Onesto E Senza Sbavature, Ma I Capolavori Sono Un’Altra Cosa. Josh Ward – More Than I Deserve

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Josh Ward – More Than I Deserve – Smith Entertainment CD

Quarto album di studio per Josh Ward, musicista texano di Houston, a quasi tre anni di distanza dal buon Holding Me Together https://discoclub.myblog.it/2016/04/22/sempre-buona-musica-dal-texas-josh-ward-holding-me-together/ . Trentotto anni, faccione da bravo ragazzo che contrasta un po’ con la classica immagine del cowboy arso dal sole del Texas, Ward è comunque un countryman dal pelo duro, che disco dopo disco si è costruito un bel seguito all’interno del Lone Star State, e non solo. More Than I Deserve prosegue il suo discorso, un country-rock dalla temperatura elettrica piuttosto alta, con le chitarre sempre in primo piano, ritmo a mille e grinta che non manca mai. Josh non è uno di quegli artisti dai quali ci si può attendere il capolavoro, e neppure il disco country dell’anno, ma è onesto e diretto e, anche se non scrive moltissime canzoni di suo pugno, è uno che sa quello che vuole.

Che sia uno che va dritto al punto lo si capisce anche leggendo i nomi dei sessionmen: non la solita lunghissima lista di turnisti di Nashville che si limitano a timbrare il cartellino, ma un gruppo decisamente ristretto (due chitarre, basso, batteria e tastiere) che però bada al sodo, il tutto con la produzione essenziale di Greg Hunt e Drew Hall. L’album inizia subito in maniera seria con All About Lovin’ (tra i suoi autori c’è Chris Stapleton), un rockin’ country robusto e vibrante, con le chitarre che assumono da subito il ruolo di protagoniste, e la voce del nostro, perfetta per la parte, che intona un motivo orecchiabile. Ain’t It Baby è un’ariosa ballata, sempre contraddistinta da una strumentazione vigorosa e con un’altra melodia accattivante, il giusto compromesso tra musica buona sia per gli amanti del vero country che per le radio; Say Hello To Goodbye è un lento forse già sentito, ma suonato in maniera pulita ed asciutta, con piano e chitarre in evidenza.

Home Away From Home è puro e trascinante country’n’roll, perfetto da suonare nei bar di Austin, chitarre twang e gran ritmo. The Devil Don’t Scare Me è un altro slow, sempre eseguito in maniera elettrica, discreto anche se la sensazione è che Josh il meglio lo dia nei pezzi più mossi; la tersa A Cowboy Can è puro country, con una bella steel ed un refrain immediato, mentre con Another Heartache siamo in pieno territorio honky-tonk, un suono molto classico, elettrico, saltellante e texano al 100%. God Made A Woman è una solida ballad quasi più rock che country, Loving Right ha un ritornello corale che piace al primo ascolto, ed è una delle più riuscite; il CD termina con l’attendista One More Shot Of Whiskey, sempre tenace nel sound, e con la tenue More Than I Deserved, probabilmente il miglior lento del disco. Forse Josh Ward non sarà il futuro del country, ma è comunque espressione di un presente più che dignitoso.

Marco Verdi

Country Texano = Buona Musica? Non Sempre… Granger Smith – When The Good Guys Win

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Granger Smith – When The Good Guys Win – Wheelhouse CD

Granger Smith, countryman texano di Dallas, pur avendo solo 38 anni è già attivo, discograficamente parlando, da quando ne aveva 19. La sua gavetta è stata piuttosto lunga, fatta di ben sei album autodistribuiti, ma poi è stato notato dal produttore Frank Rogers (l’uomo dietro a Brad Paisley), il quale lo ha preso sotto la sua ala protettiva contribuendo ad aumentare notevolmente la sua popolarità ed anche le sue vendite. Come però spesso succede, soprattutto nel mondo di Nashville, l’incremento della fama è coinciso con un progressivo decremento della qualità della musica proposta: se l’EP 4×4 del 2015 ed il suo album dello scorso anno, Remington, riuscivano ancora a barcamenarsi abbastanza bene tra una musica country di buon piglio elettrico e sonorità adatte ai passaggi radiofonici, con quest’ultimo When The Good Guys Win sembra che anche Granger abbia imboccato definitivamente la strada delle canzoni da classifica. Il disco non è un totale disastro, anzi inizia anche discretamente (pur senza far gridare al miracolo), ma brano dopo brano la proposta del nostro diventa sempre più banale e prevedibile, senza particolari guizzi, ed in più con un inutile ricorso a sonorità fasulle.

Non credo che Smith abbia nelle corde un grande disco, ma un prodotto di buon livello sarebbe anche in grado di metterlo a punto, dato che la voce non gli manca e nemmeno la capacità di scrivere o di interpretare a dovere ciò che gli viene messo a disposizione: però in questo album, pur impeccabile dal punto di vista formale (neppure una virgola fuori posto), manca la scintilla, o quel qualcosa che lo faccia elevare dalla massa di lavori che suonano tutti allo stesso modo (e ci sono pure 14 canzoni, quindi nemmeno poche). When The Good Guys Win non parte neanche male: Gimme Something è una fluida ballata elettrica, con un ritornello molto orecchiabile ed un suono calibrato al punto giusto, ma in grado di piacere anche a chi non ama il country da classifica. Stesso discorso per la cadenzata You’re In It, un rockin’ country chitarristico dove nulla è lasciato al caso, ma nonostante tutto il brano risulta piacevole ed anche coinvolgente, mentre Raise Up Your Glass è uno slow dall’atmosfera rarefatta ma con la strumentazione giusta, dato che le chitarre e la sezione ritmica sono comunque in primo piano.

