Non Sempre Il Detto “Less Is More” E’ Veritiero! Sam Baker – Horses And Stars

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Sam Baker – Horses And Stars – BlueLimeStone CD

Primo disco dal vivo per il cantautore texano Sam Baker, titolare di cinque pregevoli album pubblicati tra il 2004 ed il 2017 https://discoclub.myblog.it/2017/07/06/un-poeta-dalle-melodie-intense-prosegue-il-suo-cammino-sam-baker-land-of-doubt/ . Baker è un songwriter dalla vena poetica tenue, capace di costruire canzoni semplici e toccanti al tempo stesso, con pochi accordi ed il minimo indispensabile di strumenti, che però servono a dare più colore alle sue composizioni. In questo Horses And Stars (registrato a Buffalo, stato di New York, il 20 Luglio del 2018) Sam si presenta sul palco nudo e crudo, soltanto voce, chitarra (elettrica) e armonica solo in qualche brano, probabilmente per ragioni puramente economiche, e devo purtroppo constatare che in più di un momento il disco mostra la corda fino a lasciar affiorare un filo di noia. Baker non è in possesso di un range vocale particolarmente ampio, il suo modo di cantare assomiglia più ad un talkin’ ed è più monocorde anche di altri “parlatori” come Lou Reed e James McMurtry; pure come chitarrista il nostro è abbastanza nella media, e quindi alla fine molte canzoni finiscono per assomigliarsi tra loro. Sam non ha il passo del folksinger e possiede una vena di autore che gira intorno un po’ sempre agli stessi accordi: in poche parole è semplicemente un cantautore che non si può permettere di girare con una band, e questo a lungo andare nel CD si sente.

Non posso dire che Horses And Stars sia un brutto disco, ma non sarei sincero se non dicessi che in più di un momento provoca qualche sbadiglio. Boxes, che apre l’album, è una canzone splendida, una sorta di valzer texano che brilla anche in questa versione spoglia (e la voce calda ed arrochita di Sam è giusta per brani come questo), ma già Thursday, più parlata che altro, è di difficile assimilazione, ed anche la strascicata Angel Hair si ascolta piuttosto a fatica fino in fondo. Il disco non cambia passo, è costruito attorno a pezzi lenti tutti sulla medesima tonalità, e si segnalano solo le (poche) canzoni dotate di una melodia vera e propria, come Same Kind Of Blue, intensa ballata che sembra ispirarsi a certe cose di Springsteen https://www.youtube.com/watch?v=m2wbLS8sMik , la toccante Migrants, la tenue Waves, eseguita con buon pathos, e la deliziosa e quasi sussurrata Odessa, che inizia e finisce con due strofe prese dal traditional Hard Times. Anche Snow e Broken Fingers sarebbero due potenziali belle canzoni, ma l’arrangiamento ridotto all’osso non le fa risaltare come dovrebbero https://www.youtube.com/watch?v=Gh8sO5JPsbI .

Non cambio idea sul Sam Baker songwriter ed autore di buoni album incisi in studio, ma come performer dal vivo in “splendid isolation” mi sento di giudicarlo quantomeno rivedibile. *NDB Anche il fatto che Il CD non sia facilmente reperibile e piuttosto costoso forse incide sulla valutazione.

Marco Verdi

Un Bellissimo Tributo…Made In Italy! When The Wind Blows -The Songs Of Townes Van Zandt

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VV.AA. – When The Wind Blows: The Songs Of Townes Van Zandt – Appaloosa/IRD 2CD

