Ammetto che non è una mia idea, ma girando per la rete mi è capitato di vederlo e mi è sembrato pertinente e divertente, vista l’annata che stiamo passando: quindi “lo rubo”, ma lasciando in vista i titolari del logo. Utilizzo unificato (come le reti della Rai, quando c’è un annuncio importante) per tutte le liste dei collaboratori: quest’anno sono un po’ di ritardo, ma visto che ancora ieri sono usciti i nuovi album di Thorogood e McCartney, neanche più di tanto. Ordine casuale, anzi lo stesso dello scorso anno, non ho approfittato di quello alfabetico che mi avrebbe favorito. Al solito liste molte ricche di titoli, senza limite di numero, ognuno nella sequenza che preferisce, e ogni tanto, quando esistono, trovate i link alle recensioni, così potete farvi una idea di cosa abbiamo scritto. Partiamo con le scelte…
Michael McDermott – What In The World… – Appaloosa Records
Capita che un lunedì di maggio, a Milano, in una banalissima pausa pranzo, vengo a sapere che presso la Feltrinelli di Viale Pasubio si esibirà gratuitamente un cantautore che considero uno dei più preziosi segreti della storia del rock, di quelli che negli anni ‘90 hanno riempito le mie serate musicali di adrenalina ed emozioni con le canzoni dei sui primi tre album, il capolavoro 620 W. Surf, Gethsemane e quello che porta semplicemente il suo nome. Mi precipito e me lo trovo davanti, Michael McDermott, in jeans e maglietta neri, chitarra acustica e armonica pronta all’uso, spalleggiato dal bravo Alex kid Gariazzo (Treves Blues Band) alla chitarra e mandolino, di fronte ad una platea distratta da cibo e chiacchiere, a regalare una performance di straordinaria intensità basata per lo più sui brani di Orphans, pubblicato qualche mese prima in Italia dalla benemerita Appaloosa Records. Questo accadeva nel 2019, quando ancora nessuno sapeva cosa significasse la funesta sigla Covid-19 e i concerti rock potevi andarli a sentire regolarmente, senza alcun problema di distanziamento o mascherine.
Nonostante il virus sia purtroppo diventato una triste realtà, da noi ma in misura anche maggiore negli States, McDermott ha deciso di pubblicare quest’anno un nuovo capitolo della sua discografia, sempre attraverso l’Appaloosa del compianto Franco Ratti, con tanto di traduzioni in italiano dei testi, lodevolissima iniziativa che permette di valutare appieno il contenuto delle canzoni del songwriter di Chicago, mentre negli States esce per la sua etichetta personale, la Pauper Sky Records. E devo dire che quest’ultimo What In The World… si rivela essere uno dei migliori lavori della sua carriera, a conferma della autentica rinascita umana ed artistica che Michael ha saputo portare avanti dopo essersi liberato dalla grave dipendenza dall’alcolismo. Fantasmi e demoni non hanno mai abbandonato i suoi racconti in musica, tra frustrazioni ed ossessioni dei personaggi che descrive (non sarà per caso che tra i suoi fans di vecchia data troviamo Stephen King) con occhio attento ai fatti di cronaca e agli aspetti più involuti dell’attuale società americana. La title track, posta volutamente in apertura (e in chiusura, come bonus, in versione acustica ugualmente efficace) si ispira in maniera evidente al Bob Dylan di Subterranean Homesick Blues, fra taglienti sventagliate chitarristiche e una ritmica serrata a sostenere un testo rabbioso che elenca orrori e assurdità che si stanno verificando negli USA dell’era Trump.
Ancor più evidente appare la citazione nel recente video che supporta la canzone, in cui Michael sfoglia cartelli contenenti le parole del testo, facendo il verso a maestro Bob. Ancora un evento tragico, il massacro commesso cinque anni fa da parte di un suprematista bianco nella chiesa di Charleston, nella Carolina del Sud, offre lo spunto per un altro brano potente, Mother Emmanuel, caratterizzato dal suono lancinante delle chitarre e da continui cambi di ritmo. Dalle tragedie collettive spesso si finisce a scavare nel personale come dimostra uno degli episodi migliori della raccolta, The Veils Of Veronica, dedicata alla nipote Erin, morta suicida poco dopo la scomparsa del fratello Ryan, ex militare e per lungo tempo sofferente di PTSD (disturbo da stress post traumatico). L’atmosfera del pezzo è perfetta nel descrivere il dramma interiore della protagonista con il lento crescendo delle chitarre sullo sfondo che ben supportano il tono intenso e dolente della voce di Michael.