Happens Like That è il primo singolo, e rispetto alle precedenti qualcosa inizia a scricchiolare, essendo fin troppo tendente al pop; meglio la tonica Still Holds Up, sempre elettrica ma più spostata sul versante country, mentre la title track tiene un piede da tutte e due le parti e scivola via abbastanza anonima. Da questo punto in poi il disco perde mordente e, per chi scrive, interesse, tra pezzi nei quali l’anima country di Granger tenta di prendere il sopravvento senza molto successo ed altri fin troppo normali, senza particolari doti, e con in più una esagerata predominanza di ballate e qualche suono sintetizzato in eccesso, come nella quasi danzereccia Never Too Old, che ci sta come i cavoli a merenda su un disco country, o l’ultra-radiofonica Reppin’ My Roots, o ancora la pasticciata Don’t Tread On Me (nella quale Granger assume i panni di Earl Dibbles Jr., il suo alter ego redneck-parodistico già incontrato sui dischi precedenti), a metà tra musica da ballo e southern rock di grana grossa. Si salva il finale con il discreto slow acustico Home Cooked Meal, ma è un po’ poco per far entrare questo disco nella wish list di chi ama il vero country. Per la serie: non tutti i texani riescono col buco.

Marco Verdi

Una Superstar Di Nashville Che Fa Anche Buona Musica! Brad Paisley – Life Amplified World Tour: Live From WVU

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Brad Paisley – Life Amplified World Tour: Live From WVU – City Drive CD/DVD

Brad Paisley è la classica eccezione che conferma la regola, essendo la prova vivente che a Nashville ogni tanto si può vendere tantissimo facendo del vero country e non del pessimo pop: oltre a lui mi vengono in mente solo Alan Jackson e, qualche volta, Kenny Chesney, anche se Paisley può vantare vendite maggiori, avendo avuto i suoi ultimi otto album (su dieci totali, escludendo quindi quello natalizio) tutti al numero uno della classifica country. Brad è bravo, non annacqua le sue sonorità, ha il senso del ritmo ed una decisa propensione ai suoni elettrici anche perché, e qui è veramente una mosca bianca, è anche un eccellente chitarrista. Per farsi un’idea del profilo che ha raggiunto, basti pensare che nel suo nuovissimo album Love And War (in uscita quando leggerete questa recensione) è previsto un duetto con Mick Jagger ed un brano scritto a quattro mani con John Fogerty, due personaggi non esattamente usi a collaborazioni esterne (e di solito l’ex Creedence i brani che scrive li mette solo sui suoi dischi *NDB Però anche due brani con Timbaland!!!). Life Amplified World Tour: Live From WVU è il primo album dal vivo del nostro, a parte lo “strano” Hits Alive, registrato lo scorso anno a Morgantown, presso la famosa West Virginia University (giocando quindi in casa, essendo Brad nativo proprio della Virginia dell’Ovest), e non fa che confermare la sua bravura come frontman, in più con un pubblico che conosce a memoria il suo repertorio.

In realtà il progetto è principalmente un DVD, comprendente venti canzoni (il concerto completo), mentre la recensione che leggete si basa sul CD accluso che ne contiene solo dodici (manca tutta la parte centrale ed il brano conclusivo, Alcohol), anche se il tutto è più che sufficiente per farsi un’idea. Country-rock tosto e chitarristico, musica elettrica anche nei pezzi più lenti, unita a melodie di immediata fruibilità (e qualche volta un po’  ruffiane, ma lo perdoniamo), il tutto con una backing band, The Drama Kings, ampiamente rodata, tra i cui membri spiccano lo steel guitarist Randle Currie, il violinista Justin Williamson e la potente sezione ritmica formata da Kenny Lewis al basso e Ben Sesar alla batteria. Dopo un’introduzione un tantino esagerata e magniloquente a base di Also Sprach Zarathustra (la utilizzava anche Elvis, ma era, appunto, Elvis) il concerto parte in quarta con la trascinante Crushin’ It, un rockin’ country chitarristico e grintoso, ma dotato di un bel refrain, il modo migliore per dare il via alla serata. American Saturday Night è anche meglio, un rock’n’roll dal tocco country, ideale per essere suonato dal vivo, il tipico brano che fa saltare tutti (e poi il pubblico pende dalle sue labbra), mentre Perfect Storm è una slow ballad che calma un po’ gli animi, anche se la strumentazione si mantiene elettrica e di impianto rock.

Country Nation è ancora forte e vigorosa, si sente che Paisley non è un pupazzo ma un musicista vero, e lo dimostra anche con la seguente Old Alabama, altra canzone potente e dai toni quasi southern, appena stemperati dall’uso del violino; Then, per contro, è un lento di grande intensità, con un motivo toccante e che il pubblico dimostra di conoscere a menadito, mentre con Beat This Summer, un vero e proprio singalong country-rock, la temperatura inizia a risalire. Lo scintillante honky-tonk elettrico I’m Gonna Miss Her, puro country, e la roboante River Bank precedono l’unica cover del CD (ma nel DVD c’è anche una versione del classico di Merle Haggard Mama Tried), ovvero Take Me Home, Country Roads, la signature song per antonomasia di John Denver ed inno non ufficiale della West Virginia, proposta in una breve ma sentita rilettura acustica, durante la quale anche l’audience in sala fa la sua parte. Il finale, con Brad che ha il pubblico ormai ai suoi piedi, vede la coinvolgente Southern Comfort Zone, dal ritmo acceso ed ottima performance da parte del leader, e la possente Mud On The Tires, altro rockin’ country con le chitarre in primissimo piano e ritornello diretto ed immediato.

