Una Mosca Bianca (Anzi, Bionda) Nel Panorama Country Di Nashville! Miranda Lambert – The Weight Of These Wings

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Miranda Lambert – The Weight Of These Wings – RCA Nashville 2CD

Miranda Lambert, oltre ad essere una delle country singers più popolari in America, è anche una gran bella ragazza (se vi piace il genere bambolona bionda, e mi scuso per averla paragonata ad una mosca nel titolo del post), che ultimamente si è fidanzata con il nostro nuovo beniamino Anderson East http://discoclub.myblog.it/2016/01/01/recuperi-inizio-anno-3-meraviglioso-disco-soul-bianco-anderson-east-delilah/ . Ma, gossip a parte (comunque a breve vedremo l’importanza della sua situazione sentimentale in riferimento al nuovo disco), Miranda è una delle poche artiste di stanza a Nashville che riesce a vendere tantissimo facendo musica di qualità; infatti, ognuno dei suoi sei album pubblicati dal 2005 ad oggi (quindi compreso l’ultimo) è andato al numero uno della classifica country, e più o meno lo stesso risultato lo ha ottenuto come componente del trio delle Pistol Annies (con Ashley Monroe ed Angaleena Presley), ma limitando al minimo sindacale le sonorità commerciali, e quasi sempre evitando situazioni fasulle come l’uso di sintetizzatori, drum machines e programming a differenza di gran parte dei suoi colleghi, anche maschi, che più che country fanno del pop plastificato. La Lambert invece usa musicisti veri, anche se chiaramente per vendere così tanto qualcosa qui e là deve concedere, ma senza scendere mai sotto il livello di guardia, e lo dimostra anche il fatto che lei i dischi li pensa a lungo e non li considera prodotti di consumo (in più, cosa da non sottovalutare affatto, scrive quasi tutte le canzoni, da sola o in collaborazione con altri, ed in questo ultimo disco troviamo co-autori del calibro di Brent Cobb, Mando Saenz, Jack Ingram, oltre allo stesso East in due brani).

The Weight Of These Wings è di gran lunga il suo lavoro più ambizioso fino ad oggi, in quanto è un doppio CD dalla durata considerevole (più di un’ora e mezza complessivamente), con dodici canzoni per disco, diviso in due parti intitolate rispettivamente The Nerve e The Heart: l’album tra l’altro è il più autobiografico finora per Miranda, in quanto le canzoni sono ispirate dal fallimento del suo matrimonio con il collega Blake Shelton e dalla nuova relazione con East, un lavoro personale che assume ulteriore valore per il fatto che non c’è un solo brano non dico brutto, ma neppure sottotono. La produzione è nelle mani esperte di Frank Liddell e del noto bassista Glenn Worf (che suona anche nel disco), e la lista dei sessionmen è meno lunga del solito, ma con eccellenze del calibro di Hargus “Pig” Robbins al piano, Matt Chamberlain alla batteria e l’ottimo steel guitarist Spencer Cullum. Miranda riesce a dare la sua impronta sia nelle ballate che nei brani più mossi, sfiora il rock in diversi momenti, e, sarà anche per il fatto che le canzoni parlano delle sue esperienze, porta a termine il suo lavoro forse più maturo e convincente.

Il primo dischetto inizia con Runnin’ Just In Case, un brano affascinante che parte attendista ma poi si apre a poco a poco, con la bella voce della Lambert a condurre le danze con sicurezza, in un’atmosfera più rock che country, subito seguita dalla solare e cadenzata Highway Vagabond, un pezzo gradevole e quasi pop, ma che sta decisamente dalla parte giusta di Nashville, senza diavolerie che poco hanno da spartire con la vera musica. Tra le migliori del primo CD abbiamo la vivace e ritmata Ugly Lights, dalla deliziosa melodia sixties, il country bucolico di You Wouldn’t Know Me, molto bello nella sua freschezza e semplicità (e suonato alla grande), l’elettrica e ruspante We Should Be Friends, la dolce ballad Getaway Driver, perfetta per la voce suadente di Miranda, una delle più belle del doppio (non per niente è una delle due scritte con East).                    Proprio un duetto con Anderson East è l’highlight del primo CD: Pushin’ Time è uno squisito brano acustico cantato con grande intensità e pathos dai due partners, con una splendida steel in sottofondo: fa piacere che ogni tanto anche la musica di qualità voli alto nelle classifiche; chiudono la prima parte il bel rockin’ country Covered Wagon e la soave e leggera Use My Heart.

