Un Countryman Di Talento Con Nobili Discendenze! Charley Crockett – The Valley

charley crockett the valley

Charley Crockett – The Valley – Son Of Davy/Thirty Tigers CD

Charley Crockett (che, ci crediate o no, è un discendente del leggendario Davy Crockett) è un musicista di stampo country-folk-Americana che, nonostante abbia esordito solo nel 2015, ha un passato piuttosto impegnativo. Nato e cresciuto in Texas, Charley ha vissuto a lungo anche a New Orleans e New York e perfino in Francia e Marocco, dove ha occasionalmente intrapreso la carriera di busker esibendosi per le strade. Ha avuto anche problemi con la giustizia, essendo stato arrestato una volta per possesso di cannabis ed una seconda addirittura con l’accusa di frode assicurativa (ma poi è stato giudicato in buona fede, mentre invece il fratello si è beccato sette anni); a metà della corrente decade Crockett ha finalmente deciso di venire a patti con la sua vita e ha iniziato a pubblicare dischi, tre a suo nome e due come Lil G.L. (una sorta di alter ego, come Luke The Drifter lo era per Hank Williams, due album di cover di brani perlopiù blues).

A Gennaio di quest’anno, tanto per non farsi mancare niente, Charley ha sostenuto un intervento chirurgico a cuore aperto (con esiti fortunatamente positivi), ma solo pochi giorni prima aveva fatto in tempo ad ultimare le registrazioni di The Valley, il suo nuovo lavoro in uscita in questi giorni, un album di vero country d’autore, con testi spesso autobiografici e musiche che si ispirano ai grandi del genere. Crockett è bravo, ha talento e sa metterlo al servizio della sua musica: The Valley è egregiamente bilanciato tra antico e moderno, è ben suonato (ho in mano un CD promo senza i nomi dei musicisti) ed è completato da una serie di cover rivelatrici del fatto che il nostro ha le influenze giuste. Puro country quindi, godibile e diretto, che non strizza l’occhio al sound nashvilliano ma rimane autentico dalla prima all’ultima canzone. Borrowed Time apre il CD, ed è una limpida country song che sembra presa pari pari da un vecchio padellone degli anni cinquanta, melodia diretta e strumentazione vintage, un avvio intrigante. Con la title track non ci spostiamo molto in avanti, per un languido brano che ha il sapore degli esordi di Merle Haggard, con una bella steel ed un chitarrone twang; la frenetica 5 More Miles è più moderna ed elettrica pur restando in ambito country.

Big Gold Mine è invece un gustoso western swing di quelli che si suonavano una volta nelle feste texane di paese, mentre 10.000 Acres è un godibilissimo honky-tonk che più classico non si può. Decisamente riuscita anche The Way I’m Livin’, puro country con sentori di Bakersfield Sound, brano che precede If Not The Fool, un lentaccio anni sessanta di quelli che piacciono tanto a Raul Malo. Maybelle è di nuovo swingata e dal sapore antico, River Of Sorrow ha la struttura di un country-gospel alla Will The Circle Be Unbroken ed un pregevole intervento di sax, mentre Change Yo’ Mind è ancora honky-tonk al 100%. Abbiamo detto delle cover: 7 Come 11 è l’unica contemporanea (una canzone del countryman Vincent Neil Emerson) ma fatica ad emergere, la bella Excuse Me di Buck Owens è decisamente rispettosa dell’originale, It’s Nothing To Me (Leon Payne) diventa una ballatona country & western, la celeberrima 9 Pound Hammer (portata al successo da Merle Travis) per sola voce e banjo ha il sapore di una autentica folk song dell’anteguerra, e Motel Time Again, di Bobby Bare, è rifatta in maniera molto aderente alla versione di Johnny Paycheck. 

C’è ancora spazio in America per chi fa del vero country, e The Valley lo dimostra in maniera chiara e netta.

Marco Verdi

Finché La Barca (Country) Va, Lasciala…Suonare! VV. AA. – A Tribute To The Bakersfield Sound Live!

