Visti I Risultati, Il Silenzio Poteva Anche Continuare! Thad Cockrell – In Case You Feel The Same

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Thad Cockrell – In Case You Feel The Same – ATO CD

Non so quanti di voi si ricordino di Thad Cockrell, singer-songwriter di genere country-rock/Americana attivo all’inizio del nuovo millennio, autore di tre apprezzati album (due dei quali pubblicati dalla Yep Roc e prodotti dal noto Chris Stamey, leader dei dB’s) tra il 2001 ed il 2009, più un disco di duetti nel 2005 con Caitlin Cary, ex cantante e violinista dei Whiskeytown. Cockrell era in silenzio come solista appunto dal 2009, anche se nella decade appena trascorsa ha realizzato un paio di lavori come membro dei Leagues, una band di rock alternativo che ha avuto un buon successo a livello indipendente con il primo album e molto meno con il secondo. A undici anni da To Be Loved Cockrell torna quindi a fare il solista pubblicando In Case You Feel The Same, una collezione di dieci nuove canzoni uscita per la ATO Records (la stessa che si occupa della serie live di Jerry Garcia) e che vede alla produzione Tony Berg il quale suona anche gran parte degli strumenti, mentre come ospiti speciali abbiamo Blake Mills (abituale parner artistico di Fiona Apple e presente anche sull’ultimo Dylan) e soprattutto la cantante e leader degli Alabama Shakes, Brittany Howard, alla seconda voce in Higher.

Purtroppo però non bastano un paio di ospiti di vaglia ed un buon produttore per fare un bel disco: il problema di In Case You Feel The Same è che ci mostra un autore forse un po’ arrugginito dalla lunga inattività (e, va detto, Cockrell non ha mai fatto parte di quel gruppo di musicisti da acquistare a scatola chiusa), con l’aggravante della ricerca ossessiva di un suono moderno ma parecchio spersonalizzato e molto poco “roots”, con abbondante uso di synth e ritmi programmati che non sono certo ciò che serve a migliorare una serie di canzoni che già in partenza sono caratterizzate da una vena compositiva piuttosto flebile. Se siete tra quelli che avevate gradito i precedenti album di Cockrell potreste quindi avere qualche sorpresa negativa da questa sua nuova proposta, dato che qui c’è ben poco sia di rock che di radici. Il disco non parte neanche male, dal momento che la title track è una ballata intensa per solo voce, piano, basso e batteria dallo sviluppo sofferto e toccante, un brano che sembra mettere il CD sui binari giusti fin da subito; la già citata Higher ha un suono inizialmente trattenuto, poi entra la sezione ritmica con una frustata ed il nostro divide il microfono con la Howard sia nelle strofe quasi in modalita “low-fi” che nel refrain potente: in ogni caso non siamo certo di fronte ad una grande canzone.

Swingin’ è anche peggio, ed il suono è eccessivamente moderno al limite del fastidioso, una pop song insulsa che di Americana non ha nulla, meno male che Susie From The West Coast risolleva un po’ le cose: non siamo in presenza di un capolavoro, ma comunque di un pezzo dalla struttura melodica sensata e lineare ed un accompagnamento più adeguato pur rimandendo nel solco della modernità. L’inizio di Slow And Steady promette bene, con il suo bel riff chitarristico alla Sweet Jane, ed anche la canzone in sé non è male, una rock song potente e diretta nonostante la presenza di un synth che però non fa danni: alla fine risulterà il brano migliore. Love Moves In è pop sofisticato e raffinato, formalmente ineccepibile ma privo di mordente (sembra il Bryan Ferry degli anni ottanta), in Fill My Cup rispunta la chitarra elettrica e c’è anche un ritornello corale piacevole, ma All I Want è puro techno-pop, il livello è quello degli Orchestral Manoeuvres In The Dark (e non è un complimento). Il CD termina con Next Thing You Know, una ballata melliflua che sa di poco e che presenta altre sonorità abbastanza orripilanti, e con una ripresa maggiormente strumentata della title track, che si conferma uno dei pochi momenti positivi di un album che definire deludente è il minimo.

