’s sono stati tra I pionieri del movimento alternative country degli anni novanta, insieme a band come gli Uncle Tupelo, i Jayhawks ed i Whiskeytown, e nel 2019 celebreranno i 25 anni di carriera: un quarto di secolo all’insegna di un country-rock di grande energia, con elementi punk ben presenti nel suono, ma anche con il ricorso spesso a sonorità più vicine al folk (infatti loro si autodefiniscono “loud folk”). In tutto questo tempo i nostri non hanno mai cambiato formazione, e sono ancora guidati dunque da Rhett Miller (che affianca a quella del gruppo una carriera da solista, e ha da pochissimo pubblicato il suo nuovo lavoro The Messenger https://discoclub.myblog.it/2019/01/22/senza-il-suo-abituale-gruppo-la-musica-cambia-la-qualita-no-rhett-miller-the-messenger/ ) insieme a Ken Bethea, chitarra solista, Murry Hammond al basso e Philip Peeples alla batteria. Il loro ultimo lavoro in studio, Graveyard Whistling, risale all’inizio del 2017, e sul finire del 2018 i quattro hanno deciso di celebrare il Natale pubblicando il loro primo album stagionale, Love The Holidays.

Ed il disco si rivela divertentissimo, puro Old 97’s sound: Miller e compagni mescolano abilmente brani della tradizione a canzoni nuove di zecca, il tutto suonato con la solita forza e grinta, ma anche con un gusto spiccato per le melodie immediate e fruibili. Un lavoro diverso dai soliti album natalizi, che per la sua peculiarità e freschezza trovo adatto ad essere ascoltato anche in altri periodi dell’anno. Il divertimento inizia subito con la title track, un brano ritmato e vigoroso tra rock, country ed errebi, con le chitarre ed una piccola sezione fiati che fanno a gara a chi ci mette più energia; I Believe In Santa Claus, se non fosse per la chitarra elettrica leggermente distorta e la sezione ritmica che pesta, sarebbe una languida ballata anni sessanta, ma sicuramente la preferisco con questo arrangiamento più rock. Deliziosa Gotta Love Being A Kid, rockin’ country a tutto ritmo e grinta, con un approccio degno dei Clash ma dalla melodia irresistibile. Snow Angels è più lenta ed attendista, ma alla maniera dei nostri (quindi sempre con brio), Christmas Is Coming è un coinvolgente e scintillante “punky-tonk” (ovvero un incrocio tra punk e honky-tonk), mentre Wintertime In The City è una ballatona quasi canonica, di buona fattura, che dimostra che i quattro sanno anche essere più accomodanti se vogliono (per contro, Rudolph Was Blue è uno scatenato rockabilly con chitarre in tiro e fiati ancora dietro la band).

Con Here It Is Christmastime i nostri ci propongono una squisita e toccante country ballad, anche se un po’ sgangherata come da loro stile, e con Hobo Christmas Song siamo in pieno honky-tonk elettrico, un pezzo saltellante e dal motivo vincente, con tanto di gorgheggi yodel. Auld Lang Syne è un traditional famosissimo (cantato più che altro a Capodanno), e la band lo rivolta come un calzino, rifacendolo in pura veste punk-rock, decisamente elettrica ma anche difficile da resistere; ancora più punk è la popolare Angels We Have Heard On High (sembrano i Ramones redivivi), mentre la nota God Rest Ye Merry Gentlemen è resa quasi irriconoscibile da un arrangiamento tra rock e surf music (con ottima prestazione chitarristica), con risultati comunque godibili. Il CD si chiude con altri due traditionals: in Up On The Housetop i nostri ricordano notevolmente i Pogues, con un pezzo tra rock e folk davvero coinvolgente, mentre la gentile Blue Christmas è decisamente più “natalizia”. Un disco quindi divertente e trascinante, in puro stile Old 97’s: Rockin’ Christmas at its best!

