Un Piacevole Lavoro Di Moderno Bluegrass. Ray Cardwell – Just A Little Rain

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Ray Cardwell – Just A Little Rain – Bonfire CD

Ray Cardwell è un musicista figlio d’arte originario del Missouri: suo padre, Marvin Cardwell, negli anni sessanta era a capo di un gruppo bluegrass, e questo ha trasmesso al figlio la passione per quel genere fin dai primi anni. Ray ha poi iniziato a scrivere canzoni e a girare l’America con diversi gruppi fin dalla metà dei seventies, intraprendendo una vita quasi da nomade che lo ha portato a vivere in diverse città per poi tornare in Missouri allorquando ha messo su famiglia. Una gavetta lunghissima se pensiamo che Ray è riuscito soltanto nel 2017 a pubblicare il suo album d’esordio Tennessee Moon, facendolo seguire due anni dopo da Stand On My Own, due lavori che hanno attirato l’attenzione a livello locale per quanto riguarda la musica bluegrass. Ray infatti ha deciso di continuare l’opera del padre, ma aggiungendo un tocco personale: il genitore infatti aveva un approccio decisamente tradizionale con il tipo di musica proposta, mentre Ray ha optato per un taglio più moderno per quanto riguarda la struttura compositiva, dal momento che dal punto di vista strumentale le sonorità sono assolutamente vintage.

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Just A Little Rain, terzo e nuovo album del nostro, è perfettamente indicativo di quanto sto dicendo: dieci canzoni (otto nuove più due cover) che dal punto di vista sonoro non vanno oltre la classica configurazione tipica del bluegrass, un quartetto formato da chitarra, banjo, violino e mandolino, con Cardwell al basso (e non c’è la batteria), mentre dal lato compositivo la scrittura è attuale, contemporanea. Ed il disco è godibile dall’inizio alla fine, poco più di mezz’ora di musica pura suonata con grande perizia e con ottime armonie vocali che sono il vero quid in più che fa di Just A Little Rain un album che non deluderà gli appassionati del genere. Prendete l’introduttiva e vivace The Grass Is Greener: l’accompagnamento è tradizionale al 100% con le voci amalgamate alla perfezione, ma lo script è moderno ed il brano si reggerebbe sulle proprie gambe anche con una base strumentale rock. Standing On The Rock è la cover di un pezzo degli Ozark Mountain Daredevils, puro bluegrass godibile dalla prima all’ultima nota con assoli a raffica dei vari strumenti, ed anche se la melodia originale è di matrice blues qui siamo idealmente in piena mountain music. La creatività del nostro spicca ancora di più nella seguente rilettura del classico di Al Green Take Me To The River, canzone che qui viene spogliata dei suoi elementi soul-errebi per diventare una folk song di stampo tradizionale dal sapore d’altri tempi, con Ray che canta con voce limpida https://www.youtube.com/watch?v=T9iJW_-GxRk .

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I Won’t Send You Flowers è una delicata ballad, una country tune moderna  in tutto e per tutto contraddistinta da un motivo toccante, ma con Born To Do siamo ancora in pieno bluegrass a tutto ritmo nonostante l’assenza della batteria, ed il brano è quasi un pretesto per lanciarsi in assoli al fulmicotone. La title track inizia come uno slow attendista, poi il tempo si fa più veloce ed il pezzo si tramuta in una riuscita miscela tra folk e blues; Rising Sun ricorda un po’ la Nitty Gritty Dirt Band più tradizionale, puro country nobilitato da un refrain diretto ed immediato https://www.youtube.com/watch?v=T9iJW_-GxRk , mentre Shoulda Known Better è dotata di un motivo splendido, legato a doppio filo alle canzoni di settanta e più anni fa. Il dischetto si conclude con Thief In The Night, altra bluegrass tune suonata ai cento all’ora, e con la lenta e malinconica Constant State Of Grace (scritta insieme a Darrell Scott), che ha uno sviluppo melodico simile a certe cose di Jackson Browne https://www.youtube.com/watch?v=FGI3uBuToyE . Ray Cardwell è quindi un musicista da tenere d’occhio, in quanto riesce a rendere attuale un genere musicale legato al passato grazie ad una scrittura piacevole e moderna.