Marco Verdi

Replay: Prima Del Previsto Ora Disponibile Anche In CD, Rimane Comunque Un “Album” Veramente Molto Bello! Laura Marling – Song For Our Daughter

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Laura Marling – Song For Our Daughter – Chrysalis Download – CD/LP dal 17-07

Ormai si è capito che se non puoi “combattere” il download, per certi versi ti devi alleare con il “nemico”. Giornalmente si moltiplicano le uscite discografiche, termine che potrebbe diventare in parte desueto, visto che non escono con un supporto fisico, CD o LP che sia, oppure vengono rimandate più in là le date di uscita di continuo, spesso anche di mesi: anche il nuovo album di Laura Marling Song For Our Daughter, sull’onda della situazione che stiamo vivendo, è stato addirittura anticipato, nella sua versione digitale, di circa cinque mesi rispetto alla data iniziale di uscita, che doveva essere per la tarda estate, a settembre, che rimane comunque valida, al momento, per i supporti tradizionali (*NDB Invece da metà luglio, diversamente da quanto annunciato, un po’ a macchia di leopardo e a seconda dei paesi, sta “già” uscendo la versione fisica). Quindi anche per chi, come in questo Blog, non ama troppo questo tipo di pubblicazioni virtuali, peraltro comunque a pagamento, se non ci si affida allo streaming sulle piattaforme atte all’uopo, si deve adattare alla nuova situazione che si va creando, in attesa di tempi migliori. Fine della concione e bando alla ciance, passiamo a parlare di questo album, il settimo della discografia della bionda cantante inglese.

Ancora una volta Laura colpisce nel segno con un “disco” (forse il suo migliore in assoluto) che la conferma come una delle migliori cantautrici attualmente in circolazione: all’inizio Song For Our Daughter doveva essere prodotto insieme a Blake Mills, che invece è rimasto solo come co-autore di una canzone The End Of The Affair, mentre alla fine la Marling è tornata ad affidarsi alle sapienti mani di Ethan Johns, che aveva prodotto il suo secondo, terzo e quarto album, mentre per il successivo Short Movie, dopo il trasferimento a Los Angeles tra il 2013 e 2014, prima di tornare a Londra, aveva optato per un suono più elettrico, “lavorato” e moderno, per quanto sempre affascinante, ma in modo diverso, tendenza poi confermata anche per il successivo Semper Femina, prodotto dal citato Blake Mills, anche lui orientato verso un tipo di sound più eclettico e complesso. Per il nuovo album la nostra amica ha deciso di registrare il materiale in parte nel suo nuovo studio casalingo londinese, e in parte al Monnow Valley Studio di Rockfield in Galles, dove si erano tenute molte sessions gloriose del rock e pop britannico (e non solo), spesso sotto l’egida di Dave Edmunds e soci. Come ci ricorda il titolo il disco si rivolge ad una sorta di figlia immaginaria, anche se in alcune recensioni, soprattutto italiane, si parla della figlia della Marling come destinataria di questi dispacci, peccato però, che se non è nata nel frattempo per intervento dello Spirito Santo, questa figlia non esiste.

Probabilmente alla complessità dei testi, che riguardano la crescita della consapevolezza, il ruolo degli affetti, della famiglia, dell’esempio consapevole, della nuova situazione di un mondo che sta cambiando, non per il meglio, ha contribuito anche la decisione di nuovi interessi come lo studio della psicanalisi, mentre un’altra ispirazione è stata il libro di Maya Angelou, Letter To My Daughter, dove la scrittrice americana si rivolge sempre ad una figlia immaginata, alla quale manda una serie di lettere, mentre Laura Marling invia delle missive musicali, delle canzoni, che sono il campo in cui eccelle. Come si diceva c’è un ritorno ad un suono più raccolto, più intimo, non scarno, ma che si inserisce nella grande onda della tradizione folk, con la presenza come stella polare, magari anche incosciamente, di Joni Mitchell, alla quale la musicista inglese è stata spesso, giustamente, accostata, sia per il tipo di vocalità, quanto per la capacità di costruire brani che nella loro semplicità raccolgono tanti spunti di assoluta eccellenza.