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VV.AA. – A Tribute To The Bakersfield Sound Live! – TimeLife CD

Non sono certo io a dovervi spiegare l’importanza che ha avuto il cosiddetto Bakersfield Sound (dal nome della cittadina californiana di Bakersfield, da cui tutto ebbe origine) nell’ambito della musica country: movimento nato negli anni cinquanta in contrapposizione con il crescente suono di Nashville, era caratterizzato da un suono comunque classico ma con una strumentazione diretta e “rock”, senza le melensaggini tipiche della capitale del Tennessee. I due pionieri del genere furono sicuramente Buck Owens e Merle Haggard, due grandissimi autori e performers che influenzarono notevolmente le generazioni di musicisti a venire, Dwight Yoakam e Marty Stuart su tutti. Lo scorso anno si è tenuta in acque americane una crociera a tema country, la StarVista Live Country Music Cruise, con veri concerti e serate a tema: uno degli eventi di punta è stato sicuramente il tributo al suono di Bakersfield, fortemente voluto dai musicisti Wade Hayes e Chuck Mead (quest’ultimo ex leader dei bravissimi BR5-49), concerto che oggi possiamo goderci anche noi grazie a questo A Tribute To The Bakersfield Live!

Il dischetto è decisamente ben fatto ed estremamente gradevole, con Hayes e Mead che si alternano come voce solista, ben sostenuti dai Grassy Knoll Boys (la band che solitamente accompagna Mead dal vivo): musica pimpante e coinvolgente, con chitarre, piano e steel in evidenza e ritmo spesso elevato, con alla fine della serata (anzi, mattinata, il concerto si è tenuto al mattino) una serie di ospiti a rendere più appetitoso il piatto. Il disco è anche una sorta di tributo ad Owens e Haggard, dato che il 90% delle canzoni incluse proviene dai loro songbook: si parte subito con una tripletta di Buck, prima con una vivace versione strumentale della classica Buckaroo (con la steel in gran spolvero), seguita da una bellissima rilettura della leggendaria Streets Of Bakersfield, in odore di Messico, e da una scintillante I’ve Got A Tiger By The Tail. Swinging Doors è una delle più note di Haggard, e Hayes si destreggia decisamente bene supportato al meglio da Mead & Band: puro country; Above And Beyond è ricca di swing, e certifica l’ottima intesa tra i due leader, mentre The Bottle Let Me Down, ancora Hag, è una delle più famose drinkin’ songs di sempre, puro honky-tonk di gran classe.

Close Up The Honky Tonks è uno dei pezzi più famosi di Owens, versione limpida e godibilissima, Big, Big Love è la prima di due canzoni a non essere né di Buck né di Merle, bensì di Wynn Stewart, ed è un trascinante e ritmato brano tra country e rockabilly, così come Big City (torniamo a Haggard), swingata e di fattura squisita. La guizzante Hello Trouble vede il primo ospite, cioè il cantante e pianista di Nashville Tim Atwood, che se la cava egregiamente, seguito a ruota da Emily West, che nobilita con la sua bella voce la languida ballad Together Again; Johnny Lee presta il suo vocione vissuto a Carolyn, raffinata e suonata in punta di dita, mentre lo slow Cryin’ Time è affidato a Rudy Gatlin. Gran finale con Ray Benson, mitico leader degli Asleep At The Wheel, che sprizza carisma da ogni nota nell’intensa Misery And Gin, e poi tutti insieme sul palco per il superclassico di Joe Maphis Dim Lights, Thick Smoke (And Loud, Loud Music), gioiosa e coinvolgente come sempre.

Bel dischetto, fresco e rigenerante.

