Non E’ Mai Troppo Tardi Per Scoprirli. Eleven Hundred Springs – Here ‘Tis

eleven hundred springs here 'tis

Eleven Hundred Springs – Here ‘Tis – State Fair CD

In passato non ci siamo mai occupati degli Eleven Hundred Springs, un sestetto di countrymen duri e puri provenienti da Dallas: eppure stiamo parlando di una band che è in giro da più di due decadi e che ha una discografia di ben dieci album di studio. A livello locale sono una piccola celebrità, grazie anche ai molti concerti che tengono durante l’anno ed al fatto che tra i loro ammiratori c’è anche un certo Lloyd Maines. Nel corso degli anni gli EHS hanno cambiato formazione più di una volta, ed attualmente gli unici membri fondatori ancora nel gruppo sono il cantante e chitarrista Matt Hillyer ed il bassista Steven Berg, coadiuvati da Chad Rueffer alla chitarra e voce, Jordan Hendrix al violino, Ray Austin a steel e dobro e Christian Dorn alla batteria. Here’Tis è il nuovissimo lavoro della band texana, ed è un perfetto esempio di pura country music del Lone Star State, una miscela vincente di honky-tonk, swing, rockabilly e bluegrass perfetta da ascoltare guidando su lunghe strade che si perdono nel nulla o anche a casa mentre si gusta una bella birra.

I nostri sanno il fatto loro, compongono canzoni che profumano di tradizione ma hanno il ritmo nel dna e se le producono da soli: il risultato sono 34 minuti di puro e coinvolgente Texas country fatto alla vecchia maniera e suonato in modo scintillante. L’iniziale This Morning It Was Too Late è una limpida e solare country ballad dalla melodia tersa ed aperta ed un accompagnamento elettroacustico d’altri tempi, con menzioni particolari per la steel ed il chitarrone anni cinquanta. Con All Jokes Aside aumenta il ritmo, ed il brano è dotato di un motivo immediato e da canticchiare dopo il primo ascolto, con ottimi interventi ancora di steel e di un violino quasi cajun; la cadenzata Miles Apart è musica texana doc, con l’influenza di Waylon Jennings, un train sonoro coinvolgente e la solita linea melodica estremamente gradevole, mentre Fair Weather Friend porta il disco agli albori della nostra musica, quando il country era rappresentato da Bob Wills e Bill Monroe, un pezzo suonato in punta di dita e con steel, chitarra elettrica e violino che si alternano negli assoli.

Let’s Move Out To The Country è puro rockin’ country ricco di ritmo e swing, la languida The Song You’ll Never Hear un delizioso honky-tonk caratterizzato da uno dei motivi migliori del lavoro, Looking Back una fresca e vivace country song dalla ritmica pimpante: gli EHS mi ricordano un po’ gli ormai sciolti BR5-49, per la bravura nel tessere melodie semplici ed immediate ed il sound in bilico tra tradizione e modernità https://www.youtube.com/watch?v=czRDZ4xEfXI . La frenetica Let Me Be Your Man è puro swing d’altri tempi https://www.youtube.com/watch?v=LIUV6bZYmx8 , Let Tomorrow Wait And See ha uno stile che appartiene più ai giorni nostri ma il ritmo non molla (ed anche qui violino e steel la fanno da padroni); la conclusiva Nobody Cares ci lascia con l’ennesimo brano diretto e fluido, di quelli che piacciono sin dai primi accordi e che ci fa venire voglia di rimettere il disco da capo.

Marco Verdi

E’ Già Prolifico Di Suo, E Adesso Ristampa Pure I (Bei) Dischi Dal Vivo Di Qualche Anno Fa! Dale Watson – Live Deluxe…Plus

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Dale Watson – Live Deluxe…Plus – Red River/BFD 2CD