Alcuni hanno parlato del periodo di Hejira, ma forse ancora di più mi sembra di cogliere una vicinanza con il periodo californiano di Laurel Canyon, quello di Blue, ma anche di For The Roses Court And Spark, album più “gioiosi” a tratti. In questo senso il trittico di canzoni che aprono questo Letter To My Daughter è veramente splendido, una sequenza di brani da 5 stellette, con Ethan Johns e Laura che suonano quasi tutti gli strumenti, lasciando alla sezione ritmica di Nick Pini al basso e contrabbasso e Dan See alla batteria, discreti ma essenziali alla riuscita, alla pedal steel di Chris Hillman (omonimo?) e al piano di Anna Corcoran ulteriori coloriture, mentre la Marling canta in modo ispirato e “moltiplica” la sua voce per delle armonie vocali veramente deliziose, che nella iniziale Alexandra, ispirata da un brano di Leonard Cohen, raggiungono una preziosa e brillante leggiadria folk-rock.

Anche in Held Down il lavoro degli intrecci vocali è strepitoso, il cantato a tratti celestiale, il lavoro strumentale superbo, con chitarre acustiche ed elettriche, suonate dalla stessa Laura, e le tastiere di Johns, che si incrociano e si sovrappongono in modo perfetto, creando un substrato sonoro complesso ma godibilissimo. Strange Girl, probabilmente dedicata a questa figlia immaginaria, che in sede di presentazione dell’album aveva definito “The Girl”, anche una sorta di proiezione di sé stessa; è una canzone ancora più mossa e vivace, tra percussioni incombenti, il contrabbasso che detta i tempi, la voce cristallina ma “ombrosa” della ragazza, sempre moltiplicata, a sostenere le chitarre acustiche che caratterizzano questo brano. Only The Strong, nata in parte come colonna sonora di un’opera teatrale su Maria Stuarda, è giocata sul fingerpicking dell’acustica, mentre la voce è più profonda e ridondante, per quanto sempre arricchita da queste armonie vocali affascinanti, delle percussioni accennate e dal cello di Gabriela Cabezadas.

Un pianoforte solitario accarezzato introduce il tema di Blow By Blow, uno dei due brani ispirati da Paul McCartney, con questo brano suggestivo in cui la madre è “on the phone already talking to the press”, mentre gli archi arrangiati da Rob Moose (Bon Iver), sottolineano questa ballata più solenne e malinconica, una rarità nella sua discografia, omaggio a Paul, seguita dalla title track, influenzata dai suoi recenti studi sulla psicanalisi, che inaugura quella che sarebbe stata la seconda facciata di un vecchio disco (e magari lo sarà quando uscirà), una canzone solenne ed avvolgente, ancora con piano e sezione archi che ne accrescono la maestosità, in un lento ma inesorabile crescendo di una bellezza struggente, sempre con la voce comunque protagonista assoluta.

In Fortune, Alexandra, perché lei sembra essere sempre il personaggio ricorrente di tutte le canzoni, ruba dei soldi alla madre, quelli che erano i suoi risparmi, in un brano giocato su una solitaria chitarra acustica arpeggiata che forse rimanda anche al sontuoso folk orchestrale (che è di nuovo presente) del miglior Nick Drake, con la voce partecipe ma fuori scena della narratrice Laura; The End Of The Affair è il brano scritto con Blake Mills, con il moog di Ethan Johns che incombe sullo sfondo, mentre la Marling intona le pene d’amore di un amore che finisce con sempre delicati e preziosi arabeschi vocali, fragili ma comunque incantevoli, il tutto ispirato, pare, da un romanzo di Graham Greene. Salvo poi, in Hope We Meet Again, non chiudere alla speranza di un futuro incontro, ancora una volta in un brano intimista dove la chitarra acustica arpeggiata e gli archi sono i protagonisti assoluti, anche se la pedal steel sottolinea con precisione i passaggi salienti del brano, che poi si anima nel finale grazie all’intervento della sezione ritmica, in una ennesima bellissima canzone, cantata con aromi mitchelliani dalla Marling. Che ci congeda, dopo poco più di 36 intensi minuti, con For You, una canzone d’amore, ispirata nuovamente da Paul McCartney, dove lo spirito musicale e melodico dell’ex Beatles è evidente nel fraseggio della parte cantata e in alcuni accorgimenti sonori tipici del Macca, vedi le armonie vocali maschili a bocca chiusa, qualche delizioso falsetto di Laura, l’intervento di una chitarra elettrica e altri “piccoli” soavi particolari che lo ricordano.