Marco Verdi

Il Meglio…Dopo Il Dirigibile! Robert Plant – Digging Deep: Subterranea

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Robert Plant – Digging Deep: Subterranea – Es Paranza/Warner 2CD

Terza antologia da solista per Robert Plant, dopo l’interessante Sixty Six To Timbuktu del 2003, che presentava un intero CD di rarità, ed il box Nine Lives del 2006 che conteneva tutti i suoi album da Pictures At Eleven a Mighty ReArranger. Digging Deep: Subterranea può essere in un certo senso la colonna sonora della serie di podcast dedicati a Plant andati in onda lo scorso anno col titolo appunto di Digging Deep, ed è un doppio CD molto ben fatto con una selezione effettuata dallo stesso ex cantante dei Led Zeppelin e la presenza di tre notevoli brani inediti. Tra i lead singers delle varie band di hard rock degli anni settanta quasi tutti hanno continuato a proporre lo stesso tipo di musica lontani dal gruppo che li ha lanciati, sia quando hanno fatto i solisti (Ian Gillan, Ozzy Osbourne, Ronnie James Dio), sia quando hanno formato altre band (David Coverdale con gli Whitesnake), ma Plant ha quasi voluto prendere le distanze dagli Zeppelin fin da subito, proponendo per tutti gli anni ottanta un pop-rock un po’ di maniera e con sonorità tipiche dell’epoca, passando poi per l’ottimo Fate Of Nations del 1993 che invece era un bel disco di moderno rock d’autore.

Dopo un lungo silenzio, si è reinventato dal 2002 in avanti come esponente di un roots-rock fuso con folk, blues e musica etnica (elementi già presenti in molti pezzi del Dirigibile), sfornando album eccellenti come il pluripremiato Raising Sand, in duo con Alison Krauss, ed il magnifico Band Of Joy (disco dell’anno 2010 per chi scrive), anche se gli ultimi due lavori Lullaby And…The Ceaseless Roar e Carry Fire, pur non disprezzabili, hanno denotato una certa involuzione compositiva. Digging Deep: Subterranea contiene una selezione eterogenea di brani da tutti gli album solisti di Plant, ma solo da quelli: mancano quindi episodi dal divertente EP degli Honeydrippers, dai due lavori usciti negli anni 90 con Jimmy Page (No Quarter: Unledded e Walking Into Clarksdale) e purtroppo, e questa è una pecca, dal già citato disco con la Krauss. L’ascolto del doppio CD è comunque molto piacevole nonostante qualche calo di tensione soprattutto riscontrabile nei brani degli eighties, ed i tre inediti non sono riempitivi ma canzoni di alto livello.

Dulcis in fundo, nei vari pezzi suonano musicisti dal pedigree indiscutibile come lo stesso Page, Patty Griffin, Buddy Miller, Phil Collins, Cozy Powell e Darrell Scott, il tutto condito naturalmente dalla formidabile voce del nostro. Il primo inedito è Nothing Takes The Place Of You (scritta dal musicista di New Orleans Toussaint McCall ed incisa da Plant per il film del 2013 Winter In The Blood ma non pubblicata), una deliziosa slow ballad in puro stile anni 60, con un organo malandrino dietro alle spalle ed una prestazione vocale superba da parte di Robert; Charlie Patton Highway (Turn It Up – Part 1) è un anticipazione dell’imminente album Band Of Joy 2, un sontuoso boogie-blues cadenzato dal riff insistente che lascia ben presagire per il resto del futuro disco. Chiude il trittico di novità una incantevole versione di Too Much Alike, cover di un vecchio rockabilly di Charlie Feathers proposta in duetto con la Griffin, bellissimo e spensierato omaggio ai bei tempi che furono. I brani degli anni ottanta, tra sonorità un po’ finte ed uso insistito del synth, sono quelli che abbassano leggermente il giudizio generale (White, Clean & Neat è davvero brutta), ma ci sono anche momenti degni di nota come la rockeggiante Hurting Kind, il più grande successo di Plant come singolo, le suggestive ballate Ship Of Fools e Like I’ve Never Been Gone e l’elegante e raffinato blue-eyed soul Big Log.