Marco Verdi

Uno Dei Migliori Tour Di Sempre, E Non Solo Del Boss! Bruce Springsteen & The E Street Band – Wembley Arena, June 5 1981

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Bruce Springsteen & The E Street Band – Wembley Arena, June 5 1981 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

E’ opinione comune che la parte europea del tour 1980-81 di Bruce Springsteen & The E Street Band sia uno dei punti più alti del nostro come live performer, se non addirittura il più alto: personalmente ritengo questa tournée superiore anche a quella magnifica del 1978, soprattutto perché all’interno dei suoi concerti trovano ampio spazio le canzoni di The River, che giudico il capolavoro assoluto del rocker di Freehold. Mi sono quindi fregato le mani quando ho visto che il nuovo volume degli archivi live del Boss era incentrato su una di quelle serate (*NDB Per la serie “c’ero anch’io”, ero presente al concerto dell’11 Maggio all’Hallenstadion di Zurigo e non posso che confermare https://www.youtube.com/watch?v=PKUhjWSjsKQ ), e precisamente quella del 5 Giugno 1981 alla Wembley Arena di Londra: è la terza uscita di questa serie dal tour di The River, ma le due precedenti erano tratte dalla tranche americana (Nassau e Tampa).

E le premesse sono state rispettate, in quanto ci troviamo di fronte ad un live formidabile, con performances davvero imperdibili di Bruce e dei suoi sei compari (all’epoca mancavano ancora sia Nils Lofgren che Patti Scialfa), uno show che alterna momenti di grandissimo rock’n’roll ad altri in cui i nostri ci commuovono con ballate struggenti, ed in più con una scaletta spettacolare. Lo show inizia in modo insolito, in quanto Born To Run di solito veniva (e viene ancora oggi) eseguita verso fine serata, eppure non solo il brano funziona anche in apertura, ma credo che questa sia una delle più belle, potenti ed accorate versioni che abbia mai sentito. Seguono a ruota una splendida Prove It All Night, con grande assolo chitarristico, e la trascinante Out In The Street, che ci fa entrare definitivamente nel vivo del concerto, oltre ad essere la prima tratta da The River. Da quello storico album Bruce ne suonerà altre undici, alternando rock’n’roll davvero scatenati come You Can Look (But You Better Not Touch), una ruspante Cadillac Ranch e la travolgente Ramrod, a toccanti ballad come la splendida title track e le emozionanti Independence Day e Point Blank.

Non mancano le cover, ben sette, tra cui Follow That Dream, un brano poco noto di Elvis Presley rifatto in maniera molto più lenta, un’irresistibile versione del classico I Fought The Law, che tiene presente la rilettura dei Clash, la stupenda Who’ll Stop The Rain dei Creedence (che è già una grandissima canzone di suo), una This Land Is Your Land solo voce e chitarra (elettrica), ricca di pathos, ed una gioiosa e coinvolgente Jole Blon (che proprio in quel periodo Bruce aveva inciso in duetto con Gary U.S. Bonds), puro E Street sound, impossibile restare fermi. C’è anche una rarissima esecuzione di Johnny Bye Bye, che non è il noto pezzo di Chuck Berry ma un brano originale di Bruce, una toccante ballata sullo stile di Factory, davvero bella. Ovviamente non mancano i classici, tutti eseguiti in maniera sensazionale, da Darkness On The Edge Of Town a The Promised Land, da Badlands a Thunder Road, passando per Because The Night e Rosalita. Il finale vede nell’ordine una monumentale Jungleland, solito strepitoso showcase per le magiche dita di Roy Bittan, una commovente Can’t Help Falling In Love (ancora Elvis) ed una conclusione a tutto rock’n’roll con uno dei Detroit Medley più devastanti che abbia mai ascoltato.

So di essere monotono nel definire imperdibili queste uscite, ma se questa serata londinese fosse uscita all’epoca sarebbe entrato di diritto tra i grandi live album della storia del rock.