In attesa dell’album fisico la cui uscita, come ricordato, è prevista per fine estate, inizio autunno, un altro ottimo album rilasciato in questo difficile periodo, comunque ricco di felici intuizioni di alcuni musicisti che ci alleviano durante questa  lunga pandemia.

Bruno Conti

Nel Caso Qualcuno Avesse Ancora Dei Dubbi, Siamo Su Un Altro Pianeta! Bob Dylan – Rough And Rowdy Ways

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Bob Dylan – Rough And Rowdy Ways – Columbia/Sony 2CD

Nonostante egli stesso avesse smentito ogni riferimento all’ultima opera di Shakespeare, stavo cominciando davvero a convincermi che Tempest, uscito nel 2012, potesse davvero essere il canto del cigno per quanto riguardava il Bob Dylan autore di canzoni, e che i tre album di cover di brani del “great american songbook” (ma con particolare attenzione a pezzi interpretati in passato da Frank Sinatra) fossero una gradita appendice. Poi, in pieno lockdown, lo scorso mese di aprile come un fulmine a ciel sereno Bob ha reso disponibile Murder Most Foul, una ballata epica di 17 minuti dalla misteriosa provenienza, seguita dopo poche settimane dalla più “stringata” I Contain Multitudes: i fans di tutto il mondo avevano cominciato a fantasticare su un possibile nuovo album di originali da parte del grande songwriter, cosa poi confermata con la rivelazione di un terzo brano, False Prophet, in contemporanea all’annuncio appunto di un long playing nuovo di zecca intitolato Rough And Rowdy Ways, mantenendo comunque il mistero sui titoli delle altre canzoni fino a poco più di una settimana fa. Nell’attesa, girando un po’ in rete, fans e critici erano poi dubbiosi sul fatto che Bob fosse ancora in grado (o avesse voglia) di scrivere grandi canzoni alla veneranda età di 79 anni, soprattutto con il popò di songbook che si ritrovava alle spalle.

bob dylan rough and rowdy ways 2 cd

Nell’ultima settimana si sono moltiplicate le recensioni in anteprima degli addetti ai lavori (cioè quando finalmente la Sony si è degnata di fornire loro il CD in anteprima), e lodi e peana si sono sprecati. Io però sono come San Tommaso (anche perché Dylan è entrato in quella ristretta fascia di artisti dei quali sembra sia vietato parlare male), e dopo un ascolto attento è meditato mi sono chiesto come avessi potuto dubitare anche solo per un attimo della capacità del nostro di confezionare un altro disco alla sua altezza. Sì, perché Rough And Rowdy Ways è l’ennesimo grande album di una carriera unica ed inimitabile, un lavoro profondamente diverso da Tempest, più riflessivo, pacato, a volte quasi sussurrato. Un disco di ballate (e qualche blues, come vedremo), in cui Dylan torna a livelli eccezionali per quanto riguarda i testi, mentre per ciò che concerne la veste sonora Bob si limita spesso all’essenziale, quasi come se volesse porre ancora di più l’accento sulle canzoni e su ciò che esse dicono: peccato che, come al solito, nella confezione del CD manchino i testi, in quanto a mio parere averli davanti è una parte fondamentale dell’esperienza. Non è un disco facile comunque, ma sono convinto al 100% che già dopo due o tre ascolti crescerà in maniera esponenziale fino a diventare difficile rinunciarvi.