Dale Watson, countryman nativo dell’Alabama ma texano a tutti gli effetti, è sempre stato uno molto prolifico, ma negli ultimi anni ha spesso garantito una qualità superiore alla media: Call Me Insane, Under The Influence e Dale & Ray (in coppia con Ray Bensonhttps://discoclub.myblog.it/2017/03/29/la-quintessenza-del-country-texano-dale-watson-ray-benson-dale-ray/  sono tra i dischi migliori del musicista dai capelli color argento. Ora, a pochi mesi dalla sua ultima fatica in studio Call Me Lucky, Dale ha deciso di cavalcare il momento dando alle stampe questo Live Deluxe…Plus, un doppio CD inciso dal vivo con all’interno ben 46 canzoni, una sorta di antologia completa non solo del nostro ma della migliore musica texana da bar in circolazione, da parte di un artista che è rimasto tra i pochi a suonare country music dura e pura. Ma attenzione, se pensate di avere tra le mani un album nuovo di zecca devo deludervi, in quanto Live Deluxe…Plus non è altro che la ristampa di due precedenti uscite del nostro, Live In London…England! del 2002 e Live At Newland, NL del 2006 (che era a sua volta un doppio ma qui è stato accorciato per farlo stare su un dischetto solo, eliminando le canzoni in comune con il primo CD): due lavori ormai fuori catalogo, con l’aggiunta di due pezzi nuovi di zecca incisi in studio (il “plus” del titolo).

Se non possedete i due album originali questa nuova uscita è quindi da tenere nella dovuta considerazione, in quanto siamo di fronte ad un musicista che fa del vero country, ha ritmo e feeling oltre ad essere un consumato animale da palcoscenico, ed è accompagnato da una band coi fiocchi, i Lone Stars, un terzetto formato dalla sezione ritmica di Chris Crepps (basso) e Mike Bernal (batteria) più la splendida steel di Don Pawlak, un vero fuoriclasse dello strumento. Live Deluxe…Plus si ascolta tutto d’un fiato nonostante duri complessivamente più di due ore e mezza non essendoci differenze di stile tra primo e secondo CD, entrambi all’insegna di un rockin’ country elettrico e dal ritmo contagioso, con frequenti omaggi al classico suono texano: il tutto si gusta al meglio se accompagnato da una bella birra ghiacciata. La specialità della casa sono chiaramente i brani in stile honky-tonk, come Real Country Song, in cui Dale sembra George Jones redivivo, la guizzante Ain’t That Livin’, la limpida e solare Turn Off The Jukebox, la squisita Honky Tonkers o la romantica You Pour Salt In The Wound (i brani che non cito non è che siano brutti, ma non posso nominarli tutti e 46). Poi abbiamo molte escursioni in territori vicini al rock’n’roll, con canzoni country elettriche e vitali del calibro di Can’t Be Satisfied, robusta outlaw song alla Waylon, la scintillante Another Day, Another Dollar, le ritmatissime Nashville Rash e Lee’s Liquor Lounge, entrambe molto Johnny Cash (grandissima qui la steel), la spiritosa Country My Ass che invece ricorda Willie Nelson, la swingatissima Making Up Time, ritmo e feeling a piene mani, la coinvolgente Luther con il suo chitarrone twang o la bellissima Whiskey Or God, che Dale dice essere ispirata proprio dall’Uomo In Nero (così come Yellow Mama, che in Alabama è come chiamano la sedia elettrica: puro boom-chicka-boom).

Senza dimenticare l’autentico western swing di South Of Round Rock Texas. Le ballate sono più rare nel repertorio del nostro, ma il suo vocione baritonale si presta anche ai pezzi più lenti, come la languida Heart Of Stone, You Are My Friend, tipica cowboy song texana, la malinconica I’m Wondering, scritta con Raul Malo (e si sente), I See Your Face, tenue, nostalgica e decisamente anni sessanta, e Tequila And Teardrops, dal profumo di confine. Infine Dale ci regala anche qualche cover, mostrando innanzitutto il suo amore per Merle Haggard (le brillanti Mama’s Hungry Eyes e I Take A Lot Of Pride In What I Am) e poi omaggiando Jimmie Rodgers con una trascinante In The Jailhouse Now, Ray Price con la raffinata Bright Lights And Blonde-Haired Women, ancora Cash con una travolgente I Got Stripes e Billy Joe Shaver con la cadenzata Way Down Texas Way (canzone scritta da Billy per gli Asleep At The Wheel). Dulcis in fundo, i due brani nuovi, posti in fondo al primo CD: You’ll Cry Too è un lentaccio romantico nel classico stile di Elvis, con tanto di coro maschile in sottofondo a cura dei Blackwood Brothers, mentre The Party’s Over è ancora una ballata dal sapore sixties ma con in più un gradito tocco mexican.