Ogni tanto anche in Italia, in campo musicale, sappiamo fare le cose per bene: When The Wind Blows è uno splendido tributo alle canzoni del grande Townes Van Zandt, songwriter texano scomparso ormai da più di vent’anni ma ancora di enorme importanza ed influenza per molti, ed è stato fortemente voluto da Andrea Parodi, che ha prodotto il doppio CD (32 canzoni, due ore di musica) insieme a Jono Manson, musicista americano ma che ultimamente è spesso coinvolto in progetti “nostrani”. Ed il disco, oltre ad essere molto bello ed a comprendere il meglio del songbook di Van Zandt, è caratterizzato dalla presenza di un cast internazionale di livello eccelso, con diversi nomi di alto profilo ed altri meno conosciuti, ma sempre nel nome della professionalità e della grande musica; l’unica cosa in cui il doppio CD è un po’ carente e nelle informazioni, dato che mancano i sessionmen presenti nei vari pezzi, e le liner notes si limitano ad una presentazione (in inglese) del Townes Van Zandt Festival che si svolge ogni anno a Figino Serenza, nel comasco. *NDB Comunque proprio a quel link contenuto nel libretto http://townesvanzandtfestival.com/index.php/cd trovate tutte le informazioni sui musicisti che suonano nell’album, brano per brano).

L’album parte con la splendida Snowin’ On Raton, affrontata da Jaime Michaels con piglio da vero countryman, limpida e deliziosa; non conoscevo Luke Bolla, ma la sua Heavenly Houseboat Blues (con Paolo Ercoli) è davvero riuscita, una ballata acustica cristallina, suonata e cantata in maniera emozionante, ed anche lo svedese Christian Kjellvander non lo avevo mai sentito, ma credetemi se vi dico che Tower Song è da brividi, solo voce e chitarra ma un feeling “alla Chip Taylor” ed un timbro caldo e profondo. Ecco arrivare un tris d’assi, uno dietro l’altro: il grande Terry Allen si fa sentire ormai di rado, ed è un vero peccato in quanto è ancora in forma smagliante, e la sua White Freightliner Blues è solida, ritmata ed elettrica; anche Joe Ely ha diradato di molto la sua produzione negli ultimi anni, ed è dunque un piacere sentirlo tonico ed in palla nella toccante If I Needed You, mentre Thom Chacon conferma il suo ottimo momento con una Still Looking For You folkeggiante e bellissima. Non mi metto a citare tutti i partecipanti per non dilungarmi, ma mi limito a quelli che raggiungono o sfiorano l’eccellenza (e già questi non sono pochi): il bravo Slaid Cleaves ci regala una Colorado Bound per voce e strumenti a corda molto suggestiva, Andrea Parodi fa sua con piglio sicuro la nota Tecumseh Valley traducendola liberamente in italiano (non mi sembra che Townes citasse Genova ed Alghero…), ma fornendo una delle prove migliori e più creative del lavoro, mentre David Corley, con una voce a metà tra Van Morrison e Tom Waits tira fuori una To Live Is To Fly decisamente intensa.

My Proud Mountains nelle sapienti mani dei Session Americana è puro folk (con un ottimo crescendo strumentale), la bella voce di Kimmie Rhodes, accompagnata solo dallo splendido pianoforte di Bobbie Nelson (sorella di Willie), fa un figurone in Catfish Song, mentre il sempre più bravo Sam Baker (autore anche del disegno in copertina) dà il suo contributo con una struggente e quasi fragile Come Tomorrow; il primo CD termina con Malcolm Holcombe alle prese con una Dollar Bill Blues dal sapore western. Il secondo dischetto comincia con l’ottimo Jono Manson che rilascia una limpida e countreggiante At My Window, seguito dal redivivo Chris Jagger (fratello di Mick) che ci delizia con Ain’t Leavin’ Your Love, in puro stile folk-blues. Tra gli highlights da segnalare una drammatica Highway Kind ad opera di Chris Buhalis, la vibrante Flyin’ Shoes da parte di Radoslav Lorkovic, emozionante (e che pianoforte) ed una roccata ed energica Loretta, affidata a James Maddock, sempre più bravo anche lui. Non conosco Jeff Talmadge, ma la folkie I’ll Be Here In The Morning affidata a lui è scintillante, a dir poco, così come la profonda Lungs nelle mani di Richard Lindgren, mentre l’attore e cantante Tim Grimm fa sua Colorado Girl con classe e feeling. Waiting Around To Die, uno dei pezzi più cupi di Townes, è perfetta per Michael McDermott, ed il capolavoro assoluto del texano, Pancho & Lefty, una delle più belle canzoni di sempre in assoluto, viene affrontata con bravura e rispetto dal newyorkese Paul Sachs, una rilettura lenta nella quale la melodia risalta in tutta la sua bellezza. Chiude Jack Trooper, figlio di Greg, con il puro folk dal sapore quasi irlandese di Our Mother The Mountain.