Le migliori del secondo dischetto sono invece la lenta ed intensa Tin Man, gran bella canzone che riesce ad emozionare pur con due strumenti in croce, la fluida Good Ol’ Days, ballata elettrica di spessore, la quasi western Things That Break, la crepuscolare Well-Rested, con splendida performance vocale di Miranda, la gradevole ed accattivante Tomboy ed il bellissimo e scintillante honky-tonk To Learn Her, in assoluto la più country del doppio, nel più classico stile alla Loretta Lynn. Per concludere con la mossa e coinvolgente Keeper Of The Flame, la guizzante Six Degrees Of Separation, caratterizzata da un marcato giro di basso e da una chitarra quasi distorta, e le belle Dear Old Sun e I’ve Got Wheels, tra le migliori ballate del disco, con accenni quasi swamp la prima e dalla deliziosa melodia la seconda, ed una bella chitarra sullo sfondo. Se tutto il country prodotto a Nashville fosse del livello di The Weight Of These Wings, e non solo un’eccezione, il blog che state leggendo dovrebbe cominciare a pubblicare due-tre post al giorno sul genere, tutti i giorni.

Marco Verdi

Un Gradito Ritorno. Jack Ingram – Midnight Motel

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Jack Ingram – Midnight Motel – Rounder

Jack Ingram a partire dagli anni ’90 è stato uno tra i nostri preferiti (o almeno uno dei miei): ha registrato molti album, prima a livello locale, poi con il terzo Livin’ Or Dyin’, prodotto da Steve Earle, ha fatto quello che sembrava il grande passo verso il successo, ma come spesso succede in queste storie, l’etichetta che lo aveva scelto ha chiuso, praticamente pochi giorni dopo l’uscita del disco. Ingram ha comunque proseguito imperterrito a fare buona musica, pubblicando anche parecchi album dal vivo, ben cinque, oltre a uno in comproprietà con i fratelli Charlie e Bruce Robison (quest’ultimo ancora con lui nel nuovo disco). Poi, nel 2009, è sparito dalla circolazione. Anche se, come dice lui stesso nelle interviste che accompagnano l’uscita di questo nuovo Midnight Motel, ha continuato a fare musica, raccogliendo idee per il nuovo album, che poi ha finanziato attraverso Pledge Music. Negli anni sabbatici si è dedicato ad attività filantropiche e ha fatto il Dj per varie radio country in giro per gli States, poi quando è stato pronto ha firmato un contratto con la Rounder (una etichetta che è una certezza per gli amanti della buona musica, anche se purtroppo il CD non verrà distribuito in Europa) ha raccolto una pattuglia di ottimi musicisti, sotto la produzione di Jon Randall  (altro buon musicista texano di area country, autore di vari discreti album), e nelle cui fila troviamo Charlie Sexton e lo stesso Randall alle chitarre, Chad Cromwell alla batteria, Bukka Allen alle tastiere e l’appena citato Bruce Robison alle armonie nella canzone Can’t Get Any Better Than This.

