Non E’ Mai Troppo Tardi Per Fare Il Miglior Disco Della Propria Carriera! Michael Martin Murphey – Austinology: Alleys Of Austin

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Michael Martin Murphey – Austinology: Alleys Of Austin – Wildfire CD

Michael Martin Murphey, texano di Dallas, veleggia ormai verso i cinquanta anni di carriera. Dopo una bella serie di lavori a tema country & western negli anni settanta, la decade seguente aveva visto Murphey pubblicare diversi album di carattere pop-country, di grande successo ma meno interessanti dal punto di vista musicale. Poi, dai novanta fino ad oggi, Michael si è prodotto in un meritorio recupero delle tradizioni, realizzando una lunga serie di dischi che, tra versioni di brani antichi e canzoni originali, trattavano il tema delle cowboy songs, con lavori come Sagebrush Symphony, The Horse Legends, Campfire On The Road, i due album a sfondo bluegrass Buckaroo Blue Grass 1 & 2, oltre naturalmente ai cinque episodi della serie Cowboy Songs. Ma un disco bello come Austinology: Alleys Of Austin, il suo nuovissimo full-length, probabilmente non lo aveva mai fatto. Austinology è una sorta di concept, un lavoro in cui il nostro omaggia la scena di Austin nel periodo pre-Outlaw, cioè dal 1968 al 1975, con una serie di brani originali (nuovi e non) e cover d’autore.

Un disco lungo (75 minuti), ma bello, intenso e prezioso, in cui Michael, in grandissima forma, ci porta letteralmente per mano nelle vie di Austin, attraverso canzoni che vanno dal puro country al bluegrass, dal pop raffinato alle ballate di stampo quasi californiano, con l’aiuto di musicisti di vaglia (tra i quali spiccano l’armonicista Mickey Raphael, lo steel guitarist Dan Dugmore, il chitarrista Kenny Greenberg ed il bassista Matt Pierson) e soprattutto di una serie impressionante di ospiti (che vedremo a breve), i quali impreziosiscono il disco con la loro presenza pur restando un passo indietro, così da non oscurare Murphey, che rimane il vero protagonista con le sue canzoni. Un’opera importante quindi, che va aldilà del concetto di country & western, e che per certi versi è equiparabile a The Rose Of Roscrae di Tom Russell. Alleys Of Austin apre benissimo il CD, una toccante ballata dall’accompagnamento classico a base di piano, chitarra e steel, un crescendo strumentale emozionante e la bella voce melodiosa del nostro, che cede volentieri il passo ad un vero e proprio parterre de roi: Willie Nelson, Lyle Lovett, i coniugi Kelly Willis e Bruce Robison, Gary P. Nunn e Randy Rogers. Inizio splendido. South Canadian River Song parte come una canzone folk sognante ed eterea, poi entra il resto della band ed il suono si fa pieno, con il piano a svettare, per un pop-rock per nulla melenso, anzi direi decisamente vigoroso.

Un bel pianoforte introduce la raffinatissima Wildfire, un pezzo di puro cantautorato, con uno stile simile a quello di James Taylor, che ospita un duetto vocale con Amy Grant: classe pura. Geronimo’s Cadillac è la rilettura di uno dei pezzi più noti di Murphey (ed è anche il titolo del suo debut album, 1972), una ballata limpida e cadenzata, dal refrain orecchiabilissimo e con Steve Earle a cantare con Michael, con le due voci, ruvida quella di Steve e dolce quella di Murphey, che contrastano piacevolmente. La lunga Texas Trilogy, scritta da Steve Fromholz, è uno dei pezzi centrali del disco, una sorta di epopea western divisa appunto in tre parti, che inizia con l’insinuante country-folk Daybreak, prosegue con la solare Trainride, tra bluegrass e country, e termina con la tenue e bellissima Bosque Country Romance, uno dei momenti più toccanti del CD. L’elettroacustica Backsliders Wine, con Randy Rogers, è puro country, un brano intenso, limpido e scorrevole, strumentato con gusto e con l’armonica di Raphael protagonista.

L.A. Freeway è una delle grandi canzoni di Guy Clark, e Michael l’affronta con indubbio rispetto, roccando il giusto e con l’accompagnamento vocale dei Last Bandoleros, mentre Texas Morning è interiore, quasi intima. Cosmic Cowboy è un altro dei brani di punta del lavoro, una deliziosa country song tutta giocata sugli interventi vocali di Nelson, Lovett, Nunn, Robison e con l’aggiunta del grande Jerry Jeff Walker con il figlio Django, e la bella steel di Dugmore a ricamare sullo sfondo. Proprio di Walker è Little Birds, altra canzone molto bella ed impreziosita dalla voce della Willis, mentre Quicksilver Daydream Of Maria sembra Tequila Sunrise degli Eagles con elementi messicani. La delicata Drunken Lady Of The Morning, solo voce e chitarra pizzicata, è nobilitata dalla presenza di Lyle Lovett, e ci prepara ad un finale col botto, ad opera della squisita e messicaneggiante Gringo Pistolero e dello strepitoso medley in stile bluegrass The Outlaw Medley, in cui Michael mescola alla grande pezzi come Red Headed Stranger (Willie Nelson), Ladies Love Outlaws (Lee Clayton) ed un trittico di classici di Waylon Jennings (Bob Wills Is Still The King, Are You Sure Hank Done It This Way e Don’t You Think This Outlaw Bit Has Done Got Out Of Hand): due brani che da soli valgono gran parte del CD.

