Un Bel “Debutto” Dal Vivo Per Un Texano Doc. Tracy Byrd – Live At Billy Bob’s Texas

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Tracy Byrd – Live At Billy Bob’s Texas – Smith Music Group CD – DVD

Tracy Byrd ha ormai superato i 25 anni di attività, ed è oggi uno degli acts di vero country più popolari in USA, avendo alle spalle diversi album e singoli che si sono piazzati nelle primissime posizioni delle classifiche di settore. Tracy da tempo appartiene al mondo di Nashville, ma non è uno dei tanti fantocci che girano nella capitale del Tennessee, bensì un musicista vero, autentico, autore di un country-rock robusto ed elettrico: non per niente è un texano, e si sa che in campo musicale spesso le origini contano, specialmente quando riguardano il Lone Star State. Byrd ha finora accumulato una decina di album in studio, ma stranamente non aveva ancora pubblicato un disco dal vivo: ora però il nostro ha riempito la casella con il cinquantunesimo episodio della fortunata serie Live At Billy Bob’s Texas, una serie di spettacoli che da anni si svolgono nel famoso locale del titolo che sorge a Fort Worth.

Il concerto (che esce separatamente anche in DVD) offre una panoramica esauriente sulla carriera di Byrd, uno che è abituato a rivestire le sue canzoni di sonorità ruspanti, elettriche e con le chitarre sempre in evidenza, grazie anche ad una band tostissima che comprende l’ottimo Zach Gonzalez alla solista, Marty Broussard alla steel (altra grande protagonista del suono), Vernon Emshoff alle tastiere, Dale Morris Jr. al violino e la vigorosa sezione ritmica formata dal bassista Kyle Hebert e Tyler Henderson, ai quali ovviamente sono da aggiungere la chitarra acustica del leader che conferma di avere anche una gran voce. Il Billy Bob’s Texas è quindi la location perfetta per Tracy e la sua band, grazie ad un pubblico sempre caldissimo ed alla tipica atmosfera da bar texano, ed i nostri ripagano l’audience con una performance intensa e coinvolgente. Diciannove i brani proposti, dall’iniziale It’s About The Pain, un rockin’ country trascinante e diretto, alla conclusiva ed irresistibile Watermelon Crawl, un percorso nel quale Byrd propone molti dei suoi successi più noti pescando anche qualche brano meno popolare scelto con cura all’interno della sua discografia.

Ovviamente i pezzi più apprezzati sono quelli più mossi, giusto a metà tra puro country e rock’n’roll, come la splendida Ten Rounds With Jose Cuervo, la travolgente I’m From The Country, ritmo e chitarre a tutto spiano, la vibrante Big Love, dal refrain che va subito a segno, la scatenata Holdin’ Heaven e la coinvolgente Drinkin’ Bone, con chitarre, steel e violino che creano un impasto sonoro difficile da ignorare. Il nostro non delude neppure nelle ballads, vero tallone d’Achille per molti countrymen di stanza a Nashville, dalla tersa Hot Night In The Country, che presenta una strumentazione comunque solida, alla pianistica I Want To Feel That Way Again, puro romanticismo da cowboy, passando per la bella Love Lessons, che sembra un classico lento alla George Jones, senza tralasciare Someone To Give My Love To, ballatona texana al 100% e Keeper Of The Stars, contraddistinta da una melodia struggente. Ci sono anche tre covers: un’ottima ripresa del classico di Waylon Jennings Lonesome, On’ry And Mean, bella robusta, una fluida e limpida Wildfire di Michael Martin Murphy e la scintillante Don’t Take Her She’s All I Got, brano scritto da Gary U.S. Bonds e già portato al successo da Johnny Paycheck.

Ora anche Tracy Byrd ha il suo bel disco dal vivo, e visti i risultati mi chiedo perché abbia aspettato tanto.

Marco Verdi

E’ Già Prolifico Di Suo, E Adesso Ristampa Pure I (Bei) Dischi Dal Vivo Di Qualche Anno Fa! Dale Watson – Live Deluxe…Plus

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Dale Watson – Live Deluxe…Plus – Red River/BFD 2CD

Dale Watson, countryman nativo dell’Alabama ma texano a tutti gli effetti, è sempre stato uno molto prolifico, ma negli ultimi anni ha spesso garantito una qualità superiore alla media: Call Me Insane, Under The Influence e Dale & Ray (in coppia con Ray Bensonhttps://discoclub.myblog.it/2017/03/29/la-quintessenza-del-country-texano-dale-watson-ray-benson-dale-ray/  sono tra i dischi migliori del musicista dai capelli color argento. Ora, a pochi mesi dalla sua ultima fatica in studio Call Me Lucky, Dale ha deciso di cavalcare il momento dando alle stampe questo Live Deluxe…Plus, un doppio CD inciso dal vivo con all’interno ben 46 canzoni, una sorta di antologia completa non solo del nostro ma della migliore musica texana da bar in circolazione, da parte di un artista che è rimasto tra i pochi a suonare country music dura e pura. Ma attenzione, se pensate di avere tra le mani un album nuovo di zecca devo deludervi, in quanto Live Deluxe…Plus non è altro che la ristampa di due precedenti uscite del nostro, Live In London…England! del 2002 e Live At Newland, NL del 2006 (che era a sua volta un doppio ma qui è stato accorciato per farlo stare su un dischetto solo, eliminando le canzoni in comune con il primo CD): due lavori ormai fuori catalogo, con l’aggiunta di due pezzi nuovi di zecca incisi in studio (il “plus” del titolo).

