Best Of 2020: Il Meglio Dell’Anno In Musica Da Riviste E Siti Internazionali. Parte II, Alcuni Siti

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Per concludere questa disamina sulle classifiche del meglio del 2020 in ambito musicale, vediamo ora i risultati di alcuni siti, scelti tra quelli che ci sembrano più vicini ai gusti del Blog. Le liste, estrapolate dai siti stessi, riguardano sempre i primi cinque, a parte AllMusic che li presenta senza un ordine preciso, per cui ho scelto io 5 titoli, tra quelli con il voto più alto.

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Bob Dylan – Rough And Rowdy Ways

https://www.youtube.com/watch?v=3NbQkyvbw18

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Laura Marling – Song For Our Daughter

https://discoclub.myblog.it/2020/07/18/altra-uscita-monca-solo-in-download-cd-e-vinile-previsti-a-settembre-comunque-un-album-veramente-molto-bello-laura-marling-song-for-our-daughter/

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Sault – Untitled (Rise) Album di “neo-soul” molto interessante che qui sotto potete ascoltare integralmente.

https://www.youtube.com/watch?v=iKWwRdbOhB0

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Fiona Apple – Fetch The Bolt Cutters come avrebbero detto a Mai Dire Gol album ostico e anche agnostico, che però appare in ben 94 delle liste di fine anno.

https://www.youtube.com/watch?v=yM63Tzv-uZg

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Bob Mould – Blue Hearts Questo appare “solo” in cinque liste, ma è uno dei migliori dell’ex Husker Du.

https://www.youtube.com/watch?v=k5F-aj171QM

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Anche https://americansongwriter.com/best-albums-of-2020/

Come fa il sottoscritto, anche il sito americano non li indica in nessun ordine particolare, per cui ne estrapolo tre tra i più sfiziosi, visto che questo sito è tra quelli che prediligo per “scoprire” titoli interessanti sulla mia stessa lunghezza d’onda: gli altri due nella Top dell’anno sono Springsteen e Chris Stapleton.

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Jimmy LaFave – Highway Angels…Full Moon Rain Raro disco autoprodotto che nel 1988 era uscito solo in cassetta e anche in questa nuova edizione in CD del 2020 rimane comunque di difficile reperibilità.

https://www.youtube.com/watch?v=IGSEEQlwUV4

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Steep Canyon Rangers – Arm In Arm Un gioiellino di eccellente fattura.

https://www.youtube.com/watch?v=xBvSsBjhm8I

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Waxahatchee – Saint Cloud Una delle voci femminili “sconosciute” più interessanti in circolazione.

https://www.youtube.com/watch?v=yHuhABPbOaE

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Chris Stapleton – Starting Over

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Bruce Springsteen – Letter To You

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1) Fiona Apple – Fetch The Bolt Cutters

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2) Waxahatchee – Saint Cloud

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3) Run The Jewels – RTJ4

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4) Sault – Untitled (Rise)

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5) Perfume Genius – Set My Heart on Fire Immediately

https://www.youtube.com/watch?v=BMELeKrLuv0

Ci sarebbero anche Pop Matters e Pitchfork ma i risultati sono più o meno identici a quelli di altri classici, per cui direi di concludere qui.

Da domani riprendiamo la programmazione abituale con Post nuovi e recuperi di titoli rimasti indietro tra le uscite del 2020.

Bruno Conti

Best Of 2020: Il Meglio Dell’Anno In Musica Da Riviste E Siti Internazionali. Parte I Le Riviste.

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Sia pure in ritardo rispetto agli anni precedenti ecco il consueto sguardo su quanto hanno decretato riviste cartacee (come noterete non c’è più Q, che ha chiuso a settembre dopo 34 anni) e siti internazionali sui migliori dischi dell’anno appena passato: come saprà chi legge questo Blog il sottoscritto ogni volta trova poco da condividere con i risulati di queste classifiche, ma a livello informativo e di curiosità vi propongo una selezione di queste Year End Lists. Cominciamo da quella stilata da un sito aggregatore che con certosina pazienza fa una media dei punti ricavata da tutte le classifiche e il risultato, almeno la Top 5, la vedete qui sotto: rispetto al passato, pur nella mancanza dei dischi che piacciono a chi scrive su questo Blog, almeno un paio di dischi che si salvano ci sono. Il logo iniziale è preso dal New Yorker.