Marco Verdi

Per Chi Avesse Voglia Di Un Po’ Di Sano Rock’n’Roll! Willie Nile – Children Of Paradise

willie nile children of paradise

Willie Nile – Children Of Paradise – River House CD

Willie Nile, al secolo Robert Noonan, da quando ha ripreso ad incidere con una certa costanza, non ha più mollato il colpo, tra dischi bellissimi (Streets Of New York, American Ride) e “solo” belli (House Of A Thousand Guitars, The Innocent Ones). Lo scorso anno Willie ci aveva deliziato con l’ottimo Positively Bob, in cui rileggeva alla sua maniera alcuni classici del suo idolo Bob Dylan https://discoclub.myblog.it/2017/06/30/e-dopo-bob-sinatra-ecco-a-voi-willie-dylan-comunque-un-grande-disco-willie-nile-positively-bob/ , ma il suo ultimo lavoro composto da brani originali era World War Willie del 2016, un buon album, molto spostato sul versante rock, che bilanciava il sorprendente If I Was A River di due anni prima, formato esclusivamente da ballate pianistiche. Ora Willie torna tra noi con un disco nuovo di zecca, Children Of Paradise, che si può tranquillamente inserire tra i suoi lavori più riusciti. Nile non cambia di una virgola il proprio suono, un rock’n’roll molto diretto e chitarristico, con occasionali intermezzi in cui sono le ballate a farla da padrone, ma in questo lavoro si nota subito una freschezza compositiva maggiore che in World War Willie, con addirittura un paio di canzoni che potrebbero entrare di diritto in qualsiasi “best of” del rocker di Buffalo. Willie ha fatto un gran lavoro anche per quanto riguarda i testi, che sono influenzati dalla difficile situazione politica ed economica degli Stati Uniti, con un pizzico di ecologia che non guasta mai, ed in alcuni casi i brani si esprimono anche in modo crudo e diretto.

Come la musica d’altronde, che vede il nostro accompagnato dagli abituali compagni di viaggio (Steuart Smith, chitarrista che è da anni nella live band degli Eagles al posto di Don Felder, Johnny Pisano al basso, Matt Hogan alle chitarre ritmiche, Jon Weber alla batteria ed Andy Burton all’organo, mentre Willie come di consueto si alterna a chitarre e pianoforte), con l’aggiunta dell’amico James Maddock ai cori. Per la verità il brano iniziale, Seeds Of A Revolution, non è nuovissimo, in quanto faceva parte dell’ormai introvabile EP del 1992 Hard Times In America, ma siccome il testo è ancora attuale Willie ha pensato bene di riproporlo: uno scintillante folk-rock di sapore byrdsiano, che rispetto alla versione originale ha un suono decisamente più solido e vigoroso, puro Nile al 100%. La saltellante All Dressed Up And No Place To Go è un altro tipo di canzone che nei dischi di Willie non manca mai, una classica rock song con un call & response voce-coro, una sorta di trascinante filastrocca rock’n’roll dal testo profondamente ironico; Don’t è un pezzo molto elettrico ed aggressivo (anche nelle liriche), il cui ritmo decisamente sostenuto e le sventagliate chitarristiche fanno pensare ai Ramones https://www.youtube.com/watch?v=41ECsxenuwE . Earth Blues prosegue all’insegna del rock, un brano duro e roccioso ma che manca di quell’immediatezza compositiva che viceversa trovavamo nei pezzi precedenti, anche se il gruppo arrota che è una meraviglia.