Marco Verdi

La Quintessenza Del Country Texano! Dale Watson & Ray Benson – Dale & Ray

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Dale Watson & Ray Benson – Dale & Ray – Ameripolitan/Home CD

Dale Watson, texano doc, anche se è nato in Alabama, ormai viaggia al ritmo di due dischi all’anno. Lo avevamo lasciato nel 2016 prima a cantare dal vivo in mezzo alle galline (ed ai loro escrementi) nel bizzarro Chicken Shit Bingo e poi ad affrontare l’immancabile cover album che prima o poi tutti fanno (Under The Influence) http://discoclub.myblog.it/2016/11/25/ecco-altro-che-dischi-ne-fa-pochini-dale-watson-under-the-influence/ , che è già ora di rivederlo tra le nuove uscite. Ma questa volta Dale ha fatto le cose in grande, unendo le forze con Ray Benson, che in Texas è una vera e propria leggenda vivente, grazie alla sua leadership degli Asleep At The Wheel, grande gruppo country e western swing, veri eredi di Bob Wills & His Texas Playboys (ai quali hanno dedicato più di un tributo). I due in passato si erano sfiorati varie volte, ma un disco insieme non erano mai riusciti a farlo, almeno fino all’anno scorso, quando si sono presi il tempo necessario e si sono trovati in uno studio di Austin insieme ad un manipolo di musicisti con la “m” maiuscola, tra cui ben tre membri della band di Watson, i Lone Stars (Chris Crepps al basso, Mike Bernal alla batteria e l’ottimo Don Pawlak alla steel), più il figlio di Ray, Sam Seifert, alla chitarra elettrica (Seifert è il vero cognome di Benson), la nostra vecchia conoscenza Lloyd Maines sempre alla steel ed il bravissimo Dennis Ludiker al violino: Dale & Ray è il risultato di queste sessions, un ottimo disco di puro Texas country, ad opera di due musicisti in grande forma, un album che è anche la cosa migliore che hanno fatto da anni a questa parte.

E non è che i nostri si siano rivolti a songwriters esterni, in quanto, delle dieci canzoni totali, ben otto sono state scritte a quattro mani appositamente per questo progetto dai due texani (Benson è di Philadelphia, ma ormai è più texano di uno nato a Dallas) e solo due sono covers. Solo mezz’ora di musica, ma mezz’ora davvero intensa, all’insegna della miglior Texas music: gran ritmo, chitarre in tiro (Watson è un bravo chitarrista), honky-tonk scintillanti e grande uso di steel e violino. Niente di rivoluzionario, ma quello che c’è è fatto benissimo, con la ciliegina delle splendide voci baritonali dei due leader, entrambe profonde e carismatiche. Il classico disco just for fun, ma allo stesso tempo decisamente professionale e godibile dalla prima all’ultima nota. The Ballad Of Dale & Ray è perfetta per aprire il disco, uno scintillante honky-tonk elettrico con le due voci che si alternano con consumato mestiere, un brano divertente che è anche una dichiarazione d’intenti, con i due che elencano tutta una serie di cose che amano (dalla Lone Star Beer, al fumare erba, fino a Merle Haggard e Johnny Cash). Feelin’ Haggard è proprio un commosso omaggio al grande Hag, un brano che parla delle loro reazioni sconvolte alla notizia della morte del leggendario countryman avvenuta lo scorso anno, una languida ballata nel cui testo i due leader giocano ad inserire titoli di canzoni di Merle (e che voci); I Wish You Knew è un’energica cover di un antico brano dei Louvin Brothers, ritmo acceso con i due texani che si trovano nel loro ambiente naturale (e gran lavoro di steel e violino), mentre Bus’ Breakdown è un gioioso pezzo dal ritmo forsennato, con i nostri che mostrano di divertirsi non poco.