Se la media dei countrymen americani fosse al livello di Brad Paisley, non esisterebbe un “problema” Nashville.

Marco Verdi

Una Mosca Bianca (Anzi, Bionda) Nel Panorama Country Di Nashville! Miranda Lambert – The Weight Of These Wings

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Miranda Lambert – The Weight Of These Wings – RCA Nashville 2CD

Miranda Lambert, oltre ad essere una delle country singers più popolari in America, è anche una gran bella ragazza (se vi piace il genere bambolona bionda, e mi scuso per averla paragonata ad una mosca nel titolo del post), che ultimamente si è fidanzata con il nostro nuovo beniamino Anderson East http://discoclub.myblog.it/2016/01/01/recuperi-inizio-anno-3-meraviglioso-disco-soul-bianco-anderson-east-delilah/ . Ma, gossip a parte (comunque a breve vedremo l’importanza della sua situazione sentimentale in riferimento al nuovo disco), Miranda è una delle poche artiste di stanza a Nashville che riesce a vendere tantissimo facendo musica di qualità; infatti, ognuno dei suoi sei album pubblicati dal 2005 ad oggi (quindi compreso l’ultimo) è andato al numero uno della classifica country, e più o meno lo stesso risultato lo ha ottenuto come componente del trio delle Pistol Annies (con Ashley Monroe ed Angaleena Presley), ma limitando al minimo sindacale le sonorità commerciali, e quasi sempre evitando situazioni fasulle come l’uso di sintetizzatori, drum machines e programming a differenza di gran parte dei suoi colleghi, anche maschi, che più che country fanno del pop plastificato. La Lambert invece usa musicisti veri, anche se chiaramente per vendere così tanto qualcosa qui e là deve concedere, ma senza scendere mai sotto il livello di guardia, e lo dimostra anche il fatto che lei i dischi li pensa a lungo e non li considera prodotti di consumo (in più, cosa da non sottovalutare affatto, scrive quasi tutte le canzoni, da sola o in collaborazione con altri, ed in questo ultimo disco troviamo co-autori del calibro di Brent Cobb, Mando Saenz, Jack Ingram, oltre allo stesso East in due brani).

The Weight Of These Wings è di gran lunga il suo lavoro più ambizioso fino ad oggi, in quanto è un doppio CD dalla durata considerevole (più di un’ora e mezza complessivamente), con dodici canzoni per disco, diviso in due parti intitolate rispettivamente The Nerve e The Heart: l’album tra l’altro è il più autobiografico finora per Miranda, in quanto le canzoni sono ispirate dal fallimento del suo matrimonio con il collega Blake Shelton e dalla nuova relazione con East, un lavoro personale che assume ulteriore valore per il fatto che non c’è un solo brano non dico brutto, ma neppure sottotono. La produzione è nelle mani esperte di Frank Liddell e del noto bassista Glenn Worf (che suona anche nel disco), e la lista dei sessionmen è meno lunga del solito, ma con eccellenze del calibro di Hargus “Pig” Robbins al piano, Matt Chamberlain alla batteria e l’ottimo steel guitarist Spencer Cullum. Miranda riesce a dare la sua impronta sia nelle ballate che nei brani più mossi, sfiora il rock in diversi momenti, e, sarà anche per il fatto che le canzoni parlano delle sue esperienze, porta a termine il suo lavoro forse più maturo e convincente.

Il primo dischetto inizia con Runnin’ Just In Case, un brano affascinante che parte attendista ma poi si apre a poco a poco, con la bella voce della Lambert a condurre le danze con sicurezza, in un’atmosfera più rock che country, subito seguita dalla solare e cadenzata Highway Vagabond, un pezzo gradevole e quasi pop, ma che sta decisamente dalla parte giusta di Nashville, senza diavolerie che poco hanno da spartire con la vera musica. Tra le migliori del primo CD abbiamo la vivace e ritmata Ugly Lights, dalla deliziosa melodia sixties, il country bucolico di You Wouldn’t Know Me, molto bello nella sua freschezza e semplicità (e suonato alla grande), l’elettrica e ruspante We Should Be Friends, la dolce ballad Getaway Driver, perfetta per la voce suadente di Miranda, una delle più belle del doppio (non per niente è una delle due scritte con East).                    Proprio un duetto con Anderson East è l’highlight del primo CD: Pushin’ Time è uno squisito brano acustico cantato con grande intensità e pathos dai due partners, con una splendida steel in sottofondo: fa piacere che ogni tanto anche la musica di qualità voli alto nelle classifiche; chiudono la prima parte il bel rockin’ country Covered Wagon e la soave e leggera Use My Heart.

Le migliori del secondo dischetto sono invece la lenta ed intensa Tin Man, gran bella canzone che riesce ad emozionare pur con due strumenti in croce, la fluida Good Ol’ Days, ballata elettrica di spessore, la quasi western Things That Break, la crepuscolare Well-Rested, con splendida performance vocale di Miranda, la gradevole ed accattivante Tomboy ed il bellissimo e scintillante honky-tonk To Learn Her, in assoluto la più country del doppio, nel più classico stile alla Loretta Lynn. Per concludere con la mossa e coinvolgente Keeper Of The Flame, la guizzante Six Degrees Of Separation, caratterizzata da un marcato giro di basso e da una chitarra quasi distorta, e le belle Dear Old Sun e I’ve Got Wheels, tra le migliori ballate del disco, con accenni quasi swamp la prima e dalla deliziosa melodia la seconda, ed una bella chitarra sullo sfondo. Se tutto il country prodotto a Nashville fosse del livello di The Weight Of These Wings, e non solo un’eccezione, il blog che state leggendo dovrebbe cominciare a pubblicare due-tre post al giorno sul genere, tutti i giorni.