Con Austinology: Alleys Of Austin Michael Martin Murphey ci ha forse consegnato il suo capolavoro: sarebbe un vero peccato ignorarlo.

Marco Verdi

Per Un Natale (Texano) Diverso! Rodney Crowell – Christmas Everywhere

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Rodney Crowell – Christmas Everywhere – New West CD

Secondo album pubblicato nel 2018 per il texano Rodney Crowell, a pochi mesi di distanza dal disco di “auto-covers” Acoustic Classics https://discoclub.myblog.it/2018/08/07/unautocelebrazione-di-grande-classe-rodney-crowell-acoustic-classics/ , e primo lavoro a carattere natalizio della sua carriera. Ma Christmas Everywhere non è un disco stagionale come gli altri, in quanto Rodney ha scelto di non fare come fanno quasi tutti, cioè affidarsi in gran parte a classici assodati e tuttalpiù scrivere una o due canzoni nuove, ma ha deciso di registrare un lavoro composto al 100% da brani nuovi di zecca. Una scelta dunque piuttosto coraggiosa, Rodney poteva andare su sicuro e farci sentire le sue interpretazioni di brani come Jingle Bells, White Christmas, Away In A Manger, O Come All Ye Faithful e così via, ma ha scelto la via più tortuosa ma che forse sentiva di più nelle sue corde, anche perché per lui non è mai stato un problema scrivere canzoni. Christmas Everywhere è quindi un disco natalizio diverso, molto più personale di altri dello stesso genere, ma nello stesso tempo vario negli stili e divertente all’ascolto: Crowell d’altronde è un autore coi fiocchi, e sa come coniugare belle canzoni ed intrattenimento, e con questo lavoro riesce a garantire lo spirito natalizio e nel contempo ad offrire qualcosa di più a livello di testi, facendo in modo di rendere l’album ascoltabile senza problemi anche in altri periodi dell’anno.

Prodotto da Dan Knobler, il CD vede Rodney accompagnato da una lunga serie di ottimi musicisti, tra cui alcuni nomi noti come Vince Gill, i coniugi Kelly Willis e Bruce Robison, i chitarristi Richard Bennett (spesso con Mark Knopfler), John Jorgenson (Desert Rose Band, Elton John Band e Chris Hillman) ed Audley Freed (ex Black Crowes) ed i bassisti Dannis Crouch e Tommy Sims. Clement’s Lament introduce il disco, un breve antipasto cantato da Tanya Hancheroff e Kim Keyes con un quartetto d’archi alle spalle, mentre la vera partenza si ha con la pimpante title track, un western swing che sembra provenire da un padellone degli anni quaranta, in cui Crowell mostra di divertirsi non poco, Jorgenson rilascia un bellissimo assolo di chitarra acustica e Lera Lynn canta una strofa verso la fine su un tema completamente diverso, lento ed orchestrato, prima che Rodney riprenda in mano le redini per il gran finale. L’ironica When The Fat Guy Tries The Chimney On For Size è un pezzo ritmato e coinvolgente, con sonorità calde di stampo quasi southern, un ottimo assolo di sax ed un vago sapore funky; Christmas Makes Me Sad è una deliziosa e limpida country song, diretta, spedita e sempre con uno sguardo al passato, mentre Merry Christmas From An Empty Bed è una toccante ballata, sempre di stampo country, ancora con una leggera orchestrazione e con la seconda voce di Brennen Leigh, un brano di indubbia finezza.

Very Merry Christmas è un trascinante rock’n’roll con tanto di fiati, un pezzo che farebbe la felicità di Brian Setzer (uno che quando non sa che fare incide un disco natalizio), Christmas In Vidor, che vede la partecipazione sia vocale che in sede di scrittura di Mary Karr (poetessa americana che con Rodney aveva già condiviso il progetto Kin nel 2012), è una rock song potente e chitarristica, che si divide tra talkin’ e parti cantate, e con un testo che forse non è proprio adatto da mettere in sottofondo quando i bambini aprono i regali sotto l’albero. Con la saltellante Christmas For The Blues torniamo a rassicuranti atmosfere vintage country, un’altra canzone decisamente orecchiabile, mentre Come Christmas è una splendida e cristallina folk song, solo voce, chitarra e bouzouki ma un feeling incredibile: tra le più belle del CD. La mossa e divertente Let’s Skip Christmas This Year, altro brano sbarazzino dallo spirito rock’n’roll, e la lenta e melodica Christmas In New York, fulgido esempio del songwriting del nostro, chiudono più che positivamente il disco, anche se c’è ancora lo spazio per un breve divertissement intitolato All For Little Girls & Boys ed accreditato a Daddy Cool & The Yule, che altri non sono che Rodney con le sue tre figlie piccole.