L’album è doppio, con un primo CD contenente nove pezzi per un totale di 53 minuti (da un minimo di quattro ad un massimo di nove), mentre il secondo dischetto è interamente riservato a Murder Most Foul. Il produttore non è indicato (ma è sicuramente Jack Frost, ovvero Bob stesso), ed il gruppo è formato come era prevedibile dall’attuale live band del cantautore di Duluth: quindi Dylan, Charlie Sexton e Bob Britt alle chitarre (e Bob stranamente non al piano), Tony Garnier al basso, Donnie Herron alla steel, violino e fisarmonica e Matt Chamberlain alla batteria; ci sono anche alcuni ospiti, ma sono semplicemente elencati con il nome senza riferimenti a cosa suonano e dove, cosa piuttosto fastidiosa a mio parere: ad ogni modo troviamo Fiona Apple (e questa è una sorpresa) insieme al suo abituale collaboratore Blake Mills, l’ex Heartbreaker Benmont Tench, l’altro tastierista Alan Pasqua (un grande ritorno, era con Bob nel gruppo di Street-Legal e susseguente tour che ha portato al live At Budokan) e l’almeno per me sconosciuto Tommy Rhodes. I Contain Multitudes non è il brano che uno si aspetta come apertura di un disco, dato che è una ballata molto lenta e discorsiva, con la voce di Bob quasi carezzevole su un accompagnamento che potrei definire appena accennato (chitarra acustica, steel, contrabbasso e poco altro): brano comunque ricco di fascino con Dylan che sillaba le parole in maniera chiara e comprensibile.

Non può esistere un disco di Bob Dylan senza almeno un blues, e False Prophet è un notevole esempio in tal senso: cadenzato e diretto, con il nostro che canta con grinta e le chitarre che commentano con un bel riff insistito ed un paio di misurati assoli. My Own Version Of You è un pezzo dall’andatura insinuante tra country e jazz, con la batteria spazzolata e la band che segue il leader con passo felpato, mentre Dylan parla e canta come solo lui sa fare. I’ve Made Up My Mind To Give Myself To You è una deliziosa ballad d’altri tempi che vede Bob cantare in maniera toccante ed il gruppo che fornisce un raffinato background da slow degli anni sessanta (e c’è anche un coro a bocca chiusa, sarà la Apple con Mills?); Black Rider è un racconto western di grande fascino con un arrangiamento scarno al massimo, solo un paio di chitarre e la voce al centro, mentre Goodbye Jimmy Reed è un vigoroso omaggio al grande bluesman citato nel titolo, ed è un jump blues coinvolgente ed elettrico che immagino non mancherà nelle future scalette dal vivo, con Bob che ritorna anche a soffiare nell’armonica dopo non so quanto tempo (almeno su disco): se non fosse per la voce, sembrerebbe una outtake di Bringing It All Back Home.

Mother Of Muses è ancora lenta ed appena sfiorata dagli strumenti, ma Dylan canta in modo abbastanza rigoroso con una voce quasi fragile suscitando un moto di commozione a chi ascolta (cioè il sottoscritto). Ed ecco i due brani più lunghi del primo CD: Crossing The Rubicon è il terzo ed ultimo blues, un brano di sette minuti dalla sezione ritmica attendista e le chitarrine che fraseggiano in punta di dita, ma ogni tanto il suono si fa più massiccio per poi tornare alla “quiete apparente” iniziale, mentre Key West (Philosopher Pirate) è il capolavoro del primo dischetto, una magnifica ballata dedicata con parole affettuose alla famosa località nel sud della Florida, un brano per voce, fisarmonica, chitarra e ritmica in punta di piedi, oltre ad un suggestivo coro (e qui Fiona c’è sicuro). Nove minuti di pura poesia, struggente ed intensa come solo Dylan sa scrivere. Il secondo CD, come ho già detto, è ad esclusivo appannaggio di Murder Most Foul, un brano che è già nella storia, con un testo incredibile in cui Bob, partendo dall’omicidio di Kennedy, ripercorre più di cinquanta anni di politica, cronaca, cinema e musica: che piaccia o no, un altro masterpiece.

D’altronde, chi a parte Bob Dylan a quasi 80 anni è capace di chiudere un disco già ottimo di suo con due capolavori uno di fila all’altro?

