Un Altro Disco Che (Quasi) Non C’è: Un “Mitico” Locale Australiano Per Una “Grande” Band. Black Sorrows – Live At The Palms

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Black Sorrows – Live At The Palms – Blue Rose Records – CD  – Download

Il loro ultimo album Citizen John  (recensito puntualmente su queste pagine https://discoclub.myblog.it/2018/12/01/prosegue-la-storia-infinita-della-band-di-joe-camilleri-sempre-una-garanzia-black-sorrows-citizen-john/ ) è uno dei lavori più belli dello scorso anno (ma anche uno dei più difficili da rintracciare,vista la scarsa reperibilità sul mercato europeo), e questo concerto registrato nel mitico locale di Melbourne, non è altro che il CD abbinato alla edizione deluxe” del medesimo (per i pochi fortunati che ne sono entrati in possesso e considerando che comunque anche questa “nuova” edizione in CD singolo è venduta in esclusiva solo ai concerti europei della band e sul sito della Blue Rose). E così quando nell’Ottobre dello scorso anno, Joe Camilleri alla chitarra, sax e armonica, porta sul palco i suoi Black Sorrows ,con in evidenza le chitarre del bravo Claude Carranza, Tony Floyd alla batteria, Mark Gray al basso, James Black alle tastiere, con l’apporto di musicisti di talento come il gruppo jazz Horns Of Leroy e Sandi Keenan alle armonie vocali, per una manciata di brani che hanno il pregio di essere eseguiti con arrangiamenti diversi da quelli elaborati in studio, i tecnici sono pronti a registrare il tutto, per un “disco”dove come sempre la musica spazia tra bluegrass, blues, rockabilly, rock, soul, arrivando a cimentarsi anche con il reggae e gospel.

Il concerto inizia con le atmosfere “country-blues” di una accattivante Wednesday’s Child, a cui fanno seguito due cover d’autore, una seducente rilettura di Do I Move You, portata al successo dalla grande Nina Simone, uno slow d’annata da suonare nei locali blues di Chicago, con un lungo intermezzo “jazz” a cura dei componenti dei bravissimi Horns Of Leroy, e una semi dimenticata Silvio di Dylan, recuperata dai solchi polverosi di Down In The Groove (88), e che in questa occasione viene riproposta in una energica e ritmata versione, dove emerge la bravura alla slide di Carranza e i coretti in stile “Motown” guidati dalla Keenan. Dopo applausi doverosi e convinti del pubblico in sala, si riparte con Lover I Surrender, una di quelle ballate “blue-soul” dei lontani anni ’70 che hanno fatto la fortuna di Joe, dove giganteggia il “groove” del basso di Mark Gray su un tessuto armonico dell’hammond, bissata subito da un’altra stratosferica ballata Way Below The Heavens, dove oltre agli evidenti echi “morrisoniani” nell’interpretazione dell’autore, risveglia nel sottoscritto anche lo spirito di Bobby Womack.

Poi si cambia ritmo nel sincopato arrangiamento di una Down Home Girl, con i fiati in evidenza nella parte finale; dopo un’altra meritata ovazione da parte del pubblico, ci si avvia alla parte conclusiva del concerto con il tempo vagamente “ragtime” e di nuovo una strepitosa sezione fiati in una favolosa Brother Moses Sister Mae, che con la mente e il cuore ci trasporta nelle strade di New Orleans (quando si festeggia il Mardi Gras), seguita dal raffinato “swamp-blues” di Citizen John, che viene cantato in duetto (in una ipotetica gara di bravura) da Joe e Sandi Keenan, e in chiusura sorprendentemente, viene rispolverato un brano del suo primo gruppo i Jo Jo Zep & The Falcons (una oscura band in attività sul finire degli anni ’70, benché popolarissima in Australia), una saltellante The Honeydripper dove la varietà di stili e la bravura dei musicisti, riesce a sopperire all’unico brano forse deludente della serata. Ancora oggi per molti i Black Sorrows sono degli illustri sconosciuti, nonostante il fatto che dal lontano esordio con Sonola (84), e in un alternarsi di varie e innumerevoli formazioni, hanno sfoderato più di una ventina di lavori (con questo siamo al 22° per la precisione), sotto la guida costante del genialoide Joe Camilleri, vero leader carismatico della band (cantante, autore, sassofonista e produttore), un tipo che a 71 anni suonati dimostra con questo splendido Live At The Palms (un lavoro arrangiato e suonato in modo superbo), di possedere una rara intelligenza musicale nel sapere sempre creare grandi canzoni. In definitiva (per chi scrive), i Black Sorrows sono stati, e sono tuttora, una splendida realtà del panorama musicale odierno (australiano e non),  quindi da ascoltare obbligatoriamente!