Se, musicalmente parlando, volete un Natale diverso, questo album fa al caso vostro.

Marco Verdi

Per Rimanere In Famiglia: Musica Fatta Con Amore E Passione! Bruce Robison – Bruce Robison & The Back Porch Band

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Bruce Robison – Bruce Robison & The Back Porch Band – Motel Time CD

 Ritorna a pubblicare un disco da solista il texano Bruce Robison, fratello del più famoso Charlie (*NDB. E come da titolo del post c’è pure la sorella Robyn Ludwick di cui avete letto nel Blog recentemente http://discoclub.myblog.it/2017/07/24/torna-una-delle-regine-della-moderna-texas-music-robyn-ludwick-this-tall-to-ride/ ), a ben otto anni dal suo precedente lavoro, His Greatest (che a dispetto del titolo non era un’antologia, ma una serie di brani scritti da Bruce per altri artisti e da lui interpretati per la prima volta), anche se nel mezzo abbiamo avuto due album incisi in coppia con la moglie Kelly Willis. E per il suo ritorno Bruce decide di tornare indietro nel tempo, cioè a quando si registrava in analogico e non in digitale, a volte perfino in presa diretta: Bruce Robison & The Back Porch Band è quindi un lavoro fatto con passione, un atto d’amore verso la musica country più pura e suonata al 90% con strumenti acustici. La copertina potrebbe far pensare ad un trio, ma in realtà il gruppo è più esteso, e comprende, oltre a Robison alla chitarra, Macy Muse alla steel, il bravissimo Chip Dolan al piano, Brian Beken al violino e Conrad Choucroun alla batteria, oltre ad alcuni ospiti tra cui Andrew Pressman al basso, Geoff Queen alle chitarre ed ovviamente la moglie Kelly alle armonie vocali. Un piccolo disco, nove canzoni per 33 minuti di musica, che non contribuirà di certo a rilanciare la carriera del nostro in termini commerciali, ma di certo saprà accontentare i suoi estimatori ed i seguaci della country music più pura. Come abbiamo visto dalla formazione, il gruppo è una “back porch band” per modo di dire, in quanto la sezione ritmica è ben presente e c’è una certa ricchezza strumentale, ma l’approccio è quasi del tutto acustico, intimo ed incontaminato; e poi Bruce è uno che le canzoni le sa scrivere, e dulcis in fundo abbiamo anche qualche cover scelta con cura (e almeno in un caso sorprendente).

L’apertura spetta a Rock And Roll Honky Tonk Ramblin’ Man, un delizioso country’n’roll suonato unplugged, dal ritmo sostenuto ed ottimi interventi di dobro e violino, un inizio coinvolgente. Long Time Comin’ è una tenue folk ballad scritta a quattro mani con Micky Braun (Micky And The Motorcars), dalla bella melodia e pochi strumenti ad accarezzare la voce del nostro; Paid My Dues, scritta ancora da Braun questa volta con Jason Eady, è un godibilissimo honky-tonk alla Jerry Jeff Walker, cantato in duetto con Jack Ingram, puro country just for fun (ottimo il pianoforte), mentre Lake Of Fire è una limpida slow tune dal mood malinconico e con il solito languido violino in evidenza. Squeezebox è proprio il brano degli Who, un pezzo che Bruce ha definito “una bella country song suonata da un gruppo di ragazzi inglesi”, ed in effetti a sentirla rifatta con questo scintillante arrangiamento molto Texas country sembra strano che abbia un passato rock’n’roll: splendida versione, di sicuro l’highlight dell’intero album; The Years, di Damon Bramblett, è un altro brano lento ed intenso, come anche Long Shore, sorta di dolcissima ninna nanna cantata a due voci con la Willis, delicata e toccante. Il CD si chiude con la bucolica Sweet Dreams (non è il classico di Don Gibson, ma un originale di Bruce), cristallino e terso honky-tonk, e con la cover di Still Doin’ Time (In A Honky Tonk Prison), un vecchio pezzo di George Jones, ballata classica suonata in maniera rigorosa. Buona musica fatta per il piacere di farla: questo è Bruce Robison & The Back Porch Band.