Marco Verdi

Dalle Strade Di Nashville Agli Studi Capitol Il Passo E’ Breve! Doug Seegers – Walking On The Edge Of The World

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Doug Seegers – Walking On The Edge Of The World – Capitol CD

Quella di Doug Seegers, musicista e countryman di Long Island, NY, è una bella storia. Ha infatti esordito circa due anni fa con l’ottimo Going Down To The River, ad un’età non proprio da esordiente (se mi passate il bisticcio), 62 anni, in quanto nel periodo precedente suonava per le strade di Nashville e conduceva una vita da homeless. La fortuna finalmente bussa alla sua porta, proprio nel 2014, nella persona di Jill Johnson, una country singer svedese molto popolare in patria, che nota Doug restandone impressionata, lo porta in studio con lei ed incide con lui la title track di quello che sarebbe diventato il suo primo disco, un singolo che andò al numero uno in Svezia e contribuì a farlo notare anche a Nashville (la sua storia ha delle similitudini con quella di Ted Hawkins, grande cantante oggi purtroppo scomparso, che fece il busker per gran parte della sua vita). Oggi, dopo un disco in duo con la Johnson, Seegers torna tra noi con il suo secondo lavoro vero e proprio, Walking On The Edge Of The World, che esce addirittura per la mitica Capitol: il disco conferma quanto di buono Doug aveva fatto vedere con il suo debutto, provando che in America ci possono essere talenti nascosti ad ogni angolo, e che molto spesso il successo è una mera questione di fortuna.

Seegers ha una bella voce, scrive ottime canzoni, e possiede un’attitudine da consumato countryman, e questo secondo disco potrebbe addirittura risultare migliore del già brillante esordio: la Capitol gli ha messo a disposizione una eccellente band di sessionmen esperti, tra i quali spiccano il ben noto Al Perkins alla steel, l’ottimo pianista ed organista Phil Madeira e Will Kimbrough alle chitarre ed alla produzione (come già per il disco di due anni orsono), più due o tre ospiti di grande livello (che vedremo a breve) a dare più prestigio ad un lavoro già bello di suo. La title track fa partire il disco nel modo migliore con una gran bella canzone, un country-rock denso ed elettrico, con riff ed assoli quasi da rock band ed un refrain deliziosamente orecchiabile. From Here To The Blues ha un’andatura da country song d’altri tempi, limpida e tersa, con gran spiegamento di steel, violino e pianoforte, e la bella voce di Elizabeth Cook ai controcanti; Zombie è qualcosa di diverso, un gustosissimo shuffle notturno, tra jazz e blues, con i fiati e l’ottimo piano di Madeira a guidare le danze: stimolante ed accattivante. Will You Take The Hand Of Jesus è uno scintillante bluegrass, dal gran ritmo ed assoli a raffica, come nella tradizione della vera mountain music: Doug fa bene tutto ciò che fa, ed in più ha anche una bella penna, peccato solo che sia stato scoperto così tardi.

She’s My Baby è una ballatona raffinata ma eccessivamente edulcorata (gli archi li avrei evitati), preferisco il Seegers dei primi quattro brani, che per fortuna ritroviamo subito con la seguente How Long Must I Roll, un rockin’ country ritmato, coinvolgente e di stampo quasi texano. Before The Crash è introdotta da uno splendido arpeggio elettrico, ed anche il resto è super, una rock song a tutto tondo e dal sapore classico, chitarristica e vibrante, con un organo da southern band ed una melodia diretta ed affascinante: uno dei pezzi più belli del CD, se non il più bello. Give It Away è ancora uno slow, ma con risultati migliori di prima, sarà per il motivo toccante, il sapore nostalgico o l’arrangiamento più leggero, mentre Far Side Banks Of  Jordan (un classico country, scritto da Terry Smith ed incisao anche da Johnny Cash e June Carter) vede il nostro duettare addirittura con Emmylou Harris ed il pezzo, già bello di suo, sale ancora di livello ogni volta che la cantante dai capelli d’argento apre bocca. If I Were You è un altro duetto, stavolta con Buddy Miller (che stranamente non suona anche la chitarra), un honky-tonk che più classico non si può, dal ritmo sostenuto e suonato alla grande, un altro degli highlights del CD; chiudono il lavoro la swingata e bluesata Mr. Weavil, quasi un pezzo da big band (anch’essa tra le più godibili) e la pura Don’t Laugh At Me, eseguita da Doug in perfetta solitudine, voce e chitarra, come usava fare per le strade di Nashville.

Si è fatto conoscere molto tardi Doug Seegers, ma finché pubblicherà dischi come Walking On The Edge Of The World sapremo farcene una ragione, e speriamo non lo mollino di nuovo in mezzo a una strada.