La title track è l’altra canzone non nuova del CD, in quanto era presente nell’ottimo Places I Have Never Been del 1991 (l’ultimo disco inciso da Willie per una major), ma qui ha un suono molto più diretto che in origine ed un refrain davvero immediato: la quintessenza del vero rock’n’roll. Ancora meglio Gettin’ Ugly Out There, un folk-rock elettroacustico dalla melodia contagiosa ed accompagnamento strumentale perfetto, per chi scrive tra le cose più belle proposte da Willie, almeno ultimamente: dopo un solo ascolto non riesco a smettere di canticchiare il ritornello https://www.youtube.com/watch?v=D_z2X26k_vw ; la roboante I Defy mostra che tra i gruppi preferiti dal nostro ci sono anche i Clash, mentre Have I Ever Told You è una ballata soffusa e tutta giocata su una tenue melodia, un’oasi gradita a questo punto del CD https://www.youtube.com/watch?v=OmWm1eewuow . Secret Weapon riporta l’album su territori elettrici, una rock ballad vigorosa ed ancora con un motivo diretto e fruibile, il marchio di fabbrica di Willie; Lookin’ For Someone è un brano scritto con lo scomparso Andrew Dorff, una delicato folk tune elettrificata, guidata da mandolino e chitarra elettrica, oltre che da un limpido pianoforte, altro brano da antologia. Finale per Rock’n’Roll Sister, un travolgente pezzo ad alto ritmo che mantiene ciò che promette nel titolo, e la toccante All God’s Children, una ballatona pianistica che non poteva mancare: bella e struggente, perfetta per chiudere con una nota malinconica l’ennesimo ottimo rock’n’roll album da parte di Willie Nile, un altro di quelli che non tradiscono mai.

Marco Verdi

Ecco Un “Piccolo” Cofanetto Fatto Come Si Deve! Ian Hunter – Stranded In Reality Parte I

ian hunter stranded in realityian hunter stranded in reality

*NDB. Come al solito quando Marco si lascia prendere la mano (ma per qualcosa che vale la pena) il contenuto del Post si allunga a dismisura, quindi dividiamo in due parti la recensione del cofanetto.

Ian Hunter – Stranded In Reality – Proper Box Set 28CD + 2DVD

Da sempre Ian Hunter è uno dei miei musicisti preferiti, in quanto per me rappresenta la quintessenza del cantante rock, con in più quel tocco dylaniano nel songwriting che non guasta (anzi): durante la sua lunga carriera, sia come frontman dei Mott The Hoople che da solista, ha mantenuto una qualità decisamente elevata, confermata circa due mesi fa dall’ottimo nuovo disco, Fingers Crossed. Per celebrare la parte solista del cammino discografico di Hunter, la Proper ha pubblicato (solo sul suo sito ed in una quantità limitata a 2.500 copie) questo Stranded In Reality, mastodontico box di ben 28 CD più due DVD, un’opera magnifica che ha il solo difetto di costare parecchio (250 sterline), ma che dimostra che quando si vuole è possibile gratificare i fans con prodotti di altissimo livello come questo. Infatti il box, oltre a comprendere tutti gli album solisti di Ian, sia quelli in studio (tranne l’ultimo, che è però appena uscito) sia i live ufficiali (e tutti in versione rimasterizzata ex novo, in confezione simil-LP e mantenendo tutte le bonus tracks delle varie edizioni deluxe uscite nel corso degli anni, ed ognuno con il suo bel booklet con testi e note), aggiunge ben nove CD quasi completamente inediti, tra brani in studio, outtakes, rarità assortite e canzoni dal vivo, e due DVD con performance varie ed anche in questo caso il più delle volte rare. In più, uno splendido libro con copertina dura e note di Ian stesso canzone per canzone, una rivista fittizia, intitolata Shades, che comprende recensioni ed articoli vari sul nostro pubblicati negli anni dalle più prestigiose testate inglesi, ed una foto autografata. Un cofanetto da leccarsi i baffi dunque, che vado a riepilogare per sommi capi, approfittandone anche per riassumere la carriera di un artista che secondo me andrebbe inserito nel novero dei grandi.