Il tutto è stato registrato in presa diretta, con tutti i musicisti schierati in studio come fossero sul palco di una esibizione live, senza sovra incisioni e senza eventuali correzioni, anche per eventuali errori nei testi dei brani, addirittura è stato lasciato lo scambio di opinioni tra musicisti tra un brano e l’altro. Il risultato, ancora una volta, è un ottimo album, forse, come dice di lui stesso, non riuscirà a raggiungere i livelli di due dei suoi eroi musicali come Jerry Jeff Walker e Mick Jagger, ma a modo suo non rinuncerà a provarci. Un po’ la traiettoria che ha percorso un altro musicista simile a lui come Pat Green, con questo amore paritario per country e rock, una bella voce e delle canzoni che se non sono diventate dei classici poco ci manca: penso a Seeing Stars, uno splendido duetto con Patty Griffin, Barbie Doll, Airways Motel (quello dei motel è un tema ricorrente nelle sue canzoni), scritta con Todd Snider, che era sull’album prodotto da Steve Earle, e svariate altre. Proprio con Old Motel (eccolo lì) si apre anche il nuovo album, un bel pezzo rock dal motivo circolare, con tante chitarre, la batteria incalzante e la melodia che dopo qualche giro ti entra in testa, bella partenza. Dopo qualche chiacchiera in studio, in cui qualcuno suggerisce “dovremmo farci un video”, si passa a It’s Always Gonna Rain, una bella ballata in crescendo di impronta country, sulla falsariga di Townes van Zandt, Guy Clark, Jerry Jeff Walker, quelli bravi insomma, che Ingram ammira veramente, non è solo mera piaggeria od imitazione, c’è anche sostanza e passione.

I Feel Like Drinking Tonight con dedica iniziale agli amici Hayes Carll, Bruce Robison, Charlie Robison, Jerry Jeff, Roy è un’altra piccola perla di cantautorato texano di quello doc, con steel guitar e un organo solitario che “piangono” sulle sfondo, mentre delle twangy guitars ci fanno godere in primo piano, insieme alla appassionata voce di Ingram. The Story Of Blaine, parlata, verte intorno ad un personaggio, credo legato a Merle Haggard e Buck Owens, e poi evolve nella successiva Blaine’s Ferris Wheel. Un brano che mi ha ricordato moltissimo alcune delle più belle canzoni discorsive di Jerry Jeff Walker, un primis Mr. Bojangles, che a tratti rievoca, comunque quella è un classico senza tempo, questa vedremo, però promette bene. Ma non c’è un pezzo brutto nel disco, molto buona anche la malinconica e struggente Nothing To Fix, come pure la dolce e delicata What’s A Boy To Do, sempre con questo suono seventies di grande impatto. E niente male, per usare un eufemismo, anche Trying,che rievoca certo country-rock di vaglia dei tempi che furono, e intrigante il bozzetto acustico di Champion Of The World, con una deliziosa slide acustica. Ritornano tempi più mossi, quasi alla Mellencamp del periodo heartland rock, per la grintosa I’m Drinking Through It . Ci avviamo alla conclusione, ma rimangono ancora un paio di brani, Can’t Get Any Better Than This, con la seconda voce di Bruce Robison, che mi ha ricordato il sound dei brani della Band, pura Americana music di classe cristallina e il valzerone country di All Over Again, di nuovo intenso e struggente. In coda al tutto c’una versione acustica di Old Motel, che conferma la bontà della canzone. Quindi  un bentornato di cuore al nostro amico Jack Ingram.

Bruno Conti

P.s In questi giorni  forse avrete notato che i Post arrivano un po’ a singhiozzo, ma ho dei problemi tecnici, non nel Blog, ma sul mio PC, spero in fase di risoluzione, quindi cerco di pubblicare ugualmente gli aggiornamenti e magari non escludo di aggiungere qualche puntata dedicata alle prossime uscite discografiche, sia imminenti, entro fine settembre, che a quelle che si succederanno in ottobre e novembre, oltre a quanto già postato in precedenza.

Non Più Solo Countryman, Ma Un Songwriter Completo! Hayes Carll – Lovers And Leavers

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Hayes Carll – Lovers And Leavers – Highway 87/Thirty Tigers CD

Con cinque dischi in quindici anni, non si può certo dire che Hayes Carll, singer-songwriter texano, sia uno che inflazioni il mercato discografico. Dopo i due album di esordio, nei quali aveva fatto già intravedere buone qualità (specie nel secondo, Little Rock), è con lo splendido Trouble In Mind del 2008 che il nostro si rivela come uno dei più dotati talenti in campo alternative country, con un disco di ottime canzoni in perfetto stile Americana, condite da testi contraddistinti da uno spiccato senso dell’ironia, un lavoro bissato tre anni dopo dall’altrettanto valido KMAG YOYO, altro CD molto country-oriented che non faceva che confermare quanto di buono Carll aveva mostrato in precedenza.