Anche Die With Me descrive splendidamente il tentativo di superamento di un profondo trauma, come può essere un abuso sessuale subìto, altra notevole performance vocale del leader con la band alle spalle che lavora di fino. Il disco offre anche momenti più solari e disimpegnati nel gradevolissimo trittico formato da The Things You Want, NoMatter What e Contender. La prima gode di un riff cadenzato e un po’ ruffiano che si memorizza subito e ti porta a canticchiarne il ritornello insieme al suo autore. La seconda è più acustica e ricorda certe gustose ballad uscite dalla magica penna di Tom Petty, con tanto di armonica a bocca a sottolinearne la linea melodica azzeccatissima, mentre la terza presenta un arrangiamento fiatistico bello quanto inatteso, con i sax suonati da Rich Parenti che danno vigore e spensieratezza alla vicenda del Contender del titolo, che cade al tappeto 99 volte per rialzarsi alla centesima. Tuttavia, sono le ballads il contesto in cui McDermott esprime il massimo delle sue potenzialità, come dimostra la trascinante New York, Texas… racconto efficace della fuga di una giovane coppia in attesa di un figlio verso una vita migliore.
Oppure la delicata descrizione di una barista in cerca di riscatto sociale in Blue Eyed Barmaid, impreziosita da un notevole arpeggio di chitarre acustiche. Rimangono la romantica Until I Found You manifestamente dedicata alla moglie Heather Lynne Horton, corista e violinista nonché membro dei Westies https://discoclub.myblog.it/2014/05/05/singer-songwriter-eccellenza-michael-mcdermott-and-the-westies-west-side-stories/, il gruppo fondato da Michael insieme al chitarrista Joe Pisapia, al batterista Ian Fitchuk, al bassista Lex Price e al tastierista John Deaderick, gli ultimi due ancora presenti in quest’album che si chiude, prima della ripresa acustica di What In The World…, con un altro nostalgico gioiellino, atto d’amore nei confronti della Grande Mela in cui McDermott ha vissuto per parecchi e travagliati anni, intitolato Positively Central Park. Una splendida conclusione, che sembra uscire direttamente da uno dei locali del Village dove il suo autore si sarà esibito tante volte, a suggello di un album notevole che ci mostra il cinquantenne Michael McDermott in piana forma fisica e creativa.
Michael McDermott – Out From Under – Appaloosa/Ird
La vicenda umana ed artistica di Michael McDermott è cosa abbastanza nota: un giovane di belle speranze, nato a Chicago, all’inizio degli anni ’90 inizia ad esibirsi nei club della sua città, viene notato dagli emissari delle majors e messo sotto contratto dalla Giant/Reprise; il primo album 620 W. Surf (peraltro bellissimo), prodotto da Don Gehman e Brian Koppelman, viene accolto da critiche entusiaste che inneggiano al nuovo Dylan o Springsteen (anche Mellencamp, visto il produttore), il secondo, Gethsemane, è quasi altrettanto bello, e il terzo, l’omonimo Michael McDermott del 1996, pure. Le note del disco sono firmate da un fan di eccezione, Stephen King, che scrive di lui “uno dei più grandi cantautori del mondo e forse il più grande talento non riconosciuto del rock’n’roll degli ultimi 20 anni”, che era una cosa tipo il “ho visto il futuro del R&R” usato per Springsteen. Il problema è che i suoi dischi vendevano a fatica 50.000 copie, ma McDermott era già entrato in una spirale di autocompiacimento ed eccessi, sesso, droga e R&R, misti a tanto alcol, che in poco tempo lo conducono sulla strada della rovina fisica ed emozionale. E lì rimane per lunghi anni, continuando a pubblicare dischi anche buoni, ma non più memorabili. Poi, quando gli anni duemila sono ormai da lungo una realtà, inizia una lenta riscossa morale, prima con due buoni dischi come Hey La Hey e Hit Me Back, generati anche dall’incontro con Heather Horton, collega cantautrice e violinista, che diventa sua moglie, formando una famiglia, e sposandosi in Italia a Ferrara nel 2009, matrimonio da cui nasce una figlia, Rain.