Marco Verdi

Se Ne Aggiunge Un Altro Alla Lunga Lista. E’ Scomparso Anche Guy Clark, Uno Dei Grandi Della Country Music, Aveva 74 Anni

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Nel mese di marzo, scrivendo un post per commemorare la scomparsa di Steve Young http://discoclub.myblog.it/2016/03/20/se-ne-andato-silenziosamente-era-vissuto/, avevo ricordato un “piccolo film” Heartworn Highways, da cui aveva preso il via la vicenda di molti dei protagonisti della country music dell’altro lato di Nashville, quello dei grandi autori di musica, dei folksingers e anche di alcune future stelle (come John Hiatt, Steve Earle Rodney Crowell). Ma in quella casa di Nashville, in cui si svolge parte della narrazione del documentario, due dei protagonisti principali erano i padroni di casa, Susanna Guy Clark. Il secondo uno delle grandi iconi della country music texana, ma Made in Nashville, dove ha vissuto negli ultimi 40 anni. Clark era malato di tumore da tempo, e non si era mai ripreso del tutto dalla morte della moglie, avvenuta sempre per un cancro nel 2012, e alla quale aveva dedicato nel 2013 il suo quattordicesimo ultimo splendido lavoro My Favourite Picture Of You, vincitore del Grammy l’anno successivo come miglior album folk. Ma partiamo proprio da quel mitico documentario…

Dei musicisti presenti in quel film non ci sono più Townes Van Zandt, Steve Young, Larry Jon Wilson e ora anche Guy Clark, ma loro importanza riverbera ancora oggi in quella che viene chiamata roots music, “Americana”, o più semplicemente country music. Clark è stato un autore, all’inizio per Jeffy Jeff Walker che registrò due delle sue canzoni più belle L.A. Freeway, sulla sua sfortunata avventura californiana e Desperados Waiting for a Train, uno dei capolavori assoluti del genere, entrambe presenti nel suo disco d’esordio Old No. 1, che comprendeva anche She Ain’t Going Nowhere That Old Time Feeling. C’è gente che ammazzerebbe per averne una di quel livello in un album e lui ne aveva inserite quattro e anche le altre sei non erano male, per usare un eufemismo https://www.youtube.com/playlist?list=PL8a8cutYP7foNfzsRn8piq4-PfElph3Cy. Ma Guy aveva continuato a produrre ottimi dischi, Texas Cookin’ nel 1976, a completamento della accoppiata per la RCA, e poi l’omonimo Guy Clark, The South Coast Of Texas Better Days, a completare, nel 1983, il terzetto pubblicato per la Warner.

Poi, dopo una pausa di cinque anni, tornerà nel 1988 con Old Friends pubblicato con la Sugar Hill, la prima svolta “indipendente” della sua carriera. Ancora un paio di album con una major, la Asylum, negli anni ’90, poi il ritorno alla Sugar Hill e infine gli ultimi album pubblicati per la Dualtone, tra cui il citato My Favourite Picture Of You, voce leggermente “spezzata” dall’età, ma ancora ricca di fascino e canzoni sempre dai testi affascinanti e letterari https://www.youtube.com/watch?v=USAlhxdqnMg . A Guy Clark è stato dedicato anche uno dei più bei tributi di sempre, sotto la forma del doppio This One’s For Him, di cui leggete qui http://discoclub.myblog.it/2011/12/16/u/. Il grande cantautore texano ha collaborato anche con molti colleghi nel corso degli anni, la sua ultima fatica, recentissima, è stata pubblicata nuovo disco degli Hard Working Americans Rest In Chaos, uscito in questi giorni, in cui il gruppo esegue The High Price of Inspiration, con Clark presente nella registrazione

Ricordiamolo con questa bellissima versione della sua canzone più bella Desperadoes Waiting For A Train, registrata per la trasmissione Austin City Limits nel 1990. La musica parla per lui. Riposa In Pace Guy!

Bruno Conti

Da Bob Seger Passando Per I Little Feat! Shaun Murphy – It Won’t Stop Raining

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Shaun Murphy – It Won’t Stop Raining – Vision Wall Records

Devo ammettere che ho sempre avuto negli anni una predilezione per le grandi voci rock-soul-blues femminili, e dopo Dana Fuchs e Susan Marshall (non dimenticando Beth Hart, Grace Potter, Ruthie Foster e molte altre), come promesso e “minacciato” pochi giorni fa, oggi parliamo di Shaun Murphy (da non confondere con un omonimo campione del mondo di biliardo, che oltre a tutto è pure un uomo). Di questa signora (e della sua storia, con dovizia di particolari), vi ha già parlato Bruno recensendo l’ottimo Live At Callahan’s Music Hall (11) http://discoclub.myblog.it/2011/11/16/e-proprio-lei-shaun-murphy-live-at-callahan-s-music-hall/ , a cui sono seguiti a breve distanza di tempo Ask For The Moon (12), Cry Of Love (13), Loretta (15), fino ad arrivare a questo nuovo lavoro It Won’t Stop Raining, per undici tracce che includono brani originali e una manciata di cover tutte di impronta blues, tutte registrate ai Colemine Studios di Nashville, con la produzione di tale TC. Davis, insieme a Randy Coleman al mixer come ingegnere del suono. Come sempre ad accompagnare Shaun in sala d’incisione è la sua attuale “Touring band”, composta da Tom DelRossi alla batteria, Larry Van Loon e John Wallum alle tastiere e John Marcus (Tim McGraw) al basso, Kenne Cramer (Dr.Hook), Shawn Starski (Otis Taylor) alle chitarre, con un suono vivace che fa quasi pensare di ascoltare un disco dal vivo, pur senza esserlo.