Se non possedete i due album originali questa nuova uscita è quindi da tenere nella dovuta considerazione, in quanto siamo di fronte ad un musicista che fa del vero country, ha ritmo e feeling oltre ad essere un consumato animale da palcoscenico, ed è accompagnato da una band coi fiocchi, i Lone Stars, un terzetto formato dalla sezione ritmica di Chris Crepps (basso) e Mike Bernal (batteria) più la splendida steel di Don Pawlak, un vero fuoriclasse dello strumento. Live Deluxe…Plus si ascolta tutto d’un fiato nonostante duri complessivamente più di due ore e mezza non essendoci differenze di stile tra primo e secondo CD, entrambi all’insegna di un rockin’ country elettrico e dal ritmo contagioso, con frequenti omaggi al classico suono texano: il tutto si gusta al meglio se accompagnato da una bella birra ghiacciata. La specialità della casa sono chiaramente i brani in stile honky-tonk, come Real Country Song, in cui Dale sembra George Jones redivivo, la guizzante Ain’t That Livin’, la limpida e solare Turn Off The Jukebox, la squisita Honky Tonkers o la romantica You Pour Salt In The Wound (i brani che non cito non è che siano brutti, ma non posso nominarli tutti e 46). Poi abbiamo molte escursioni in territori vicini al rock’n’roll, con canzoni country elettriche e vitali del calibro di Can’t Be Satisfied, robusta outlaw song alla Waylon, la scintillante Another Day, Another Dollar, le ritmatissime Nashville Rash e Lee’s Liquor Lounge, entrambe molto Johnny Cash (grandissima qui la steel), la spiritosa Country My Ass che invece ricorda Willie Nelson, la swingatissima Making Up Time, ritmo e feeling a piene mani, la coinvolgente Luther con il suo chitarrone twang o la bellissima Whiskey Or God, che Dale dice essere ispirata proprio dall’Uomo In Nero (così come Yellow Mama, che in Alabama è come chiamano la sedia elettrica: puro boom-chicka-boom).

Senza dimenticare l’autentico western swing di South Of Round Rock Texas. Le ballate sono più rare nel repertorio del nostro, ma il suo vocione baritonale si presta anche ai pezzi più lenti, come la languida Heart Of Stone, You Are My Friend, tipica cowboy song texana, la malinconica I’m Wondering, scritta con Raul Malo (e si sente), I See Your Face, tenue, nostalgica e decisamente anni sessanta, e Tequila And Teardrops, dal profumo di confine. Infine Dale ci regala anche qualche cover, mostrando innanzitutto il suo amore per Merle Haggard (le brillanti Mama’s Hungry Eyes e I Take A Lot Of Pride In What I Am) e poi omaggiando Jimmie Rodgers con una trascinante In The Jailhouse Now, Ray Price con la raffinata Bright Lights And Blonde-Haired Women, ancora Cash con una travolgente I Got Stripes e Billy Joe Shaver con la cadenzata Way Down Texas Way (canzone scritta da Billy per gli Asleep At The Wheel). Dulcis in fundo, i due brani nuovi, posti in fondo al primo CD: You’ll Cry Too è un lentaccio romantico nel classico stile di Elvis, con tanto di coro maschile in sottofondo a cura dei Blackwood Brothers, mentre The Party’s Over è ancora una ballata dal sapore sixties ma con in più un gradito tocco mexican.

So che è difficile stare dietro a tutte le uscite targate Dale Watson, ma questa, se non possedete i due live originali, fa parte di quelle da accaparrarsi.

Marco Verdi

Anche Se Materiale Di Qualche Anno Fa, Un Bell’Esempio Di Moderno Country-Rock. Cody Jinks – Adobe Sessions

cody jinks adobe sessions

Cody Jinks – Adobe Sessions – Cody Jinks CD

Cody Jinks, countryman texano dal pelo duro, sulla stessa onda di gente come Jamey Johnson e Whitey Morgan, ha avuto un ottimo ed inaspettato successo con il suo ultimo lavoro I’m Not The Devil (2016), che è entrato addirittura nella Top 5 country: questa cosa ha dato entusiasmo al nostro, che ha deciso di ripubblicare quattro dei suoi primi sei album, da tempo introvabili (in un caso, Less Wise, aggiungendo anche dei brani in più e migliorando il suono). Di questa serie di lavori, uno dei più riusciti è sicuramente questo Adobe Sessions (uscito originariamente nel 2015), un album di puro country-rock texano al 100%, elettrico e pieno di feeling, con un suono forte, vigoroso ed una produzione decisamente professionale ad opera di Josh Thompson, che è anche il bassista del ristretto gruppo di musicisti che accompagna Cody (e che viene completato da Jon Wallace, chitarre, Milo Deering, steel, violino e dobro, ed Earl Darling, batteria).