Ian Hunter (1975): il disco d’esordio di Ian è subito un classico. Con Mick Ronson come chitarra solista, partnership che proseguirà anche negli anni a seguire, Hunter ci regala un album che rappresenta alla perfezione la sua arte, a partire da Once Bitten, Twice Shy, un coinvolgente rock’n’roll ispirato da Chuck Berry, e che prosegue con la vigorosa Who Do You Love, la sontuosa Boy, una fantastica ballata di quasi nove minuti, l’acustica e toccante 3.000 Miles From Here, la solida The Truth, The Whole Truth, Nuthin’ But The Truth, con uno strepitoso assolo di Ronson, la vibrante e roccata I Get So Excited e, tra i bonus, le outtakes Colwater High e One Fine Day (entrambe con parti vocali incise nel 2005), che non avrebbero sfigurato sul disco originale.

All American Alien Boy (1976): registrato a New York con una superband (che vede Chris Stainton al piano, Jaco Pastorius al basso ed Aynsley Dunbar alla batteria, oltre a tre quarti dei Queen, cioè Freddie Mercury, Brian May e Roger Taylor ai cori nella ballad You Nearly Did Me In), questo è un altro grande disco, con più pezzi lenti rispetto all’esordio (ma Ian è un fuoriclasse anche nelle ballate), che si apre con la splendida Letter From Britannia To The Union Jack, una vera e propria missiva scritta con il cuore in mano da Ian al suo paese in profonda crisi, la scintillante title track, con gran lavoro di Pastorius, o la pianistica e bellissima Irene Wilde, una delle ballate più riuscite del nostro. Ma non sono da meno neanche Rape, dal sapore gospel, e la volutamente dylaniana God.

Overnight Angels (1977): un buon disco, molto più rock del precedente ma inferiore nel songwriting, un album poco considerato ma solido, con qualche buona canzone ed altre più normali. Golden Opportunity è un inizio potente e deciso come un pugno in faccia, ben bilanciato dalla pianistica Shallow Crystals, una rock ballad coi fiocchi. Ma la poco spontanea title track, un tentativo costruito a tavolino di scrivere una hit, non funziona, così come la pomposa Broadway; il resto si divide tra cose più riuscite ed altre meno (tra le prime la gradevole Miss Silver Dime e The Ballad Of Little Star, il miglior slow del disco), o veri e propri riempitivi come l’insulsa Wild’n’Free.

You’re Never Alone With A Schizofrenic (1979): al quarto disco Ian firma il suo capolavoro: con mezza E Street Band in session (Roy Bittan, Garry Tallent e Max Weinberg, più Ronson  di nuovo alla solista, l’ex Velvet Underground John Cale al piano in Bastard ed Eric Bloom dei Blue Oyster Cult ai cori) Schizofrenic è un grandissimo disco, quasi un greatest hits se si contano i futuri classici presenti. Grandi canzoni rock come Just Another Night, Cleveland Rocks, When The Daylight Comes (splendida) e Bastard, e superbe ballate come Ships, dal suono levigato, Standing In My Light e la straordinaria The Outsider, forse il più bel lento mai scritto dal nostro. Ma il disco brilla anche nei momenti meno noti, come il festoso errebi Wild East ed il boogie pianistico Life After Death; tra le bonus tracks, una Just Another Night più lenta ma altrettanto bella (con un grande Bittan) ed una scatenata versione del classico di Jerry Lee Lewis Whole Lotta Shakin’ Goin’ On.

Welcome To The Club (1979): la decade dei grandi dischi dal vivo si chiude con uno dei più belli, registrato al Roxy di Los Angeles, e che vede Hunter in forma strepitosa, ben coadiuvato da Ronson e da un gruppo che va come un treno. Dopo un inizio con la potente rilettura dello strumentale degli Shadows FBI, il doppio CD presenta versioni spiritate di classici di Ian solista ma anche dei Mott The Hoople (Angeline, poco conosciuta ma bellissima, All The Way From Memphis, I Wish I Was Your Mother, Walkin’ With A Mountain, il superclassico All The Young Dudes, One Of The Boys e The Golden Age Of Rock’n’Roll): un disco potente ma lucido ed ispirato anche nelle ballate (una Irene Wilde da favola), e con in fondo tre brani nuovi incisi in studio, dei quali il migliore è senza dubbio lo slow Silver Needles.