In Italia trova anche una etichetta, la Appaloosa, che gli pubblica i primi due ottimi dischi del suo gruppo collaterale, i Westieshttps://discoclub.myblog.it/2016/03/05/ho-visto-il-futuro-del-rocknroll-il-nome-michael-mcdermott-ovvero-dischi-cosi-springsteen-li-fa-piu-westies-six-on-the-out/ , che fanno da prologo all’eccellente Willow Springs, dal nome della località vicino a Chicago dove è andato a vivere nel frattempo, e dove ha costruito il suo studio di registrazione casalingo. Anche quel disco del 2016 è veramente splendido, ricco di canzoni dai testi che trattano spesso e volentieri di “perdenti” come lui (quindi anche autobiografiche), umorali, ironiche, divertenti, sopra le righe, lucide, universali, ma allo stesso tempo personali, e che tratteggiano l’altra America, quella nascosta, dove i sentimenti sono comunque un fattore importante. Il tutto condito da musiche di grande pregio e fattura, dove rock, folk e piccoli tocchi celtici, convivono con scossoni elettrici di grande qualità. Naturalmente quanto detto finora vale anche per il nuovo Out From Under, che come i dischi precedenti riporta nel CD i testi, tradotti in italiano, dove si apprezza la sua prosa brillante, con spunti romantici e storie quasi ai limite dell‘incredibile, ma ciò nondimeno; verosimili: il protagonista dell’iniziale Cal-Sag Road si trova coinvolto in un terzetto erotico con due ragazze, Rita e Gwen, che alla fine delle canzone sono morte ammazzate entrambe e in fondo al lago, in un noir da incubo, quasi alla Tarantino, e che nelle parole di McDermott contiene molti elementi veritieri, fatti che gli sono successi, salvo i due omicidi. Il tutto inserito in uno splendido contesto musicale, un folk-blues-rock che ricorda Dylan ( o Eric Andersen, visto il timbro di voce di McDermott), Springsteen e il meglio della musica Americana, condita dalle chitarre del bravissimo Will Kimbrough, il basso del suo braccio destro Lex Price e la batteria di Steven Gillis, le tastiere di John Deaderick e il violino e la voce di Heather Horton, per un brano atmosferico, cinematico ed incalzante, veramente pregevole.
La delicata e deliziosa Gotta Go To Work vira verso un country-folk-bluegrass di fattura superba, con chitarre acustiche, mandolini, banjo e violino che si incrociano con elementi blues, in un’altra canzone che conferma la ritrovata vena artistica e d’ispirazione di questo splendido cantautore, che se non è alla pari con i grandissimi citati all’inizio, veramente poco ci manca, appena un gradino sotto. Il rock elettrico e mosso della incalzante Knocked Down rimanda al sound roots-blue collar del miglior Mellencamp e la voce non è da meno, rauca e vissuta come poche altre in circolazione; Sad Songs è il classico rock and roll da sentire in macchina, con i finestrini abbassati e a tutto volume, quelle canzoni che una volta Bruce Springsteen scriveva come un fiume in piena, e ora, salvo saltuarie eccezioni, fatica ad estrarre dalle sue corde, una road song di quelle goduriose, con chitarre elettriche spiegate, armonie vocali da sballo, come pure la voce potente, una bellissima melodia e un drive irresistibile. This World Will Break Your Heart rischia veramente di spezzartelo il cuore, con le sue storie tristi ed inesorabili, accompagnate da una melodia cristallina e struggente, quasi elegiaca e ricca di grande partecipazione, sempre dalla parte di quei “perdenti”, umani e sofferenti, che McDermott tanto ama, il tutto condito solo da una chitarra acustica, un pianoforte, il contrabbasso di Price e poco altro, giusto qualche tocco di tastiere sullo sfondo, grande canzone. Il menu è variegato e complesso, ci sono anche canzoni di speranza come Out From Under, che nel libretto dei testi è stata tradotta come “Riemergeremo”, una esortazione a non mollare, a lottare, con un altro tema musicale molto springsteeniano, forse il tema sonoro è già sentito e un filo risaputo, ma non manca di grinta ed energia.
Celtic Sea è un’altra ballata notevole, in crescendo, con un arrangiamento avvolgente e dal suono corposo, con il violino in bella evidenza, come pure il piano e gli intrecci vocali, oltre alle chitarre acustiche ed elettriche che sottolineano la bella melodia della canzone. In Rubber Band Ring, uno dei brani più divertenti del disco, c’è la presenza inconsueta del sax suonato da Rich Parenti, che tanto ci ricorda il Boss innamorato delle sonorità soul spensierate anni ’60, forse leggerina, ma tanto godibile, una vera boccata di aria fresca. Il motto di Michael McDermott, il suo manifesto programmatico, potrebbe essere Never Goin’ Down Again, una promessa più che una minaccia, un’altra canzone dallo spirito ardente e vibrante, anche un monito a tutti i “nuovi Dylan” e a quello che dovranno affrontare, con la musica che è classico rock americano anni ’80, quelli buoni però. E in album che ha non punti deboli, ottima anche la briosa e solare Sideways, molto dylaniana, con organo e chitarre brillanti nel contrappuntare la voce sicura del nostro amico, che si fa intima e raccolta per la sua “preghiera” conclusiva, una God Help Us dove Michael esprime i suoi dubbi e incertezze verso una entità superiore, con un tono discorsivo e sofferto, ma pronto a considerare tutte le opzioni in campo. Veramente un bel disco, 11 canzoni che riscaldano il cuore.