Una band di pochi elementi ma di tanta sostanza, responsabile di un suono potente e senza fronzoli, ma anche capace di alzare il piede dall’acceleratore quando necessario. E poi naturalmente c’è Jinks con le sue canzoni, dodici esempi di puro Outlaw country che deve molto al suono di Waylon Jennings (uno che viene citato come influenza molto più dopo la morte che da vivo), a partire dall’iniziale What Else Is New, un rockin’ country elettrico dal ritmo intenso e dal suono maschio e vigoroso. Bella anche Mamma Song, gustoso honky-tonk alla maniera texana, dominato dal vocione di Cody e dalla steel, un pezzo che ricorda un po’ anche il primo Steve Earle; Cast No Stones è una western ballad profonda, zero mollezze o cedimenti nel suono, mentre We’re Gonna Dance è una scintillante country tune elettrico, dotata ancora di un motivo diretto e che si ascolta tutto d’un fiato.

Birds, con una languida steel sullo sfondo, è invece puro country, rilassato e con un’atmosfera quasi malinconica, non lontana dallo stile di Chris Isaak, Loud And Heavy torna al suono grintoso e ha un approccio melodico intrigante, direi cinematografico (film western, ovviamente), mentre David è country al 100%, fluida, diretta, godibile e suonata benissimo. Me Or You è un lentaccio alla George Jones, la breve Folks un pezzo intimo ed attendista, dal ritmo spedito ma soffuso allo stesso tempo, Ready For The Times To Get Better un altro country & western di ottima fattura, a partire dalla linea melodica fino al contorno strumentale, con le chitarre in primo piano. Finale con la deliziosa Dirt, country-rock terso e vivace con chiare tracce di Texas (splendida la steel), e con Rock And Roll, che nonostante il titolo è un’intensa ballata acustica full band. Un bel dischetto: ora che Cody Jinks ha risistemato (quasi) tutto il suo back catalogue, siamo pronti per un lavoro tutto nuovo. (*NDB nell’attesa i Pink Floyd country, bellissima cover peraltro  https://www.youtube.com/watch?v=9joAHhzm6EY )

Marco Verdi

Per Rimanere In Famiglia: Musica Fatta Con Amore E Passione! Bruce Robison – Bruce Robison & The Back Porch Band

bruce robison and the bach porch band

Bruce Robison – Bruce Robison & The Back Porch Band – Motel Time CD

 Ritorna a pubblicare un disco da solista il texano Bruce Robison, fratello del più famoso Charlie (*NDB. E come da titolo del post c’è pure la sorella Robyn Ludwick di cui avete letto nel Blog recentemente http://discoclub.myblog.it/2017/07/24/torna-una-delle-regine-della-moderna-texas-music-robyn-ludwick-this-tall-to-ride/ ), a ben otto anni dal suo precedente lavoro, His Greatest (che a dispetto del titolo non era un’antologia, ma una serie di brani scritti da Bruce per altri artisti e da lui interpretati per la prima volta), anche se nel mezzo abbiamo avuto due album incisi in coppia con la moglie Kelly Willis. E per il suo ritorno Bruce decide di tornare indietro nel tempo, cioè a quando si registrava in analogico e non in digitale, a volte perfino in presa diretta: Bruce Robison & The Back Porch Band è quindi un lavoro fatto con passione, un atto d’amore verso la musica country più pura e suonata al 90% con strumenti acustici. La copertina potrebbe far pensare ad un trio, ma in realtà il gruppo è più esteso, e comprende, oltre a Robison alla chitarra, Macy Muse alla steel, il bravissimo Chip Dolan al piano, Brian Beken al violino e Conrad Choucroun alla batteria, oltre ad alcuni ospiti tra cui Andrew Pressman al basso, Geoff Queen alle chitarre ed ovviamente la moglie Kelly alle armonie vocali. Un piccolo disco, nove canzoni per 33 minuti di musica, che non contribuirà di certo a rilanciare la carriera del nostro in termini commerciali, ma di certo saprà accontentare i suoi estimatori ed i seguaci della country music più pura. Come abbiamo visto dalla formazione, il gruppo è una “back porch band” per modo di dire, in quanto la sezione ritmica è ben presente e c’è una certa ricchezza strumentale, ma l’approccio è quasi del tutto acustico, intimo ed incontaminato; e poi Bruce è uno che le canzoni le sa scrivere, e dulcis in fundo abbiamo anche qualche cover scelta con cura (e almeno in un caso sorprendente).