Marco Verdi

Un Live Che Non Fa Prigionieri! Anche Perché Ci Sono Già…. Mark Collie – Alive At Brushy Mountain State Penitentiary

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Mark Collie & His Reckless Companions – Alive At Brushy Mountain State Penitentiary – Wilbanks Entertainment CD

Spero che mi perdonerete la battutaccia del titolo, ma era difficile resistere… Non so quanti di voi si ricordano di Mark Collie, country singer-songwriter di Nashville abbastanza popolare negli anni novanta, autore di ben cinque album dal 1990 al 1995, con una bella serie di canzoni decisamente elettriche e poco inclini ai compromessi, tra honky-tonk, cover di pezzi rock, qualche ballata di buona fattura e soprattutto tanta energia e brani di sano country moderno. Le vendite non erano neanche male, ma all’improvviso, all’indomani di Tennessee Plates (1995), il silenzio, totale e lunghissimo, interrotto soltanto nel 2006 con la pubblicazione di Rose Covered Garden, un lungo periodo di inattività che non ha fatto certo bene alla sua carriera. Per fortuna le notizie più recenti lo darebbero (il condizionale è d’obbligo) in procinto di tornare nel giro, ma intanto l’appetito viene stuzzicato con la pubblicazione di questo live, il primo per lui, intitolato Alive At Brushy Mountain State Penitentiary, registrato nel 2001 nell’omonima prigione del Tennessee (che ha chiuso i battenti nel 2009), ma messo sul mercato soltanto oggi.

La registrazione di dischi dal vivo nelle prigioni è una vecchia pratica, non solo nel country: gli esempi più noti sono i leggendari album alla Folsom Prison e poi a San Quentin da parte di Johnny Cash, ma anche il disco inciso da B.B. King alla Cook County Jail; anche Mark, che nel 2001 era ancora relativamente popolare, ha pensato di allietare la dolorosa permanenza dei carcerati della prigione di Brushy Mountain, e per farlo si è presentato con una super band. Lo accompagna infatti in questa serata gente come David Grissom, grande chitarrista già al servizio di John Mellencamp e Joe Ely, il tastierista Mike Utley, da decenni nella Coral Reefer Band di Jimmy Buffett, il bassista Willie Weeks (Rolling Stones, Eric Clapton e molti altri), il chitarrista e violinista Shawn Camp (produttore e partner musicale del grande Guy Clark) ed il batterista Chad Cromwell (Neil Young, Mark Knopfler): un gruppo dal pedigree eccezionale, perfetto per accompagnare il nostro nelle sue scorribande elettriche e decisamente coinvolgenti, canzoni che in questa veste live si spostano ancora di più verso il rock; come ciliegina, abbiamo anche un paio di graditi ospiti, e cioè la brava Kelly Willis in tre pezzi e, alla chitarra e voce in Someday My Luck Will Change, il grande bluesman Clarence “Gatemouth” Brown, quattro anni prima della sua scomparsa.

Un gran bel disco di puro country-rock, vigoroso e vibrante, con un leader decisamente in palla ed un pubblico prevedibilmente caldo (anche perché non è che serate come questa fossero frequenti in quel luogo), che risponde spesso con ovazioni ai testi delle canzoni, scelte con cura tra originali e cover in modo da offrire quasi solo brani a tema per così dire carcerario (e quindi non ci sarebbe stata male una bella The Devil’s Right Hand di Steve Earle, uno che in galera c’era pure stato). Attacco potente con One More Second Chance, un rockin’ country (molto più rockin’ che country) ad alto tasso elettrico, gran ritmo e Grissom subito in prima fila a macinare note; I Could’ve Gone Right è una orecchiabile country song che parte lenta ma poi, quando entra la band, fa salire la temperatura, con un motivo diretto ed altro ottimo assolo chitarristico (ma anche Utley fa sentire le sue dita sulla tastiera), Maybe Mexico, che parla della nazione del titolo come possibile luogo di destinazione per un fuggitivo, è un country’n’roll tutto da godere, con il pubblico che si fa sentire al termine di ogni ritornello. Heaven Bound, di e con Kelly Willis, mette in primo piano la bella voce della bionda cantante, per una country song limpida e deliziosa, mentre Got A Feelin’ For Ya (scritta da Dan Penn con Chuck Prophet), ha un ritmo più cadenzato ed elementi quasi soul, con la voce della Willis che si adatta al brano con ottima duttilità.