Short Back’n’Sides (1981): nonostante la presenza di due Clash, Topper Headon e soprattutto Mick Jones (che produce insieme a Ronson), questo esordio di Ian nella nuova decade è un disco un po’ involuto e senza particolari guizzi, con sonorità gonfie tipiche del periodo: si salvano Central Park’n’West, un pop-rock orecchiabile e coinvolgente nonostante l’uso massiccio di sintetizzatori, e la stupenda Old Records Never Die, ballata incisa la sera in cui viene assassinato John Lennon. Il resto, con la possibile eccezione della colorita I Need Your Love, un errebi alla Southside Johnny, è trascurabile (e Noises è proprio brutta): Hunter stesso, nelle note del book accluso al box, non è per nulla tenero verso questo album.

All Of The Good Ones Are Taken (1983): questo sarà l’ultimo disco di Ian negli anni ottanta (una decade nefasta per molti rockers), un album che non contiene classici futuri ma una media di canzoni migliore del precedente, anche se il sound è notevolmente peggiorato (Captain Void’n’The Video Jets fa davvero schifo): tra gli highlights abbiamo la bella title track, una rock song che risente solo in parte del suono dell’epoca (e presenta un paio di buoni interventi al sax di Clarence Clemons), il rock’n’roll un po’ bombastico di Every Step Of The Way, la bowiana Fun, l’orecchiabile That Girl Is Rock’n’Roll (ma troppi synth) e la soulful Seeing Double.

Yui Orta (1990): dopo sette lunghi anni di silenzio, Ian torna con l’unico disco accreditato a metà anche a Mick Ronson (che però si limita, si fa per dire, a suonare la solista ed a collaborare al songwriting), ed è un buon disco, un album rock con una produzione rutilante e con diverse buone canzoni, anche se non serve a rilanciare la figura del nostro. Hunter ritrova comunque grinta e smalto e le belle canzoni non mancano, come la potente rock ballad American Music, al livello dei suoi pezzi degli anni settanta, la seguente The Loner, diretta come un macigno, l’energica e vibrante Women’s Intuition, o ancora la trascinante Big Time, un rock’n’roll scatenato come ai bei tempi. E Livin’ In A Heart dimostra che il nostro è ancora in grado di scrivere ballate coi fiocchi.

Ian Hunter’s Dirty Laundry (1995): nel 1993 scompare tragicamente Mick Ronson, e Hunter va fino in Norvegia ad incidere il nuovo disco con musicisti locali. Le nuove generazioni conoscono poco il nostro, ed il fatto che Dirty Laundry esca per una piccola etichetta locale non aiuta di certo; è un peccato, perché il disco è il più riuscito dai tempi di Schizofrenic, un album di rock al 100%, grezzo, diretto e chitarristico, con brani come la ritmata Dancing On The Moon, la corale e splendida Good Girls, uno dei più bei rock’n’roll del nostro, la travolgente Never Trust A Blonde, rollingstoniana fino al midollo, la deliziosa Psycho Girl, tra rock e pop e con una fulgida melodia. Ma poi abbiamo anche la meravigliosa Scars, una sontuosa ballata elettroacustica e dylaniana, che avrebbe meritato ben altra sorte. E quelle che non ho citato non sono certo inferiori (Invisible Strings è splendida): un disco da riscoprire assolutamente.