Il disco si apre con il ritmo “shuffle” di Spreadin’ The News, a cui fanno seguito il blues viscerale  di Your Husband Is Cheating… e Happy With The One I Got…, mentre con la title track It Won’t Stop Raining si viaggia verso la ballata ricca di atmosfere “soul”, per poi passare al ritmo febbrile di una indiavolata Running Out Of Time (con un bel lavoro delle chitarre), e ritornare di nuovo allo “shuffle” di Pays The Price Of Love e Hey Baby (Don’t You Remember Me), sotto l’impulso di batteria e tastiere. Con That’s How A Woman Loves (cover di un brano di EG. Kight, come Happy With The One), si ritorna alle tenere ballate del periodo Stax ((pezzo che sembra scritta apposta per essere cantato dalla magnifica voce della Murphy), poi bastano tre note della chitarra rovente di Kenne Cramer per identificare nel “soul-blues” di I Need Your Love So Bad  il brano migliore del lotto, passando ancora per il blues “roccioso” di una I Hate The Blues (But The Blues Sure Seems To Love Me), e terminare con ancora una canzone con le tastiere e la sezione ritmica in gran spolvero, Fool For You, ricordando sempre la primaria importanza della voce di Shaun.

Questo It Won’t Stop Raining canzone dopo canzone può diventare un acquisto quasi obbligato per gli amanti del Blues e delle belle voci, e permetterci di scoprire finalmente una grande cantante che dopo gli inizi come corista di Bob Seger (lo è tuttora, oltre a lavorare con numerosi altri artisti, ma prima ancora come Stoney & Meatloaf, lavorò alla Tamla Motown nel 1971 insieme al “Polpettone” pre-fama) è stata anche per oltre una quindicina d’anni (dal 1993 al 2009) la cantante dei grandi Little Feat https://www.youtube.com/watch?v=A2XyJD2N3m0 , prima di intraprendere una valida carriera parallela da solista, che la riporta alle sue influenze giovanili, iniziate con Big Mama Thorton e proseguite con Koko Taylor, Etta James, Sister Rosetta Tharpe (per citarne alcune), e rivaleggiare con loro in bravura.

In conclusione, per quanto riguarda i “fans” della Murphy sanno già cosa fare (anche se i CD non sono facili da reperire e piuttosto costosi), per tutti gli altri la meravigliosa voce di Shaun  può essere un valido motivo per andarsi a risentire i dischi di Bob Seger https://www.youtube.com/watch?v=9QrtSmaNjTo  e dei Little Feat e per avvicinarsi a questa signora puntualmente candidata agli equivalenti dei “Grammy” del Blues.

Tino Montanari

Una Longeva Band Dal Suono “Camaleontico”! Sister Hazel – Lighter In The Dark

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Sister Hazel – Lighter In The Dark – Croakin’ Poets Records/Rock Ridge

I Sister Hazel (di cui ci eravamo già “occupati” per il Live celebrativo del ventennale http://discoclub.myblog.it/2014/10/29/venti-stagioni-on-the-road-sister-hazel-20-stages/ ), sono una delle band più longeve attualmente in circolazione nell’ambito del rock americano, e in tutto il loro percorso non hanno mai avuto un cambiamento nella loro “line-up”. Assenti da sei anni, ovvero dall’ultimo lavoro in studio l’ottimo Heartland Highway (10), i Sister Hazel tornano con questo nuovo Lighter In The Dark, dove come al solito fanno una musica che spazia dal folk-rock al country, dal rock più classico al southern rock, privilegiando più la qualità che la quantità (certificata dai solo nove dischi in più di vent’anni, compreso questo). I cinque che vengono da Gainesville (come un certo Tom Petty), formano un gruppo capitanato dal leader Ken Block, voce solista e chitarra acustica, Andrew Copeland alla chitarra ritmica, Ryan Newell,  chitarra solista, oltre a banjo, dobro e mandolino, Jett Beres al basso, Mark Trojanowski alla batteria, e come ospiti il polistrumentista Dave LaGrande, soprattutto alle tastiere, Kyle Aaron al violino, Steve Hinson alla pedal-steel, si sono ritrovati a Nashville nei Tin Ear Studio sotto la produzione del loro ingegnere del suono di lunga data Chip Matthews (Lady Antebellum, Brooks & Dunn, Richard Marx), per 14 tracce per la maggior parte firmate globalmente dai membri della band e che segnalano una decisa svolta counrtry-southern nel suono del gruppo.

Lighter In The Dark inizia con la bella ritmica galoppante di Fall Off The Map con ottime armonie vocali https://www.youtube.com/watch?v=Ag5niMusW-g , a cui fanno seguito una rock song chitarristica come That Kind Of BeautifulKaraoke Song in duetto con l’ex Hootie And The Blowfish, Darius Rucker (coautore del brano) https://www.youtube.com/watch?v=hjjozkkmQKo , per poi passare ad un guizzo di alta classe come la ballata Something To Believe In, e ad una intrigante Kiss Me Without Whiskey con un saltellante pianoforte honky-tonk. Con la pianistica e dolce Almost Broken si fa la conoscenza con la voce emergente di Jillian Jacqueline, mentre con la gioiosa Take It With Me si cambia marcia con un bel mid-tempo, per poi lasciare spazio di nuovo alle chitarre spiegate di We Got It All Tonight, il moderno-gospel di Danger Is Real, il country classico di Prettiest Girl At The Dance, con un eccellente lavoro di Hinson alla pedal-steel e belle armonie vocali che ricordano per certi versi le prime canzoni degli Eagles. Armonie che si ripetono anche in una dolce e acustica Thoroughbred Heart, e nel puro rock’n’roll di Run Highway Run (da ascoltare magari mentre si guida), e finire con le ballate Back To Me e una sontuosa Ten Candle Days, dalla inconfondibile aria celtica, scritta e cantata  da Jett Beres che fa il suo esordio come voce solista e con il violino di Kyle Aaron a toccare le corde del cuore.