L’apertura spetta a Rock And Roll Honky Tonk Ramblin’ Man, un delizioso country’n’roll suonato unplugged, dal ritmo sostenuto ed ottimi interventi di dobro e violino, un inizio coinvolgente. Long Time Comin’ è una tenue folk ballad scritta a quattro mani con Micky Braun (Micky And The Motorcars), dalla bella melodia e pochi strumenti ad accarezzare la voce del nostro; Paid My Dues, scritta ancora da Braun questa volta con Jason Eady, è un godibilissimo honky-tonk alla Jerry Jeff Walker, cantato in duetto con Jack Ingram, puro country just for fun (ottimo il pianoforte), mentre Lake Of Fire è una limpida slow tune dal mood malinconico e con il solito languido violino in evidenza. Squeezebox è proprio il brano degli Who, un pezzo che Bruce ha definito “una bella country song suonata da un gruppo di ragazzi inglesi”, ed in effetti a sentirla rifatta con questo scintillante arrangiamento molto Texas country sembra strano che abbia un passato rock’n’roll: splendida versione, di sicuro l’highlight dell’intero album; The Years, di Damon Bramblett, è un altro brano lento ed intenso, come anche Long Shore, sorta di dolcissima ninna nanna cantata a due voci con la Willis, delicata e toccante. Il CD si chiude con la bucolica Sweet Dreams (non è il classico di Don Gibson, ma un originale di Bruce), cristallino e terso honky-tonk, e con la cover di Still Doin’ Time (In A Honky Tonk Prison), un vecchio pezzo di George Jones, ballata classica suonata in maniera rigorosa. Buona musica fatta per il piacere di farla: questo è Bruce Robison & The Back Porch Band.

Marco Verdi

Quando Ci Si Comincia A Prendere Gusto…Il Disco Finisce! George Jones – Live At Church Street ‘88

george jones live at church street station '88

George Jones – Live At Church Street Station ’88 – Javelin CD

Sarei curioso di sapere se chi ha messo a punto la legge che nel Regno Unito i supporti audio e video non ufficiali tratti da vecchie performances radiofoniche sono da considerarsi legali, avesse mai immaginato che il mercato sarebbe stato invaso da ogni tipo di pubblicazione come negli ultimi anni. Certo, in molti casi questi CD (o DVD, anche se in misura minore) vanno parzialmente a rimediare a vere e proprie lacune nelle discografie di alcuni artisti (penso a Bob Seger, John Mellencamp, gli splendidi concerti australiani di Bob Dylan e Tom Petty, o Bruce Springsteen, anche se ultimamente il Boss tra instant live e concerti del passato ci sta dando dentro parecchio sul suo website), in altri casi documentano addirittura serate di grande importanza storica (vedi certi live anni settanta di Ry Cooder, The Band o Mike Bloomfield, davvero imperdibili), ma il più delle volte, pur essendo di pregevole fattura e di ottima qualità audio, non aggiungono nulla al profilo dell’artista in questione, sfiorando a volte il ridicolo (come nel caso dei Grateful Dead, che hanno già talmente tanti live ufficiali all’attivo da non aver bisogno anche dei bootleg), ed attentando ulteriormente alle finanze degli acquirenti finali, già provate dalle varie uscite annuali tra dischi nuovi, cofanetti e deluxe editions di album del passato.

George Jones, vera e propria leggenda della musica country (scomparso nel 2013) http://discoclub.myblog.it/2013/04/27/forse-non-si-presentera-neppure-al-suo-funerale-george-jones/ , potrebbe tranquillamente rientrare nella prima delle categorie di cui sopra, in quanto nella sua sterminata discografia trovano posto appena tre album dal vivo, e neppure troppo reperibili: quindi questo Live At Church Street Station ’88 è da considerarsi imperdibile? Beh, non proprio, ma non per la qualità della performance, che è ottima, né per quella della registrazione, che è forte, limpida, compatta e ben bilanciata, bensì per la scelta del materiale che privilegia, su un totale di nove brani, ben sette degli anni ottanta e solo uno rispettivamente degli anni settanta e sessanta, e soprattutto per la durata più che esigua del CD, appena 25 minuti, una miseria se contiamo che queste esibizioni televisive (Church Street Station era un famoso programma musicale americano dove sono apparse un po’ tutte le country stars) di solito duravano almeno un’oretta: ciò mi fa pensare che quella sera George i suoi classici li abbia eseguiti eccome, ma i signori della Javelin (?) hanno pensato bene di privilegiare i pezzi all’epoca più recenti (*NDB In effetti esiste un DVD uscito una decina di anni fa con l’esibizione completa, della durata appunto di 60 minuti, con foto in copertina di George Jones degli anni ’60, mentre nel concerto canta brani degli anni ‘80, ma sono presenti anche Johnny Rodríguez e Mark Gray).