BBC Live In Concert (1995): accreditato alla Hunter-Ronson Band, questo CD registrato a Londra nel 1989 è stato pubblicato anche per omaggiare lo scomparso Mick. Un ottimo live, ben suonato e con un Hunter in forma, che accanto a classici assodati (Once Bitten, Twice Shy, Just Another Night, Standing In My Light, Bastard, Irene Wilde), presenta ben sei brani in anteprima da Yui Orta, che uscirà di lì ad un anno (eccellenti How Much More Can I Take? e Big Time), ed anche un inedito, Wings, invero piuttosto trascurabile.

The Artful Dodger (1996): disco registrato in Norvegia come Dirty Laundry, ma con maggior dispendio di mezzi (all’epoca uscì per la Polydor), The Artful Dodger è meno rock e con più ballate del suo predecessore, ma ha il merito di rimettere in circolo il nome di Hunter. Un lavoro più che buono, che ha come brano centrale Michael Picasso, una toccante ballata dedicata all’amico Ronson, ma che presenta diversi pezzi sopra la media, come Too Much, uno slow d’atmosfera davvero riuscito, la superlativa Now Is The Time, il limpido folk-rock Something To Believe In, la cristallina (ed autobiografica) 23A, Swan Hill, o la title track, unico vero rock’n’roll del CD. Mentre il funk-rap di Skeletons era meglio se non ci fosse stato.

Fine Prima Parte.

Marco Verdi

Una Bella Dose Di Rock And Roll Non Fa Mai Male! Willie Nile – World War Willie

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Willie Nile – World War Willie – River House Records/Blue Rose/Ird

Partiamo da un fatto assodato: Willie Nile (nome d’arte di Robert Anthony Noonan), rocker di Buffalo, ma trapiantato a New York, nel corso di 36 anni di attività non ha mai sbagliato un disco, anche se ne ha incisi appena una decina, sebbene le premesse di inizio carriera fossero ben diverse dallo status di cult artist al quale è ormai ancorato. Infatti il suo omonimo esordio del 1980, un disco di pura poesia rock’n’roll tra Byrds, Bob Dylan, punk e Lou Reed, era una vera e propria bomba, un album che personalmente avrei giudicato il migliore di quell’anno se un certo rocker del New Jersey non avesse pubblicato un doppio intitolato The River: il suo seguito, Golden Down (uscito l’anno seguente), non aveva la stessa forza, ma era comunque un gran bel lavoro, e lasciava presagire l’ingresso di Willie nell’olimpo dei grandi.

Poi, all’improvviso, ben dieci anni di silenzio, pare dovuti a beghe contrattuali con l’Arista e problemi personali, un’assenza che in buona fine gli ha stroncato la carriera (almeno a certi livelli): il ritorno nel 1991 con l’eccellente Places I Have Never Been, uno scintillante album con almeno una mezza dozzina di grandi canzoni ed una produzione di lusso, prima di ricadere nell’oblio per altri otto lunghi anni (in mezzo solo un EP, Hard Times In America, oggi introvabile), quando Willie pubblica il buon Beautiful Wreck Of The World, che ci mostra un artista un po’ disilluso ma sempre in grado di fare grande musica. Ancora sette anni di nulla, poi dal 2006 Nile si mette finalmente a fare sul serio, facendo uscire ben quattro lavori in otto anni (gli splendidi Streets Of New York e American Ride ed i discreti House Of A Thousand Guitars e The Innocent Ones): in tutto questo tempo Willie non è cambiato, fa sempre la sua musica, un rock urbano con pezzi al fulmicotone e ballate di grande impatto, dimostrando una coerenza ed una rettitudine che gli fa onore (io gli ho parlato brevemente una sera del 2008 a Sesto Calende e ho trovato una persona modesta, gentile e disponibilissima, e stiamo parlando di uno che da del tu a Bruce Springsteen).