Anche se negli ultimi anni si erano leggermente defilati, con questo Lighter In The Dark i Sister Hazel rimettono in un certo senso le cose a posto e il disco si colloca come uno dei più riusciti nella carriera del quintetto, in quanto ormai Ken, Andrew, Ryan, Jett e Mark suonano a memoria, proponendo una musica varia e senza fronzoli, con brani solari e energici, suonati con grinta e in modo professionale. La carriera dei Sister Hazel sicuramente non cambierà di una virgola la storia del rock americano, ma è difficile non restare favorevolmente colpiti dalla loro musica, e se volete conoscere più a fondo questa band vi consiglio di partire con gli ascolti dei loro primi dischi, e siate certi che non rimarrete delusi, il loro rock è di prima fascia.

Tino Montanari

Recuperi Di Inizio Anno 6: Una Delle Sorprese di Fine 2015! Orphan Brigade – Soundtrack To A Ghost Story

orphan brigade soundtrack

Orphan Brigade – Soundtrack To A Ghost Story – Appaloosa / I.R.D.

Per chi scrive, è successo in passato, ed è successo di in questa occasione, è succederà certamente in futuro, di avere dei “colpi di fulmine musicali”, in quanto non credo che esistano dischi in grado di essere ascoltati solo in un determinato contesto, ma è altrettanto vero che certi dischi riescono a salire di tono ricordando emozioni anche soltanto immaginarie. Mi sembra questo il caso di Soundtrack To A Ghost Story degli Orphan Brigade (mi sono documentato, e come è abbastanza noto, il nome deriva da una brigata militare di quel periodo intorno a cui ruota tutta la storia), capitanati dal cantautore irlandese trapiantato negli States Ben Glover (di cui mi ero occupato a fine 2014 per il suo pregevole Atlantic http://discoclub.myblog.it/2014/11/15/vita-musicale-divisa-belfast-nashville-ben-glover-atlantic/ ), affiancato da due autori e musicisti americani, Joshua Britt e Neilson Hubbard (anche produttore del lavoro), che con l’aiuto di altri validi musicisti e collaboratori, tra cui spiccano Heather e Kris Donegan, Danny Mitchell, Dean Marold, Eamon McLoughlin e le brave, e forse meno conosciute di quanto meritino, cantanti Kim Richey http://discoclub.myblog.it/tag/kim-richey/  e Gretchen Peters, che, tutti insieme si sono ritrovati a incidere (a loro insaputa)  in quella che viene considerata la casa colonica più “infestata” d’America, la Octagon Hall Franklin nel Kentucky, sessanta miglia a nord di Nashville https://www.youtube.com/watch?v=TAwEyiBWY9Y . Tutto questo progetto parte da una serie di documenti ritrovati (lettere, diari e poesie scritti dai militari della Orphan Brigade), messi in musica da questi baldi cantautori di talento, che hanno sfornato l’album rivelazione di fine 2015.

Per impostare il contesto im cui si svolge la vicenda, il disco si apre con i rintocchi funebri del piano in Octagon Hall Prelude, seguiti subito dalla meravigliosa Pale Horse, con un tamburo militare ad accompagnare una solenne melodia, passando poi al “groove” della sferragliante Trouble My Heart (Oh Harriett), con il banjo e la seconda voce della Richey in evidenza, il pungente country-walzer di I’ve Seen The Elephant, addolcito dalla voce di Gretchen Peters, e una intrigante marcetta a ritmo di gospel come Sweetheart (con una tromba lacerante nel finale). Dopo una buona “disinfestazione” le storie ripartono con il lamento delicato di Last June Light e il dolce mandolino che accompagna le voci femminili in The Story You Tell Yourself (su tutte quella della Richey), mentre We Were Marching On Christmas Day è una ballata palpitante, seguita dalla strumentale e fischiettata Whistling Walk.

Il racconto prosegue ancora con Good Old Flag  un tipico brano dall’andatura mid-tempo, per poi passare al lamento in salsa irlandese di una Cursed Be The Wanderer (dove si nota lo zampino di Glover), che ci mette del suo (con solo voce e chitarra) anche nel tradizionale accorato Paddy’s Lamentation, arrivando infine al termine del racconto con la struggente bellezza di Goodnight Mary, una sognante e intensa ninna-nanna  del duo Hubbard e Richey, e una finale The Orphans cantata da Glover e Donegan (supportati nuovamente dalle voci femminili), doveroso omaggio ai soldati che hanno ispirato il nome di questo magnifico “combo”.

Soundtrack To A Ghost Story è la perfetta colonna sonora di una storia vera, che rappresenta uomini veri, ambientata a cavallo della guerra civile americana, ma è anche una “ghost story” cantata e narrata logicamente con forti influenze letterarie. La cosa particolare di questo lavoro è che ascolto dopo ascolto, le trame del disco si sviluppano in modo diverso, con arrangiamenti che spaziano dal folk al rock, dal gospel al country, con bellissimi testi che raccontano di vita e di morte (e che trovate acclusi meritoriamente tradotti in italiano nella versione della Appaloosa), con un percorso sonoro accattivante e coinvolgente.