VV.AA. – When The Wind Blows: The Songs Of Townes Van Zandt – Appaloosa/IRD 2CD
Ogni tanto anche in Italia, in campo musicale, sappiamo fare le cose per bene: When The Wind Blows è uno splendido tributo alle canzoni del grande Townes Van Zandt, songwriter texano scomparso ormai da più di vent’anni ma ancora di enorme importanza ed influenza per molti, ed è stato fortemente voluto da Andrea Parodi, che ha prodotto il doppio CD (32 canzoni, due ore di musica) insieme a Jono Manson, musicista americano ma che ultimamente è spesso coinvolto in progetti “nostrani”. Ed il disco, oltre ad essere molto bello ed a comprendere il meglio del songbook di Van Zandt, è caratterizzato dalla presenza di un cast internazionale di livello eccelso, con diversi nomi di alto profilo ed altri meno conosciuti, ma sempre nel nome della professionalità e della grande musica; l’unica cosa in cui il doppio CD è un po’ carente e nelle informazioni, dato che mancano i sessionmen presenti nei vari pezzi, e le liner notes si limitano ad una presentazione (in inglese) del Townes Van Zandt Festival che si svolge ogni anno a Figino Serenza, nel comasco. *NDB Comunque proprio a quel link contenuto nel libretto http://townesvanzandtfestival.com/index.php/cd trovate tutte le informazioni sui musicisti che suonano nell’album, brano per brano).
L’album parte con la splendida Snowin’ On Raton, affrontata da Jaime Michaels con piglio da vero countryman, limpida e deliziosa; non conoscevo Luke Bolla, ma la sua Heavenly Houseboat Blues (con Paolo Ercoli) è davvero riuscita, una ballata acustica cristallina, suonata e cantata in maniera emozionante, ed anche lo svedese Christian Kjellvander non lo avevo mai sentito, ma credetemi se vi dico che Tower Song è da brividi, solo voce e chitarra ma un feeling “alla Chip Taylor” ed un timbro caldo e profondo. Ecco arrivare un tris d’assi, uno dietro l’altro: il grande Terry Allen si fa sentire ormai di rado, ed è un vero peccato in quanto è ancora in forma smagliante, e la sua White Freightliner Blues è solida, ritmata ed elettrica; anche Joe Ely ha diradato di molto la sua produzione negli ultimi anni, ed è dunque un piacere sentirlo tonico ed in palla nella toccante If I Needed You, mentre Thom Chacon conferma il suo ottimo momento con una Still Looking For You folkeggiante e bellissima. Non mi metto a citare tutti i partecipanti per non dilungarmi, ma mi limito a quelli che raggiungono o sfiorano l’eccellenza (e già questi non sono pochi): il bravo Slaid Cleaves ci regala una Colorado Bound per voce e strumenti a corda molto suggestiva, Andrea Parodi fa sua con piglio sicuro la nota Tecumseh Valley traducendola liberamente in italiano (non mi sembra che Townes citasse Genova ed Alghero…), ma fornendo una delle prove migliori e più creative del lavoro, mentre David Corley, con una voce a metà tra Van Morrison e Tom Waits tira fuori una To Live Is To Fly decisamente intensa.
My Proud Mountains nelle sapienti mani dei Session Americana è puro folk (con un ottimo crescendo strumentale), la bella voce di Kimmie Rhodes, accompagnata solo dallo splendido pianoforte di Bobbie Nelson (sorella di Willie), fa un figurone in Catfish Song, mentre il sempre più bravo Sam Baker (autore anche del disegno in copertina) dà il suo contributo con una struggente e quasi fragile Come Tomorrow; il primo CD termina con Malcolm Holcombe alle prese con una Dollar Bill Blues dal sapore western. Il secondo dischetto comincia con l’ottimo Jono Manson che rilascia una limpida e countreggiante At My Window, seguito dal redivivo Chris Jagger (fratello di Mick) che ci delizia con Ain’t Leavin’ Your Love, in puro stile folk-blues. Tra gli highlights da segnalare una drammatica Highway Kind ad opera di Chris Buhalis, la vibrante Flyin’ Shoes da parte di Radoslav Lorkovic, emozionante (e che pianoforte) ed una roccata ed energica Loretta, affidata a James Maddock, sempre più bravo anche lui. Non conosco Jeff Talmadge, ma la folkie I’ll Be Here In The Morning affidata a lui è scintillante, a dir poco, così come la profonda Lungs nelle mani di Richard Lindgren, mentre l’attore e cantante Tim Grimm fa sua Colorado Girl con classe e feeling. Waiting Around To Die, uno dei pezzi più cupi di Townes, è perfetta per Michael McDermott, ed il capolavoro assoluto del texano, Pancho & Lefty, una delle più belle canzoni di sempre in assoluto, viene affrontata con bravura e rispetto dal newyorkese Paul Sachs, una rilettura lenta nella quale la melodia risalta in tutta la sua bellezza. Chiude Jack Trooper, figlio di Greg, con il puro folk dal sapore quasi irlandese di Our Mother The Mountain.