george jones live at church street station '88 dvd

Gli eighties, periodo difficile per molti suoi colleghi, sono stati invece per Jones una sorta di comeback, dopo che nei settanta aveva toccato il fondo a causa di un uso massiccio di alcool e droghe, ed in questa serata del 1988 (lo show si svolge ad Orlando) dimostra di essere in ottima forma, e per di più supportato da una solida band (della quale ignoro i nomi dei componenti, figuriamoci se nel libretto interno li hanno messi), dando il via allo spettacolo con l’autoironica No Show Jones (che era il soprannome affibbiato al nostro negli anni settanta, quando a causa dei suoi stravizi più volte non si era presentato sul palco), una vivace e ritmata country song che è perfetta per introdurre la serata (in origine era un duetto con Merle Haggard). She’s My Rock ha un’andatura quasi da outlaw song, e George si dimostra un performer straordinario, riuscendo a trasformare una canzone tutto sommato normale in un highlight dello show; la popolare Bartender Blues è un’intensa ballata, dominata da una splendida steel e con la grande voce del countryman texano sugli scudi, mentre Chicken Reel è un breve e velocissimo strumentale tra bluegrass e giga iralndese. Lo slow I Always Get Lucky With You è puro Jones, il tipo di canzone che George cantava anche mentre si faceva la barba, The Race Is On (il pezzo più antico, del 1964) è quasi rockabilly, ed il pubblico pare ormai in delirio, mentre He Stopped Loving Her Today è il brano del 1980 che rilanciò la carriera di Jones dopo l’oscura decade precedente, un pezzo lento forse non originalissimo, ma che come la cantava il vecchio Possum (suo soprannome ufficiale) forse solo Willie Nelson. Il concerto, o almeno la parte inclusa nel CD, si chiude con la pianistica Who’s Gonna Fill Their Shoes, altro slow strappacuore, e con la travolgente The One I Loved Back Then, puro country dal gran ritmo ed ottimi interventi chitarristici.

So che questo blog non ha l’abitudine di dare le stellette di valutazione (scelta che tra l’altro condivido), ma se per una volta dovessi farlo questo live ne meriterebbe tre per la performance, ma solo una per la durata ridicola: la media sarebbe quindi di due.

Marco Verdi

Divertimento Puro…Cosa Volete Di Più? Jesse Dayton – The Revealer

jesse dayton the revealer

Jesse Dayton – The Revealer – Blue Elan CD

Lasciando da parte il discorso dell’intrattenimento, i cantanti o le band pubblicano dischi per un insieme di ragioni differenti: c’è chi lo fa perché ha qualcosa da comunicare, chi per far riflettere su determinati argomenti, chi per protestare, chi per commuovere, chi per far ballare, altri semplicemente con l’unico intento di vendere tanto, o talvolta solo per adempiere ad un obbligo contrattuale. C’è poi una categoria di album che nascono con il preciso intento di far divertire (just for fun dicono in America), e questo The Revealer, nuovo CD ad opera del texano Jesse Dayton, è un fulgido esempio in tal senso. Dayton non è un novellino, è in giro da più di vent’anni e ha già alle spalle una mezza dozzina di album a suo nome, ma è forse più noto, se non al grande pubblico almeno nell’ambiente, per essere un chitarrista molto richiesto in ambito country-rock: nel suo curriculum infatti troviamo partecipazioni nei dischi di tutti e quattro gli Highwaymen, cioè Willie Nelson, Johnny Cash, Waylon Jennings e Kris Kristofferson (non però nei loro tre lavori insieme), oltre ad aver suonato per la cowpunk band Supersuckers ed essere andato in tour con John Doe ed i suoi X. Devo essere sincero, non conosco i precedenti album di Jesse, lo avevo sentito nominare, avevo letto il suo nome da qualche parte (probabilmente all’interno dei lavori dei signori citati poc’anzi), ma quando ho messo nel lettore The Revealer confesso di essere sobbalzato più di una volta sul divano, in quanto mi sono trovato ad ascoltare quello che semplicemente (e non esagero) è uno migliori, più ritmati, roccati, coinvolgenti e divertenti dischi di country-rock del 2016.

Jesse, che è in possesso anche di un’ottima voce, è una forza della natura, sa scrivere canzoni di prima qualità, è perfettamente in grado di differenziare il suo stile senza risultare dispersivo, ha ritmo e feeling da vendere e riesce ad entusiasmare in diversi momenti. Mi rendo conto che sto usando termini altisonanti, ma provate a darmi fiducia (se vi piace il genere, è ovvio), date un ascolto ai brani di The Revealer e non ve ne pentirete. Aiutato da un manipolo di gente con le contropalle (tra cui Mike Stinson alla batteria, Riley Osbourne al piano e Beth Chrisman al violino), Dayton mette a punto dodici brani di cui farete fatica a fare a meno, a partire dall’iniziale Daddy Was A Badass, gustosissima e saltellante country song dal suono maschio, in perfetto Waylon-style, il modo migliore per aprire il CD, seguita a ruota dalla scatenata Holy Ghost Rock’n’Roller, un irresistibile, appunto, rock’n’roll, con un pianoforte suonato alla Jerry Lee Lewis, dal ritmo frenetico, impossibile stare fermi (*NDB O i Blasters!). Bellissima anche The Way We Are, anch’essa figlia di Jennings Sr. (voce compresa), ritmo al solito sostenuto, chitarre ruspanti e melodia immediata; Eatin’ Crow And Drinkin’ Sand è tosta ed elettrica, con elementi southern appena stemperati da un limpido violino, un country-rock scintillante: Jesse sta dimostrando, canzone dopo canzone, di essere uno che fa sul serio.