Tino Montanari

Per Chi Avesse Voglia Di Un Po’ Di Sano Rock’n’Roll! Willie Nile – Children Of Paradise

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Willie Nile – Children Of Paradise – River House CD

Willie Nile, al secolo Robert Noonan, da quando ha ripreso ad incidere con una certa costanza, non ha più mollato il colpo, tra dischi bellissimi (Streets Of New York, American Ride) e “solo” belli (House Of A Thousand Guitars, The Innocent Ones). Lo scorso anno Willie ci aveva deliziato con l’ottimo Positively Bob, in cui rileggeva alla sua maniera alcuni classici del suo idolo Bob Dylan https://discoclub.myblog.it/2017/06/30/e-dopo-bob-sinatra-ecco-a-voi-willie-dylan-comunque-un-grande-disco-willie-nile-positively-bob/ , ma il suo ultimo lavoro composto da brani originali era World War Willie del 2016, un buon album, molto spostato sul versante rock, che bilanciava il sorprendente If I Was A River di due anni prima, formato esclusivamente da ballate pianistiche. Ora Willie torna tra noi con un disco nuovo di zecca, Children Of Paradise, che si può tranquillamente inserire tra i suoi lavori più riusciti. Nile non cambia di una virgola il proprio suono, un rock’n’roll molto diretto e chitarristico, con occasionali intermezzi in cui sono le ballate a farla da padrone, ma in questo lavoro si nota subito una freschezza compositiva maggiore che in World War Willie, con addirittura un paio di canzoni che potrebbero entrare di diritto in qualsiasi “best of” del rocker di Buffalo. Willie ha fatto un gran lavoro anche per quanto riguarda i testi, che sono influenzati dalla difficile situazione politica ed economica degli Stati Uniti, con un pizzico di ecologia che non guasta mai, ed in alcuni casi i brani si esprimono anche in modo crudo e diretto.

Come la musica d’altronde, che vede il nostro accompagnato dagli abituali compagni di viaggio (Steuart Smith, chitarrista che è da anni nella live band degli Eagles al posto di Don Felder, Johnny Pisano al basso, Matt Hogan alle chitarre ritmiche, Jon Weber alla batteria ed Andy Burton all’organo, mentre Willie come di consueto si alterna a chitarre e pianoforte), con l’aggiunta dell’amico James Maddock ai cori. Per la verità il brano iniziale, Seeds Of A Revolution, non è nuovissimo, in quanto faceva parte dell’ormai introvabile EP del 1992 Hard Times In America, ma siccome il testo è ancora attuale Willie ha pensato bene di riproporlo: uno scintillante folk-rock di sapore byrdsiano, che rispetto alla versione originale ha un suono decisamente più solido e vigoroso, puro Nile al 100%. La saltellante All Dressed Up And No Place To Go è un altro tipo di canzone che nei dischi di Willie non manca mai, una classica rock song con un call & response voce-coro, una sorta di trascinante filastrocca rock’n’roll dal testo profondamente ironico; Don’t è un pezzo molto elettrico ed aggressivo (anche nelle liriche), il cui ritmo decisamente sostenuto e le sventagliate chitarristiche fanno pensare ai Ramones https://www.youtube.com/watch?v=41ECsxenuwE . Earth Blues prosegue all’insegna del rock, un brano duro e roccioso ma che manca di quell’immediatezza compositiva che viceversa trovavamo nei pezzi precedenti, anche se il gruppo arrota che è una meraviglia.

La title track è l’altra canzone non nuova del CD, in quanto era presente nell’ottimo Places I Have Never Been del 1991 (l’ultimo disco inciso da Willie per una major), ma qui ha un suono molto più diretto che in origine ed un refrain davvero immediato: la quintessenza del vero rock’n’roll. Ancora meglio Gettin’ Ugly Out There, un folk-rock elettroacustico dalla melodia contagiosa ed accompagnamento strumentale perfetto, per chi scrive tra le cose più belle proposte da Willie, almeno ultimamente: dopo un solo ascolto non riesco a smettere di canticchiare il ritornello https://www.youtube.com/watch?v=D_z2X26k_vw ; la roboante I Defy mostra che tra i gruppi preferiti dal nostro ci sono anche i Clash, mentre Have I Ever Told You è una ballata soffusa e tutta giocata su una tenue melodia, un’oasi gradita a questo punto del CD https://www.youtube.com/watch?v=OmWm1eewuow . Secret Weapon riporta l’album su territori elettrici, una rock ballad vigorosa ed ancora con un motivo diretto e fruibile, il marchio di fabbrica di Willie; Lookin’ For Someone è un brano scritto con lo scomparso Andrew Dorff, una delicato folk tune elettrificata, guidata da mandolino e chitarra elettrica, oltre che da un limpido pianoforte, altro brano da antologia. Finale per Rock’n’Roll Sister, un travolgente pezzo ad alto ritmo che mantiene ciò che promette nel titolo, e la toccante All God’s Children, una ballatona pianistica che non poteva mancare: bella e struggente, perfetta per chiudere con una nota malinconica l’ennesimo ottimo rock’n’roll album da parte di Willie Nile, un altro di quelli che non tradiscono mai.