Per chi ama le storie vere e la buona musica, un vero balsamo, credetemi. Imperdibile!

Tino Montanari

Dal Canada A Nashville, Produce Dave Cobb! Corb Lund – Things Can’t Be Undone

corb lund things can't be undone

Corb Lund – Things That Can’t Be Undone – New West 

Ennesima produzione per Dave Cobb, nuovo “Re Mida” della scena musicale di Nashville, ma siamo dal lato buono della città e tutto quello che tocca Cobb diventa oro a livello qualitativo, se non da quello commerciale. Nessuno può negare che i suoi siano prodotti country, ma nell’accezione migliore del termine, genere musicale che si può applicare anche a Corb Lund, musicista canadese trapiantato nel Tennessee da parecchi anni, con alcuni album negli anni ’00 sotto l’egida di Harry Stinson, altro personaggio caro a chi ama l’alternative country, i New Traditionalists o come diavolo volete chiamarli, insomma quei musicisti che fanno vecchia musica, di quella buona però, rivestita di una leggera patina di modernità, rispettosa pure della tradizione meno bieca del country classico. Anche Lund ha fatto tutta la trafila, partenza ad inizio anni ’90 in Canada con una band punk-rock di Edmonton, gli Smalls, poco dopo nasce la Corb Lund Band che con il passare degli anni diventa gli Hurtin’ Albertans, dal nome del suo stato di origine, gruppo che è ancora oggi con lui e con cui continua a girare sia il suo paese di origine come gli States, dove è diventato un rispettato artista di culto, soprattutto grazie agli ultimi ottimi tre album pubblicati per la New West.

Proprio l’ultimo, Counterfeit Blues, era una sorta di rivisitazione del suo catalogo precedente, rivisto in una ottica honky tonk e rockabilly, con il tocco di classe di essere stato registrato ai gloriosi Sun Studios di Memphis. Con Cobb ci si sposta di nuovo a Nashville, ai Low Country Sound Studios, e il produttore, utilizzando la band di Corb Lund, realizza un album gustoso che ha gli ingredienti della migliore country music, senza troppi difetti, anzi nessuno: c’è honky tonk, country-rock, outlaw music, ballate da singer songwriter, qualche concessione al miglior pop d’autore (due o tre brani profumano persino di riff beatlesiani, Beatles che a loro volta avevano pescato a piene mani dalla grande tradizione sonora americana), con risultati piacevoli che, senza stravolgere la storia della musica, si ascoltano con estremo piacere. Dieci brani dal menu sonoro vario, ma sempre legati al country nelle sue diverse sfumature: Weight Of The Gun, ha un suono più leggero e pop, forse non consono alle atmosfere più buie del testo, ma quel leggero tocco country got soul della chitarra riverberata è cionondimeno assai piacevole, e qui si sente la mano di Dave Cobb. Run This Town, con il suono di chitarre acustiche ed elettriche, pedal steel e la batteria accarezzata con le spazzole è più classicamente country-rock anche grazie alle armonie vocali delicate di Kristen Rogers https://www.youtube.com/watch?v=M0d8gw1U9hE .

Alt Berliner Blues, sta tra i primi Beatles e Dylan, o se preferite Beatles plays Dylan, chitarre elettriche ben delineate e ricorrenti, un ritmo alla Tombstone Blues e un testo che tratta degli effetti della Guerra Fredda sull’economia americana, quindi perfetta aderenza tra testo e musica “Americana” https://www.youtube.com/watch?v=MNpAr9AN8pU . Alice Eyes è la classica canzone d’amore, scritta con il “collega”  texano Jason Eady, con la pedal steel di Grant Siemens che si prende ancora i suoi spazi e contribuisce al tono melanconico e delicato del brano, mentre Sadr City ha di nuovo quel giro di accordi vagamente beatlesiano che la rende più vicina a territori pop. Washed Up Rock Star Factory Blues è la risposta canadese al classic honky tonk country di Take This Job And Shove It, ossia Johnny Paycheck via David Allan Coe, godibilissimo anche grazie alla produzione di Cobb che evidenzia il suono dei singoli strumenti, una chitarra acustica qui, il basso che pompa là, una elettrica che oscilla tra “twang” e “chicken’ pickin” alla James Burton, la batteria incalzante e la voce “raddoppiata” di Lund https://www.youtube.com/watch?v=8sd7B10f1X8 . S Lazy H è la tipica folk song, solo voce e chitarra acustica, che racconta la sfortunata storia del ranch del titolo e del suo ultimo proprietario; Goodbye Colorado è una via di mezzo tra country-rock e outlaw music primi anni ’70, tra Lee Clayton e Michael Martin Murphy se volete, con la grintosa Talk Too Much che fonde ancora alla perfezione blues e british invasion, ancora Beatles ma anche Yardbirds per l’acidità delle chitarre https://www.youtube.com/watch?v=7N3qHOKaW7g . In chiusura una sorta di talking country folk-rock che racconta senza troppi sentimentalismi, ma con il giusto pathos, la scomparsa della nipote di Lund, un Sunbeam, “raggio di sole” che non brilla più ma non viene dimenticato. Quindi diciamo non un capolavoro assoluto ed indispensabile, ma Corb Lund è uno di quelli bravi e questo Things That Can’t Be Undone si lascia apprezzare.

Bruno Conti

P.s. Ne esiste anche una versione Deluxe con DVD aggiunto: per una volta un dischetto ricco di sostanza, intervista di oltre 20 minuti, e una Acoustic Session con sei pezzi e altri venti minuti circa di musica.