So che è difficile stare dietro a tutte le uscite targate Dale Watson, ma questa, se non possedete i due live originali, fa parte di quelle da accaparrarsi.

Marco Verdi

Finché La Barca (Country) Va, Lasciala…Suonare! VV. AA. – A Tribute To The Bakersfield Sound Live!

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VV.AA. – A Tribute To The Bakersfield Sound Live! – TimeLife CD

Non sono certo io a dovervi spiegare l’importanza che ha avuto il cosiddetto Bakersfield Sound (dal nome della cittadina californiana di Bakersfield, da cui tutto ebbe origine) nell’ambito della musica country: movimento nato negli anni cinquanta in contrapposizione con il crescente suono di Nashville, era caratterizzato da un suono comunque classico ma con una strumentazione diretta e “rock”, senza le melensaggini tipiche della capitale del Tennessee. I due pionieri del genere furono sicuramente Buck Owens e Merle Haggard, due grandissimi autori e performers che influenzarono notevolmente le generazioni di musicisti a venire, Dwight Yoakam e Marty Stuart su tutti. Lo scorso anno si è tenuta in acque americane una crociera a tema country, la StarVista Live Country Music Cruise, con veri concerti e serate a tema: uno degli eventi di punta è stato sicuramente il tributo al suono di Bakersfield, fortemente voluto dai musicisti Wade Hayes e Chuck Mead (quest’ultimo ex leader dei bravissimi BR5-49), concerto che oggi possiamo goderci anche noi grazie a questo A Tribute To The Bakersfield Live!

Il dischetto è decisamente ben fatto ed estremamente gradevole, con Hayes e Mead che si alternano come voce solista, ben sostenuti dai Grassy Knoll Boys (la band che solitamente accompagna Mead dal vivo): musica pimpante e coinvolgente, con chitarre, piano e steel in evidenza e ritmo spesso elevato, con alla fine della serata (anzi, mattinata, il concerto si è tenuto al mattino) una serie di ospiti a rendere più appetitoso il piatto. Il disco è anche una sorta di tributo ad Owens e Haggard, dato che il 90% delle canzoni incluse proviene dai loro songbook: si parte subito con una tripletta di Buck, prima con una vivace versione strumentale della classica Buckaroo (con la steel in gran spolvero), seguita da una bellissima rilettura della leggendaria Streets Of Bakersfield, in odore di Messico, e da una scintillante I’ve Got A Tiger By The Tail. Swinging Doors è una delle più note di Haggard, e Hayes si destreggia decisamente bene supportato al meglio da Mead & Band: puro country; Above And Beyond è ricca di swing, e certifica l’ottima intesa tra i due leader, mentre The Bottle Let Me Down, ancora Hag, è una delle più famose drinkin’ songs di sempre, puro honky-tonk di gran classe.

Close Up The Honky Tonks è uno dei pezzi più famosi di Owens, versione limpida e godibilissima, Big, Big Love è la prima di due canzoni a non essere né di Buck né di Merle, bensì di Wynn Stewart, ed è un trascinante e ritmato brano tra country e rockabilly, così come Big City (torniamo a Haggard), swingata e di fattura squisita. La guizzante Hello Trouble vede il primo ospite, cioè il cantante e pianista di Nashville Tim Atwood, che se la cava egregiamente, seguito a ruota da Emily West, che nobilita con la sua bella voce la languida ballad Together Again; Johnny Lee presta il suo vocione vissuto a Carolyn, raffinata e suonata in punta di dita, mentre lo slow Cryin’ Time è affidato a Rudy Gatlin. Gran finale con Ray Benson, mitico leader degli Asleep At The Wheel, che sprizza carisma da ogni nota nell’intensa Misery And Gin, e poi tutti insieme sul palco per il superclassico di Joe Maphis Dim Lights, Thick Smoke (And Loud, Loud Music), gioiosa e coinvolgente come sempre.

Bel dischetto, fresco e rigenerante.