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1) Fiona Apple – Fetch The Bolt Cutters

https://www.youtube.com/watch?v=GT8HHHuvfK8

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2) Phoebe Bridgers – Punisher

https://www.youtube.com/watch?v=Tw0zYd0eIlk

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3) Run The Jewels – RTJ

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4) Taylor Swift – folklore

https://www.youtube.com/watch?v=osdoLjUNFnA

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5) Dua Lipa – Future Nostalgia

Non proprio da strapparsi i capelli per la gioia come vedete, a parte forse Fiona Apple, la cui musica mi ha sempre intrigato: ecco comunque un po’ delle classifiche di riviste e siti vari, dove in alcuni andiamo decisamente meglio, a partire da

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5. Fleet Foxes — Shore

https://www.youtube.com/watch?v=6Jrh1IRv6Pw

Questo album per ora è disponibile solo per il download, in CD uscirà solo il 5 febbraio 2021, ed è il motivo per cui non ne abbiamo ancora parlato,  visto che il disco merita.

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4. Bill Callahan — Gold Record
La canzone del video si intitola Ry Cooder.

https://www.youtube.com/watch?v=m74apAtI2X8

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3. Fontaines D.C. — A Hero’s Death

https://www.youtube.com/watch?v=jLNt8aMNbvY

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2. Fiona Apple — Fetch the Bolt Cutters

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1. Bob Dylan — Rough and Rowdy Ways

https://www.youtube.com/watch?v=pgEP8teNXwY

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5. Thundercat – It Is What It Is

https://www.youtube.com/watch?v=lqDs_quhy0I

https://www.youtube.com/watch?v=rwHQdqxCQQU

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4. Drive-By Truckers – The New OK

https://discoclub.myblog.it/2020/12/23/il-secondo-disco-del-2020-anche-meglio-del-precedente-drive-by-truckers-the-new-ok/

phoebe bridgers punisher
3. Phoebe Bridgers – Punisher
2. Fleet Foxes – Shore

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1. Bob Dylan – Rough and Rowdy Ways

Rolling Stone Best Albums

Rolling Stone Albums

5. Dua Lipa – Future Nostalgia
4. Bob Dylan – Rough and Rowdy Ways
3. Bad Bunny – YHLQMDLG
2. Fiona Apple – Fetch the Bolt Cutters
1. Taylor Swift – folklore

Spin non lo leggo più da una ventina di anni, per cui direi che per le poche riviste musicali cartacee può bastare, nella seconda parte ci occupiamo di alcuni siti.

Fine prima parte.

Bruno Conti

Nel Caso Qualcuno Avesse Ancora Dei Dubbi, Siamo Su Un Altro Pianeta! Bob Dylan – Rough And Rowdy Ways

bob dylan rough and rowdy ways

Bob Dylan – Rough And Rowdy Ways – Columbia/Sony 2CD

Nonostante egli stesso avesse smentito ogni riferimento all’ultima opera di Shakespeare, stavo cominciando davvero a convincermi che Tempest, uscito nel 2012, potesse davvero essere il canto del cigno per quanto riguardava il Bob Dylan autore di canzoni, e che i tre album di cover di brani del “great american songbook” (ma con particolare attenzione a pezzi interpretati in passato da Frank Sinatra) fossero una gradita appendice. Poi, in pieno lockdown, lo scorso mese di aprile come un fulmine a ciel sereno Bob ha reso disponibile Murder Most Foul, una ballata epica di 17 minuti dalla misteriosa provenienza, seguita dopo poche settimane dalla più “stringata” I Contain Multitudes: i fans di tutto il mondo avevano cominciato a fantasticare su un possibile nuovo album di originali da parte del grande songwriter, cosa poi confermata con la rivelazione di un terzo brano, False Prophet, in contemporanea all’annuncio appunto di un long playing nuovo di zecca intitolato Rough And Rowdy Ways, mantenendo comunque il mistero sui titoli delle altre canzoni fino a poco più di una settimana fa. Nell’attesa, girando un po’ in rete, fans e critici erano poi dubbiosi sul fatto che Bob fosse ancora in grado (o avesse voglia) di scrivere grandi canzoni alla veneranda età di 79 anni, soprattutto con il popò di songbook che si ritrovava alle spalle.