La fluida On The Day I Die vede Mark tornare al centro del palco, ed è una rock ballad fatta e finita, di country ha poco, e rientra alla perfezione nella categoria di certe canzoni stradaiole di John Mellencamp, mentre la tonica Dead Man Runs Before He Walks ha un buon sapore di country blues elettroacustico sudista; la bella Rose Covered Garden, un folk tune cantautorale di grande presa (una delle migliori composizioni di Mark), precede un’intensa cover di Why Me Lord di Kris Kristofferson, ancora con l’aiuto di Kelly, un’ottima versione che piacerà di certo anche al vecchio Kris. La roccata e ficcante Do As I Say prelude all’arrivo di Clarence “Gatemouth” Brown, che con Someday My Luck Will Change sposta la serata su territori decisamente blues, uno slow notturno di gran classe per sei minuti decisamente caldi e sudati, con la chitarra del bluesman a farla da padrone (ma anche l’hammond di Utley non scherza); il concerto si avvia al termine, il tempo per una Folsom Prison Blues più roccata di quella di Johnny Cash (anche per via dell’assolo di Grissom), e per le conclusive Reckless Companions, altro scintillante country-rock, tra i migliori della serata, e Gospel Train, che come da titolo ci fa spostare di botto in una chiesa dell’Alabama, grazie soprattutto alle voci del Brushy Mountain Prison Choir, grandi protagoniste del brano.

Un gran bel live, ma adesso è tempo che Mark Collie torni del tutto con un disco nuovo al 100%.

Marco Verdi

Un Ritorno Coi Fiocchi! Dave Insley – Just The Way That I Am

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Dave Insley – Just The Way That I Am – D.I.R. CD

E’ sempre bello quando un musicista che consideravamo perso per strada torna a fare musica, ed è ancora più bello quando lo fa con il suo disco migliore. Non mi ero dimenticato di Dave Insley, countryman originario del Kansas ma trapiantato fin dall’adolescenza in Arizona, autore di tre convincenti album di puro country tra il 2005 ed il 2008 (Call Me Lonesome, Here With You Tonight e West Texas Wine), tre dischi che rivelavano un talento indiscutibile, con una bella serie di canzoni profondamente influenzate dal Texas, terra nella quale nel frattempo Dave si era spostato (più precisamente ad Austin). Poi, all’improvviso, ben otto anni di silenzio assoluto, una lunga pausa di cui ignoro la causa (il suo sito sorvola sull’argomento, ed anche in giro per il web non ho trovato molte info): otto anni di nulla danneggerebbero la carriera di un big, figuriamoci quella di un musicista che stava ancora cercando la giusta via, significa consegnarsi all’oblio totale; ma Dave non si è perso d’animo, ha continuato a scrivere, si è preso il tempo necessario, ed ora torna tra noi con quello che posso senz’altro definire come il suo lavoro più riuscito.

Just The Way That I Am è un album davvero scintillante, dodici canzoni di vera country music texana, elettrica quanto basta, suonata e cantata alla grande (il nostro ha una bella voce profonda, simile in alcuni momenti ad un Willie Nelson più giovane): un cocktail sonoro a tratti irresistibile, che ci riconsegna un artista in forma smagliante, notizia ancora più gradita dato che credevo di averlo perso. Per questo suo ritorno, Insley si fa aiutare da una bella serie di sessionmen, tra i quali spiccano Rick Shea, Matt Hubbard (già collaboratore di Nelson), Redd Volkaert (ex chitarra solista della band di Merle Haggard), oltre a Kelly Willis e Dale Watson ospiti vocali in due brani. In poche parole, uno dei migliori dischi di vero country da me ascoltato in questo 2016.  L’album parte subito in quarta con Drinkin’ Wine And Staring At The Phone, bellissimo honky-tonk elettrico, ritmato e coinvolgente, con tanto di tromba dixie e fiati mariachi, ed una melodia che ricorda il Willie d’annata: brillante. Ottima anche I Don’t Know How The Story Ends, una western tune intensa, ancora figlia di Willie (anche nel titolo, molto “nelsoniano”), con una bella armonica ed una melodia fluida e distesa; anche Call Me If You Ever Change Your Mind ha il sapore del Texas, una country song sciolta e spedita, con una bella chitarra (Volkaert) e grande classe.

Win Win Situation For Losers è una scintillante honky-tonk ballad, impreziosita dalla seconda voce della Willis, un brano dallo spirito classico, suonato e cantato davvero bene; che dire poi di Arizona Territory, 1904, altro brano di stampo western e dall’impianto quasi cinematografico, grande voce e feeling a palate (il timbro vocale è sempre simile a Nelson, ma lo stile qui è vicino a certe cose di Johnny Cash). Con Please Believe Me si cambia registro, in quanto Dave ci presenta una perfetta ballata romantica anni sessanta con accenni doo-wop, qualcosa di diverso ma assolutamente credibile, mentre con la distesa Footprints In The Snow torniamo su lidi più consueti, anche se permane un’atmosfera d’altri tempi. L’ironica Dead And Gone inizia in maniera funerea, ma presto si trasforma in un gustoso honky-tonk elettrico che più classico non si può, texano al 100%, tra i più godibili del CD; No One To Come Home To vede la partecipazione vocale di Watson, ed in effetti il pezzo è perfetto per il texano, ritmato e coinvolgente, con ottime prove della steel di Bobby Snell e della solista di Shea, mentre We’re All Here Together Because Of You è ancora una deliziosa cowboy tune dal refrain accattivante. Il CD si chiude con la lenta ed intensa Just The Way That I Am e con la bellissima Everything Must Go, tra country, anni sessanta ed un tocco mexican, uno spettacolo.