Marco Verdi

Non E’ Texano, Ma Non Ditelo A Nessuno! Frank Foster – ‘Til I’m Gone

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Frank Foster – ‘Til I’m Gone – Lone Chief CD

Frank Foster, country-rocker nato in Louisiana 36 anni fa, è l’esempio vivente che si può fare dell’ottimo country indipendente e non compromesso con il suono pop di Nashville, ritagliandosi a poco a poco una discreta fetta di mercato. Il nostro infatti ha esordito nel 2011 con Rowdy Reputation, creandosi un seguito non indifferente a forza di un disco all’anno, il tutto incidendo e distribuendo i propri lavori senza il supporto di una major (ed ogni album ha venduto qualcosa in più del precedente). In più, Foster fa del vero country, elettrico, grintoso, chitarristico e coinvolgente, per nulla commerciale, ed anche nelle ballate non scende mai sotto il livello di guardia: Good Country Music, il suo penultimo album uscito all’incirca un anno fa, aveva nel titolo l’essenza della sua proposta, una musica di livello egregio, suonata e cantata come ogni vero countryman dovrebbe fare https://discoclub.myblog.it/2017/02/28/buona-musica-countryil-titolo-fa-fede-frank-foster-good-country-music/ .

Til I’m Gone è il titolo del nuovo disco di Frank, che non cambia di una virgola il contenuto: country-rock diretto e sanguigno, dieci canzoni ben scritte da Foster stesso e suonate da un gruppo di gente tosta quanto sconosciuta, con i due chitarristi Rob O’Block e Topher Petersen a guidare le danze, ben coadiuvati dalla sezione ritmica di Caleb Hooper (basso) e Jeremy Warren (batteria), dalle tastiere di James Farrell e dall’ottima steel di Kyle Everson. La title track apre il CD, ma è anche il brano meno interessante: la voce è country, l’accompagnamento decisamente elettrico e chitarristico, ma il ritmo non è particolarmente elevato ed il tutto sembra sempre sul punto di accelerare ma la cosa non avviene, dando una sensazione di staticità. Something ‘Bout Being Free si apre con un jingle-jangle byrdsiano, subito seguito da una chitarra ruspante ed una ritmica stavolta sì sostenuta, un rock’n’roll davvero godibile che ci fa dimenticare l’inizio incerto (e non sono estranei elementi sudisti); divertente e piacevole anche #3 Sticker, altro rockin’ country vigoroso e trascinante, con un sound chitarristico di quelli che piacciono a noi, e che dal vivo sono in grado di far saltare tutta la sala.

Pure Homebody Ramblin’ Man Blues è elettrica e cadenzata, ma la steel la rende più country, anche se lo spirito rock’n’roll non rimane certo nelle retrovie, mentre Playin’ For Drinks è puro honky-tonk, suonato e cantato a regola d’arte, un suono texano al 100% (anche se, come detto, Frank non proviene dal Lone Star State) e con la steel più in palla che mai. About The Beer ha una ritmica spezzettata, quasi funky, un organo caldo che le dona un sapore sudista ed un refrain diretto, Beer Drinkin’ Buddies è una ballatona ancora di stampo texano, lenta, vibrante e senza il minimo accenno di mollezze, anzi anche qui la strumentazione è decisamente elettrica, mentre This Evenin’, sempre con le chitarre in primo piano, è più attendista ma ha uno sviluppo fluido e disteso. Il disco si chiude con lo slow acustico Age, invero molto breve, e con la country-rock song d’atmosfera In The Wind, altro pezzo con il Sud nel sangue ed una bella slide a commentare i passaggi vocali del leader.

Con ‘Til I’m Gone Frank Foster si conferma un countryman di ottimo livello, ed il fatto di pubblicare un disco all’anno non gli sta pesando affatto in termini di qualità.

Marco Verdi

La Quintessenza Del Country Texano! Dale Watson & Ray Benson – Dale & Ray

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Dale Watson & Ray Benson – Dale & Ray – Ameripolitan/Home CD