Write Your Own Songs, preceduta da un’introduzione parlata, è una strepitosa cover di un classico dell’amico Willie Nelson, una versione formidabile che rimanda più ai brani lenti degli anni settanta di Waylon che a quelli di Willie; Cryin’ To Cryin’ Time Again è invece un omaggio a Buck Owens (il brano è originale, ma Cryin’ Time era un classico di Buck), con i due che portano un pezzo di Texas a Bakersfield, un altro honky-tonk limpido e suonato con classe sopraffina, mentre Forget About Tomorrow Today è puro Lone Star country, ancora gran ritmo, voci perfette e notevoli assoli, ancora di steel e fiddle. A Hungover Ago è l’ennesimo brillante honky-tonk della carriera di Watson, un vero specialista in materia, con Benson che si adegua più che volentieri, e nella fattispecie uno dei pezzi più riusciti del CD; finale a tutto ritmo con la spedita e swingata Nobody’s Ever Down In Texas, nella quale la classe del duo fuoriesce alla grande (e questo è il brano più vicino allo stile degli Asleep At The Wheel), e con la deliziosa Sittin’ And Thinkin’ About You, una vera country song d’altri tempi. Dale Watson è una forza della natura (ma la qualità nei suoi dischi non manca mai), ed ora che ha coinvolto anche Ray Benson ci auguriamo che Dale & Ray non resti un episodio isolato.

Marco Verdi

Ecco Un Altro Che Di Dischi Ne Fa Pochini! Dale Watson – Under The Influence

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Dale Watson – Under The Influence – Red River CD

Dale Watson, countryman nato in Alabama ma texano al 100%, è sempre stato uno prolifico, ma ultimamente non si ferma più, in quanto si è ormai messo a viaggiare al ritmo di due dischi all’anno: lo avevamo da poco lasciato tra bingo ed escrementi di gallina nello strano live Chicken Shit Bingo http://discoclub.myblog.it/2016/10/24/cacca-gallina-vero-chitarre-dale-watson-his-lonestars-live-at-the-big-t-roadhouse/  che subito ci ritroviamo tra le mani questo Under The Influence, nel quale Dale, come suggerisce il titolo, paga il suo tributo ad artisti e canzoni importanti per la sua formazione musicale. Watson, nonostante la prolificità, è uno che raramente delude, magari non farà mai il capolavoro assoluto, ma quando si mette nel lettore uno dei suoi CD si può star certi di passare una quarantina di minuti in compagnia di ottimo country-rock texano, elettrico e pieno di ritmo, tra honky-tonk fulminanti, gustosi swing e ruspanti boogie e rockabilly, con il vocione del nostro a dominare ed il preciso accompagnamento dei fidi Lone Stars (Chris Crepps al basso, Mike Bernal alla batteria, l’ottimo Don Pawlak alla steel, vero strumento protagonista nell’economia del suono della band, oltre a Earl Poole Ball e T Jarod Bonta al piano).

Under The Influence è un disco decisamente più serio del live da poco pubblicato, e ci fa ritrovare il Watson che più apprezziamo, che, alle prese con un repertorio di grandi canzoni come quelle da lui scelte per questo progetto, non può che fare faville: in più, oltre ad indicare come da prassi i titoli dei brani ed i loro autori, Dale specifica anche a quale versione si è ispirato per la sua cover. Ed il risultato è, come potete intuire, decisamente riuscito. Lonely Blue Boy, un successo di Conway Twitty, ha un delizioso sapore retrò, con tanto di cori doo-wop, gran voce di Dale ed un piacevole alone nostalgico https://www.youtube.com/watch?v=6Dxe0gVPu6U ; You’re Humbuggin’ Me, resa nota da Lefty Frizzell, è puro rockabilly texano, fresco, ritmato e coinvolgente, con un ottimo uso del piano, mentre Lucille, il noto brano di Little Richard, è però riproposto basandosi sulla versione di Waylon Jennings, e Watson mantiene intatta l’atmosfera tipica dello scomparso outlaw, voce tonante, suono potente ed un’aria southern che non guasta. Made In Japan (Buck Owens) è country puro e scintillante, con una splendida steel, melodia classica e grande feeling, That’s What I Like About The South appartiene invece al repertorio di Bob Wills ed è, manco a dirlo, un guizzante western swing dal ritmo acceso ed assoli continui, un elemento in cui il nostro si trova particolarmente a suo agio, mentre Here In Frisco è il primo di due tributi a Merle Haggard, un bellissimo slow in puro Bakersfield style, con la voce di Dale che evoca quella del grande Hag.