Il riuscito Fate Of Nations è rappresentato da ben cinque canzoni, tra le quali lo splendido folk-rock 29 Palms, tra le migliori canzoni post-seventies del nostro, la fluida ed ariosa I Believe, dedicata al figlioletto Karac tragicamente scomparso nel 1977 a soli sei anni d’età, la zeppeliniana Memory Song ed il blues acustico da brividi Great Spirit, con Rainer Ptacek alla chitarra. Infine ecco il nuovo millennio, con la coinvolgente Rainbow, sorta di “rockabilly etnico”, il sanguigno rock-blues Shine It All Around, la fulgida ballata tra rock e folk Darkness, Darkness e la potente Takamba. Senza dimenticare alcune splendide cover incluse in origine su Band Of Joy, come il traditional blues Satan, Your Kingdom Must Come Down, la magnifica rilettura di Angel Dance dei Los Lobos e la squisita ripresa, tra country e moderno doo-wop, di Falling In Love Again dei Kelly Brothers. Se amate i Led Zeppelin ma non conoscete troppo il Robert Plant solista (ma anche se possedete tutto, visto che i tre inediti valgono l’acquisto), Digging Deep: Subterranea è sicuramente l’antologia che fa per voi.

Marco Verdi

Il “Lungo Addio”: Un Bel Modo Per Ricordare Un Amico Scomparso. Montgomery Gentry – Outskirts

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Montgomery Gentry – Outskirts – Average Joe’s Entertainment CD

Nonostante Eddie Montgomery continui ad esibirsi dal vivo con il nome di Montgomery Gentry, pensavo che la storia discografica del popolarissimo duo country si fosse esaurita l’8 Settembre 2017, data in cui Troy Gentry ha perso la vita in un tragico incidente d’elicottero. I due avevano però fatto in tempo a registrare un nuovo album, Here’s Yo You, ed un’antologia di vecchi successi re-incisi per l’occasione intitolata 20 Years Of Hits. Ma i cassetti non erano stati ancora svuotati del tutto, e così Montgomery nel Giugno di quest’anno ha pubblicato Outskirts, un EP di sette brani inediti uscito però solo in digitale. Il buon successo dell’operazione ha in seguito convinto il nostro a far uscire Outskirts anche in CD, con l’aggiunta di due brani dall’ultima antologia ed altri due non presenti su precedenti album del duo https://discoclub.myblog.it/2015/08/12/ripassi-le-vacanze-3-montgomery-gentry-folks-like-us/ .

Il risultato è un CD che non sembra affatto un’operazione commemorativa e neppure una mossa commerciale atta a sfruttare il momento di commozione dovuto alla scomparsa di Gentry (anche se in fondo lo è), ma un disco fatto e finito di robusto rockin’ country, con canzoni di buona fattura che non sembrano per nulla delle outtakes. Musica tosta, chitarristica, cantata e suonata benissimo ed adatta sia alle classifiche di settore che agli appassionati di vero country: i due non usano (o dovrei dire usavano) diavolerie come sintetizzatori, drum programming e boiate varie, e pur avendo tutti i requisiti per i passaggi radiofonici le loro canzoni suonano autentiche dalla prima all’ultima nota. Non ho remore a definire la title track Outskirts una grande canzone, un rockin’ country potente e chitarristico dalla melodia epica ma nel contempo orecchiabile, il tutto coronato da una solida prestazione vocale. Nel disco troviamo due canzoni scritte da Darrell Scott, la ballatona elettrica River Take Me, dal sapore western sul genere del compianto Chris LeDoux, e You’ll Never Leave Harlan Alive, altro brano di puro country sferzato dal vento, evocativo e con un breve ma incisivo assolo chitarristico centrale, mentre What Am I Gonna Do With The Rest Of My Life, proprio il brano di Merle Haggard, è uno slow intenso dalla strumentazione classica e con una resa vocale perfetta.

Never Been Nothing Else è un country-rock ritmato e molto godibile, perfetto per accontentare anche i palati più esigenti, King Of The World prosegue sulla stessa linea risultando ancora più coinvolgente e vede addirittura la presenza dell’axeman Steve Vai, che si cala benissimo nei panni richiesti dal brano dimenticandosi delle atmosfere hard rock alle quali è abituato; l’EP originale termina con Joe Six-Pack, forse il pezzo dall’arrangiamento più ruffiano e commerciale ma comunque non disprezzabile. Il CD viene completato da due vecchi successi rifatti (Didn’t I e Roll With Me), già apparsi lo scorso anno su 20 Years Of Hits, l’errebi Shakey Ground in collaborazione con Ronnie Milsap uscito qualche mese fa sull’album di duetti del countryman non vedente, e soprattutto una rilettura bella e vigorosa del classico di Waylon Jennings Good Ol’ Boys, da un tributo di sette anni fa dedicato al grande Outlaw texano. Un dischetto quindi piacevole nonché inatteso, ulteriore tributo da parte di Eddie Montgomery al partner artistico di una vita.