bob dylan rough and rowdy ways 2 cd

Nell’ultima settimana si sono moltiplicate le recensioni in anteprima degli addetti ai lavori (cioè quando finalmente la Sony si è degnata di fornire loro il CD in anteprima), e lodi e peana si sono sprecati. Io però sono come San Tommaso (anche perché Dylan è entrato in quella ristretta fascia di artisti dei quali sembra sia vietato parlare male), e dopo un ascolto attento è meditato mi sono chiesto come avessi potuto dubitare anche solo per un attimo della capacità del nostro di confezionare un altro disco alla sua altezza. Sì, perché Rough And Rowdy Ways è l’ennesimo grande album di una carriera unica ed inimitabile, un lavoro profondamente diverso da Tempest, più riflessivo, pacato, a volte quasi sussurrato. Un disco di ballate (e qualche blues, come vedremo), in cui Dylan torna a livelli eccezionali per quanto riguarda i testi, mentre per ciò che concerne la veste sonora Bob si limita spesso all’essenziale, quasi come se volesse porre ancora di più l’accento sulle canzoni e su ciò che esse dicono: peccato che, come al solito, nella confezione del CD manchino i testi, in quanto a mio parere averli davanti è una parte fondamentale dell’esperienza. Non è un disco facile comunque, ma sono convinto al 100% che già dopo due o tre ascolti crescerà in maniera esponenziale fino a diventare difficile rinunciarvi.

L’album è doppio, con un primo CD contenente nove pezzi per un totale di 53 minuti (da un minimo di quattro ad un massimo di nove), mentre il secondo dischetto è interamente riservato a Murder Most Foul. Il produttore non è indicato (ma è sicuramente Jack Frost, ovvero Bob stesso), ed il gruppo è formato come era prevedibile dall’attuale live band del cantautore di Duluth: quindi Dylan, Charlie Sexton e Bob Britt alle chitarre (e Bob stranamente non al piano), Tony Garnier al basso, Donnie Herron alla steel, violino e fisarmonica e Matt Chamberlain alla batteria; ci sono anche alcuni ospiti, ma sono semplicemente elencati con il nome senza riferimenti a cosa suonano e dove, cosa piuttosto fastidiosa a mio parere: ad ogni modo troviamo Fiona Apple (e questa è una sorpresa) insieme al suo abituale collaboratore Blake Mills, l’ex Heartbreaker Benmont Tench, l’altro tastierista Alan Pasqua (un grande ritorno, era con Bob nel gruppo di Street-Legal e susseguente tour che ha portato al live At Budokan) e l’almeno per me sconosciuto Tommy Rhodes. I Contain Multitudes non è il brano che uno si aspetta come apertura di un disco, dato che è una ballata molto lenta e discorsiva, con la voce di Bob quasi carezzevole su un accompagnamento che potrei definire appena accennato (chitarra acustica, steel, contrabbasso e poco altro): brano comunque ricco di fascino con Dylan che sillaba le parole in maniera chiara e comprensibile.

Non può esistere un disco di Bob Dylan senza almeno un blues, e False Prophet è un notevole esempio in tal senso: cadenzato e diretto, con il nostro che canta con grinta e le chitarre che commentano con un bel riff insistito ed un paio di misurati assoli. My Own Version Of You è un pezzo dall’andatura insinuante tra country e jazz, con la batteria spazzolata e la band che segue il leader con passo felpato, mentre Dylan parla e canta come solo lui sa fare. I’ve Made Up My Mind To Give Myself To You è una deliziosa ballad d’altri tempi che vede Bob cantare in maniera toccante ed il gruppo che fornisce un raffinato background da slow degli anni sessanta (e c’è anche un coro a bocca chiusa, sarà la Apple con Mills?); Black Rider è un racconto western di grande fascino con un arrangiamento scarno al massimo, solo un paio di chitarre e la voce al centro, mentre Goodbye Jimmy Reed è un vigoroso omaggio al grande bluesman citato nel titolo, ed è un jump blues coinvolgente ed elettrico che immagino non mancherà nelle future scalette dal vivo, con Bob che ritorna anche a soffiare nell’armonica dopo non so quanto tempo (almeno su disco): se non fosse per la voce, sembrerebbe una outtake di Bringing It All Back Home.