Un tributo eccellente quindi, realizzato in maniera professionale e contraddistinto dal grande amore e rispetto dei partecipanti per la figura di Townes Van Zandt, il tutto senza protagonismi e, per citare un brano del grande texano, “for the sake of the songs”.
Michael McDermott And The Westies – West Side Stories – Appaloosa/IRD
Non a caso il Post appena prima di questo, che leggete in questa pagina, è dedicato dall’amico Marco Verdi a Bruce Springsteen. Proprio il Boss è sempre stato uno dei punti di riferimento nella carriera di Michael McDermott (e lo è tuttora, visto che non più tardi del giorno di San Valentino di quest’anno, in un locale di Chicago dove vive da tempo, ha dedicato a Bruce una intera serata dove reinterpretava, a richiesta, brani dal repertorio di Springsteen); ma è altrettanto vero, fatico ad ammetterlo, che Bruce non fa più un disco bello come questo West Side Stories da parecchio tempo (Seeger Sessions strepitose escluse, ed anche però, per onestà, molte canzoni sparse qui e là nella sua produzione recente, come dice Marco nell’articolo che leggete qui sotto, che sottoscrivo). Ma anche McDermott non faceva un disco così bello dagli anni ’90, quando era stato presentato come “un nuovo Springsteen” (forse quello più di talento, con Will T Massey, che poi però si è perso per strada), tanto da fare esclamare a Stephen King “uno dei più grandi cantautori del mondo e forse il più grande talento non riconosciuto del rock’n’roll degli ultimi 20 anni”, paragonandolo a Van Morrison e allo Springsteen di Rosalitahttps://www.youtube.com/watch?v=12v3cd548gk . Se volete leggere quello che ho detto di lui sul Blog, andate qui http://discoclub.myblog.it/2011/07/26/il-manuale-del-perfetto-beatiful-loser-michael-mcdermott-tou/, e comunque continuate a leggere la recensione di questo CD.
Si diceva che McDermott non faceva un album così bello da quasi venti anni, Hey La Hey e Hit Me Back, i due dischi precedenti, erano dei buoni dischi, con delle ottime canzoni, ma questo West Side Stories è un piccolo capolavoro sull’arte del cantautore: pronto da circa un anno, mi pare che fosse in vendita sul suo sito in una tiratura limitata ed autografata, non ricordo se 50 copie a 100 dollari o 100 copie a 50 dollari, e poi un EP con 5 brani era disponibile solo per il dowload da qualche mese. Onore alla Appaloosa per avergli fornito un punto di appoggio in Italia (sua patria di adozione) e la possibiltà di pubblicare questo CD, come ricorda lui stesso, il primo da parecchi anni a questa parte ad uscire per una etichetta non autogestita, con due bonus tracks rispetto alla edizione limitata. Tutto nasce da una serie di jam tenute in quel di Nashville insieme ad una serie di musicisti, prima fra tra tutti l’amata moglie Heather Horton, ottima cantante e violinista anche in proprio, quella che gli ha “salvato la vita”, Lex Price, il bassista, che è anche il produttore del disco, Joe Pisapia alla chitarra elettrica, Ian Fitchuck alla batteria e al piano e John Deaderick, pianista aggiunto.