Un tributo eccellente quindi, realizzato in maniera professionale e contraddistinto dal grande amore e rispetto dei partecipanti per la figura di Townes Van Zandt, il tutto senza protagonismi e, per citare un brano del grande texano, “for the sake of the songs”.

Marco Verdi

Un Poeta Dalle Melodie Intense, Prosegue Il Suo Cammino. Sam Baker – Land Of Doubt

sam baker land of doubt

Sam Baker – Land Of Doubt – Blue Limestone Records

Ci eravamo già occupati di Sam Baker alcuni anni fa in occasione dell’uscita di Say Grace (13) http://discoclub.myblog.it/2013/10/31/poesia-e-musica-per-un-grande-artista-minore-sam-baker-say-g/ , tralasciando i precedenti lavori Mercy (04), Pretty World (07), e Cotton (09), semplicemente perché ai tempi questo Blog non era ancora attivo, ma prontamente cerchiamo di rimediare parlando di questo suo nuovo quinto album in studio Land Of Doubt. Come al solito il buon Sam si avvale di un gruppo di eccellenti musicisti, guidati dal produttore Neilson Hubbard componente degli Orphan Brigade (già visto anche dalle parti di Matthew Ryan e della brava Garrison Starr *NDB E’ appena uscito un suo nuovo EP il 16 giugno, What If There Is No Destination, al solito di non facile reperibilità), l’eccellente chitarrista Will Kimbrough (Steve Earle, Todd Snider, Rodney Crowell, Mark Knopfler, tra i più noti dei suoi “clienti”), il trombettista Don Mitchell , e una intrigante sezione d’archi composta da David Henry e Eamon McLoughlin, per una decina di brani di pura poesia, intercalati da brevi ma intensi interludi musicali.

A Sam Baker bastano pochi tocchi di chitarra, come nell’iniziale Summer Wind, per cogliere subito il senso e la nostalgia di una musica malinconica, mentre nella seguente Same Kind Of Blue, si sente lo zampino di Hubbard, con un arrangiamento che richiama per certi versi il bellissimo Soundtrack To A Ghost Story degli Orphan Brigade, con la tromba di Don Mitchell in evidenza, per poi passare alle note pianistiche e romantiche di una intima Margaret, declamare con il cuore e la chitarra in mano una struggente Love Is Patient, che nello splendido finale si apre ad archi e violini, e alla nuda bellezza di una meravigliosa “elegia” che si riscontra nelle scarne note di Leave.

Dopo tante melodie intense si prosegue con la meravigliosa e coinvolgente The Feast Of Saint Valentine, dove in un crescendo di archi e violini, Sam Baker si ricorda di essere un cantautore “texano” (alla Townes Van Zandt), il che poi ci porta nelle braccia di un brano scritto a quattro mani con la grande Mary Gauthier Moses In The Reeds, dal bel ritmo cadenzato e intrigante; non manca il racconto del lamento di una “partenza”, nelle belle parole di Say The Right Words, impreziosita da una tromba jazz anni ’50, il sottile lavoro di una chitarra acustica che segue un bellissimo “riff” di pianoforte, nella tenue dolcezza di Peace Out, e giungere al termine della narrazione, con i suoni ruvidi e spettrali, ma efficaci, della conclusiva title track Land Of Doubt, con un finale memorabile che vede ancora coinvolta la tromba eccellente di Don Mitchell.