Dale Watson, texano doc, anche se è nato in Alabama, ormai viaggia al ritmo di due dischi all’anno. Lo avevamo lasciato nel 2016 prima a cantare dal vivo in mezzo alle galline (ed ai loro escrementi) nel bizzarro Chicken Shit Bingo e poi ad affrontare l’immancabile cover album che prima o poi tutti fanno (Under The Influence) http://discoclub.myblog.it/2016/11/25/ecco-altro-che-dischi-ne-fa-pochini-dale-watson-under-the-influence/ , che è già ora di rivederlo tra le nuove uscite. Ma questa volta Dale ha fatto le cose in grande, unendo le forze con Ray Benson, che in Texas è una vera e propria leggenda vivente, grazie alla sua leadership degli Asleep At The Wheel, grande gruppo country e western swing, veri eredi di Bob Wills & His Texas Playboys (ai quali hanno dedicato più di un tributo). I due in passato si erano sfiorati varie volte, ma un disco insieme non erano mai riusciti a farlo, almeno fino all’anno scorso, quando si sono presi il tempo necessario e si sono trovati in uno studio di Austin insieme ad un manipolo di musicisti con la “m” maiuscola, tra cui ben tre membri della band di Watson, i Lone Stars (Chris Crepps al basso, Mike Bernal alla batteria e l’ottimo Don Pawlak alla steel), più il figlio di Ray, Sam Seifert, alla chitarra elettrica (Seifert è il vero cognome di Benson), la nostra vecchia conoscenza Lloyd Maines sempre alla steel ed il bravissimo Dennis Ludiker al violino: Dale & Ray è il risultato di queste sessions, un ottimo disco di puro Texas country, ad opera di due musicisti in grande forma, un album che è anche la cosa migliore che hanno fatto da anni a questa parte.

E non è che i nostri si siano rivolti a songwriters esterni, in quanto, delle dieci canzoni totali, ben otto sono state scritte a quattro mani appositamente per questo progetto dai due texani (Benson è di Philadelphia, ma ormai è più texano di uno nato a Dallas) e solo due sono covers. Solo mezz’ora di musica, ma mezz’ora davvero intensa, all’insegna della miglior Texas music: gran ritmo, chitarre in tiro (Watson è un bravo chitarrista), honky-tonk scintillanti e grande uso di steel e violino. Niente di rivoluzionario, ma quello che c’è è fatto benissimo, con la ciliegina delle splendide voci baritonali dei due leader, entrambe profonde e carismatiche. Il classico disco just for fun, ma allo stesso tempo decisamente professionale e godibile dalla prima all’ultima nota. The Ballad Of Dale & Ray è perfetta per aprire il disco, uno scintillante honky-tonk elettrico con le due voci che si alternano con consumato mestiere, un brano divertente che è anche una dichiarazione d’intenti, con i due che elencano tutta una serie di cose che amano (dalla Lone Star Beer, al fumare erba, fino a Merle Haggard e Johnny Cash). Feelin’ Haggard è proprio un commosso omaggio al grande Hag, un brano che parla delle loro reazioni sconvolte alla notizia della morte del leggendario countryman avvenuta lo scorso anno, una languida ballata nel cui testo i due leader giocano ad inserire titoli di canzoni di Merle (e che voci); I Wish You Knew è un’energica cover di un antico brano dei Louvin Brothers, ritmo acceso con i due texani che si trovano nel loro ambiente naturale (e gran lavoro di steel e violino), mentre Bus’ Breakdown è un gioioso pezzo dal ritmo forsennato, con i nostri che mostrano di divertirsi non poco.

Write Your Own Songs, preceduta da un’introduzione parlata, è una strepitosa cover di un classico dell’amico Willie Nelson, una versione formidabile che rimanda più ai brani lenti degli anni settanta di Waylon che a quelli di Willie; Cryin’ To Cryin’ Time Again è invece un omaggio a Buck Owens (il brano è originale, ma Cryin’ Time era un classico di Buck), con i due che portano un pezzo di Texas a Bakersfield, un altro honky-tonk limpido e suonato con classe sopraffina, mentre Forget About Tomorrow Today è puro Lone Star country, ancora gran ritmo, voci perfette e notevoli assoli, ancora di steel e fiddle. A Hungover Ago è l’ennesimo brillante honky-tonk della carriera di Watson, un vero specialista in materia, con Benson che si adegua più che volentieri, e nella fattispecie uno dei pezzi più riusciti del CD; finale a tutto ritmo con la spedita e swingata Nobody’s Ever Down In Texas, nella quale la classe del duo fuoriesce alla grande (e questo è il brano più vicino allo stile degli Asleep At The Wheel), e con la deliziosa Sittin’ And Thinkin’ About You, una vera country song d’altri tempi. Dale Watson è una forza della natura (ma la qualità nei suoi dischi non manca mai), ed ora che ha coinvolto anche Ray Benson ci auguriamo che Dale & Ray non resti un episodio isolato.