Lo spunto viene dai Westies, una gang criminale di origine irlandese che dalla fine degli anni ’60 fino a metà anni ’80 terrorizzò la zona West Side di Manhattan. Le canzoni, nate come ciclo dedicato a queata saga, poi si sono allargate a contenere temi più ampi della poetica di Michael (e nel libretto contenuto nella bella confezione in digipack del CD, oltre al testo originale trovate anche la traduzione italiana), questa risalita dal buio della mente umana fino alla luce delle storie e delle canzoni che i suoi genitori e nonni irlandesi gli hanno insegnato fin dall’infanzia. Il disco si apre con Hell’s Kitchen, una ballata di quelle altamente emozionali, che Bruce non scrive (quasi) più, con la seconda voce di Heather in evidenza, ma che, per certi versi, per le sue malinconiche atmosfere, mi ha ricordato anche le canzoni di Elliott Murphy, un altro beautiful loser, uno dei tanti nuovi Dylan, con Bruce, ad inizio anni ’70, e poi autore di una gloriosa carriera che continua fino ai giorni nostri, bellissima apertura, ma non temete perché tutto il disco è costellato di canzoni stupende. Trains, già presente come Dreams About Trains nel precedente Hit Me Back (ma se sono belle, repetita iuvant), è un altro brano bellissimo, in leggero crescendo, percorso dal violino di Heather Horton che ne nobilita i tratti dolenti anche con le sue armonie vocali e con la band che segue passo dopo passo l’ispirazione ritrovata di McDermott, altro grande brano . Come pure Say It…, un delicato e struggente duetto con la moglie Heather, una ulteriore ballata elettroacustica di grande spessore, con chitarre acustiche e piano che rincorrono le voci dei protagonisti, cinque minuti di pura magia.
Un vero e proprio piccolo noir è Death, narra la storia della vicenda che porterà il protagonista sulla ghigliottina, nel racconto che fa alla sua “piccola”, colei che lo ha spinto fino a questa tragica fine, il violino di Heather è ancora protagonista di questa amara e tragica murder folk song, dall’arrangiamento musicale complesso e coinvolgente, quasi dylaniano, epoca Desire, nel suo dipanarsi . Bars potrebbe essere la metafora degli anni più bui della vita di Michael, quelli in cui l’oscurità era più profonda, ma come dice nel testo “Hai bisogno dell’oscurità per vedere la luce”, musicalmente un altro brano che ricorda assai il meglio dell’opera springsteeniana, con quello che pare un delizioso organo sullo sfondo. Tante le metafore presenti in questo West Side Stories, Rosie parla delle difficoltà di comunicazione e lo fa con un suono che ancora risale al meglio della tradizione musicale americana, un filo di country, il disco è pure stato registrato in quel di Nashville, ma anche tanto Bruce e Dylan, un pizzico di Cat Stevens (ognuno ci sente quello che vuole) ma anche molto Michael McDermott, che è un fior di autore, scrive delle canzoni meravigliose, tra le migliori che è possibile ascoltare nella canzone d’autore doc https://www.youtube.com/watch?v=su713vH4F4k . Atmosfere sospese per l’altro duetto con la moglie Heather, Fallen, una dolcissima canzone sulle pene d’amore, sussurrato dai due come se il mondo dipendesse da questo.
Five Leaf è l’ennesima stupenda ballata, con il profumo del Van Morrison mistico degli inizi o dello Springsteen dei primi dischi, quello più romantico e meno disincantato, e sono otto brani in fila, uno più bello dell’altro, non un momento di cedimento qualitativo, come dovrebbero essere tutti i dischi, gli americani dicono, con espressione riuscita, “all killer, no filler”! E anche Still l’ultimo duetto tra Heather e Michael è una piccola meraviglia di equlibri sonori, piano, chitarre acustiche, le voci ispirate della coppia, tutto contribuisce a creare un altra canzone che nella sua apparente semplicità ha una complessita di accenti notevoli. Le due bonus, che tali non sono: Gun, sulla piaga di quelli che girano per le strade americane con una pistola in tasca (o vorrebbero averla, come in questo caso), solo un demo, chitarra acustica, piano e violino, ma ragazzi che intensità. E infine Silent, anche questa già usata come The Silent Will Soon Be Singing nel precedente Hit Me Back , oltre sei minuti da puro folksinger per eccellenza. Nell’occasione McDermott sveste il giubbetto del rocker intemerato e mette la giacca e la cravata (slacciata) del cantautore più puro ed il risultato è sorprendente (oppure no?). Dischi così belli ne escono pochi in un anno, non lasciatevelo scappare.
Da un po’ di tempo nella casella della posta elettronica ricevevo delle missive su tali Westies e mi chiedevo chi fossero costoro:
Johnny Darkstar – Guitar, Vox JP – Guitars: Pedal, Lap, Steel and Mandolin Heather Murphy – Fiddle, Vox Magic Mikey – Bass Bobby D – Drums Danny Boy – Piano and Organ
Un nuovo gruppo di Chicago, ma se ingrandisci l’immagine, un paio di facce sono familiari: quello di fronte nella foto è il redivivo Michael McDermott e, con il cappello, la gentil donzella è la di lui consorte Heather Horton, prendono il loro nome dalle gang di irlandesi-americani che terrorizzarono Hell’s Kitchen tra gli anni ’70 e ’80, ma la loro intenzione è di regalare solo della buona e sana musica Americana e quindi hanno definito il loro genere, ironicamente, “Ameri-gangsta-cana”. Lo scorso dicembre si sono recati in quel di Nashville per registrare il loro album di esordio e dai primi brani che affiorano sembra che la rinascita musicale di McDermott sia in pieno svolgimento (e sono veramente contento per lui), gli abitanti di Chicago, lo scopriranno dal 1° giugno, data del loro concerto di esordio. L’album dovrebbe uscire ad autunno inoltrato, per il momento… http://westiesmusic.com/site/about/ e date e un po’ di musica nella cloud http://westiesmusic.com/site/shows/
Tonight
I’m Going To Settle
The Score
Tonight
It’s Hell’s Kitchen
Or Heaven’s Door
ultimo video, ma continua…
Bruno Conti
P.s Se amate il miglior Springsteen (ma anche il miglior McDermott) qui c’è da godere!