Ancora country puro con Pretty Red Wine, di Mel Tillis, un brano saltellante, cadenzato e godibilissimo, con gustosi intrecci tra la chitarra di Watson e la steel di Pawlak; Pure Love è un pezzo scritto da Eddie Rabbitt ma reso popolare da Ronnie Milsap, un brano mosso, anch’esso caratterizzato da un motivo molto classico, ma non intriso di pop come ha spesso fatto il famoso cantante non vedente; I Don’t Wanna Go Home è un giusto omaggio a Doug Sahm con una languida ballata, non male ma io avrei preferito un bel tex-mex, o qualcosa che comunque identificasse meglio l’ex Texas Tornado. Il CD si chiude con il ritmato honky-tonk Most Wanted Woman (Roy Head), un tipo di canzone che Dale canta anche sotto la doccia, la ruspante e roccata If You Want To Be My Woman, ancora Haggard, e con il superclassico Long Black Veil, un brano che hanno rifatto in mille (ricordo splendide versioni di The Band, Joan Baez, Mick Jagger con i Chieftains ed anche di Nick Cave), ma Watson si ispira alla famosa rilettura di Johnny Cash, anche se il confronto con l’Uomo in Nero è assai arduo per chiunque.  Un’altra buona prova per Dale Watson: adesso speriamo che si prenda almeno sei mesi di pausa prima di un altro disco.

Marco Verdi

Continuano I Lutti In Questo 2016 Maledetto: Ora E’ La Volta Di Merle Haggard, Aveva 79 Anni!

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Sinceramente comincio ad essere un po’ stufo di scrivere necrologi,  non perché non voglia occuparmene, ma insomma i musicisti continuo a preferirli nettamente da vivi. *NDB Anche se è una occasione per parlare diffusamente di musicisti che meritano comunque di essere ricordati!

Oggi devo purtroppo ricordare Merle Ronald Haggard, scomparso ieri per complicazioni dovute ad una brutta polmonite (tra l’altro proprio nello stesso giorno in cui era nato, esattamente 79 anni fa):  uno per il quale il termine “leggenda” non è assolutamente esagerato, dato che nei suoi cinquant’anni di carriera ha collezionato una serie impressionante di successi, ha scritto diverse canzoni diventate poi degli standard della musica country e ha anche contribuito alla creazione di un suono. Oltre ad essersi fumato e “pippato” una quantità impressionante di sostanze non perfettamente legali (nonostante quello che diceva nelle sue canzoni)..

Nato a Bakersfield, California, Haggard ha avuto una gioventù parecchio problematica, un periodo nel quale entra ed esce con regolarità da riformatori e patrie galere (tra cui San Quintino), prima per piccoli furtarelli e poi per vere e proprie rapine a mano armata: nel suo caso si può quindi affermare a ragion veduta che la musica gli ha salvato la vita. Dopo qualche timido tentativo all’inizio degli anni sessanta, è dal 1965 che Merle inizia ad incidere singoli ed album con una certa regolarità, e non ci mette molto a diventare una delle figure di riferimento in ambito country, grazie ad un’abilità innata nel songwriting, un’ottima voce (anche se non eccelsa) ed al fatto che, insieme al compaesano Buck Owens, è uno dei creatori del cosiddetto “Bakersfield Sound”, che ai classici strumenti come steel e violino affiancava il suono delle chitarre elettriche suonate in modalità twang (cioè utilizzando le corde alte), con arrangiamenti diretti e che poco avevano da spartire con le sonorità di Nashville. Gli anni sessanta ed i primi anni settanta sono quelli ricchi di maggior successo per il nostro, con una lunga serie di canzoni andate al primo posto in classifica (a fine carriera i singoli al numero uno saranno addirittura una quarantina), brani epocali come Mama Tried (riproposta più volte dal vivo anche dai Grateful Dead), la splendida Sing Me Back Home, Hungry Eyes, The Legend Of Bonnie And Clyde, I Wonder If They Ever Think Of Me, If We Make It Through December, solo per citare le più note (ma anche gli album del periodo sono notevoli, specie Swinging Doors, Sing Me Back Home, Hag, It’s Not Love (But It’s Not Bad)).