The answer, my friend…

Marco Verdi

Se Lo Dicono Tutti Sarà Veramente Così Bello? Questa Volta Direi Proprio Di Sì! Conor Oberst – Salutations

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Conor Oberst – Salutations – Nonensuch/Warner

Come sapete al sottoscritto non piace uniformarsi per forza ai giudizi critici (che comunque leggo per documentarmi) relativi ai nuovi dischi in uscita: preferisco sempre adottare l’infallibile metodo “San Tommaso”, o se preferite Guido Angeli, ovvero provare per credere, anzi meglio, ascoltare per credere. E quindi, se posso, compatibilmente con le qualità industriali di dischi che “devo” sentire ogni mese, cerco di ascoltare gli album che per vari motivi hanno stuzzicato la mia curiosità, anche se poi non sempre riesco a scrivere il resoconto delle mie impressioni: ma questa volta, come dico nel titolo, sì! Perché l’album in questione, nello specifico parliamo del nuovo Salutations, a firma Conor Oberst, mi pare proprio un ottimo album. Disco che nasce sulla scia della prova acustica Ruminations, pubblicata solo alcuni mesi or sono e che che conteneva dieci delle canzoni ora riproposte in versione elettrica nel CD, con l’aiuto del grande batterista Jim Keltner, che ha curato anche la co-produzione dell’album insieme a Oberst, e alla band roots-rock dei Felice Brothers, veri spiriti affini di Conor e di cui l’estate scorsa vi avevo segnalato l’eccellente Life In The Dark, un piccolo gioiellino http://discoclub.myblog.it/2016/07/06/antico-dylaniano-sempre-gradevole-felice-brothers-life-the-dark/, che si muoveva, come questo, su territori cari alla Band Bob Dylan, ma non solo. Quindi il solito retro-rock? Direi di sì, ma quando è fatto così bene è difficile resistere, e le 17 canzoni contenute in questo disco (le dieci di Ruminations più altre sette aggiunte per l’occasione) sono tutte veramente belle e non si riscontrano momenti di noia dovuti alla eccessiva lunghezza dell’album.

Oltre ai Felice Brothers e Keltner nell’album appaiono parecchi altri musicisti di pregio: dall’ottimo Jim James Blake Mills, Gillian Welch Maria Taylor alle armonie vocali, nonché M. Ward e il quasi immancabile, in un disco di questo tipo, Jonathan Wilson, a chitarre e tastiere in due dei brani più belli del disco, uno dei due, Anytime Soon, dove è anche coautore del pezzo, con lo stesso Oberst, Taylor Goldsmith dei Dawes, Johnathan Rice, frequente collaboratore di Jenny Lewis, in una sorta di meeting di alcuni dei “nuovi” talenti del suono westcoastiano, considerando pure che il tutto è stato registrato ai famosi Shangri-La Studios di Malibu. Quindi Dylan+Band+California, risultato: ottimo disco, che lo riporta ai fasti dei migliori album fatti con i Bright Eyes. Partiamo proprio con la citata Anytime Soon, un bel pezzo rock di impianto californiano, con la slide pungente di Wilson, che ricorda quella di David Lindley, a percorrerla e una melodia solare che si rifà al sound dei Dawes o del loro mentore Jackson Browne, ma anche con spunti beatlesiani.

Comunque fin dall’apertura deliziosa della valzerata Too Late For Fixate, con in evidenza il violino di Greg Farley e la fisarmonica di James Felice, che uniti all’armonica dello stesso Oberst, crea subito immediati rimandi alla musica del Dylan anni ’70 ( e anche la Band, ovviamente, grazie all’uso della doppia tastiera, affidata spesso a Felice); contribuiscono ampiamente alla riuscita anche i testi visionari e surreali, sentite che incipit: “Tried Some Bad Meditation/ Sittin’ Up In The Dark/They Say To Picture An Island/Cuz That’s One Place To Start/I Guess I Could Count My Blessings/I Don’t Sleep In The Park/With All My Earthly Possessions/In One Old Shopping Cart”, e ditemi chi vi ricorda. Anche la seconda canzone Gossamer Thin mantiene questa atmosfera sonora, con il riff circolare a tempo di valzer, sempre impreziosito dall’uso di violino, fisa ed armonica, oltre alle armonie vocali di Jim James, che rimane poi anche per la successiva Overdue, dove si apprezza il lavoro delle chitarre elettriche e quello di un piano Wurlitzer, molto alla Neil Young anni ’70, con il ritornello che ti rimane subito in testa.