Spero vivamente che Dave Insley sia tornato per restare tra noi, anche perché di dischi come Just The Way That I Am c’è sempre bisogno.

Marco Verdi

Ultimi Ripassi Per L’Estate: Dal Texas La “Sorella Musicale” Di Lucinda Williams! Robyn Ludwick – Little Rain

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Robyn Ludwick – Little Rain – Late Show Records

Nell’ambito del circuito “Americana” c’è una cantautrice texana che da circa una decina d’anni, anno più anno meno, cerca di mettersi in evidenza con alterna fortuna: si chiama Robyn Ludwick, è nata a Bandera un paesino vicino a San Antonio,Texas ( in una regione famosa per i suoi tanti cantautori e musicisti), ma che per chi non lo sapesse è anche la sorella minore di Bruce e Charlie Robison (due tra gli artisti più apprezzati del Lone Star State) e di conseguenza cognata rispettivamente di Kelly Willis e di Emily Erwin delle Dixie Chicks, per chiudere il cerchio è pure maritata con il bassista e musicista John Ludwick. Dopo gli anni trascorsi a Bandera, Robyn si trasferì ad Austin dove lavorava al famoso Continental Club (laureandosi anche nel frattempo in ingegneria), e lì conobbe il futuro marito, appunto il bassista John Ludwick, mettemdo su famiglia, però dopo la nascita del primo figlio rinasce in lei la voglia di fare musica. Così nel 2005 esce il suo primo album For So Long, prodotto da David Barnes dei Bad Livers, balzato subito al primo posto nelle classifiche radiofoniche di Austin, e dopo molti concerti in giro per l’America (e anche in Europa) pubblica il secondo lavoro Too Much Desire (08), con la presenza di artisti come Eliza Gilkyson e Rich Brotherton, eccellente multistrumentista (ora anche produttore), ottenendo buoni consensi di critica https://www.youtube.com/watch?v=7RovEd6pbqs .

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Dopo questi due album all’insegna della canzone d’autore, con il terzo, Out Of These Blues (11),  prodotto dal grande Gurf Morlix ( uno che ha lavorato negli anni con artisti del calibro di Lucinda Williams, Robert Earl Keen, Slaid Cleaves, Mary Gauthier e Ray Wylie Hubbard) e che vede la presenza anche di Ian McLagan (mai dimenticato tastierista del Faces), Trish Murphy, e Gene Elders, la Ludwick alza ancora l’asticella delle ambizioni con un nuovo lavoro che spazia tra rock, blues, canzone d’autore https://www.youtube.com/watch?v=Ao6y8oO20DQ  e, cosa non secondaria, riporta un’intrigante “cover” che riprende l’impaginazione grafica e i caratteri del capolavoro di Jackson Browne Late For The Sky.

A produrre questo nuovo Little Rain è ancora il buon Gurf Morlix, come sempre  impegnato a suonare un’incredibile quantità di strumenti (chitarre, mandolino, banjo, dobro e pedal steel), con l’aiuto di Rick Richard alla batteria, del marito di Robyn John Ludwick al basso, oltre naturalmente alla stessa Robyn alle chitarre acustiche, per un disco crudo e diretto con un limpido suono folk-rock.

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La partenza di questa “sorella di estrazione musicale” di Lucinda è con Longbow, Ok abbastanza similare ai brani migliori della Williams https://www.youtube.com/watch?v=KSaN7jtIra8 , a cui fa seguito il blues sofferto di Honky Tonk Feelin’  https://www.youtube.com/watch?v=SwJeBhGJIl8 , la ballata rock Little Weakness e il triste incedere malinconico di Heartache https://www.youtube.com/watch?v=Eh35XNI7lQo . Si cambia ritmo con la leggera Somethin’ Good, la splendida She’ll Get The Roses, una ballata intimista con la chitarra elettrica di Morlix che singhiozza come quella del marito John https://www.youtube.com/watch?v=VN0xW2v-t_o , una accorata e dolente Mama, mentre Breaks My Mind ci accompagna nei territori del soul con alcune sfumature “bluesy”. Lafayette e Over Me  rimandano ancora alle ballatone tanto care alla “sorella virtuale”, concludendo con le atmosfere soul di Stalker dove la voce calda e sofferta di Robyn rivaleggia in bravura con la grande Mary Gauthier.