Mother Of Muses è ancora lenta ed appena sfiorata dagli strumenti, ma Dylan canta in modo abbastanza rigoroso con una voce quasi fragile suscitando un moto di commozione a chi ascolta (cioè il sottoscritto). Ed ecco i due brani più lunghi del primo CD: Crossing The Rubicon è il terzo ed ultimo blues, un brano di sette minuti dalla sezione ritmica attendista e le chitarrine che fraseggiano in punta di dita, ma ogni tanto il suono si fa più massiccio per poi tornare alla “quiete apparente” iniziale, mentre Key West (Philosopher Pirate) è il capolavoro del primo dischetto, una magnifica ballata dedicata con parole affettuose alla famosa località nel sud della Florida, un brano per voce, fisarmonica, chitarra e ritmica in punta di piedi, oltre ad un suggestivo coro (e qui Fiona c’è sicuro). Nove minuti di pura poesia, struggente ed intensa come solo Dylan sa scrivere. Il secondo CD, come ho già detto, è ad esclusivo appannaggio di Murder Most Foul, un brano che è già nella storia, con un testo incredibile in cui Bob, partendo dall’omicidio di Kennedy, ripercorre più di cinquanta anni di politica, cronaca, cinema e musica: che piaccia o no, un altro masterpiece.

D’altronde, chi a parte Bob Dylan a quasi 80 anni è capace di chiudere un disco già ottimo di suo con due capolavori uno di fila all’altro?

The answer, my friend…

Marco Verdi

Una (Parziale) Colonna Sonora Di Un’Epoca Irripetibile. Jakob Dylan & Friends – Echo In The Canyon

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Jakob Dylan & Friends – Echo In The Canyon – Clean Slate/BMG Rights Management CD

Laurel Canyon è un quartiere di Los Angeles che sorge dalle parti di Hollywood, una zona che a cavallo tra gli anni sessanta ed i settanta diventò  il vero e proprio centro pulsante della musica californiana in un ideale passaggio di testimone con la Summer Of Love di San Francisco. Molti artisti in voga all’epoca infatti abitavano o frequentavano quel luogo, e parecchi dischi furono ispirati da esso al punto da dover coniare il termine “Laurel Canyon Sound”: stiamo parlando di gruppi come The Byrds, Love, Beach Boys, The Doors, Buffalo Springfield prima e CSN (&Y) dopo, The Mamas & The Papas, The Monkees e solisti come Frank Zappa, Joni Mitchell e Carole King. Un elenco che potrebbe andare avanti ancora, un periodo eccezionale in cui la California era davvero al centro del mondo, ed un suono che ancora oggi influenza decine di musicisti: provate per esempio ad immaginare le carriere di artisti come Fleet Foxes, Edward Sharpe & The Magnetic Zeros, Jonathan Wilson e Father John Misty se non fosse esistito il Laurel Canyon Sound.

Ora quel periodo magnifico è rievocato in Echo In The Canyon, un docu-film diretto da Andrew Slater che ripercorre quegli anni formidabili grazie alla narrazione di alcuni dei protagonisti dell’epoca (Roger McGuinn, Brian Wilson, Stephen Stills, Graham Nash, Jackson Browne, John Sebastian, Michelle Phillips, Eric Clapton e Ringo Starr, oltre al celebre produttore Lou Adler), ed altri più vicini ai giorni nostri ma che sono stati in qualche modo influenzati da quel periodo (Jakob Dylan, Fiona Apple, Beck, Norah Jones); la pellicola vede anche la presenza di Tom Petty in una delle ultime interviste prima dell’inattesa scomparsa avvenuta due anni fa, e solo il rivederlo nel trailer è estremamente toccante. Il film, che in America è già uscito nelle sale, ha ottenuto diversi commenti positivi ma anche non poche critiche, in primis perché ha totalmente ignorato alcune figure di grande importanza: se infatti può essere un peccato veniale non aver citato John Mayall (che all’epoca aveva casa proprio in quel luogo, e nel 1968 pubblicò Blues From Laurel Canyon che è uno dei suoi album migliori di sempre), più grave è non aver considerato neppure Jim Morrison, ed addirittura imperdonabile aver dimenticato anche la Mitchell, che forse insieme a David Crosby è l’artista più legata al suono che nacque su quelle colline.