Naturalmente dopo Natale viene “Saint Stephen”! Per cui continuiamo con la seconda parte della lista delle migliori “alternative” del 2012 according to Bruno Conti. Se non riuscite a leggerli durante le feste natalizie mi pare ovvio che non hanno una scadenza…eravamo più o meno a luglio!
Robert Cray – Nothing But Love
Joss Stone – The Soul Sessions Vol. 2
Bill Fay – Life Is People
Old Crow Medicine Show – Carry Me Back
John Hiatt – Mystic Pinball
Chris Knight – Little Victories
Michael McDermott – Hit Me Back
Dwight Yoakam – 3 Pears
Beth Hart – Bang Bang Boom Boom
Jamey Johnson – Living For A Song. A Tribute To Hank Cochran
Donald Fagen – Sunken Condos
Van Morrison – Born To Sing No Plan B
Neil Young & Crazy Horse – Psychedelic Pill
Iris DeMent – Sing The Delta
Greg Brown – Hymns To What Is Left
Graham Parker & the Rumour – Three Chords Good
Mi sa che mi sono dimenticato qualcosa, ma se non volevo fare un elenco da Pagine Gialle dovevo, a malincuore, saltare dei dischi che avrebbero meritato questa lista di fine anno. La seconda parte è più breve della prima perché avrebbe dovuto contenere molti dei titoli che sono già apparsi nella Top Ten. E mancano ristampe, cofanetti e live (qualcuno ha detto Led Zeppelin!).
E se vi sembrano “troppi” perché non si fanno più i grandi dischi di una volta, questo lo diceva anche mia mamma, ma bisogna sapersi accontentare e in questa annata è stato un bel “accontentarsi”!
Martin Zellar & The Hardways – Roosters Crow – Owen Lee Recordings Self Released 2012
Cosa accomuna Martin Zellar ex leader dei Gear Daddies (formazione di Minneapolis) con Will T. Massey, Michael McDermott (è uscito da poco un nuovo lavoro), Willie Nile, Joe Grushecky, il primo Matthew Ryan e le “meteore” Billy Falcon , Doc Lawrence e Larry Crane (il fidato chitarrista di Mellencamp)? Sono tutti “rockers” riconducibili a quello stile, figlio di Springsteen e cugino di Earle e Mellencamp, fatto di ballate elettriche stradaiole, di racconti di vita semplice e quotidiana che in buona parte abbiamo imparato ed amare grazie al “Boss”. Metà rocker e metà songwriter, il buon Martin Zellar è uno di quelli che nella seconda metà degli anni ’90, con un esordio importante Born Under (95), il seguente omonimo Martin Zellar (96) e direi anche The Many Moods of Martin Zellar (98), ha alimentato la speranza di una nuova ondata di giovani di belle speranze (quelli che ho elencato), dal sound elettrico e dal cuore romantico. A dieci anni dall’ultimo lavoro in studio Scattered (2002), Martin Zellar si rimette in gioco con i suoi fidati Hardways (che sono Dominic Ciola al basso e Scott Wenum alla batteria), con questo lavoro Roosters Crow (uscito da qualche mese), sotto l’esperta produzione di Pat Manske e con l’apporto di validi musicisti texani come Lloyd Maines al dobro e pedal-steel, Bukka Allen all’organo, Michael Ramos al piano, e le redivive Kelly Willis e Terri Hendrix alle parti vocali, il rocker di Minneapolis si è rimesso di nuovo sulla strada giusta.