Possum Ran Over My Grave è dedicata a George Jones, uno dei suoi eroi di gioventù, ed il brano, un vibrante slow di stampo classico (ma sempre elettrico) è il miglior omaggio possibile al grande countryman scomparso; di bene in meglio con la strepitosa Take Out The Trash, un rockin’ country dal refrain irresistibile, ritmo alto e chitarre in gran spolvero, mentre Mrs. Victoria (Beautiful Thing) è un’oasi acustica, ma il nostro dimostra di saper tenere la guardia alta, ed il pezzo ha un delizioso sapore folk-blues, simile alle incisioni recenti di Tom Jones, con ottimi intrecci di chitarre. Pecker Goat, scritta con Hayes Carll, è un travolgente cajun elettrico, altro brano a cui è difficile resistere, Match Made In Heaven è invece il più classico degli honky-tonk, pulito, terso, cristallino, con la doppia voce di Brennan Leigh a rinfrescare la tradizione dei duetti country tra uomo e donna, mentre I’m At Home Gettin’ Hammered (While She’s Out Gettin’ Nailed), divertente già dal titolo, porta il nostro in territori bluegrass, solito ritmo ultra-sostenuto, assoli a raffica e godimento assicurato. Il CD si chiude con Never Started Livin’, una classica ballata elettroacustica, fluida e distesa, e con Big State Motel, altro folk tune polveroso, sudista e sfiorato dal blues, finale in solitario e momento di relax per un disco che è una bomba innescata.

In tre parole: da non perdere.

Marco Verdi

Tra Jazz E Musica D’Autore: Due Fulgidi Esempi! Madeleine Peyroux – Secular Hymns/John Scofield – Country For Old Men

madeleine peyroux secular hymns

Madeleine Peyroux – Secular Hymns – Impulse/Verve CD

John Scofield – Country For Old Men – Impulse/Verve CD

Oggi si parla di jazz, genere musicale che conta una lunga schiera di appassionati, ma anche parecchi che non lo possono soffrire, e quindi ho scelto due dischi non proprio di jazz purissimo, ma con caratteristiche tali da renderli fruibili per tutti.

Madeleine Peyroux, raffinata cantante americana di origini francesi, ha esordito esattamente vent’anni fa con il notevole Dreamland, anche se ha poi fatto passare ben otto anni per dargli un seguito, Careless Love, che è comunque diventato un grande successo (sei milioni di copie vendute), anche inatteso dato la natura poco commerciale della musica in esso contenuta. Da quel momento per Madeleine si sono cominciati a fare paragoni illustri, scomodando addirittura sua maestà Billie Holiday, e comunque lei non si è montata la testa ma ha continuato a fare la sua musica, senza inflazionare il mercato, centellinando la sua produzione, con esiti più che egregi e dischi molto belli che rispondono ai titoli di Half The Perfect World (splendido), Bare Bones, Standing On The Rooftop e The Blue Room. Il punto di forza della Peyroux è naturalmente la voce, che intelligentemente è sempre stata accompagnata da strumentazioni parche e suonate in punta di dita, facendo così risaltare il suo affascinante timbro e la sua forte capacità interpretativa: Madeleine scrive anche diverse canzoni, ma secondo me il meglio lo dà quando rilegge i classici (del genere jazz ma anche pop e rock), riuscendo a personalizzarli con la sua classe sopraffina. Secular Hymns, che inaugura il nuovo contratto con la Verve e giunge tra anni dopo The Blue Room, vede la cantante esibirsi solamente in qualità di interprete, e con una serie di arrangiamenti ridotti all’osso come mai aveva fatto prima d’ora, in modo da far brillare ancora di più la sua voce e la bellezza della canzoni. Infatti, accanto alla Peyroux stessa (che si accompagna alla chitarra acustica ed al guilele, penso una sorta di ibrido tra chitarra ed ukulele), in questo Secular Hymns suonano solo altri due musicisti, il chitarrista elettrico John Herington ed il bassista acustico Barak Mori (entrambi anche ai cori, e ho fatto anche la rima…), che ricamano con grande finezza attorno alla leader, con estrema creatività, riempiendo gli spazi nel migliore dei modi, specie Herington (già con gli Steely Dan e con il Donald Fagen solista), che si rivela in possesso di un fraseggio eccellente.