Con il suo stile particolare, una sorta di “cantar parlando” e le sue canzoni affascinanti e letterarie, Sam Baker non è un tipo molto conosciuto dai più, ed è un vero peccato in quanto nelle sue composizioni non ci sono una sillaba o una parola sprecata, un vero “storyteller” nato che, come già detto precedentemente, narra di storie e racconti personali con emozioni che sanno unire gioia e malinconia, passione e dolore, del resto non c’è bisogno di molto altro: un poeta, una chitarra e poco altro, un pugno di canzoni, che nelle mani e nel cuore di Sam Baker (come solo i grandi sanno fare), diventano memorabili. Nel mezzo di tanti dischi “insignificanti” che continuano ad uscire, Land Of Doubt  è un fiore che dopo ripetuti ascolti sicuramente rimarrà nel tempo, e perciò merita di essere cercato e colto, l’unico problema purtroppo,e sarebbe strano il contrario, è sapere come reperirlo, ma se fate un giro in rete, a fatica qualcosa si trova. Ne vale la pena, credetemi!

Tino Montanari

Poesia E Musica Per Un Grande Artista Minore! Sam Baker – Say Grace

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Sam Baker – Say Grace – Self Released 2013

Sam Baker da Austin, Texas, è un cantautore molto personale, dotato di una voce aspra, quasi “dylaniana”, che parla più che cantare, l’ultimo discendente di una stirpe di songwriters che si riconosce in autori come Guy Clark, John Prine e il grande Townes Van Zandt. Say Grace arriva dopo l’eccelso debutto di Mercy (2004), seguito dagli altrettanto validi Pretty World (2007) e Cotton (2009) a chiudere una trilogia incentrata sui temi della misericordia e della rinascita in forma spirituale (dopo che Sam si ritrovò coinvolto in un attentato che costò la vita ad alcune persone).

La pienezza di suono di questo lavoro (più corposo e variegato rispetto ai precedenti), va attribuita in larga parte alla bravura e qualità dei musicisti presenti, gente come Gurf Morlix e Anthony Da Costa alle chitarre, Rick Richards alla batteria, il polistrumentista Lloyd Maines e Joel Guzman alla fisarmonica, oltre alle due “donzelle” Carrie Elkin e Raina Rose alle armonie vocali, distribuite in quattordici tracce dolenti e intense, cantate con la consueta passione da Sam Baker.

Le canzoni sono tutte di valore, a cominciare dall’iniziale Say Grace, brano delicato accompagnato dai riff chitarristici di Antonio Da Costa, per proseguire con la malinconica The Tattooed Woman, la tenue Road Crew e la splendida Migrants (dedicata alla morte degli immigrati messicani), arricchita dalla fisa di Joel Guzman. Il cuore del disco è circoscritto nella nuda bellezza delle varie White Heat, Ditch, Interlude, Isn’t Love Great, mentre nella teatrale Feast (ispirata da un verso del poeta Yeats) si trovano cenni del miglior Tom Waits. Una voce angelica introduce Sweet Hour Of Prayer, un brano strumentale (da una melodia medievale francese) con il pianoforte in primo piano, a cui fanno seguito due ballads intimiste, Panhandle Winter e Button By Button, con i ricami “rootsy” del violino di Maines, per poi chiudere con la breve ma sempre intensa Go In Peace.

Say Grace è un lavoro bello, profondo, toccante, con pochi strumenti, una voce che racconta storie,  racconti personali, una raccolta di sensazioni ed emozioni, in quanto Baker è uno “storyteller” nato, che sa unire gioia e malinconia, passione e dolore, un disco triste e solitario, perfetto per le prossime giornate autunnali.

L’invito è quindi di avvicinarvi a Sam Baker, un poeta e musicista (e pittore) che chiede a pieno diritto di entrare nel “gotha” del cantautorato Usa, con questo Say Grace: una fortuna (purtroppo) solo per i pochi che lo hanno scoperto e subito amato, visto la difficile reperibilità dei suoi dischi!

Tino Montanari