Si parte subito alla grande con Took The Poison , una splendida ballata notturna, tra le più belle ascoltate quest’anno, con una melodia toccante valorizzata dal controcanto della Willis, seguita da Wore Me Down, tipico brano in mid-tempo accelerato con uso di dobro e mandolino. Si ritorna alla ballata con Running On Pure Fear, cantata ancora con la brava Kelly Willis, brano dall’andatura sognante, che si sviluppa in un crescendo quasi rabbioso, mentre Give & Take ha un ritmo più campagnolo doveentrano in gioco la fisarmonica, il mandolino e il dobro, un brano dal quale molti nomi di punta del “nuovo country”, dandogli un ascolto, potrebbero trarre qualche spunto e giovamento. Roosters Crow inizia con la batteria tambureggiante di Wenum e il basso di Nick Ciola, che dettano il tempo di una canzone tipicamente “blue collar”, che purtroppo, secondo chi vi scrive, da un po’ di tempo Joe Grushecky non sa più scrivere.
Si cambia ritmo con l’anonima I’m That Problem, mentre Some Girls è un’altra bella rock-song cantata al meglio da Martin, dove musicalmente si fa notare una bella slide, bissata da Where Did The Words Go? che si sviluppa su un tessuto sonoro guidato da pianoforte e cello. La canzone successiva, Seven Shades Of Blue, mette in risalto la bravura di Maines al dobro, mentre The Skies Are Always Gray è il cambio di rotta che non ti aspetti: chitarre in spolvero, organo in tiro con Bukka Allen sugli scudi, per un brano che solo un americano “vero” può fare, con tanto feeling, mentre la conclusiva It Works For Me è un brano country-rock, dominato dalla sezione ritmica, al quale la voce aggressiva (anche se non straordinaria) di Zellar conferisce caratteristiche urbane.
Dopo 25 anni di carriera Martin Zellar e i suoi Hardways dimostrano di essere degli “outsiders” di lusso in un panorama musicale alquanto stagnante ultimamente, dove in definitiva questo lavoro Roosters Crow (bellissima la copertina), è senza una sbavatura, suonato e cantato splendidamente, consigliato a chi ama il Boss e i derivati, per il sottoscritto la conferma che dopo anni di anonimato, Zellar, fortunatamente, ha visto di nuovo la luce.
Michael McDermott – Hit Me Back – Rock Ridge Music 25-09-2012
A sorpresa, torna un altro dei beniamini di questo Blog. La settimana prossima esce il nuovo album di Michael McDermott, Hit Me Back. Son tredici nuovi brani, l’ultimo dei quali Italy dimostra l’inestricabile legame che Michael ormai ha stretto con il nostro paese.
Sul suo sito trovate tutte le informazioni e una presentazione, brano per brano, fatta da lui stesso fr_hitmeback.cfm.
1. Hit Me Back 2. Let It Go (Incantation) 3. The Prettiest Girl In The World 4. Dreams About Trains 5. I Know A Place… 6. Ever After 7. Scars From Another Life 8. She’s Gonna Kill Me 9. Is There A Kiss Left On Your Lips 10. A Deal With The Devil 11. The Silent Will Soon Be Singing 12. Where The River Meets The Sea 13. Italy
E questo è il video del nuovo brano. Se il buongiorno si vede dal mattino…
Se volete sapere le prossime date e ulteriori informazioni andate a leggervi il Post precedente su michael+mcdermott. Come breve appendice: visto il concerto ieri sera, molto bello, un’ora e trequarti di ottima musica, con Michael McDermott, a voce, chitarre acustiche ed elettriche e piano,la moglie Heather Horton al violino (bravissima) e seconda voce, più la sezione ritmica, basso e batteria arrivata giusto al mattino dagli Stati Uniti. Repertorio preso da tutti gli album con particolare preferenza per l’ultimo Hey La Hey e il primo 620 W. Surf, grande intensità e un musicista tornato ai migliori livelli, simpatico e disponibile prima e dopo il concerto.
Per i fans (ma anche per gli altri) vendeva quel DVD che vedete qui sopra (di cui ignoravo l’esistenza) All The Way From Michigan – Live At The Village Theater January 8, 2011 che è la testimonianza di un concerto acustico, solo lui e Heather Horton. A proposito di CD, al banchetto nel dopo concerto, oltre ad alcuni rari dischi di McDermott, tra cui la ristampa del primo album e alcuni degli ultimi, era in vendita anche l’album del 2009 Postcard Saturdays di Heather (presentato in alcune discografie come album di debutto, ma ne ha fatto sicuramente un altro nel 2005 Most Of All e forse un altro prima ancora nel 2003).
Visto che sono in tema di precisazioni, il brano Hard To Break, che in concerto canta la moglie HeatherHorton sul disco è cantato da Kate York (per dare a Cesare quel che è di Cesare)!
E comunque se riuscite a vedere una delle date “elettriche” del tour, come Stephen King dice (e modestamente anch’io), non ve ne pentirete. Preserviamo i musicisti di talento!