Madeleine in questo disco recupera canzoni recenti e passate, conosciute ed oscure, dandoci un lavoro di grande piacevolezza, senza annoiare mai , un album fatto per il puro piacere di suonare:  a partire dall’iniziale Got You On My Mind, un oscuro brano degli anni cinquanta, che comincia con solo basso e voce, poi entrano le chitarre (splendida per pulizia quella di Herington) e la nostra che ci dà subito un saggio della sua classe, con i tre che coniugano grande perizia tecnica ed immediatezza. Tango Till They’re Sore (di Tom Waits) è quasi cabarettistica, con un uso geniale degli strumenti e la Peyroux che giganteggia con la sua ugola strepitosa, mentre Highway Kind è un pezzo di Townes Van Zandt, e qui siamo abbastanza lontani dallo stile del grande texano, con la fusione di folk, jazz e canzone d’autore ed un’interpretazione da brividi per intensità; la mossa Everything I Do Gonna Be Funky, di Allen Toussaint, dona brio al disco, riuscendo a mantenere l’atmosfera di New Orleans anche in questa veste spoglia, mentre If The Sea Was Whiskey è uno scintillante blues di Willie Dixon, con John strepitoso alla slide (sembra Ry Cooder), e Madeleine che fa la sua bella figura anche come blues woman. Hard Times è la canzone più nota del lavoro, un’antica composizione di Stephen Foster ed uno dei classici assoluti del songbook americano, ma la nostra brava vocalist le dona nuova linfa, con un accompagnamento ancor di più ridotto ai minimi termini: classe pura; Hello Babe (altro brano abbastanza oscuro) è puro jazz, il pezzo fin qui più simili alle capostipiti del genere (non solo Holiday, ma anche Sarah Vaughn e Bessie Smith), con Madeleine che modula la voce a suo piacimento, altro pezzo sofisticato e sublime, mentre More Time  ha un’atmosfera quasi anni anni sessanta. L’album, 33 minuti di puro piacere, si chiude con la deliziosa Shout Sister Shout (di Sister Rosetta Tharpe), tra jazz e gospel, e con Trampin’, un traditional folk-blues che Madeleine ci presenta in perfetta solitudine, voce e chitarra, ennesima perla di un disco quasi perfetto.

john scofield country for old men

John Scofield, chitarrista dell’Ohio, è invece sulla braccia da quasi quarant’anni, ed è in possesso di un pedigree di tutto rispetto, avendo collaborato con gente del calibro di Miles Davis, Charles Mingus, Herbie Hancock e Pat Metheny, tra i tanti, e nel corso della sua carriera ha suonato di tutto, dal jazz puro, al free, al jazz-rock alla fusion, al blues, ma un disco country non lo aveva mai inciso. Intendiamoci, Country For Old Men è tale soprattutto nel titolo e nella scelta delle canzoni, veri e propri classici del genere (con qualche sorpresa), dato che John interpreta i vari brani nel suo ormai assodato stile, ed in compagnia di un ristretto manipolo di colleghi (Larry Goldings al piano ed organo, Steve Swallow al basso e Bill Stewart alla batteria): a differenza quindi del disco della Peyroux, questo Country For Old Men è più strumentato, maggiormente elettrico e più incline a lasciar spazio alle improvvisazioni, allungando spesso anche di molto le durate originali (cosa logica dal momento che non ci sono parti vocali, la vera voce è la chitarra di John, che ricama da par suo), ma ha in comune la classe e la capacità di intrattenere senza annoiare, anzi riuscendo a rendere piacevole un genere musicale che può spesso risultare ostico. A partire da Mr. Fool, un brano di George Jones, con John che mantiene intatta la melodia, ben doppiato da Goldings (vero alter ego del nostro in questo disco), e rendendola soffusa ma nello stesso tempo distesa e rilassata. I’m So Lonesome I Could Cry, grande classico di Hank Williams, è molto più jazzata e “free”, con il motivo originale che ogni tanto spunta, ma con John ed i suoi che fanno di tutto per creare diversi paesaggi sonori e portare il pezzo sulle loro abituali latitudini, mentre con Bartender’s Blues di James Taylor (che certo non era un brano country), John invade anche territori soul, grazie all’organo di Larry.

La classica Wildwood Flower è subito riconoscibile e godibile, anche se l’accompagnamento è decisamente jazz, ma i nostri non perdono mai di vista la melodia, mentre il traditional Wayfaring Stranger diventa un raffinatissimo brano tra afterhours e blues, suonato in punta di dita ed ancora con Goldings strepitoso. Il disco continua così, godibile e rilassante canzone dopo canzone, con alcuni pezzi vicini al mood originale (Jolene di Dolly Parton, anche se poi i quattro partono per la tangente per una bellissima jam di sette minuti e mezzo), altri dove si lascia più spazio all’improvvisazione (Mama Tried di Merle Haggard). Just A Girl I Used To Know, di Jack Clement, è suonata in maniera rigorosa ma splendida, mentre la nota Red River Valley ha un ritmo altissimo e quasi rock, per poi riabbassare i toni con la soffusa ballad You’re Still The One di Shania Twain, che dimostra  che il nostro non ha pregiudizi di sorta verso brani più commerciali.

Due CD davvero ottimi, anche se non amate alla follia il jazz: perfetti per allietare le vostre prossime serate autunnali.