Marco Verdi

La Vera Fusione Tra Poesia E Rock! Allen Ginsberg – The Last Word On First Blues

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Allen Ginsberg – The Last Word On First Blues – Omnivore Records 3CD Box Set

Devo essere sincero: la vera ragione iniziale per la quale mi sono accaparrato questo cofanetto è la presenza di Bob Dylan, anche se, per essere precisi, il bardo di Duluth partecipa fisicamente solo a sette delle trentacinque canzoni incluse (senza peraltro lasciare tracce tangibili), ma la sua influenza aleggia in gran parte dell’opera. Ma andiamo con ordine: penso che Allen Ginsberg sia un personaggio che non ha bisogno di presentazioni, in quanto è stato uno dei massimi esponenti della cosiddetta Beat Generation, un movimento culturale ed intellettuale underground che ebbe in Jack Kerouac la sua figura principale, ed in William Burroughs, Gregory Corso e Lawrence Ferlinghetti alcuni dei suoi esponenti di punta. Ma la figura più carismatica, ed in un certo senso controversa, fu proprio quella di Ginsberg, autore di opere dissacranti e decisamente di rottura (di cui Howl è quella più famosa), nelle quali il nostro affrontava senza peli sulla lingua (e per questo ebbe più di un problema con la censura) temi come la politica, il sociale, le droghe, la religione e l’omosessualità, dando maggior cassa di risonanza al tutto per mezzo di reading pubblici passati alla storia, e facendone uno dei personaggi simbolo della sinistra radicale americana.

Di tutti i poeti beat, Ginsberg è senz’altro stato quello più attratto dal mondo della musica rock, in particolar modo proprio per la sua amicizia con Dylan (lui avrebbe voluto essere più che amico, ma Bob, eterosessuale convinto, non ne volle sapere – fine del momento gossip): come non ricordare la sua presenza sullo sfondo del mitico video di Subterrenean Homesick Blues e, una decade dopo, fra i protagonisti dello strampalato film Renaldo And Clara, girato da Bob durante il tour con la Rolling Thunder Revue. Ginsberg però, oltre a pubblicare diverse letture delle sue poesie in versione audio, tentò anche la carriera da musicista, pubblicando nel 1983 un doppio album intitolato First Blues, un disco che diventò presto introvabile e ricercatissimo presso i collezionisti, un lavoro che era il frutto di tre diverse sessions tra gli anni settanta ed i primi anni ottanta: una prima, molto informale, nel 1971 (quella con Dylan ed altri musicisti noti come Happy Traum), una del 1976 più professionale prodotta da John Hammond Sr. (con David Mansfield come band leader) ed infine undici brani incisi nel 1981 a New York negli studi della ZBS Media. First Blues è stato pubblicato anche in CD, ma è andato presto fuori catalogo, e parte di esso entrò nel cofanetto del 1994 che la Rhino dedicò a Ginsberg, Holy Soul, Jelly Roll, insieme a vari reading e spoken word della sua carriera.

Ora la Omnivore mette la parola fine fin dal titolo (The Last Word On First Blues) su quel disco mitizzato, pubblicando questo interessante ed elegante box di tre CD, dove nei primi due dischetti troviamo una versione rimasterizzata dell’LP originale, mentre nel terzo abbiamo undici pezzi totalmente inediti. Ebbene, dico subito che, se qualcuno potrebbe storcere il naso di fronte ad un poeta che si cimenta con la musica rock, qui abbiamo diverse cose molto interessanti, ed alcune addirittura ottime: Ginsberg in queste 35 canzoni dimostra di non essere per nulla uno sprovveduto dal punto di vista musicale, ha il senso sia della melodia e del ritmo e, anche se chiaramente non tutto funziona a meraviglia (alcuni brani sono indiscutibilmente di minor livello, ed Allen come vocalist non era certo Pavarotti), direi che il contenuto del box ha una sua dignità ed il suo acquisto non è per nulla ingiustificato.