Marco Verdi

Il Nuovo Capitolo Del “Cantore” Della Solitudine. Malcolm Holcombe – Pretty Little Troubles

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Malcolm Holcombe – Pretty Little Troubles – Gypsy Eyes Music

Da quando è tornato sobrio, esclusivamente per merito di sua moglie Cindy, il buon Malcolm Holcolmbe sembra rinato a nuova vita musicale, incidendo periodicamente negli ultimi anni una serie di ottimi lavori come Down The River (12), Pitiful Blues (14), The RCA Sessions (15), e Another Black Hole (16), tutti recensiti da chi scrive, su queste pagine virtuali http://discoclub.myblog.it/2016/03/09/leggenda-dellunderground-americana-malcolm-holcombe-another-black-hole/ . Di conseguenza, di questo signore e della sua vita avventurosa, i lettori di questo blog sanno già tutto, quindi tralascio di ripercorrere per l’ennesima volta le sue note biografiche e la sua carriera, che lo hanno portato ad incidere questo undicesimo album in studio. Una delle prime cose che si nota ascoltando Pretty Little Troubles, è il forte contrasto tra la musica e la voce di Malcolm, e questo lo si deve in gran parte al noto polistrumentista e produttore Darrell Scott (autore in passato di svariati ottimi lavori solisti), che ha radunato negli Outlaw Music Sanctuary Studios in quel di Crawford nel freddo Tennessee, una serie di eccellenti musicisti, tra i quali il fidato Jared Tyler al dobro, mandolino e voce, Verlon Thompson alle chitarre acustiche e slide, Marco Giovino alla batteria, Dennis Crouch al basso, Joey Miskulin alla fisarmonica, e il bravo Kenny Malone alle percussioni, senza dimenticare il contributo di stagionati turnisti di area come Jelly Roll Johnson, Mike McGoldrick, e Jonathan Yudkin,  tutti impegnati ad assecondare Holcombe e la sua chitarra, suonata come sempre con il suo personalissimo “fingerpicking”.

I “piccoli problemi” di Malcolm si aprono  sulla sorprendentemente “bluesy”  Crippled Point O’View, con un arrangiamento leggermente funky, a cui fanno seguito la commovente Yours No More (dedicata agli immigrati, il country-folk quasi da “campi di cotone” di una briosa Good Ole Days, la sofferta elegia di Outta Luck, con in sottofondo l’armonica di Jelly Roll Johnson. Troviamo anche l’atmosfera “zingaresca” della bellissima South Hampton Street, dove oltre alla voce di Holcombe svetta la fisarmonica di Miskulin, come pure nella seguente splendida ballata Rocky Ground, mentre la title track Pretty Little Troubles è di nuovoun moderno blues acustico, eseguito come lo avrebbe suonato il bravo Steve Seasick, per poi passare alla divertente Bury, England, dove il dobro di Jared Tyler gareggia in bravura con la chitarra di Malcolm. Il sound spoglio e acustico di Pretty Little Troubles si manifesta anche nella chitarra e voce di Damm Weeds, per poi ampliarsi con una strumentazione da brano  celtico come in The Eyes O’Josephine, una ballata romantica popolare senza tempo, e avviarsi alla fine dei “problemi” con una rustica e incalzante The Sky Stood Still, valorizzata alle corde dal bravo Jonathan Yudkin, e chiudere con gli accordi crepuscolari di una intima e scarna We Struggle.

Questo “signore” ormai lo ascolto da oltre vent’anni, e oggi come ieri Malcolm Holcombe mi pare un cantautore apparentemente di un’altra epoca, in quanto principalmente il nostro in fondo è un musicista di montagna, che scrive canzoni sempre intriganti (soprattutto quelle basate sulle proprie esperienze), con una voce che raschia in gola e raccoglie ogni suono, partendo dal primo Dylan, passando per Johnny Cash, e finendo con il Tom Waits più notturno. Amato da molti musicisti (in primis da Steve Earle e Lucinda Williams) e riconosciuto dalla critica internazionale, Holcombe si conferma un artista essenziale nel proporre il suo “talkin’ blues”, raccontando storie di provincia che lui vive sulla propria pelle (come in questo ultimo Pretty Little Troubles), cantate con voce calda e profonda, con risultati che lo innalzano ancora una volta alla pari dei grandi storytellers americani, e verso il “gotha”, se esiste, dei cantautori di culto!