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Nelle undici canzoni di Little Rain quello della Williams è il nome che in termini di influenza e suggestioni sembra ricorrere più spesso (ma si potrebbero aggiungere i nomi di Patty Griffin, Caroline Herring, Mary Gauthier, Rosanne Cash), anche se si farebbe torto al talento della Ludwick, una bella signora che nelle sue canzoni racconta storie di vite vissute e di solitudine, di amori consacrati e di fallimenti, il tutto spesso pervaso da un profondo senso di tristezza, cantato con il lirismo e con la voce partecipe di Robyn che arrivano direttamente al cuore. Robyn “Robison” in Ludwick è una di quelle artiste che meriterebbe ben altri palcoscenici https://www.youtube.com/watch?v=5gh9nnllBVA , e non solo di restare nel “limbo” del sottobosco musicale americano (quello dei veri appassionati), anche se a questo punto non importa che abbia per forza qualcosa di originale da dire, quanto che lo dica in modo interessante come nei due ultimi splendidi lavori. Come succede ultimamente in questi tempi di etichette indipendenti il CD è di difficile reperibilità, ma se non lo trovate vi consiglio di utilizzare la versione in “download”, non ne rimarrete delusi.

NDT: Quel piccolo genio di Gurf Morlix, sembra che da anni si dedichi alla ricerca di una nuova Lucinda Williams, e stavolta (con queste due produzioni consecutive) può darsi che l’abbia trovata (almeno per il vostro umile recensore)!

Tino Montanari

Tra Moglie E Marito…Il Disco E’ Servito! Kelly Willis & Bruce Robison – Cheater’s Game

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Kelly Willis & Bruce Robison – Cheater’s Game – Preminum Records

Come infatti tutti saprete (beh, forse non proprio tutti) Bruce Robison e Kelly Willis, oltre ad essere due ottimi musicisti e songwriters, sono anche felicemente sposati da anni. Entrambi inattivi a livello discografico da diversi anni (Bruce dal 2008, Kelly dal 2007), si sono presi cura dei loro quattro figli durante questo periodo, ed oggi si ripresentano a noi con un disco nuovo di zecca, intitolato Cheater’s Game che, escluso un album a carattere natalizio inciso nel 2006, è il primo vero lavoro in coppia dei due. I due vengono presentati come la prima coppia uomo-donna della musica texana, anche se a memoria mi viene in mente anche quella formata da Waylon Jennings e Jessi Colter (anche se non avevano mai inciso un intero album insieme, solo qualche canzone sparsa, e poi Jessi  è dell’Arizona…ma neppure Kelly è texana, e quindi?), ma tutto ciò è per le statistiche: quello che veramente interessa è il livello del disco, che è decisamente buono.

Che i due fossero bravi lo sapevamo (anche se a Bruce ho sempre preferito di un’attaccatura il fratello Charlie, parere personale), ma che tornassero dopo cinque-sei anni con un lavoro di questo livello non me l’aspettavo (e ve lo dice uno che non ha mai amato i dischi di duetti, specie maschio-femmina, anche se ad onor del vero c’è da dire che di duetti veri e propri ce ne sono pochi, per la maggior parte del disco i due si dividono i brani da cantare, armonizzando di volta in volta sulla voce solista dell’altro). Ben prodotto da Brad Jones e registrato a Nashville con pochi ma fidati sessionmen, Cheater’s Game è un concentrato di pura Americana made in Texas, una miscela vincente di country, honky-tonk, bluegrass, roots e qualche puntatina nel rock, con circa metà dei brani scritti da Robison da solo o in compagnia (la Willis non partecipa al songwriting in questo disco), ed una scelta di covers decisamente azzeccata.

Si parte con la title track, una country song molto classica, dal passo lento, con fiddle e violini d’ordinanza e Kelly subito in parte (Bruce qui si limita a qualche backing vocals). Border Radio è proprio il classico dei Blasters, ma il brano non è né rock come l’originale dei fratelli Alvin, né lento come la versione solista di Dave, bensì ha un accompagnamento elettroacustico più rootsy, anche se un po’ sottotono: una versione discreta ma si poteva fare meglio; We’re All The Way, di Don Williams, è arrangiata in modo asciutto ed essenziale, ma la melodia gradevole ed un certo retrogusto mexican la rendono degna di nota. Long Way Home (Hayes Carll) è un brano dalla scrittura superiore: Carll è uno dei talenti più fulgidi venuti fuori negli ultimi anni in territorio Americana, e quindi i coniugi Robison non devono fare altro che cucire addosso al brano una strumentazione misurata ed il gioco è fatto; 9.999.999 Tears è un successo anni settanta di Razzy Bailey, un artista oggi dimenticato, un brano proposto con uno squisito gusto retro, tra country e pop d’altri tempi. La polverosa Leavin’ ha il sapore del Texas nelle note, But I Do è invece una sorta di bluegrass, tra antico e moderno, con tanto di tuba a farsi largo tra violini e banjo.