Meno di un anno e mezzo fa , un po’ a sorpresa, Willie ha pubblicato il bellissimo If I Was A River http://discoclub.myblog.it/2015/01/12/fiume-note-poetiche-notturne-willie-nile-if-i-was-river/ , un disco di ballate pianistiche, un lavoro molto diverso dai suoi soliti, ma di una profondità ed intensità notevole, che un po’ tutti hanno giudicato uno dei suoi migliori di sempre: oggi, esce World War Willie (titolo un po’ così così, ed anche la copertina non è il massimo), un album che ci riporta il Willie più rocker, quasi fosse la controparte del disco precedente. Prodotto da Willie insieme a Stewart Lerman, e suonato con una solida band formata da Matt Hogan alle chitarre, Johnny Pisano al basso ed Alex Alexander alla batteria (e con la partecipazione di Steuart Smith, chitarrista dal vivo degli Eagles, in tre pezzi, e della nostra vecchia conoscenza James Maddox ai cori, oltre che a Nile stesso a chitarre e piano), World War Willie ci mostra il lato rock del nostro, e meno quello cantautorale, un disco di chitarre e ritmo altro che palesa l’ottimo stato di forma del riccioluto musicista, anche se, forse, si pone un gradino sotto i suoi lavori migliori. Ma forse la cosa è voluta: dopo due dischi come American Ride (uno dei suoi più belli di sempre) e If I Was A River Willie ha deciso di divertirsi e di fare solo del sano rock’n’roll senza fronzoli…e chi siamo noi per disapprovare?

Forever Wild ha un inizio pianistico alla Roy Bittan, poi entrano le chitarre, la sezione ritmica e la voce riconoscibilissima del nostro ad intonare una tipica rock ballad delle sue, con un bel ritornello corale ed una generosa dose di elettricità. La discorsiva Let’s All Come Together è classico Willie, sembra uscita da uno dei suoi primi due album, con la voce che non ha perso smalto, altro chorus da singalong e feeling a profusione; l’energica Grandpa Rocks è a metà tra Clash e rock urbano della New York anni ’70 (CBGB e dintorni), forse poco originale ma di sicuro impatto adrenalinico, mentre con Runaway Girl Willie stempera un po’ gli animi con una canzone elettroacustica che rivela il suo lato più romantico.

La title track è un boogie frenetico che ha la freschezza del primo Link Wray ed il solito mix tra ironia ed amarezza nel testo, niente di nuovo dal punto di vista musicale, ma ormai è chiaro che in questo disco il Willie songwriter si è preso una piccola vacanza in favore del suo gemello rocker. L’annerita Bad Boy è un travolgente e ritmato swamp-rock con venature blues, meno tipico ma decisamente riuscito, anche qui con un ritornello killer; Hell Yeah non avrà un testo da dolce stil novo ma ha un tiro irresistibile, un boogie frenetico e tostissimo, mentre Beautiful You fa calare un po’ la tensione e si rivela forse la meno riuscita del CD, priva com’è di una vera e propria melodia.

Splendida per contro When Levon Sings, un sentito omaggio a Levon Helm, suonata e cantata con un’andatura quasi da country ballad, ritmo saltellante e motivo di prim’ordine: il miglior Willie (come spesso capita quando dedica una canzone a qualcuno, pensate alla stupenda On The Road To Calvary, scritta in memoria di Jeff Buckley). L’album si chiude in deciso crescendo con il bel rock’n’roll urbano di Trouble Down In Diamond Town, un brano scintillante che rivela echi di Springsteen, seguito dalla divertente Citibank Nile, costruita intorno ad un tipico giro di blues, e soprattutto da una rilettura potente del superclassico di Lou Reed (e dei Velvet Underground) Sweet Jane, un brano che già in passato aveva avuto cover di livello (ricordo in particolare quelle, molto diverse tra loro, dei Mott The Hoople e dei Cowboy Junkies): Willie preme l’acceleratore, lascia in primo piano il mitico riff e ci consegna una versione piena di feeling e di rispetto per lo scomparso Lou.

Fa sempre bene un po’ di rock’n’roll ogni tanto, e Willie Nile è uno che non ce lo fa mai mancare.

Marco Verdi