Marco Verdi

Gli Amici “Leggendari”, Lui Meno! T.G. Sheppard – Legendary Friends & Country Duets

tg sheppard country duets

T.G. Sheppard – Legendary Friends & Country Duets – Cleopatra Records 

Quando leggo Cleopatra Records vedo subito rosso, ma non per la rabbia, come i tori, è piuttosto un effetto simile a quello di trovarsi di fronte ad un semaforo: ti fermi e guardi bene, a destra e sinistra, per capire cosa succede e dove dirigerti, perché la “fregatura” spesso è lì, vicino all’incrocio. Cosa ti hanno combinato questa volta? E soprattutto chi è questo T.G. Sheppard che ha “Leggendari Amici”? In effetti già quando avevo visto nella lista delle uscite questo Legendary Friends & Country Duets, senza sapere che era su etichetta Cleopatra, mi aveva incuriosito per lo schieramento di cantanti celebri che Sheppard era riuscito a riunire per questo album: un onesto, ma non celeberrimo cantante country, in azione già dagli inizi anni ’70, sia come cantante che come discografico, senza mai raggiungere vette qualitative particolarmente significative e operando in quel di Nashville in un ambito country-pop, ben rappresentato sia dai suoi successi come “A.R. Man” per Elvis, Perry Como e John Denver e poi con una serie di dischi a nome proprio che non hanno mai infiammato noi appassionati di un country più illuminato e meno legato all’industria.

Già leggendo la lista, peraltro importante, dei partecipanti ai duetti, si intuisce il solito “progetto” Cleopatra dalla temporalità dubbia: cioè, quando è stato inciso il disco? Conway Twitty è morto dal 1993, George Jones da un paio di anni, Jerry Lee Lewis non incide più molto spesso. Ma proprio il brano scritto da Sheppard con la moglie Kelly Lang (non è quella di Beautiful) e lo stesso Lewis, The Killer, prende bene, oltre che per il suo spirito autobiografico, anche per l’andamento country-soul, tra chitarre, fiati, il piano inconfondibile e le belle voci di T.G. e Jerry Lee, niente di imprescindibile, ma una bella canzone, come quella posta in apertura, Down In My Knees, un gradevole country-gospel cantato in coppia con gli Oak Ridge Boys https://www.youtube.com/watch?v=FjlCSdxSCHs , e niente male, anche se i primi segnali zuccherosi si fanno strada, la versione di Why Me Lord un brano di Kris Kristofferson sotto forma di tipica ballata country, cantata proprio con Conway Twitty. Pure Song Man, un brano di Merle Haggard cantato in coppia con l’autore, non dispiace, con una pedal steel ed una acustica che convivono con una marimba (??) che fa molto Nashville pop, ma non riesce a rovinare del tutto la canzone. Piacevolissimo viceversa l’arrangiamento, in puro stile country-Tex Mex Mariachi, di una divertente Fifteen Rounds Of Jose Cuervo, cantata con Delbert McClinton https://www.youtube.com/watch?v=HSgC-Sv6dTA .

E fin qui tutto bene, diciamo che l’album si è guadagnato la sufficienza risicata, ma da qui in avanti l’effetto Cleopatra si fa sentire: già il duetto con Lorrie Morgan, in una The Next One orchestrale, molto crooner after hours, che c’entra come i cavoli a merenda con il resto del disco, potrebbe essere piacevole in un tributo a Sinatra, ma in un disco country? 100% Chance Of Pain, cantata con BJ Thomas e Jimmy Fortune degli Statler Brothers (che a dispetto del nome non erano neppure parenti), è quanto di più pacchiano ci si potrebbe aspettare e anche It’s A Man Thing, il duetto con uno sfiatatissimo George Jones a fine carriera, rischia di rovinare la reputazione del grande “Possum” e sarebbe stato meglio lasciarlo negli archivi https://www.youtube.com/watch?v=rPndtDldf14 . Wine To Remember And Whiskey To Forget, il duetto con Mickey Gilley, l’urban cowboy più famoso per essere stato il cugino di Jerry Lee Lewis che per la sua carriera e Dead Girk Walking, in coppia con la moglie Kelly Lang (che ha scritto anche la gran parte dei brani), sono senza infamia e senza lode, belle voci tutti, anche lo stess T.G. Sheppard, ma suscitano poche emozioni. Quelle che crea Willie Nelson anche quando è alle prese con l’elenco telefonico, ma che nel caso è ben servito da una ottima In Texas, un brano di Dennis Linde che risolleva in parte le sorti di questo album, anche se l’arrangiamento sfiora sempre il pacchiano https://www.youtube.com/watch?v=QRnZN0Rn620 . Ma il duetto con Engelbert Humperdinck sembra un pezzo di Iglesias (il babbo) in versione country e anche nell’accoppiata con Crystal Gaylein I’m Not Going Anywhere, si rischia un attacco di diabete. If You Knew, una ballata malinconica con Ricky Skaggs e le Whites, non sarebbe neppure male, ma l’arrangiamento è da denuncia penale!

Bruno Conti