No Kinda Dancer è un noto brano di Robert Earl Keen, una versione forse meno incisiva di quella del suo autore, ma che fa comunque emergere la bellezza della melodia; Lifeline, mischia bluegrass e rock, un cocktail riuscito, Ordinary Fool è la tipica ballata texana, intensa e profonda. L’album si chiude con il country’n’roll di Born To Roll, la tenue e bucolica Waterfall e con la vibrante Dreamin’, melodica, diretta e vivace, una delle migliori del disco.In definitiva, si può dire che se la coppia Kelly Willis/Bruce Robison funziona alla grande a livello famigliare (quattro figli sono lì a dimostrarlo), non delude neppure discograficamente parlando. Il tempo dirà se Cheater’s Game è solo una collaborazione estemporanea o l’inizio di una vera e propria carriera parallela per i due.

Marco Verdi

Un Altro Galletto Nel “Pollaio” Del Rock! Martin Zellar And The Hardways – Roosters Crow

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Martin Zellar & The Hardways – Roosters Crow – Owen Lee Recordings Self Released 2012

Cosa accomuna Martin Zellar ex leader dei Gear Daddies (formazione di Minneapolis) con Will T. Massey, Michael McDermott (è uscito da poco un nuovo lavoro), Willie Nile, Joe Grushecky, il primo Matthew Ryan e le “meteore” Billy Falcon , Doc Lawrence e Larry Crane (il fidato chitarrista di Mellencamp)? Sono tutti “rockers” riconducibili a quello stile, figlio di Springsteen e cugino di Earle e Mellencamp, fatto di ballate elettriche stradaiole, di racconti di vita semplice e quotidiana che in buona parte abbiamo imparato ed amare grazie al “Boss”. Metà rocker e metà songwriter, il buon Martin Zellar è uno di quelli che nella seconda metà degli anni ’90, con un esordio importante Born Under (95), il seguente omonimo Martin Zellar (96) e direi anche The Many Moods of Martin Zellar (98), ha alimentato la speranza di una nuova ondata di giovani di belle speranze (quelli che ho elencato), dal sound elettrico e dal cuore romantico. A dieci anni dall’ultimo lavoro in studio Scattered (2002), Martin Zellar si rimette in gioco con i suoi fidati Hardways (che sono Dominic Ciola al basso e Scott Wenum alla batteria), con questo lavoro Roosters Crow (uscito da qualche mese), sotto l’esperta produzione di Pat Manske e con l’apporto di validi musicisti texani come Lloyd Maines al dobro e pedal-steel, Bukka Allen all’organo, Michael Ramos al piano, e le redivive Kelly Willis e Terri Hendrix alle parti vocali, il rocker di Minneapolis si è rimesso di nuovo sulla strada giusta.

Si parte subito alla grande con Took The Poison , una splendida ballata notturna, tra le più belle ascoltate quest’anno, con una melodia toccante valorizzata dal controcanto della Willis, seguita da Wore Me Down, tipico brano in mid-tempo accelerato con uso di dobro e mandolino. Si ritorna alla ballata con Running On Pure Fear, cantata ancora con la brava Kelly Willis, brano dall’andatura sognante, che si sviluppa in un crescendo quasi rabbioso, mentre Give & Take ha un ritmo più campagnolo dove entrano in gioco la fisarmonica, il mandolino e il dobro, un brano dal quale molti nomi di punta del “nuovo country”, dandogli un ascolto, potrebbero trarre qualche spunto e giovamento. Roosters Crow inizia con la batteria tambureggiante di Wenum e il basso di Nick Ciola, che dettano il tempo di una canzone tipicamente “blue collar”, che purtroppo, secondo chi vi scrive, da un po’ di tempo Joe Grushecky non sa più scrivere.

Si cambia ritmo con l’anonima I’m That Problem, mentre Some Girls è un’altra bella rock-song cantata al meglio da Martin, dove musicalmente si fa notare una bella slide, bissata da Where Did The Words Go? che si sviluppa su un tessuto sonoro guidato da pianoforte e cello. La canzone successiva, Seven Shades Of Blue, mette in risalto la bravura di Maines al dobro, mentre The Skies Are Always Gray è il cambio di rotta che non ti aspetti: chitarre in spolvero, organo in tiro con Bukka Allen sugli scudi, per un brano che solo un americano “vero” può fare, con tanto feeling, mentre la conclusiva It Works For Me è un brano country-rock, dominato dalla sezione ritmica, al quale la voce aggressiva (anche se non straordinaria) di Zellar conferisce caratteristiche urbane.

Dopo 25 anni di carriera Martin Zellar e i suoi Hardways dimostrano di essere degli “outsiders” di lusso in un panorama musicale alquanto stagnante ultimamente, dove in definitiva questo lavoro Roosters Crow (bellissima la copertina), è senza una sbavatura, suonato e cantato splendidamente, consigliato a chi ama il Boss e i derivati, per il sottoscritto la conferma che dopo anni di anonimato, Zellar, fortunatamente, ha visto di nuovo la luce.

Tino Montanari