I primi tre brani del primo CD fanno parte della session del 1971, e si va da Going To San Diego, vivace blues con elementi kletzmer e dixieland, voce dylaniana ed ottimo senso del ritmo a Vomit Express, ancora più influenzata da Dylan (anzi, sembra proprio di sentire Bob), con un accompagnamento in debito con Like A Rolling Stone ed un suono in generale molto anni sessanta https://www.youtube.com/watch?v=lk8U_YJ6-ZI , per finire con Jimmy Berman, perfetta folk-rock ballad, con un Ginsberg non proprio intonatissimo, ma di indubbio fascino e perfettamente credibile. La parte del 1976 prodotta da Hammond inizia con l’umoristica e dissacrante NY Youth Call Annunciation, su una gradevole base a mo’ di marcetta folk, seguita dall’irresistibile CIA Dope Calypso, https://www.youtube.com/watch?v=bGzM2b1BaD8  altra caustica canzone con un piacevole accompagnamento caraibico, alla Jimmy Buffett. La bizzarra Put Down Your Cigarette Rag è poca cosa, ma Sickness Blues è, appunto, un blues d’altri tempi, dal sapore rurale ed atmosfera pre-bellica (ed è da brani come questo che si nota la preparazione del nostro), mentre la saltellante Broken Bone Blues vede Allen addirittura tentare la carta del country, complice la guizzante steel di Mansfield; ancora country, ma con risultati migliori, con Stay Away From The White House, mentre il primo CD si chiude ancora con due blues, Hard-on Blues e Guru Blues, lento, acustico e sofferto il primo, più terso ed imparentato con il folk il secondo (ed i testi sono da censura).

Il secondo dischetto comincia con la folkeggiante Everybody Sing, limpida e fresca, e con l’ancora più bella Gospel Nobel Truths, una melodia decisamente tradizionale e scintillante, tra country e gospel, un pezzo sopraffino da parte di uno che non è certo un musicista. La session del 1981 è quella con più ballate dal sapore folk, ma anche quella con i risultati più altalenanti: Bus Ride Ballad To Suva è un perfetto folk tune dal sapore irlandese https://www.youtube.com/watch?v=9t2U2Ia74gM , la pianistica Prayer Blues è dissacrante e basta, mentre Love Forgiven è una tenue ballata dall’accompagnamento scarno ma toccante e dal cantato vibrante, così come Father Death Blues, impreziosita da una doppia voce femminile (non accreditata). La sorprendente Dope Fiend Blues è un rock’n’roll elettrico e trascinante, ancor più gradito perché inatteso, Tyger è poco più di un divertissement, mentre You Are My Dildo è cantata, per così dire, da Peter Orlowsky (poeta ed amante di Ginsberg), la cui vocalità sgradevole rende insopportabile un brano che già di suo non è il massimo; Old Pond è invece un godibilissimo bluegrass suonato con tutti i crismi (banjo, chitarre, mandolino e voce in palla) https://www.youtube.com/watch?v=HgVwvMw4cSM , mentre il secondo CD si chiude in crescendo con No Reason, una splendida ballata, dallo straordinario gusto melodico, scritta e cantata da Steven Taylor (che è molto più cantante di Ginsberg, e si sente) https://www.youtube.com/watch?v=6bWF7rsrO2I , la folkie e deliziosa My Pretty Rose Tree e la veemente Capitol Air, dal vigore quasi punk.

Questo per quanto riguarda la parte nota (si fa per dire) di First Blues, ma poi abbiamo il terzo CD, che si apre con tre brani del 1971: la tetra e cantilenante Nurses Song, non il modo migliore di cominciare (ma il crescendo finale non è male), seguita dal folk sghembo e quasi etilico di Spring (Merrily Welcome) e la drammatica September On Jessore Road, che però presenta un Ginsberg stonatissimo. Poi abbiamo quattro outtakes del ’76, tra le quali spiccano la gustosa (anche se un po’ irrisolta) Slack Key Guitar, dall’arrangiamento hawaiano, ed il blues canonico di NY Blues. Il folk di stampo tradizionale a sfondo politico Come Along Vietnam viene da una session isolata del 1975, ed è una sorta di demo, mentre Airplane Blues e Feeding Them Raspberries To Grow, vengono da una serata dal vivo al Folk City di New York, e se la prima è una buona canzone dall’incedere lento, la seconda vede ancora il pessimo Orlowsky alla voce solista. Ma la vera chicca del CD, che da sola vale il prezzo, è Do The Meditation Rock, un inedito del 1982 (con un insolito Bob Dylan al basso), brano potente e coinvolgente, un rock’n’roll dal suono pieno e forte ed in definitiva uno dei più bei pezzi del triplo.

Un cofanetto dunque per nulla ostico, nel quale anzi c’è anche parecchia buona musica, e che dimostra ancora una volta che Allen Ginsberg, per quanto figura controversa e se vogliamo discutibile, era, come dicono gli americani, larger than life.

Marco Verdi