Oggi però non mi occupo del film (che uscirà in DVD a Settembre), ma della sua colonna sonora, che riprende brani dell’epoca non nella loro versione originale bensì rivisitati in primis dal già citato Jakob Dylan insieme a diversi colleghi e colleghe che duettano con lui: in effetti Echo In The Canyon si può benissimo considerare un album solista, seppur collaborativo, dell’ex leader dei Wallflowers (che anche nel film è molto presente, fungendo quasi da maestro di cerimonie), il quale rivede con bravura e rispetto tredici canzoni di quel periodo magico, scegliendo non le hit più note ma alcuni brani meno conosciuti, tranne poche eccezioni. Il suono è decisamente vintage, anche se prodotto con le tecniche moderne, ed il disco risulta parecchio piacevole e ben fatto pur non avendo la pretesa di superare le versioni originali: buona parte del merito va alla house band, che vede all’opera Fernando Perdomo e Geoff Pearlman alle chitarre, Jordan Summers alle tastiere ed organo, Dan Rothchild al basso e Matt Tecu alla batteria, e con la partecipazione dello straordinario chitarrista Greg Leisz e del noto percussionista Lenny Castro. (NDM: il recensore rompiscatole che è in me a questo punto vorrebbe far notare che alcuni gruppi sono stati omaggiati con due canzoni, ed i Byrds addirittura con quattro, ma niente è stato riservato non dico alla Mitchell ed ai Doors che sono stati proprio saltati a piè pari, ma neppure a CSN&Y dato che Stills e Young sono presenti come autori ma in quota Buffalo Springfield e Crosby con un pezzo proprio dei Byrds…ed il povero Nash?).

Il CD inizia con la deliziosa Go Where You Wanna Go dei Mamas & Papas, scintillante, ricca nei suoni e con pieno rispetto del gusto pop dei sixties, ed un bel contrasto tra la voce di Jakob (il cui timbro negli anni somiglia più a quello di Petty che di papà Bob) e quella limpida e potente di Jade Castrinos, ex voce femminile della band di Edward Sharpe. Un ottimo avvio. Dylan Jr. ed il leader dei Queens Of The Stone Age Josh Homme sono una strana coppia ma funzionano decisamente bene nella rilettura di She dei Monkees, puro pop anni sessanta gradevole ed immediato, mentre Never My Love, unico successo del gruppo The Association ed in cui il nostro si accompagna con la brava Norah Jones, è una pop song lenta ed orecchiabile con un arrangiamento quasi byrdsiano ed ottimi coretti, un pezzo raffinato e diretto al tempo stesso; No Matter What You Do dei Love è un altro brano molto bello e scorrevole, pop-rock di gran classe con ottimo lavoro delle chitarre e la seconda voce di Regina Spektor. E veniamo alle quattro canzoni dei Byrds, che partono con la famosa The Bells Of Rhymney in cui viene rispettato alla perfezione il classico jingle-jangle sound, versione riveduta e non corretta (ma rinfrescata nel suono), con un Beck meno svaporato del solito a duettare con Jakob; la poco nota e suadente You Showed Me è perfettamente nelle corde del nostro, qui ben assistito da Cat Power e da un arrangiamento molto pettyano, l’altrettanto oscura It Won’t Be Wrong, con Fiona Apple, è più rock e dotata di un ottimo refrain corale, mentre la vibrante What’s Happening, scritta da Crosby, è l’unico episodio del disco con il solo Jakob a cantare, anche se la chitarra solista è di Neil Young (e si sente).

Ha attinenze coi Byrds anche Goin’ Back, scritta dalla celebre coppia Goffin/King ma incisa anche dal gruppo di McGuinn: rilettura molto bella, splendida melodia ed eccellente accompagnamento chitarristico, una delle più riuscite del lavoro (e visto che anche qui il duetto è con Beck si poteva re-intitolare…Goin’ Beck! Hahaha…). Ecco poi i due pezzi dei Buffalo Springfield, cioè una rilettura molto bella e piena di energia di Question, in cui Jakob Dylan duetta alla grande con Eric Clapton che ovviamente si esibisce anche alla chitarra, affiancato anche dall’autore del brano Stephen Stills, ed un’intensa Expecting To Fly ancora con la Spektor, servita da un sontuoso muro del suono formato da chitarre varie, steel, piano, vibrafono ed un quartetto d’archi. Infine troviamo due classici dei Beach Boys: una squisita e sognante In My Room di nuovo con Fiona Apple, versione perfettamente coerente con lo spirito del CD (cioè rivedere brani del passato senza stravolgerli), ed una gentile ed elegante I Just Wasn’t Made For These Times (tratta dal capolavoro Pet Sounds), acustica e con una leggera orchestrazione, ed ulteriormente impreziosita dagli interventi vocali di Neil Young.

Quando uscirà la versione video di Echo In The Canyon un’occhiata gliela darò di sicuro, ma per ora mi godo la colonna sonora che fa comunque la sua bella figura.

Marco Verdi