Ora, a ben cinque anni di distanza, Hayes torna tra noi con Lovers And Leavers, che segna un deciso cambiamento di registro: un lavoro molto meno country e più folk, nel quale il nostro predilige le ballate ed i pezzi più riflessivi, ma da un certo punto di vista migliora anche la qualità della sua proposta: Lovers And Leavers ci mostra infatti un autore definitivamente maturato, che ha una perfetta padronanza della materia e sa come fare un album intero di sole ballate senza annoiare neppure per un attimo. In più, Hayes ha scelto come produttore uno dei migliori sulla piazza, Joe Henry, che fa al solito un ottimo lavoro e si conferma perfetto per un certo tipo di sonorità, cucendo attorno alla voce del nostro pochi strumenti, centellinando gli interventi, e mettendo in risalto le melodie piene di fascino dei dieci brani presenti. Anche la band che accompagna Carll è frutto di una attenta selezione: oltre a Hayes stesso che suona la chitarra acustica, troviamo il fedelissimo (di Henry) Jay Bellerose alla batteria, che come di consueto fa un lavoro raffinatissimo e mai invasivo, l’ottimo Tyler Chester al piano ed organo, David Piltch al basso ed Eric Heywood alla steel; avrete notato l’assenza assoluta di chitarre elettriche, ma devo dire che durante l’ascolto del CD quasi non ci si fa caso.

Dulcis in fundo, Hayes ha scritto i pezzi di questo disco con alcuni personaggi a noi ben noti, dal famoso countryman Jim Lauderdale, ai meno conosciuti ma non meno validi Darrell Scott e Will Hoge, passando per Jack Ingram, l’ex signora Earle, Allison Moorer e, in Jealous Moon, addirittura J.D. Souther. Drive inizia soffusa, con un arpeggio chitarristico ed una leggera percussione, e la voce di Carll ad intonare una melodia molto folk, un brano puro con un bel crescendo emozionale. E la mano di Henry si sente già. Molto bella Sake Of The Song, un pezzo tra folk e blues dal motivo coinvolgente, ritmo cadenzato ed ottimi fills di piano, steel ed organo, mi ricorda curiosamente certe cose dei Kaleidoscope (un grandissimo gruppo oggi purtroppo totalmente dimenticato dove suonavano David Lindley Chris Darrow): grande canzone. Anche Good While It Lasted è dotata di un pathos notevole, pur avendo tre strumenti in croce intorno alla voce particolare del leader: è proprio da brani come questo che si comprende la crescita esponenziale del nostro come autore, e la scelta di Henry, un maestro della produzione “per sottrazione”, si rivela vincente.

You Leave Alone ha l’andatura di una country ballad, ma anche qualche vaga somiglianza con Deportee di Woody Guthrie: voce e poco altro, ma che feeling; My Friends ha un suono più pieno, con punti in comune con il country “cosmico” di Gram Parsons, il passo è sempre lento ma non ci si annoia per niente; The Love That We Need, scritta a sei mani con Ingram e la Moorer, è in effetti una delle migliori del CD, con la sua melodia splendida e grande uso del piano, una ballata sontuosa. La tenue e “sotto strumentata” Love Don’t Let Me Down precede The Magic Kid, altra folk song purissima e dal solito accompagnamento pulito e di gran classe. Il dischetto termina con Love Is So Easy, molto John Prine primo periodo (testo ironico compreso) e graditi riff di organo stile sixties, e con Jealous Moon, chiusura malinconica e poetica per un album davvero notevole.

Ottime canzoni, musicisti di valore e produzione perfetta: Hayes Carll ormai è uno dei “nostri”.

Marco Verdi