Marco Verdi

Ecco Un Altro Che Di Dischi Ne Fa Pochini! Dale Watson – Under The Influence

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Dale Watson – Under The Influence – Red River CD

Dale Watson, countryman nato in Alabama ma texano al 100%, è sempre stato uno prolifico, ma ultimamente non si ferma più, in quanto si è ormai messo a viaggiare al ritmo di due dischi all’anno: lo avevamo da poco lasciato tra bingo ed escrementi di gallina nello strano live Chicken Shit Bingo http://discoclub.myblog.it/2016/10/24/cacca-gallina-vero-chitarre-dale-watson-his-lonestars-live-at-the-big-t-roadhouse/  che subito ci ritroviamo tra le mani questo Under The Influence, nel quale Dale, come suggerisce il titolo, paga il suo tributo ad artisti e canzoni importanti per la sua formazione musicale. Watson, nonostante la prolificità, è uno che raramente delude, magari non farà mai il capolavoro assoluto, ma quando si mette nel lettore uno dei suoi CD si può star certi di passare una quarantina di minuti in compagnia di ottimo country-rock texano, elettrico e pieno di ritmo, tra honky-tonk fulminanti, gustosi swing e ruspanti boogie e rockabilly, con il vocione del nostro a dominare ed il preciso accompagnamento dei fidi Lone Stars (Chris Crepps al basso, Mike Bernal alla batteria, l’ottimo Don Pawlak alla steel, vero strumento protagonista nell’economia del suono della band, oltre a Earl Poole Ball e T Jarod Bonta al piano).

Under The Influence è un disco decisamente più serio del live da poco pubblicato, e ci fa ritrovare il Watson che più apprezziamo, che, alle prese con un repertorio di grandi canzoni come quelle da lui scelte per questo progetto, non può che fare faville: in più, oltre ad indicare come da prassi i titoli dei brani ed i loro autori, Dale specifica anche a quale versione si è ispirato per la sua cover. Ed il risultato è, come potete intuire, decisamente riuscito. Lonely Blue Boy, un successo di Conway Twitty, ha un delizioso sapore retrò, con tanto di cori doo-wop, gran voce di Dale ed un piacevole alone nostalgico https://www.youtube.com/watch?v=6Dxe0gVPu6U ; You’re Humbuggin’ Me, resa nota da Lefty Frizzell, è puro rockabilly texano, fresco, ritmato e coinvolgente, con un ottimo uso del piano, mentre Lucille, il noto brano di Little Richard, è però riproposto basandosi sulla versione di Waylon Jennings, e Watson mantiene intatta l’atmosfera tipica dello scomparso outlaw, voce tonante, suono potente ed un’aria southern che non guasta. Made In Japan (Buck Owens) è country puro e scintillante, con una splendida steel, melodia classica e grande feeling, That’s What I Like About The South appartiene invece al repertorio di Bob Wills ed è, manco a dirlo, un guizzante western swing dal ritmo acceso ed assoli continui, un elemento in cui il nostro si trova particolarmente a suo agio, mentre Here In Frisco è il primo di due tributi a Merle Haggard, un bellissimo slow in puro Bakersfield style, con la voce di Dale che evoca quella del grande Hag.

Ancora country puro con Pretty Red Wine, di Mel Tillis, un brano saltellante, cadenzato e godibilissimo, con gustosi intrecci tra la chitarra di Watson e la steel di Pawlak; Pure Love è un pezzo scritto da Eddie Rabbitt ma reso popolare da Ronnie Milsap, un brano mosso, anch’esso caratterizzato da un motivo molto classico, ma non intriso di pop come ha spesso fatto il famoso cantante non vedente; I Don’t Wanna Go Home è un giusto omaggio a Doug Sahm con una languida ballata, non male ma io avrei preferito un bel tex-mex, o qualcosa che comunque identificasse meglio l’ex Texas Tornado. Il CD si chiude con il ritmato honky-tonk Most Wanted Woman (Roy Head), un tipo di canzone che Dale canta anche sotto la doccia, la ruspante e roccata If You Want To Be My Woman, ancora Haggard, e con il superclassico Long Black Veil, un brano che hanno rifatto in mille (ricordo splendide versioni di The Band, Joan Baez, Mick Jagger con i Chieftains ed anche di Nick Cave), ma Watson si ispira alla famosa rilettura di Johnny Cash, anche se il confronto con l’Uomo in Nero è assai arduo per chiunque.  Un’altra buona prova per Dale Watson: adesso speriamo che si prenda almeno sei mesi di pausa prima di un altro disco.