Un caso a parte è rappresentato da Okie From Muskogee, un brano del 1969 (anch’esso un numero uno), in cui Merle, ormai identificato come la voce della working class e dell’americano medio, se la prende con gli hippies ed il loro modo di vivere e di concepire l’amore; un pezzo che gli attira addosso una lunga serie di critiche dall’intellighenzia di sinistra per le sue posizioni largamente conservatrici: non è mai stato molto chiaro se Merle ce l’avesse davvero con gli hippies o se la sua fosse una parodia del classico redneck reazionario (ma io propendo per la prima ipotesi), certo che il suo singolo successivo The Fightin’ Side Of Me, brano farcito di patriottismo e che deride le posizioni anti-guerra in Vietnam, non contribuisce a placare gli animi.

Dalla seconda metà degli anni settanta (durante i quali viene associato al movimento degli Outlaws, anche se non ne farà mai veramente parte) e per tutti gli anni ottanta, complici anche le mode che cambiano, i successi si diradano, anche se in maniera minore rispetto ad altri colleghi (come Johnny Cash): le belle canzoni non mancano di certo, come I Think I’ll Just Stay Here And Drink, Big City, e duetti fortunati come Yesterday’s Wine con George Jones e Pancho And Lefty con Willie Nelson (bello il video, al quale partecipa anche l’autore del brano, Townes Van Zandt), e proprio con Nelson incide negli eighties anche due album, Pancho And Lefty appunto (che vende moltissimo), e Seashores Of Old Mexico (che vende molto poco).

Gli anni novanta sono ancora più avari, solo tre album, che seppur buoni (specie 1994 e 1996, della serie la fantasia al potere…) vengono praticamente ignorati; fortunatamente nel nuovo secolo Merle ricomincia ad incidere dischi con più regolarità e con una qualità mediamente alta, con punte come If I Could Only Fly (2000), Roots, Volume 1 (2001), Haggard Like Never Before (2003) e I Am What I Am (2010), anche se i due successi più grandi li ha ancora con Wille Nelson, prima con l’album in trio assieme anche a Ray Price, Last Of The Breed (2007) e soprattutto con lo splendido Django And Jimmie dello scorso anno, che ci presenta due artisti in forma smagliante e con un’intesa incredibile, un disco che al momento dell’uscita mai avrei immaginato che sarebbe diventato il canto del cigno di Haggard (ed è stato anche il suo primo numero uno dopo una vita) http://discoclub.myblog.it/2015/07/07/due-vispi-giovanotti-willie-nelson-merle-haggard-django-and-jimmie/ .

Se ne va quindi una delle figure centrali della country music, che ha influenzato legioni di musicisti venuti dopo di lui, come Dwight Yoakam, George Strait, Alan Jackson, Brad Paisley e Jamey Johnson, e che ci lascia un songbook che pochi tra i suoi colleghi possono vantare. Ora me lo immagino già formare una superband con Cash, George Jones e Waylon Jennings, quasi una sorta di Highwaymen In Heaven.

E sono sicuro che il più rompiscatole dei quattro sarà proprio lui.

Marco Verdi

P.S: magari sarò smentito, ma sono praticamente certo che la morte di Haggard verrà praticamente ignorata dai media italiani, specie quelli televisivi, dato che la sua figura (ma tutto il country in generale) non è mai stata popolarissima nel nostro paese. Ma forse è meglio così, già tremo al pensiero di ciò che potrebbe dire di lui il mitico Mollicone (uno che ha riassunto la figura di Elvis Presley con “un simpatico mascalzone”).