Afterthought in veste full band acquisisce ulteriore fascino, anche grazie al lavoro preciso e variegato di Jim Keltner, uno dei più grandi batteristi della storia del rock, ancora splendide le armonie vocali corali dei Felice Brothers assortiti, il violino guizzante di Farley e l’armonica insinuante di Conor, sembra quasi di essere capitati in qualche outtake di Blonde On Blonde. Molto coinvolgente anche la delicata ballata Next Of Kin, già presente in Ruminations, che rimanda ai pezzi più belli di un altro cantautore che quando viene colto dall’ispirazione può regalare canzoni stupende, penso a Ryan Adams, e pure in questo testo ci sono deliziose citazioni d’epoca:  “Yeah I met Lou Reed and Patti Smith/It didn’t make me feel different/I guess I lost all my innocence/Way too long ago”. In Napalm il ritmo si fa più incalzante e bluesy, per continuare il parallelo con Dylan ci tuffiamo in Highway 61 con l’organo di Felice e le chitarre di Oberst a ricreare il sound dell’accoppiata Kooper/Bloomfield, con i dovuti distinguo, e senza dimenticare Farley che si dà sempre da fare con il suo violino.

Blake Mills aggiunge il suo guitaron e la baritone guitar per una intima e raccolta Mamah Borthwick (A Sketch), dove si apprezza anche la voce di Gillian Welch, splendida. Mentre nelle successive Till St. Dymphna Kicks Us Out e Barbary Coast (Later) appare anche un quartetto di archi e il pianoforte assurge a ruolo di protagonista, nel primo brano, a fianco degli immancabili violino, fisarmonica e armonica, senza dimenticare la chitarra elettrica di Ian Felice, sempre presente, con un lavoro sia di raccordo quanto solista; Barbary Coast addirittura mi ha ricordato certe cose del primo Van Morrison, quello californiano, con il prezioso apporto della voce di Maria Taylor. Tachycardia è un’altra ballata di ampio respiro, con doppia tastiera e armonica sempre in evidenza (ma è difficile trovare un brano non dico scarso, ma poco riuscito), mentre Conor Oberst canta sempre con grande trasporto e convinzione, mentre il violino e la chitarra di Mills ricamano sullo sfondo. Serena ed avvolgente anche la dolcissima Empty Hotel By The Sea, con mille particolari sonori gettati nel calderone sonoro di una ennesima riuscita canzone, con gli strumenti sempre usati con una precisione quasi matematica.

Del pezzo con Jonathan Wilson abbiamo detto. Counting Sheep è una ulteriore variazione sul tema sonoro dell’album, e nonostante il titolo è meno “sognante” di altri episodi, con le chitarre elettriche più graffianti e la bella voce della Taylor che ben supporta il nostro. Rain Follows The Plows, di nuovo con la presenza del quartetto di archi, assume un carattere quasi più barocco e complesso, grazie all’uso del piano elettrico e della chitarra elettrica di Blake Mills, presente per l’ultima volta, a fianco di violino,, armonica e tastiere, che, l’avrete ormai capito, sono gli strumenti più caratterizzanti dell’album. Di nuovo Gillian Welch a duettare con Oberst in You All Loved Him Once, altra love ballad di elevata qualità e delicatezza, con armonica e chitarra elettrica che deliziano i nostri padiglioni auricolari ancora una volta, una delle più belle canzoni del disco.

A Little Uncanny, con video prodotto dal bassista del disco (e dei Felice Brothers) Josh Rawson è uno dei pezzi più rock e mossi di questo Salutations, chitarristico ed incalzante, prima del commiato, Salutations appunto, dove ritornano il piano, la chitarra ed il synth di Jonathan Wilson, per un altro tuffo nel sound da singer songwriter californiano degli anni ’70, a conferma della qualità di questo lavoro che si candida fin d’ora tra le migliori prove di questo inizio 2017, e che vi consiglio caldamente!

Bruno Conti