Marco Verdi

Questo E’ L’Anno? Lo Spero Per Loro, Lo Meritano! Yarn – This Is The Year

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Yarn – This Is The Year – Red Bush CD

In passato mi ero già occupato un paio di volte per il Buscadero (ma non ancora sul Blog) degli Yarn, quartetto originario di Brooklyn, e ne avevo parlato bene: il gruppo, attivo dal 2007, ha già alle spalle ben cinque album, più due collezioni di outtakes di studio (Leftovers Vol. 1 & 2) che erano allo stesso livello di un normale disco, e la qualità media è sempre stata piuttosto alta. La band è guidata da Blake Christiana, che scrive tutte le canzoni, le canta e suona la chitarra ritmica, coadiuvato da Roderick Hohl alla solista, Robert Bonhomme al basso e Rick Bugel alla batteria, e da sempre propone una intrigante miscela di country, folk e rock, senza pretendere di inventare nulla ma facendo molto bene quello che fa. Un gruppo di Americana al 100% dunque, con una capacità innata da parte di Christiana di scrivere canzoni di presa immediata, classiche nel suono e senza strani arzigogoli o velleità moderne: This Is The Year è il loro nuovissimo lavoro, e dopo un attento ascolto posso affermare che, fortunatamente, i ragazzi non hanno cambiato una virgola del loro suono, ma a mio parere hanno addirittura alzato ancora il livello, in quanto le canzoni qui sono decisamente migliori che negli album precedenti e la loro intesa si è ulteriormente perfezionata (merito pure dei circa 170 concerti che tengono durante l’anno, che hanno dato loro modo di crearsi anche un bel seguito).

Country-rock di ottima levatura, con un livello di songwriting eccellente ed una performance complessiva degna di nota: non ci sono altri sessionmen in studio, ed il disco è autoprodotto, a testimonianza del fatto che gli Yarn non vogliono perdere il controllo di quello che fanno, ed i fatti hanno dato loro ragione in quanto This Is The Year può tranquillamente essere messo tra i migliori dischi del genere usciti negli ultimi due-tre mesi. L’apertura è affidata a Carolina Heart, una tenue e soffusa ballata suonata in punta di dita e con uno stile che fonde country, rock e Paul Simon (dopotutto i ragazzi sono di New York), begli arpeggi chitarristici ed una melodia fresca e piacevole. La title track è più elettrica, con un non so che di Neil Young, ritmo secco ed un suono di chitarra ruspante, il tutto però rilasciato con garbo e misura; Love/Hate, per contro, ha un leggero sapore pop-errebi ma si fa apprezzare lo stesso (sorprende la capacità dei nostri di creare melodie semplici ed immediate), mentre Fallin’ è una splendida ballata lenta, di quelle che solo i grandi autori sanno scrivere, con un motivo fluido e toccante ed un’atmosfera crepuscolare di grande fascino. E siamo solo al quarto pezzo.

La spedita I’m The Man è una sorta di honky-tonk elettrico, gustosissimo e tra le più dirette del CD, cantata da Blake con uno studiato distacco, che ricorda l’approccio che caratterizzava le interpretazioni di Lowell George: il ritornello, poi, è irresistibile; Now You’re Gone ha un riff secco, alla Steve Earle, ed il brano è un country-rock elettrico decisamente accattivante, Sweet Dolly ha un’andatura saltellante ed ancora rimandi ad un certo cantautorato classico, anche questa ben costruita ed assolutamente valida. Ma non c’è un solo brano sottotono: la mossa Easy Road è bellissima, coinvolgente, da canticchiare al primo ascolto, Long Way To Texas è un rockabilly d’altri tempi, con un buon pickin’ chitarristico, ed anche Life Is Weird fa restare il disco in territori bucolici, con un leggero retrogusto folk ed il solito refrain da applausi. L’album si chiude con la classica (nel suono) Simple Life I Ride, altra cristallina country ballad, e con la gentile e rilassata I Let You Down.

This Is The Year: speriamo che per gli Yarn questo titolo sia di buon auspicio, se lo meriterebbero.

Marco Verdi