Tino Montanari

Non Più Solo Countryman, Ma Un Songwriter Completo! Hayes Carll – Lovers And Leavers

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Hayes Carll – Lovers And Leavers – Highway 87/Thirty Tigers CD

Con cinque dischi in quindici anni, non si può certo dire che Hayes Carll, singer-songwriter texano, sia uno che inflazioni il mercato discografico. Dopo i due album di esordio, nei quali aveva fatto già intravedere buone qualità (specie nel secondo, Little Rock), è con lo splendido Trouble In Mind del 2008 che il nostro si rivela come uno dei più dotati talenti in campo alternative country, con un disco di ottime canzoni in perfetto stile Americana, condite da testi contraddistinti da uno spiccato senso dell’ironia, un lavoro bissato tre anni dopo dall’altrettanto valido KMAG YOYO, altro CD molto country-oriented che non faceva che confermare quanto di buono Carll aveva mostrato in precedenza.

Ora, a ben cinque anni di distanza, Hayes torna tra noi con Lovers And Leavers, che segna un deciso cambiamento di registro: un lavoro molto meno country e più folk, nel quale il nostro predilige le ballate ed i pezzi più riflessivi, ma da un certo punto di vista migliora anche la qualità della sua proposta: Lovers And Leavers ci mostra infatti un autore definitivamente maturato, che ha una perfetta padronanza della materia e sa come fare un album intero di sole ballate senza annoiare neppure per un attimo. In più, Hayes ha scelto come produttore uno dei migliori sulla piazza, Joe Henry, che fa al solito un ottimo lavoro e si conferma perfetto per un certo tipo di sonorità, cucendo attorno alla voce del nostro pochi strumenti, centellinando gli interventi, e mettendo in risalto le melodie piene di fascino dei dieci brani presenti. Anche la band che accompagna Carll è frutto di una attenta selezione: oltre a Hayes stesso che suona la chitarra acustica, troviamo il fedelissimo (di Henry) Jay Bellerose alla batteria, che come di consueto fa un lavoro raffinatissimo e mai invasivo, l’ottimo Tyler Chester al piano ed organo, David Piltch al basso ed Eric Heywood alla steel; avrete notato l’assenza assoluta di chitarre elettriche, ma devo dire che durante l’ascolto del CD quasi non ci si fa caso.

Dulcis in fundo, Hayes ha scritto i pezzi di questo disco con alcuni personaggi a noi ben noti, dal famoso countryman Jim Lauderdale, ai meno conosciuti ma non meno validi Darrell Scott e Will Hoge, passando per Jack Ingram, l’ex signora Earle, Allison Moorer e, in Jealous Moon, addirittura J.D. Souther. Drive inizia soffusa, con un arpeggio chitarristico ed una leggera percussione, e la voce di Carll ad intonare una melodia molto folk, un brano puro con un bel crescendo emozionale. E la mano di Henry si sente già. Molto bella Sake Of The Song, un pezzo tra folk e blues dal motivo coinvolgente, ritmo cadenzato ed ottimi fills di piano, steel ed organo, mi ricorda curiosamente certe cose dei Kaleidoscope (un grandissimo gruppo oggi purtroppo totalmente dimenticato dove suonavano David Lindley Chris Darrow): grande canzone. Anche Good While It Lasted è dotata di un pathos notevole, pur avendo tre strumenti in croce intorno alla voce particolare del leader: è proprio da brani come questo che si comprende la crescita esponenziale del nostro come autore, e la scelta di Henry, un maestro della produzione “per sottrazione”, si rivela vincente.

You Leave Alone ha l’andatura di una country ballad, ma anche qualche vaga somiglianza con Deportee di Woody Guthrie: voce e poco altro, ma che feeling; My Friends ha un suono più pieno, con punti in comune con il country “cosmico” di Gram Parsons, il passo è sempre lento ma non ci si annoia per niente; The Love That We Need, scritta a sei mani con Ingram e la Moorer, è in effetti una delle migliori del CD, con la sua melodia splendida e grande uso del piano, una ballata sontuosa. La tenue e “sotto strumentata” Love Don’t Let Me Down precede The Magic Kid, altra folk song purissima e dal solito accompagnamento pulito e di gran classe. Il dischetto termina con Love Is So Easy, molto John Prine primo periodo (testo ironico compreso) e graditi riff di organo stile sixties, e con Jealous Moon, chiusura malinconica e poetica per un album davvero notevole.

Ottime canzoni, musicisti di valore e produzione perfetta: Hayes Carll ormai è uno dei “nostri”.

Marco Verdi